Sentenza  153/2025 (ECLI:IT:COST:2025:153)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMOROSO - Redattrice:  SANDULLI M. A.
Udienza Pubblica del 24/09/2025;    Decisione  del 24/09/2025
Deposito del 17/10/2025;    Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  Art. 26, c. 3°, della legge 18/02/1989, n. 56.
Massime: 
Atti decisi: ord. 32/2025

Pronuncia

SENTENZA N. 153

ANNO 2025

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della legge 18 febbraio 1989, n. 56 (Ordinamento della professione di psicologo), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, undicesima sezione civile, nel procedimento vertente tra P.P. A.d.P. e Ordine degli psicologi del Lazio, con ordinanza del 13 gennaio 2025, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2025.

Visti gli atti di costituzione di P.P. A.d.P. e dell’Ordine degli psicologi del Lazio;

udita nell’udienza pubblica del 24 settembre 2025 la Giudice relatrice Maria Alessandra Sandulli;

uditi gli avvocati Paolo Mazzoli per P.P. A.d.P. e Paolo Caruso per l’Ordine degli psicologi del Lazio;

deliberato nella camera di consiglio del 24 settembre 2025.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 gennaio 2025, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2025, il Tribunale ordinario di Roma, undicesima sezione civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della legge 18 febbraio 1989, n. 56 (Ordinamento della professione di psicologo), il quale dispone che «[l]a radiazione [dall’albo degli psicologi] è pronunciata di diritto quando l’iscritto, con sentenza passata in giudicato, è stato condannato a pena detentiva non inferiore a due anni per reato non colposo».

2.– Il giudice rimettente espone di dover decidere sull’impugnazione da parte di P.P. A.d.P. del provvedimento con cui il Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio gli ha irrogato la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo, in ossequio al disposto dell’art. 26, comma 3, della legge n. 56 del 1989, sul solo rilievo che un giudice penale (nella specie il medesimo Tribunale di Roma), con sentenza divenuta irrevocabile, lo aveva dichiarato responsabile del delitto di cui agli artt. 223, comma 2, numero 2), e 219, comma 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa). Aggiunge, poi, che, nel corso del giudizio, entrambe le parti hanno eccepito l’illegittimità costituzionale della suindicata disposizione, poiché essa, stabilendo la radiazione di diritto dell’iscritto in caso di condanna definitiva alla pena detentiva non inferiore a due anni per reato non colposo, avrebbe introdotto un automatismo sanzionatorio, in violazione dei principi di gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare, nonché di quelli di ragionevolezza e di uguaglianza.

3.– Sulla rilevanza della questione, il giudice a quo afferma che la decisione del giudizio di impugnazione non potrebbe prescindere dall’applicare la disposizione censurata, considerato che al ricorrente era stata irrogata di diritto la sanzione disciplinare della radiazione, senza alcuna valutazione discrezionale in ordine alla gravità della sua condotta.

4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ripercorre le pronunce con le quali questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di analoghe disposizioni che, in altri settori, prevedevano la destituzione di dipendenti pubblici o la cancellazione di professionisti dai rispettivi albi, quale automatica conseguenza della relativa condanna in sede penale. In particolare, l’ordinanza evidenzia che «[s]egnatamente, la Consulta, con Sentenza n. 971/1988 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contemplante la destituzione di diritto degli impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti; con Sentenza n. 40/1990 è intervenuta sulla norma contemplante la destituzione automatica dei notai; con Sentenza n. 158/1990 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma relativa alla radiazione automatica dei dottori commercialisti; con Sentenza n. 16/1991 ha dichiarato l’illegittimità della disposizione concernente la destituzione di diritto del dipendente regionale; con Sentenza n. 197/1993 si è pronunciata sulla destituzione di diritto del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluni reati, ovvero della definitività del provvedimento applicativo di una misura di prevenzione per appartenenza ad associazione di tipo mafioso; ancora, con Sentenza n. 2/1999 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di norma – analoga a quella che ci occupa – contemplante la radiazione automatica dall’albo dei ragionieri e periti commerciali; con Sentenza n. 268/2016 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disciplina, relativa al personale militare, che non prevedeva l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici irrogata dal giudice penale». Da ultimo, l’ordinanza richiama la, più recente, sentenza di questa Corte n. 51 del 2024, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», che prevedeva la rimozione di diritto del magistrato condannato «a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».

