Sentenza  216/2025 (ECLI:IT:COST:2025:216) Comunicato
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMOROSO - Redattrice:  NAVARRETTA
Udienza Pubblica del 04/11/2025;    Decisione  del 04/11/2025
Deposito del 30/12/2025;    Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  Art. 69 della legge 30/04/1969, n. 153.
Massime: 
Atti decisi: ord. 92/2025

Pronuncia

SENTENZA N. 216

ANNO 2025

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna, sezione civile, nel procedimento vertente tra V. A. e Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 3 aprile 2025, iscritta al n. 92 del registro ordinanze 2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2025.

Visti l’atto di costituzione di INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 4 novembre 2025 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

uditi l’avvocata Antonella Patteri per INPS, nonché l’avvocato dello Stato Pietro Garofoli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 4 novembre 2025.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 3 aprile 2025 e iscritta al n. 92 del registro ordinanze 2025, il Tribunale ordinario di Ravenna, sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione.

2.– Il rimettente riferisce che il giudizio a quo è stato instaurato con ricorso di V. A. per ottenere sia la rideterminazione dell’importo dell’indebito previdenziale vantato dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e «accertato dalla sentenza del Tribunale di Ravenna n. 216/2024», sia la fissazione della misura della trattenuta mensile sulla pensione, di cui all’art. 69 della legge n. 153 del 1969.

3.– Secondo quanto riporta il giudice a quo, le parti hanno raggiunto un accordo sull’entità del debito restitutorio, ma non sul quantum della trattenuta mensile.

Il ricorrente, percettore di una pensione netta di euro 3.430,17 mensili, ha invocato il rispetto della soglia di euro 1.000 prevista dall’art. 545, settimo comma, del codice di procedura civile (come sostituito dall’art. 21-bis del decreto-legge 9 agosto 2022, n. 115, recante «Misure urgenti in materia di energia, emergenza idrica, politiche sociali e industriali», convertito, con modificazioni, nella legge 21 settembre 2022, n. 142).

L’INPS, per converso, ha sostenuto l’applicabilità del solo art. 69 della legge n. 153 del 1969.

4.– Nell’introdurre le questioni di legittimità costituzionale, il Tribunale di Ravenna riproduce il testo della norma censurata, secondo cui «[l]e pensioni, gli assegni e le indennità […] possono essere ceduti, sequestrati e pignorati, nei limiti di un quinto del loro ammontare, per debiti verso l’Istituto nazionale della previdenza sociale derivanti da indebite prestazioni percepite a carico di forme di previdenza gestite dall’Istituto stesso, ovvero da omissioni contributive. Per le pensioni ordinarie liquidate a carico della assicurazione generale obbligatoria, viene comunque fatto salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo» (art. 69 della legge n. 153 del 1969).

Di seguito, il giudice a quo pone a confronto tale disciplina con l’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., introdotto nel 2015 (con l’art. 13, comma 1, lettera l), del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante «Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria», convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2015, n. 132) e da ultimo sostituito nel 2022 (con il d.l. n. 115 del 2022, come convertito), in base al quale «[l]e somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente al doppio della misura massima mensile dell’assegno sociale, con un minimo di 1.000 euro. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, dal quarto e dal quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge».

Il rimettente evidenzia come le due discipline operino «in misura nettamente diversa»: quella censurata assicura solo che il pensionato non riceva una pensione inferiore al trattamento minimo (pari attualmente a euro 603,40), rendendo «tutta la pensione [...] aggredibile nei limiti del quinto»; l’altra «garantisce una fascia di impignorabilità (€ 1.000,00 o il doppio dell’assegno sociale [...])», che non può essere oggetto di alcuna trattenuta, mentre «solo sulla somma che eccede tale limite opera il calcolo del quinto pignorabile».

Tanto premesso, secondo il giudice a quo, quando l’INPS agisce trattenendo il quinto dalla pensione del proprio debitore non è tenuta a rispettare la fascia di impignorabilità di cui all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., che, viceversa, rappresenterebbe «un minimo vitale che si [sarebbe andato] delineando nel tempo a garanzia del sostentamento del debitore-pensionato nell’ambito della procedura espropriativa (della pensione) presso terzi (laddove INPS è il terzo debitor debitoris)».

