N. 49
SENTENZA 2 APRILE 1980
Deposito in cancelleria: 14 aprile 1980.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 112 del 23 aprile 1980.
Pres. AMADEI - Rel. REALE
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente - Dott. GIULIO GIONFRIDA - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Prof. GUIDO ASTUTI - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 2, lett. c, n. 1, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413 (Concessione di amnistia e indulto) e art. 2, lett. c, n. 1, della legge 3 agosto 1978, n. 405 (legge di delegazione) promossi con ordinanze emesse dai pretori di Nardò, il 19 ottobre, il 26 ottobre (n. 11 ordinanze) e il 9 novembre 1978; Scicli, il 20 ottobre (n. 23 ordinanze), il 27 ottobre (n. 75 ordinanze), il 10 novembre, il 17 novembre (n. 2 ordinanze), il 24 novembre (n. 2 ordinanze), il 1 dicembre (n. 2 ordinanze), il 15 dicembre 1978 e il 19 gennaio 1979; S. Pietro Vernotico, il 25 ottobre 1978; Siracusa, il 27 ottobre 1978, iscritte ai nn. 646, 671, 683 e 684 del registro ordinanze 1978, 1, 2, 29, 30, 83, 92, 93, 94, da 121 a 195, da 218 a 237, 287, 288, 289 e da 313 a 324 del registro ordinanze 1979, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 52, 59, 66, 73, 80, 87, 95, 108, 140 e 175 dell'anno 1979.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 5 dicembre 1979 il Giudice relatore Oronzo Reale;
udito l'avvocato generale dello Stato Giovanni Gentile, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto:
1. - Con ordinanza in data 19 ottobre 1978 (n. 684 del reg. ord. 1978) il pretore di Nardò sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, lett. c, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413 (Concessione di amnistia e indulto), con riferimento agli artt. 3, 55 e segg., 70 e segg., 79 e segg., 83 e segg. della Costituzione.
Premesso che la formulazione del testo normativo appare infelice e comunque foriera di notevoli difficoltà interpretative, il magistrato remittente osservava che allorché l'interprete dovrebbe stabilire il significato dei termini "violazioni", "area di piccola estensione in assenza di opere edilizie ", "violazioni che comportano una limitata entità di volumi" ed ancora "sempre che non sussista lesione degli interessi pubblici tutelati da vincoli...", la sua attività operativa, con riferimento alla funzione giudiziaria, parrebbe travalicare il compito istituzionalmente dettato oltre che dall'art. 12 delle preleggi, dalla prima parte dell'art. 102 della Costituzione.
In altre parole, l'adottata tecnica legislativa comporterebbe l'ineluttabilità di una integrazione delle generiche espressioni surriferite con una attività sostanzialmente creativa della norma.
Ricordato come anche nell'iter parlamentare della legge di delegazione in esame non sia sfuggita a più oratori l'esigenza di dar corpo ad espressioni troppo generiche, il giudice a quo sostiene che "in coerenza con il peculiare compito attribuitogli dall'art. 79 Cost.", il Presidente della Repubblica, sulla base delle indicazioni a lui offerte dal Parlamento delegante, avrebbe dovuto, nell'esercizio dei suoi poteri, integrare il dettato normativo con tassative specificazioni. Su tale base si avanza il "sospetto" che il Presidente abbia trasferito al giudice in sede applicativa il compito che sarebbe a lui spettato, con eventuale violazione degli artt. 79 e 101 della Costituzione.
L'aver affidato al giudice l'applicazione in concreto di norme contenenti le espressioni surriferite può determinare la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E ciò in quanto "in mancanza di parametri obiettivi, perché non ricavabili dalla norma", lo stesso giudice finirebbe per integrare la fattispecie legale con ampia discrezionalità.
Né il giudice a quo ritiene significative le precedenti pronunce della Corte costituzionale concernenti l'uso normativo di termini quale "onore", "pudore", "osceno". "L'integrazione della fattispecie legale", nel caso di specie, sarebbe ancora più sconcertante, siccome da attuarsi nell'ambito dell'accertamento relativo alla sussistenza o meno di una causa estintiva del reato.
Rileva ancora il pretore di Nardò come ulteriori inconvenienti "con ripercussioni sulla questione di costituzionalità prospettata" scaturirebbero dalla norma in argomento ove si dovesse provvedere ad applicare l'amnistia impropria con la procedura prevista dagli artt. 593 e 594 c.p.p.
Sarebbe infatti necessario, secondo quanto sostenuto nell'ordinanza di remissione, provvedere agli accertamenti conferenti al caso concreto "con possibili conseguenziali interferenze in rapporto al procedimento conclusosi con sentenza irrevocabile di condanna".