L’ordinanza sottolinea, poi, più nello specifico, che nelle suindicate pronunce questa Corte ha affermato che, nel vagliare la legittimità costituzionale delle disposizioni in materia di sanzioni disciplinari, deve tenersi conto di due principi essenziali, tra loro correlati, e precisamente, il principio, generale, di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità della condotta e quello dell’autonomia della valutazione in sede disciplinare rispetto a quella del giudice penale, fatta salva la vincolatività di quanto accertato in fatto nel giudizio penale.

5.– Alla luce della riferita evoluzione della giurisprudenza costituzionale, il rimettente ritiene che l’art. 26, comma 3, della legge n. 56 del 1989 non sia in linea con i suesposti principi, poiché ricollega, in via automatica, la radiazione del professionista alla circostanza che lo stesso sia stato in precedenza condannato, con sentenza definitiva, a una pena detentiva non inferiore a due anni, per qualunque reato non colposo, e, in tal modo, «preclude in radice qualunque valutazione di proporzionalità della sanzione» e «sottrae» all’organo disciplinare «ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare».

6.– Ad avviso del Tribunale, inoltre, «attesa l’intervenuta “soppressione” dell’istituto della destituzione di diritto nel campo del pubblico impiego e della radiazione di diritto per talune professioni “protette”, appare contraria al principio di uguaglianza una norma che contempli detta radiazione di diritto solo per gli esercenti la professione di psicologo».

7.– Si sono costituiti in giudizio P.P. A.d.P. e l’Ordine degli psicologi del Lazio, parti del giudizio principale, insistendo entrambi per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata. Tali conclusioni sono state ribadite dall’Ordine nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica.

Non è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Roma, undicesima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 32 del 2025), dubita della legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della legge n. 56 del 1989, che, nel disciplinare le sanzioni applicabili agli iscritti all’albo professionale degli psicologi, stabilisce che «[l]a radiazione è pronunciata di diritto quando l’iscritto, con sentenza passata in giudicato, è stato condannato a pena detentiva non inferiore a due anni per reato non colposo».

Le questioni sollevate dal rimettente si fondano sull’assunto che l’automatismo della radiazione, come previsto dalla disposizione censurata, sarebbe irragionevole e introdurrebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, contrastando, quindi, con l’art. 3 Cost. per due profili.

In primo luogo, vi sarebbe un’irragionevolezza intrinseca della disposizione, in quanto la sua applicazione sarebbe connessa solo alla pena detentiva definitivamente inflitta in sede penale. La norma censurata, infatti, non consentirebbe all’organo disciplinare di graduare la risposta sanzionatoria in relazione alla concreta gravità delle molteplici fattispecie suscettibili di essere ricondotte sotto l’astratta previsione normativa, equiparando situazioni caratterizzate da disvalore diverso e pervenendo a risultati sproporzionati.

In secondo luogo, viene denunciata un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ad altre categorie, sia di pubblici dipendenti, sia di professionisti, in riferimento alle quali analoghi automatismi sono stati eliminati da precedenti interventi di questa Corte. Non vi sarebbe, invero, ad avviso del rimettente, alcuna giustificazione, per mantenere il richiamato automatismo sanzionatorio per i soli psicologi, risultando la loro posizione pienamente sovrapponibile a quella delle altre categorie per le quali la destituzione o la radiazione di diritto sono state considerate contrarie alla Costituzione.

2.– In via preliminare, va osservato che le questioni sollevate sono rilevanti, in quanto la definizione del giudizio di impugnazione promosso da P.P. A.d.P. non potrebbe prescindere dall’applicare la disposizione censurata. Ciò in quanto esso censura la delibera con la quale il Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio ha irrogato al suddetto professionista la sanzione disciplinare della radiazione (ossia, la più grave tra le misure contemplate dall’art. 13 del relativo Regolamento disciplinare) sul mero rilievo che, in applicazione dell’art. 26, comma 3, della legge n. 56 del 1989, essa conseguiva di diritto – in via, quindi, del tutto automatica – al passaggio in giudicato della sentenza con la quale lo stesso era stato condannato alla pena detentiva di due anni per un reato non colposo.