Ad avviso del Tribunale di Ravenna, il legislatore non avrebbe operato un coordinamento fra le modifiche apportate all’art. 545 cod. proc. civ. e l’art. 69 della legge n. 153 del 1969, in tema di recupero dell’indebito INPS, sicché «la somma che [l’INPS] può trattenere e quindi compensare (a soddisfacimento del proprio credito) nel momento in cui paga un trattamento pensionistico è superiore, di molto, rispetto a quella che qualunque altro creditore può ottenere, in sede esecutiva, sulla pensione del proprio debitore».

Ciò determinerebbe una violazione sia dell’art. 3 Cost. – per irragionevole disparità di trattamento rispetto all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. e per irragionevolezza intrinseca – sia dell’art. 38, secondo comma, Cost.

5.– A parere del rimettente, le questioni sarebbero rilevanti, dal momento che V. A. ha domandato con l’atto introduttivo la determinazione dell’entità della trattenuta ex art. 69 della legge n. 153 del 1969, sostenendo altresì che l’accoglimento delle questioni comporterebbe «un grosso beneficio economico per il pensionato debitore».

Il Tribunale di Ravenna esclude, inoltre, la possibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione, richiamando la recente pronuncia della Corte di cassazione, secondo la quale «la novella dell’art. 545 c.p.c. [è] applicabile quando la pensione viene aggredita da soggetti diversi dall’Istituto previdenziale, ovvero quando l’Inps agisca per crediti diversi dall’indebita percezione di prestazioni a suo carico o da omissioni contributive, altrimenti, in quest’ultimo caso, si applica la norma di favore per l’Inps di cui all’art. 69 della legge n. 153 del 1969» (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 11 ottobre 2024, n. 26580). Pertanto, «le due norme [avrebbero] ambiti applicativi differenti e [resterebbero] separate».

Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con il tenore letterale della disposizione censurata.

6.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo deduce anzitutto la violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento (tra creditori).

Il rimettente si confronta, preliminarmente, con la sentenza n. 506 del 2002 di questa Corte, che aveva dichiarato «manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153». In particolare, il Tribunale di Ravenna osserva che tale questione non sarebbe stata «in realtà rilevante nell’ambito di quel giudizio a quo», che riguardava l’espropriazione da parte di un soggetto privato, e non da parte dell’INPS. Inoltre, sottolinea il mutato quadro normativo ed economico-sociale rispetto al 2002, con particolare riferimento alla crisi inflazionistica del periodo 2022-2024, che avrebbe motivato l’intervento legislativo del 2022.

Da ciò inferisce che i crediti vantati dall’INPS ex art. 69 della legge n. 153 del 1969 debbano avere lo stesso trattamento previsto per gli altri creditori dall’art. 545 cod. proc. civ., rilevando che, «[s]e in linea di massima può concordarsi sulla modulabilità della misura espropriativa in ragione del particolare valore del credito per cui si procede, tale modulazione non [potrebbe] però che rispondere […] a collaudati criteri di ragionevolezza e di non discriminazione».

A supporto di tale tesi, il giudice a quo segnala che persino crediti particolarmente qualificati, come quelli alimentari e i tributi, sono soggetti alla disciplina dell’art. 545 cod. proc. civ.

7.– All’irragionevole disparità di trattamento collega di seguito anche la ritenuta violazione del principio di ragionevolezza intrinseca, sul presupposto che, «se la fascia di impignorabilità ha senso a tutela del minimo vitale, essa deve essere intangibile per ogni creditore, anche per INPS ed anche quando il creditore agisce non in sede esecutiva, ma operando direttamente una compensazione o trattenuta».

8.– Infine, a quest’ultima censura si collega anche la dedotta violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost.