Osserva ancora il magistrato remittente come l'ulteriore accertamento volto a stabilire che "non sussista lesione degli interessi pubblici tutelati da vincoli ecc.", preliminare alla concessione dell'amnistia, finirebbe col conferire al giudice addirittura il potere di stabilire quali debbano considerarsi gli interessi pubblici tutelati e la loro lesione; con le conseguenze già evidenziate più sopra.
Con altre ordinanze (nn. da 313 a 324 del reg. ord. 1979), identiche quanto alla motivazione, lo stesso pretore sollevava le medesime questioni già riferite.
2. - Spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell'Avvocatura Generale dello Stato.
Nell'esaminare specificamente la prospettata violazione degli artt. 79, 101 e 70 Cost., si assume che la costruzione posta a base di tale censura sarebbe artificiosa siccome tendente ad attribuire al Presidente della Repubblica una vera e propria omissione nell'esercizio dei suoi poteri. Il vero problema consiste, secondo l'Avvocatura dello Stato, nello sforzo interpretativo che una norma suscettibile di latitudine di apprezzamento impone al giudicante. Sotto tale profilo il pretore ha opinato non confacenti le considerazioni contenute nelle pronunce della Corte relative a casi di altri termini interpretabili con ampia discrezionalità, sostenendo che nel caso di specie ci si troverebbe nell'ambito del "ben delineato compito di accertare esclusivamente se sussista o meno una causa estintiva del reato".
L'Avvocatura non riesce a cogliere la differenza esistente tra i due casi e sostiene che in tal modo lo stesso pretore avrebbe finito con l'ammettere che solo si tratta di una questione di interpretazione della norma impugnata.
Sostiene infine che le considerazioni relative alla verifica della inesistenza di lesioni degli interessi pubblici tutelati da vincoli di carattere idrogeologico, paesaggistico ecc., sarebbero prive di pregio in quanto, presupposta la esistenza di tali vincoli (cosa questa che il pretore è tenuto ad accertare), i reati urbanistici, ove tali interessi abbiano leso, pur se ricorrano gli altri requisiti, sarebbero in ogni modo esclusi dal beneficio dell'amnistia.
Si chiede pertanto che la Corte, ove non ritenga inammissibili le questioni prospettate, le dichiari infondate.
3. - Con ordinanza in data 25 ottobre 1978 (n. 683 del reg. ord. 1978), il pretore di San Pietro Vernotico sollevava anche esso questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, lett. c, n. 1, del d.P.R. n. 413/78 e dell'art. 2, lett. c, n. 1, della legge 3 agosto 1978, n. 405, con riferimento agli artt. 3 e 79 Cost.
Sostanzialmente il magistrato remittente rileva come la norma, nel porre criteri "vaghi, generici, indifferenziati e oggettivamente non caratterizzati", lascerebbe sostanzialmente il giudice nella condizione di concedere o negare l'amnistia in base ad una "assoluta e sconfinata discrezionalità". La norma si presterebbe perciò ad applicazioni discriminanti in situazioni oggettivamente uguali, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost.
L'aver di fatto delegato all'apprezzamento discrezionale del giudice l'individuazione dei fatti rientranti o meno nel provvedimento di clemenza, sarebbe in contrasto con la norma di cui all'art. 79 Cost., che demanda in via esclusiva al Presidente della Repubblica, su legge di delegazione delle Camere, la concessione dell'amnistia.
4. - Spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura Generale dello Stato, ribadendo sostanzialmente quanto già riferito a proposito delle ordinanze del pretore di Nardò e pervenendo alle medesime conclusioni.
5. - Con ordinanza emessa in data 27 ottobre 1978 (n. 671 del reg. ord. 1978), anche il pretore di Scicli sollevava, in via incidentale, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo (recte: comma primo), lett. c, del d.P.R. 4 agosto, n. 413 (Concessione di amnistia e indulto), in riferimento agli artt. 3,25 e 111 della Costituzione.
La norma in questione esclude dall'applicazione del provvedimento di amnistia i reati previsti dall'art. 41, primo comma, lett. b, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 - come sostituito dall'art. 13 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (legge urbanistica) - e dall'art. 17, lett. b, della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), quando si tratti di inosservanza dell'art. 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni, ovvero di lavori eseguiti senza licenza o concessione o in totale difformità da queste, facendo immediatamente dopo salve alcune ipotesi successivamente elencate.
Osserva il giudice a quo che è comunque pacifico che si è voluto escludere dall'ambito di applicazione dell'amnistia soltanto i reati edilizi più gravi, cosa questa che emerge dall'espresso riferimento alla lett. b dell'art. 41 cit. Rimarrebbero pertanto soggette alla disciplina generale le violazioni edilizie previste dalla lett. a dello stesso articolo, specificate con ampiezza anche dagli artt. 13 della legge n. 765/1967 e 17, lett. a, della legge n. 10/1977.