3.– Nel merito, la questione è fondata.

Sin dal 1988, numerose sentenze di questa Corte hanno ritenuto costituzionalmente illegittime, per contrasto con l’art. 3 Cost., disposizioni comportanti l’automatica destituzione del pubblico dipendente, ovvero l’automatica cancellazione di professionisti dai rispettivi albi, in conseguenza della loro condanna penale per determinati reati.

Tale costante orientamento giurisprudenziale ha preso l’avvio con la sentenza n. 971 del 1988, sulla destituzione di diritto degli impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti, (per poi essere seguito dalle sentenze: n. 40 del 1990, relativa alla destituzione automatica dei notai; n. 158 del 1990, sulla radiazione automatica dei dottori commercialisti; n. 16 del 1991, concernente la destituzione di diritto prevista per i dipendenti della Regione Lombardia; n. 197 del 1993, sulla destituzione di diritto del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche; n. 363 del 1996, sulla cessazione dal servizio continuativo per perdita del grado conseguente all’irrogazione della pena accessoria della rimozione dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri; n. 2 del 1999, in materia di radiazione automatica dall’albo dei ragionieri e periti commerciali).

In epoca più recente, la sentenza n. 268 del 2016 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una normativa che disponeva la cessazione dal servizio dei militari a seguito dell’irrogazione, da parte del giudice penale, della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, senza prevedere l’instaurazione di un procedimento disciplinare. Da ultimo, con la sentenza n. 51 del 2024, questa Corte è tornata a pronunciarsi sull’automatica applicazione della sanzione disciplinare più grave in caso di condanna penale dell’incolpato, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione che prevedeva la rimozione automatica del magistrato condannato a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non fosse stata sospesa o per la quale fosse intervenuto provvedimento di revoca della sospensione.

Come osservato in quest’ultima pronuncia, «[d]al quadro giurisprudenziale sin qui tracciato si ricavano due principi essenziali che, ai fini dello scrutinio in esame, vanno posti in correlazione tra loro: un requisito generale di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità della condotta […], e l’autonomia della valutazione in sede disciplinare rispetto a quella del giudice penale, fatta salva la vincolatività di quanto accertato in fatto nel giudizio penale» (punto 3.3. del Considerato in diritto).

È stato precisato, in particolare, che il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare «può, normalmente, essere soddisfatto soltanto da una valutazione individualizzata della gravità dell’illecito, alla quale la risposta sanzionatoria deve essere calibrata […] affinché essa possa risultare adeguata al concreto disvalore della condotta». Contrastano, quindi, con tale principio le sanzioni fisse, salvo che «risultino non manifestamente sproporzionate rispetto all’intera gamma dei comportamenti riconducibili alla fattispecie astratta dell’illecito sanzionato» (punto 3.3.1. del Considerato in diritto).

Quanto all’autonomia della valutazione discrezionale dell’organo disciplinare, nella medesima pronuncia questa Corte ha affermato che essa non può «mai essere in toto pretermessa, per essere semplicemente surrogata da quella del giudice penale», specialmente «quando si tratta di applicare sanzioni disciplinari definitive come la destituzione o la cancellazione dall’albo professionale», poiché spetta all’organo disciplinare «apprezzare non già la (generica) gravità dell’illecito commesso, ma – più specificamente – la significatività di tale illecito rispetto al giudizio di persistente idoneità dell’interessato a svolgere le proprie funzioni o la propria professione» (punto 3.3.2. del Considerato in diritto).

Tali principi non sono stati messi in discussione dalle pronunce nelle quali, sempre in tema di destituzione dei pubblici dipendenti o di cancellazione di professionisti dai rispettivi albi, questa Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale scrutinate.