Il rimettente, partendo dall’assunto che «la fascia di impignorabilità [abbia] un senso a tutela del minimo vitale», ritiene che essa configuri «una rima obbligata per il legislatore che disciplina la materia del soddisfo dei creditori sui trattamenti pensionistici, venendo qui in rilievo esattamente i “mezzi adeguati alle [...] esigenze di vita in caso di […] vecchiaia” previsti dalla Suprema Carta». Più in particolare, a parere del Tribunale di Ravenna, l’aver stabilito un ammontare impignorabile per tutti i creditori, «che agiscono in executivis sul trattamento pensionistico del debitore, rappresent[erebbe] evidentemente una modalità di attuazione della previsione dell’art. 38, 2° comma Cost.». In sostanza, il giudice a quo ritiene che «tra le modalità con le quali si assicurano i mezzi adeguati al soddisfacimento dei bisogni ai pensionati, qui ex lavoratori, rientr[i] la necessità di assicurare dei limiti alla pignorabilità dei trattamenti pensionistici». Di conseguenza, pur riconoscendo che «in questo ambito […] il legislatore dispone di discrezionalità», ne contesta «l’esercizio irrazionale e discriminatorio».

Infine, il rimettente sostiene che, una volta fissati per la generalità dei creditori, compresi quelli pubblici e quelli qualificati, «alcuni limiti oggettivi alla possibilità di aggredire la pensione del debitore (art. 545 c.p.c.), ciò che rappresent[erebbe] una modalità di attuazione dell’art. 38, 2° comma Cost., risult[erebbe] irrazionale non avere sottoposto a tali limiti anche il creditore INPS».

Pertanto, il Tribunale di Ravenna chiede a questa Corte di sanare la ritenuta illegittimità costituzionale del censurato art. 69, sostituendo tale disciplina con la regola di cui all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ.

9.– Con atto depositato il 16 giugno 2025, l’INPS si è costituito in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.

9.1.– L’Istituto previdenziale ricostruisce gli eventi che hanno portato al giudizio a quo, precisando che il ricorrente aveva ottenuto dal 1° marzo 2018 la pensione anticipata in cumulo per complessivi euro 9.254,25 lordi mensili, con quota a carico della gestione artigiani indicata in euro 4.405,00, quando questa era in realtà pari a euro 44.54. La pensione veniva successivamente riliquidata, nel 2021, nell’importo di euro 4.925,13 lordi mensili, essendo «risultato, inequivocabilmente, che la quota a carico della gestione artigiani [...] era pari ad € 44,54. Solo per un errore materiale l’importo della relativa quota era stato moltiplicato per cento».

Dalla riliquidazione scaturiva un indebito di euro 178.777,66 (poi euro 176.841,10 per conguagli fiscali), che l’INPS procedeva a recuperare «a mezzo di trattenuta sul rateo mensile nella misura conforme al disposto dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969».

Il Tribunale di Ravenna, con la «sentenza […] n. 216 del 2024», accertava l’indebito oggettivo e il dolo del percipiente, rilevando come fosse «ben chiaro [...] che lo stesso stava ricevendo una prestazione che non gli spettava, sussistendo pertanto lo stato di dolo».

Nel giudizio a quo, il pensionato ha chiesto il calcolo della trattenuta mensile ai sensi dell’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., mentre l’INPS ha insistito per l’applicazione dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969.

9.2.– L’Istituto previdenziale passa, dunque, a esaminare le censure di illegittimità costituzionale sollevate dal rimettente con riguardo all’art. 69 della legge n. 153 del 1969 ed eccepisce la loro inammissibilità, ritenendo inibito a questa Corte di tornare a esaminare questioni analoghe ad altre già dichiarate non fondate. In particolare, richiama la citata sentenza n. 506 del 2002, con la quale è stata reputata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.

9.3.– Nel merito, quanto al primo profilo di censura, l’INPS sostiene che la norma è «espressione del razionale bilanciamento di valori garantiti dalla Costituzione, rimesso alla discrezionalità del legislatore». A riguardo, rileva che «la disposizione al vaglio si inserisce nell’ambito della disciplina speciale che regola la ripetibilità e le modalità di recupero degli indebiti previdenziali e delle omissioni contributive» (richiama, in particolare, l’art. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88, recante «Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro», nonché l’art. 13 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, recante «Disposizioni in materia di finanza pubblica»).