Aggiunge però il pretore di Scicli che una interpretazione, sia pure rigorosa, della norma in questione, non consentirebbe: "a) una inequivoca identificazione delle fattispecie ipotizzate e, conseguentemente, b) la sua univoca e uniforme applicazione".
Il giudice a quo sottolinea che "insuperabili problemi interpretativi" si porrebbero nell'identificazione delle eccezioni al principio della inapplicabilità dell'amnistia.
Ardua si presenterebbe infatti all'interprete l'ipotesi di "limitate modifiche dei volumi esistenti". Tale dizione non farebbe che ripetere, in altra forma, la proposizione che precede, "volumi illegittimamente realizzati per una entità limitata", e, d'altra parte, andrebbe a coincidere con una fattispecie non considerata tra le esclusioni oggettive.
Ma se da ciò sembra discendere l'impossibilità di univoca ed uniforme applicazione della norma ai fini della concreta sua applicazione, tale impossibilità scaturisce soprattutto dal fatto che la stessa viene lasciata alla mera discrezione del giudice, il quale non potrà non attenersi a personali e pertanto differenti valutazioni e interpretazioni della norma stessa.
Si dovrebbe perciò concludere nel senso che l'applicazione del beneficio non discende da criteri obiettivi, e perciò "universalmente applicabili a casi identici", ma da criteri soggettivi e neppure, come si è visto, di stretta legalità.
Tale premessa porta il pretore di Scicli a dubitare che la norma impugnata violi: l'art. 3 della Costituzione, atteso che l'oscura formulazione del dettato legislativo, correlata con la necessità di assumere criteri interpretativi non obiettivi ed univoci, ma, al contrario, soggettivi e discrezionali, che vanno ad incidere sulla materialità del reato, impedisce l'uniforme applicazione della norma stessa, "con l'inevitabile conseguenza di differenti trattamenti per casi identici"; l'art. 25 della Costituzione, in quanto la medesima norma, nella sua contraddizione ed incertezza, mancherebbe dei requisiti essenziali per garantire la certezza del diritto e la sua generale ed uniforme applicazione a tutti i cittadini; l'art. 111 della Costituzione, in quanto il giudice, in ragione delle rilevate, insanabili contraddizioni, non potrebbe fornire adeguata motivazione alle sentenze di applicazione (o di mancata applicazione) dell'amnistia nella materia de qua.
6. - Nel mentre non si costituiva alcuna parte privata, spiegava intervento, a mezzo dell'Avvocatura Generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri.
A ben vedere, sosteneva l'Avvocatura nell'atto di intervento, tutta la censura svolta dal magistrato remittente si concreta in una critica alla formulazione della norma, e pone, in buona sostanza, soltanto problemi interpretativi che, in ogni caso, spetta al giudice risolvere nell'ambito dell'esercizio della sua funzione istituzionale.
Se è sempre auspicabile la chiarezza delle fonti normative, non deve essere comunque dimenticato che frequentemente gli interpreti sono giunti a conclusioni difformi nell'applicazione di numerose norme: a tale diversità di interpretazioni ha supplito l'opera della Corte di cassazione, istituzionalmente (articolo 65 dell'ordinamento giudiziario) chiamata ad assicurare "l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge...".
Peraltro, lo stesso principio concernente l'autonomia decisionale del giudice sembra contrastare con la tesi, accolta nell'ordinanza di remissione, per la quale tutti i giudici sarebbero tenuti alla univoca applicazione della legge secondo rigidi criteri interpretativi.
Il richiamo all'art. 3 della Costituzione, su tale base, sarebbe pertanto sfornito di pregio; tale norma non ha infatti lo scopo di stabilire il principio dell'uniformità dei giudizi in base ad una univoca interpretazione della legge da parte dei giudici. ove così fosse, infatti, ben poche sarebbero le norme non passibili della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Il principio affermato dall'art. 3 Cost. è invece da ravvisarsi nella garantita uguaglianza del trattamento legislativo di situazioni giuridiche eguali; nell'ambito della applicazione delle leggi poi, il giudice potrà esplicare il suo libero convincimento, nei limiti imposti dalla Costituzione (art. 101).
Il richiamo alla sentenza 10 dicembre 1970, n. 191, secondo cui "il principio di legalità si attua non soltanto con la rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie, ma, in talune ipotesi, con l'uso di espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per giudicare se una determinata condotta lo abbia, o meno, violato", concetto questo peraltro ribadito dalla successiva sentenza n. 236 del 22 ottobre 1975, consente poi, ad avviso dell'Avvocatura, di escludere anche la prospettata violazione dell'art. 25 Cost., atteso che la norma denunziata conterrebbe gli elementi utili ai fini della identificazione delle fattispecie ammistiabili, facendo riferimento al complesso delle norme che regolano l'attività edilizia "secondo i dati della comune esperienza".