Come osservato dalla citata sentenza n. 51 del 2024, non rappresenta, invero, un’eccezione la sentenza n. 234 del 2015, che ha escluso l’illegittimità costituzionale della disposizione che vieta la riabilitazione del notaio già destituito a seguito di condanna per una serie di reati, poiché essa non comporta l’automatica applicazione della più grave sanzione disciplinare, ma interviene in un momento successivo, laddove, a monte, l’organo disciplinare ha già esercitato il proprio potere discrezionale senza alcun automatismo e calibrando la sanzione al caso di specie. La pronuncia ha evidenziato, infatti, che «la destituzione è disposta soltanto in ragione di un ponderato e discrezionale apprezzamento dell’organo disciplinare, impugnabile in sede giurisdizionale, relativo alla necessità di precludere al notaio l’ulteriore esercizio della professione, alla luce anche di una valutazione – compiuta direttamente dall’organo disciplinare stesso – della gravità dei fatti di reato per il quale è stato condannato in sede penale» (punto 3.2.2. del Considerato in diritto).

La sentenza n. 112 del 2014, poi, ha dichiarato non fondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., nei confronti della disciplina che, per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, contemplava la destituzione di diritto quale conseguenza automatica dell’applicazione di una misura di sicurezza personale da parte del giudice penale. In questo caso, tuttavia, come osservato anche nella richiamata sentenza n. 51 del 2024, «[d]ecisiva nella valutazione di questa Corte è stata […] la circostanza che l’applicazione di una misura di sicurezza presuppone un accertamento individualizzato, da parte del giudice penale, della pericolosità sociale dell’interessato, e cioè (in base all’art. 203 cod. pen.) della probabilità che egli commetta nuovi reati; probabilità ritenuta ex se incompatibile con la speciale delicatezza dei compiti del personale della polizia, la cui funzione essenziale è proprio quella di prevenire e reprimere reati» (punto 3.2.2. del Considerato in diritto). La Corte ha, quindi, ritenuto giustificato l’automatismo a fronte dell’accertamento individualizzato, da parte del giudice penale, della pericolosità sociale dell’interessato.

Per completezza, occorre inoltre rilevare che non sono prettamente attinenti al tema degli effetti automatici della condanna penale sul procedimento disciplinare le sentenze n. 286 del 1999 e n. 197 del 2018.

Nello specifico, la prima sentenza ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 29, primo comma, cod. pen., «nella parte in cui statuisce che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importa l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici». In tale occasione, questa Corte ha affermato che la «risoluzione del rapporto d’impiego costituisce, in questo caso, soltanto un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo» (punto 3 del Considerato in diritto). La norma censurata, infatti, non dispone l’applicazione automatica di una sanzione disciplinare, poiché la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici viene comminata direttamente dal giudice penale, senza alcun intervento dell’organo disciplinare.

Con la seconda sentenza sono state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui dispone la radiazione obbligatoria del magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lettera e), del medesimo decreto legislativo. In questo caso, la pronuncia ha escluso la violazione del principio di uguaglianza, non essendovi «un automatismo legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati, bensì un diverso automatismo insito nella previsione di un’unica sanzione fissa (la rimozione) per chi sia ritenuto responsabile dal giudice disciplinare di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare», conseguente a una condotta ben circoscritta e di sicura gravità, anche in considerazione dello specifico ruolo che il magistrato riveste nell’ordinamento.

4.– La disposizione oggetto del presente giudizio deve essere, dunque, innanzitutto, vagliata alla luce dei suindicati – e indiscutibili – principi di proporzionalità della sanzione disciplinare e di centralità e autonomia della valutazione discrezionale dell’organo disciplinare, reiteratamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale.