L’Istituto precisa, inoltre, che «le risorse recuperate sulle pensioni vanno ad alimentare il sistema previdenziale al quale sono state sottratte e vengono destinate, senza possibilità di deroga, al pagamento delle prestazioni, compresa la pensione sulla quale insiste la trattenuta. Si tratta quindi di ripristinare il normale canale di finanziamento del sistema previdenziale dando concreta attuazione al principio solidaristico sul quale quel sistema si fonda».

L’INPS deduce, dunque, la non omogeneità fra i crediti per il recupero di indebite prestazioni previdenziali o di omissioni contributive e gli altri crediti.

Quanto alla lamentata irragionevolezza intrinseca, l’INPS richiama nuovamente la sentenza di questa Corte n. 506 del 2002 e sostiene che «la qualità del credito costituisce l’elemento che guida il legislatore nella scelta discrezionale della modalità per attuare il presidio di cui all’art. 38, secondo comma, Cost.», sicché «ben può […] nella sua discrezionalità selezionare, attraverso un razionale bilanciamento di valori garantiti dalla Costituzione, in ragione della loro causa, i crediti rispetto ai quali la pensione – anche nella parte in cui è volta ad assicurare al pensionato il minimum vitale – è (pro quota dell’intero) pignorabile».

Infine, conclude nel senso che «il diverso limite individuato dall’art. 545, settimo comma, del cod. proc. civ., non rappresenta una rima obbligata per il legislatore» e che «l’individuazione, nell’art. 69 della legge n. 153 del 1969, dell’importo del trattamento minimo pensione come limite da salvaguardare non confligge affatto con il presidio dell’art. 38, secondo comma, Cost., anzi si palesa del tutto congrua rispetto sia alla natura del credito fatto valere dall’Inps [...] sia per la destinazione delle somme recuperate proprio al pagamento delle prestazioni». Quando l’INPS procede al recupero delle prestazioni illegittimamente percepite, ripristina il circuito finanziario del sistema previdenziale, sicché la norma censurata darebbe «attuazione al disposto dell’art. 38, secondo comma, Cost.».

10.– Con atto depositato il 17 giugno 2025, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare le questioni non fondate.

La difesa statale contesta la tesi del rimettente secondo la quale il precedente di questa Corte (sentenza n. 506 del 2002) sarebbe superato dalle mutate condizioni economico-sociali.

A detta dell’Avvocatura generale, «l’art. 69 della legge n. 153/69 non determin[erebbe] il “trattamento minimo vitale” indicando una somma fissa e prestabilita, immutabile nel tempo, ma lo [rapporterebbe] all’importo corrispondente al trattamento minimo INPS, che varia annualmente».

L’atto di intervento richiama, quindi, la costante giurisprudenza costituzionale, secondo cui, da un lato, «[n]on rientra nel potere di questa Corte, ma in quello discrezionale del legislatore, individuare in concreto l’ammontare della (parte di) pensione idoneo ad assicurare “mezzi adeguati alle esigenze di vita” del pensionato» e, da un altro lato, «nessuna di tali valutazioni consente a questa Corte di adottarla ai fini dell’individuazione della parte assolutamente impignorabile della pensione».

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 92 del 2025), il Tribunale di Ravenna, sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969.

2.– La norma censurata dispone, al primo comma, che «[l]e pensioni, le indennità spettanti in forza del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché gli assegni, di cui all’articolo 11 della legge 5 novembre 1968, n. 1115, possono essere ceduti, sequestrati e pignorati, nei limiti di un quinto del loro ammontare, per debiti verso l’Istituto nazionale della previdenza sociale derivanti da indebite prestazioni percepite a carico di forme di previdenza gestite dall’Istituto stesso, ovvero da omissioni contributive». La disposizione precisa, al secondo comma, che «[p]er le pensioni ordinarie liquidate a carico della assicurazione generale obbligatoria, viene comunque fatto salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo».

2.1.– Il giudice a quo pone tale disciplina a confronto con l’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 21-bis del d.l. n. 115 del 2022, come convertito. Quest’ultimo stabilisce che «[l]e somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente al doppio della misura massima mensile dell’assegno sociale, con un minimo di 1.000 euro. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, dal quarto e dal quinto comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge».

Ad avviso del rimettente, il legislatore non avrebbe coordinato le modifiche apportate all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., con la disciplina di cui all’art. 69 della legge n. 153 del 1969, in materia di recupero degli indebiti previdenziali e delle omesse contribuzioni.

2.2.– Tale discrasia normativa comporterebbe, secondo il giudice a quo, anzitutto, la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento tra il creditore INPS, cui è riferibile la norma censurata, e gli altri creditori, per i quali trova applicazione la disciplina codicistica.

Inoltre, sul presupposto che la soglia di impignorabilità indicata dall’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. serva a tutelare il minimo vitale, il rimettente ravvisa una irragionevolezza intrinseca nell’art. 69 della legge n. 153 del 1969, che non rispetta detto limite.

Da ultimo, nel ritenere che l’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. abbia dato attuazione all’art. 38, secondo comma, Cost., indicando per tutti i creditori i limiti oggettivi alla possibilità di aggredire la pensione del debitore, il Tribunale di Ravenna identifica nel distacco della norma censurata dalla previsione codicistica una lesione dello stesso art. 38, secondo comma, Cost.

3.– Si è costituito in giudizio l’INPS, che ha eccepito l’inammissibilità delle censure, ritenendo inibito a questa Corte tornare a esaminare questioni analoghe ad altre, concernenti la medesima norma, già dichiarate non fondate. A tal riguardo, richiama la sentenza n. 506 del 2002, con la quale è stata reputata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.

3.1.– L’eccezione va disattesa.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, una precedente pronuncia di rigetto non preclude un successivo esame delle questioni (ex multis, sentenze n. 167 del 2025, n. 19 del 2024, n. 186 e n. 44 del 2020, n. 160 del 2019 e n. 99 del 2017; ordinanze n. 96 del 2018, n. 162 del 2017 e n. 290 del 2016).

Peraltro, nel caso di specie, il rimettente, da un lato, lamenta la lesione anche dell’art. 38, secondo comma, Cost., e non solo dell’art. 3 Cost., e, da un altro lato, muove le proprie censure a partire dalle modifiche apportate all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. dall’art. 21-bis del d.l. n. 115 del 2022, come convertito.

4.– Passando al merito, le questioni non sono fondate.

5.– In via preliminare occorre brevemente richiamare il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

5.1.– L’art. 69 della legge n. 153 del 1969 prevede che l’INPS possa pignorare, nei limiti di un quinto del loro ammontare, le pensioni, le indennità spettanti in forza del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), e successive modificazioni e integrazioni, nonché gli assegni, di cui all’art. 11 della legge 5 novembre 1968, n. 1115 (Estensione, in favore dei lavoratori, degli interventi della Cassa integrazione guadagni, della gestione dell'assicurazione contro la disoccupazione e della Cassa assegni familiari e provvidenze in favore dei lavoratori anziani licenziati), al fine di recuperare i crediti derivanti o da indebite prestazioni percepite a carico di forme previdenziali gestite dal medesimo Istituto o da omesse contribuzioni.

Per le pensioni ordinarie liquidate a carico della assicurazione generale obbligatoria, la citata disposizione prevede che debba essere comunque preservato l’importo corrispondente al trattamento minimo pensionistico.

Si tratta di una disciplina che, pur facendo riferimento al pignoramento, al sequestro e alla cessione dei crediti pensionistici, introduce un limite che vale anche per le forme di compensazione di cui si avvale l’INPS, procedendo al recupero mediante trattenute (Cass., n. 26580 del 2024; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 9 agosto 2003, n. 12040).

5.2.– L’art. 69 della legge n. 153 del 1969 era stato introdotto – a tutela dei richiamati crediti INPS – in un momento storico nel quale la regola generale era quella della impignorabilità delle pensioni.

Ebbene, sia quest’ultima disciplina sia quella del citato art. 69 sono state censurate, nel 2002, dinanzi a questa Corte.

In particolare, la sentenza n. 506 del 2002 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 128 del r.d.l. n. 1827 del 1935, nella parte in cui escludeva la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare delle pensioni, assegni e indennità erogati dall’INPS, senza prevedere – con le eccezioni stabilite dalla legge per crediti qualificati – l’impignorabilità della sola parte di pensione, assegno o indennità necessaria ad assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte. La medesima declaratoria di illegittimità costituzionale è stata estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), anche agli artt. 1 e 2, primo comma, del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche Amministrazioni).