Quanto al primo principio, la previsione dell’automatica radiazione dello psicologo che sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, a pena detentiva non inferiore a due anni per reato non colposo impedisce di graduare la sanzione in relazione al comportamento tenuto dall’incolpato: essa, infatti, è «suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalità di casi, rispetto ai quali è agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito» (sentenza n. 268 del 2016, punto 6.4. del Considerato in diritto). Come osservato, ancora, nella sentenza n. 51 del 2024, «[u]n tale meccanismo rende strutturalmente impossibile a questa Corte compiere la valutazione di proporzionalità della previsione sanzionatoria, che si impone – secondo la giurisprudenza appena passata in rassegna – anche laddove il legislatore preveda una sanzione fissa per una determinata fattispecie di illecito […]. Affinché una siffatta sanzione fissa – in quanto tale “indiziata” di illegittimità costituzionale […] – possa superare indenne lo scrutinio da parte di questa Corte, occorrerebbe infatti dimostrare che la sanzione della rimozione – la più grave tra quelle previste nel sistema degli illeciti disciplinari dei magistrati – risulti proporzionata rispetto all’intera gamma dei comportamenti tipizzati. Comportamenti che, però, la fattispecie di illecito disciplinare qui sanzionata non indica in alcun modo, e che potrebbero anzi essere i più diversi» (punto 3.4.1. del Considerato in diritto).

Né, del resto, può sostenersi che, in tutte le condotte astrattamente riconducibili alla norma censurata, sia ravvisabile una presunzione assoluta di inidoneità o indegnità morale o, tanto meno, di pericolosità dell’interessato, idonea a giustificare la più severa sanzione disciplinare.

Quanto al secondo principio, la rigidità della disposizione censurata vincola l’organo disciplinare all’adozione di sanzioni automaticamente discendenti dalla statuizione del giudice penale, finendo per spogliarlo del compito di valutare la proporzionalità di tale sanzione rispetto al reato commesso, tenendo conto del peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del professionista a continuare a svolgere le sue funzioni, con conseguente menomazione delle garanzie difensive dell’incolpato, che finiscono per essere svuotate di ogni significato pratico.

Sicché l’automatismo previsto dalla disposizione censurata può condurre a sproporzionate risposte sanzionatorie rispetto alle specifiche finalità della responsabilità disciplinare, non corrispondenti alla eterogeneità delle condotte riconducibili alla fattispecie astratta e alla irragionevole sottrazione al Consiglio dell’Ordine degli psicologi di ogni potere di apprezzamento sull’idoneità del professionista condannato a continuare a svolgere la sua attività professionale.

Alla violazione del canone di ragionevolezza per il profilo del mancato rispetto del principio di necessaria proporzionalità, si aggiunge, poi, quella del principio di uguaglianza, in quanto la disposizione censurata assoggetta gli psicologi a un trattamento irragionevolmente deteriore – non giustificato dal loro peculiare status – rispetto ai dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche, nonché rispetto ad altri professionisti (quali notai, commercialisti e periti commerciali) per il profilo delle garanzie procedimentali poste a presidio del diritto di difesa. Può richiamarsi, ancora, sul punto, la sentenza n. 268 del 2016, nella quale, in riferimento al personale militare, è affermato che «tale disparità di trattamento non trova ragionevole giustificazione, considerato che questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il peculiare status dei militari, che pure esige il rispetto di severi codici di rettitudine e onestà, non può costituire di per sé una valida ragione a sostegno di una discriminazione del personale militare rispetto agli impiegati civili dello Stato sotto il profilo delle garanzie procedimentali poste a presidio del diritto di difesa, che risultano altresì strumentali al buon andamento dell’amministrazione militare» (punto 6.5. del Considerato in diritto).

5.– In conclusione, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’intero comma 3 dell’art. 26 della legge n. 56 del 1989, con conseguente riespansione della disciplina generale applicabile all’illecito disciplinare posto in essere dallo psicologo e restituzione al Consiglio dell’Ordine degli psicologi della possibilità di applicare – secondo il proprio discrezionale apprezzamento – una tra le sanzioni previste dall’art. 26, comma 1, della medesima legge, ivi compresa, naturalmente, la stessa radiazione, laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna definitiva sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del professionista incolpato a continuare a svolgere le sue funzioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della legge 18 febbraio 1989, n. 56 (Ordinamento della professione di psicologo).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Maria Alessandra SANDULLI, Redattrice

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 ottobre 2025

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI


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