In quella medesima pronuncia, la Corte ha, viceversa, dichiarato manifestamente infondate le censure mosse all’art. 69 della legge n. 153 del 1969, dal momento che, «con tale norma, il legislatore non altro ha fatto che prevedere limiti e modalità attraverso le quali un creditore qualificato (l’INPS, per indebite prestazioni ovvero omissioni contributive) può assoggettare a pignoramento un quinto dell’intero ammontare della pensione».

5.3.– Di seguito, nel solco della richiamata sentenza n. 506 del 2002, il legislatore è intervenuto sull’art. 545 cod. proc. civ., introducendo con l’art. 13, comma 1, lettera l), del d.l. n. 83 del 2015, come convertito, un settimo comma, che è stato poi ulteriormente sostituito con quanto disposto dall’art. 21-bis del d.l. n. 115 del 2022, come convertito.

Attualmente, la previsione codicistica stabilisce, in particolare, una soglia di impignorabilità costituita dal doppio della misura massima mensile dell’assegno sociale, con un minimo di euro 1.000, ammettendo solo sulla parte eccedente tale ammontare il pignoramento nei limiti indicati dai commi terzo, quarto e quinto del medesimo articolo o dalle disposizioni speciali di legge. Più precisamente: i crediti alimentari possono essere pignorati «nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato» (terzo comma); i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, e ogni altro credito sono pignorabili «nella misura di un quinto» (quarto comma) e, nell’ipotesi di «simultaneo concorso delle cause indicate precedentemente», il pignoramento «non può estendersi oltre alla metà dell’ammontare delle somme predette» (quinto comma).

Infine, il sesto comma del richiamato articolo dispone che «[r]estano in ogni caso ferme le altre limitazioni contenute in speciali disposizioni di legge».

5.4.– La previsione generale, di cui all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., e quella speciale, di cui all’art. 69 della legge n. 153 del 1969, si avvalgono – com’è evidente – di meccanismi differenti.

La norma generale garantisce una soglia di impignorabilità (pari al doppio dell’assegno sociale e comunque non inferiore a euro 1.000), calcolando poi la quota pignorabile sulla sola parte eccedente rispetto a essa.

L’art. 69 della legge n. 153 del 1969, viceversa, consente il pignoramento di un quinto dell’intero ammontare della pensione, fermo restando che non può essere corrisposta una pensione inferiore al trattamento minimo (attualmente pari a euro 603,40).

6.– A partire dalla constatazione delle differenze che intercorrono tra le discipline richiamate, le tre censure sollevate dal rimettente – per irragionevole disparità di trattamento tra creditori, per irragionevolezza intrinseca e per lesione dell’art. 38, secondo comma, Cost. – si radicano su argomenti fra di loro interconnessi.

In particolare, il giudice a quo fonda la propria motivazione sull’idea che: i) i crediti INPS non possano avere un trattamento privilegiato rispetto agli altri crediti; ii) la fascia di impignorabilità prevista dall’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. rappresenti un incomprimibile minimo vitale, correlato all’art. 38, secondo comma, Cost.; iii) il meccanismo delineato dall’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. identifichi una soluzione costituzionalmente obbligata, in quanto riflesso dell’art. 38, secondo comma, Cost.

7.– Nessuno dei presupposti argomentativi sopra evocati è condivisibile.

8.– Anzitutto, non convince la tesi che ravvisa una irragionevole disparità di trattamento fra creditori nella diversità di disciplina dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969 rispetto all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ.

Si tratta, invece, del semplice rapporto fra una norma generale, l’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., e una norma speciale, quella censurata, i cui tratti peculiari confutano l’idea di una necessaria omologazione alla disciplina codicistica.

In particolare, l’art. 69 della legge n. 153 del 1969 rinviene la propria giustificazione nella specificità dei crediti oggetto della normativa, in quanto correlati a un interesse di carattere generale.

8.1.– La prestazione oggetto dei crediti tutelati dalla norma censurata si identifica, infatti, nel recupero delle omissioni contributive e nella ripetizione degli indebiti previdenziali, che servono a ripristinare risorse di cui è stato privato il sistema pensionistico e che sono necessarie al suo sostentamento.

La specificità di tali crediti consiste, dunque, nel loro correlarsi all’interesse generale alla tutela dell’equilibrio e della sostenibilità del sistema previdenzial-solidaristico, la cui tenuta consente la stessa corresponsione delle pensioni, compresa quella del soggetto obbligato.

Come affermato dalla sentenza n. 235 del 2020, la sostenibilità del sistema pensionistico è anch’essa «espressione dell’art. 38 Cost., quale norma ispirata dal presupposto per cui detta sostenibilità (ossia l’equilibrio tra spesa previdenziale ed entrate a copertura della stessa) venga assicurata anzitutto all’interno dello stesso sistema».

8.2.– Non deve poi trascurarsi che il legislatore garantisce una particolare tutela al pensionato obbligato, stabilendo rigorose condizioni per rendere ammissibile il recupero degli indebiti.

Il pensionato, infatti, è tenuto a restituire quanto indebitamente percepito solo in caso di dolo, anche omissivo, e deve corrispondere gli interessi unicamente nell’ipotesi di dolo commissivo. È quanto stabiliscono, rispettivamente, l’art. 52, comma 2, della legge n. 88 del 1989, come interpretato dall’art. 13 della legge n. 412 del 1991, e l’art. 69, ultimo comma, della legge n. 153 del 1969.

La medesima disciplina viene peraltro applicata, in giurisprudenza, anche a talune ipotesi di omesse contribuzioni (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 aprile 2023, n. 10337).

Ne deriva che il regime dei crediti oggetto della norma censurata è intriso anche di una funzione deterrente, nell’ambito di una disciplina caratterizzata in generale dall’esigenza di non perdere risorse necessarie ad alimentare lo stesso sistema pensionistico.

8.3.– In definitiva, l’interesse generale all’equilibrio e alla sostenibilità del sistema pensionistico, unitamente alla funzione deterrente che plasma le modalità di recupero dei crediti INPS da indebiti previdenziali e da omissioni contributive, disegna una peculiarità della disciplina censurata che giustifica un bilanciamento di interessi diverso da quello che il legislatore riserva in generale agli altri crediti.

Tale specificità dell’art. 69 della legge n. 153 del 1969 spiega la sua divergenza rispetto alla norma codicistica e confuta la tesi di una irragionevole disparità di trattamento.

Non sussiste, di riflesso, alcun trattamento privilegiato a favore dell’INPS, che, non a caso, può avvalersi della disciplina speciale solo per il recupero dei crediti da indebiti previdenziali o da omissioni contributive, ma non per il recupero di altri crediti vantati nei confronti del pensionato. Per questi ultimi si riespande, infatti, la disciplina generale di cui all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ.

9.– Passando ora a esaminare la censura concernente l’irragionevolezza intrinseca, si deve confutare anche il secondo argomento sul quale si fonda la motivazione del giudice a quo. Non appare, infatti, convincente la tesi secondo cui la soglia di impignorabilità, prevista dall’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., servirebbe a garantire ai titolari di pensione un minimo vitale, correlato all’art. 38, secondo comma, Cost., che risulterebbe irragionevole non rispettare.

9.1.– Anzitutto, giova evidenziare che l’art. 38, secondo comma, Cost. non evoca la nozione di minimo vitale, posto che richiama il paradigma dei «mezzi adeguati alle [...] esigenze di vita» e non quello dei «mezzi necessari per vivere», previsto invece dal primo comma del medesimo articolo.

In particolare, i «mezzi necessari per vivere» danno forma al dovere di solidarietà, che si impone nel contesto della pubblica assistenza a favore di chi versi in condizioni di indigenza per inabilità allo svolgimento di un’attività remunerativa, a prescindere dall’attività in precedenza svolta o dai servizi resi allo Stato (sentenze n. 94 del 2025, n. 169 del 2023 e n. 137 del 2021).

Viceversa, il paradigma dei «mezzi adeguati alle [...] esigenze di vita» richiama bisogni più ampi rispetto a quelli strettamente necessari alla sopravvivenza. Tale previsione, sebbene anch’essa ispirata a criteri di solidarietà sociale, riguarda i lavoratori e richiede che, in caso di eventi che incidono sfavorevolmente sulla loro attività lavorativa, siano a essi assicurate provvidenze atte a garantire la soddisfazione delle esigenze di vita (tra le tante, sentenze n. 85 del 2015 e n. 316 del 2010). Queste ultime sono determinate «secondo valutazioni generali ed oggettive», finalizzate ad assicurare non solo «i bisogni elementari e vitali», ma anche le necessità «relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di appartenenza per effetto dell’attività lavorativa svolta» (sentenza n. 173 del 1986).

9.2.– Ebbene, l’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ. – adottando una soglia pari al doppio dell’assegno sociale e comunque non inferiore a euro 1.000 – non ha inteso garantire il minimo vitale.

Di conseguenza, l’art. 69 della legge n. 153 del 1969, là dove omette di rifarsi al richiamato meccanismo, non intacca affatto un limite inviolabile e, dunque, non palesa alcuna irragionevolezza intrinseca.

Al contempo, l’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., nel dare attuazione all’art. 38, secondo comma, Cost., non ha concretizzato una volta per tutte e per qualsivoglia fattispecie il paradigma costituzionale dei mezzi adeguati al vivere, sicché il fatto che l’art. 69 della legge n. 153 del 1969 non ricalchi tale disciplina non determina ex se l’irragionevolezza della scelta, né il suo essere lesiva dell’art. 38, secondo comma, Cost. (infra, punto 10.1. del Considerato in diritto).

9.3.– Il legislatore gode, infatti, di un’ampia discrezionalità nell’individuazione della soglia che garantisce i mezzi adeguati alle esigenze di vita, essendo chiamato a operare un complesso bilanciamento di interessi, che risente, ovviamente, del tipo di interessi implicati. Tale discrezionalità incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza e sproporzione.

Ebbene, nell’adottare con l’art. 69 della legge n. 153 del 1969 il limite intangibile del trattamento minimo pensionistico, il legislatore ha operato un bilanciamento di interessi – fra le ragioni del pensionato e le pretese creditorie dell’INPS, correlate alle istanze di equilibrio e di sostenibilità del sistema pensionistico – che non contrasta in maniera manifesta con il principio di ragionevolezza e di proporzionalità.

Infatti, il trattamento minimo pensionistico, oltre a non essere estraneo alle istanze sottese all’art. 38, secondo comma, Cost., non è un parametro fisso e immutabile nel tempo, ma varia annualmente in funzione dell’evoluzione del costo della vita, garantendo l’adeguamento automatico.

10.– Da ultimo, le argomentazioni sopra esposte consentono di confutare anche il terzo assunto, sul quale si fonda la motivazione del rimettente e che dà corpo alla censura concernente la ritenuta violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost.

In particolare, non persuade la tesi secondo cui la norma censurata, introducendo una deroga all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., automaticamente violerebbe il richiamato principio costituzionale.

10.1.– In primo luogo, la soglia di impignorabilità identificata dalla richiamata disciplina codicistica non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, imposta dall’art. 38, secondo comma, Cost.

Di conseguenza, la mancata inclusione dei crediti da indebiti previdenziali e da omissioni contributive nell’alveo di tale disciplina generale non equivale affatto a una violazione della citata previsione costituzionale.

10.2.– In secondo luogo, il peculiare bilanciamento di interessi effettuato dal legislatore con l’art. 69 della legge n. 153 del 1969, lungi dal violare l’art. 38, secondo comma, Cost., si collega, viceversa, al rilievo attribuito all’interesse generale all’equilibrio e alla stabilità del sistema pensionistico, che rinviene il proprio fondamento giustappunto nel richiamato principio costituzionale.

11.– In conclusione, questa Corte ritiene che la regola speciale di cui all’art. 69 della legge n. 153 del 1969 non evidenzia una irragionevole disparità di trattamento rispetto a quella generale di cui all’art. 545, settimo comma, cod. proc. civ., non risulta di per sé manifestamente irragionevole, né è lesiva dell’art. 38, secondo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 dicembre 2025

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI


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