L'Avvocatura assume ancora che sarebbe infondata anche la denunziata violazione dell'art. 111 Cost., poiché tale precetto sarebbe indirizzato al giudice, obbligato a motivare i provvedimenti emessi nell'esercizio della funzione giurisdizionale: "le difficoltà di interpretazione della legge e, quindi, le derivate difficoltà di motivazione della pronuncia giurisdizionale non possono implicare la illegittimità costituzionale della legge".
Sulla base delle suesposte considerazioni, si chiedeva che la Corte provvedesse a dichiarare l'infondatezza delle riferite questioni di legittimità costituzionale, ove non le ritenesse inammissibili, svolgendo anche altre osservazioni comuni a quelle già svolte a proposito delle ordinanze del pretore di Nardò.
7. - Con altre identiche ordinanze (nn. 1 e 2, 29 e 30, 83, 92, 93 e 94, 121 - 195, 218 - 237, 287, 288 e 289 del reg. ord. 1979), lo stesso pretore di Scicli sollevava questione di legittimità costituzionale della medesima norma, con riferimento, oltreché agli artt. 3,25 e 111 della Costituzione, anche all'art. 79.
Osserva a tale ultimo riguardo il magistrato remittente che l'individuazione del reato resterebbe affidata alla totale discrezionalità del giudice, al quale sarebbe commesso di "determinare caso per caso (non il fatto, ma) la stessa fattispecie amnistiabile". La prospettata violazione dell'art. 79 Cost. scaturirebbe perciò dal fatto che al potere giudiziario sarebbe attribuito il compito di determinare l'applicazione dell'amnistia con criteri "autonomi e per di più arbitrari", mentre la delega per la concessione dell'amnistia e dell'indulto è conferita in via esclusiva al Presidente della Repubblica. Quello che il pretore definisce un "retaggio di giustizia ritenuta", pur costituzionalmente garantito, deve essere riservato invece rigorosamente al potere cui è stato assegnato.
8. - In tutti i giudizi promossi con tali ordinanze ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, rifacendosi alle ragioni esposte nell'atto di intervento relativo alla questione esposta per prima. Quanto alla prospettata violazione dell'articolo 79 Cost., si osserva, a parte l'inadeguatezza dell'accenno ad un retaggio di giustizia ritenuta, che anche tale censura va a confluire nel problema interpretativo, nel senso che solo con la interpretazione può stabilirsi se sia vero che la norma offre al giudice tali margini di discrezionalità da renderlo arbitro della fattispecie amnistiabile.
Ci si richiama sul punto alle osservazioni già riferite circa la inesistenza di margini di discrezionalità tanto ampi da snaturare la funzione del potere giudiziario, pervenendo alle medesime conclusioni.
9. - In nessuna delle citate ordinanze del pretore di Scicli vengono esposti elementi di fatto atti ad individuare le fattispecie concrete dei singoli procedimenti.
10. - Con ordinanza in data 27 ottobre 1978 (n. 646 del reg. ord. 1978), il pretore di Siracusa sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale del ricordato art. 2, comma primo, lett. c, n. 1, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413, nella parte in cui consente, per i reati di costruzione abusiva, l'applicazione dell'amnistia nelle sole ipotesi di abusi di lieve entità, conferendo al decidente una discrezionalità applicativa che, in concreto, si risolverebbe in disparità di trattamento nei confronti dei singoli imputati con conseguente violazione dell'art. 3 Cost.
L'ordinanza è scheletrica, tanto da non contenere neppure la specifica identificazione della norma denunziata, ricavabile peraltro dal contesto.
Le considerazioni svolte, particolarmente sintetiche, attengono sostanzialmente a quelle che sono state esposte con riferimento alle ordinanze precedenti.
Va altresì precisato che l'ordinanza non contiene riferimento alcuno ai fatti di causa.
Non vi è stata costituzione di parti né intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto:
1. - Con le centoventidue ordinanze dei quattro giudici a quibus vengono sollevate questioni di legittimità costituzionale tutte riferentisi alla stessa norma di legge. Pertanto le cause possono essere riunite e decise con unica sentenza.
2. - Le centosette ordinanze del pretore di Scicli (numeri 671/1978 e 1, 2, 29, 30, 83, 92, 93, 94, da 121 a 195, da 218 a 237, 287, 288, 289/1979), delle quali ben 106 a stampa, sono identiche (tranne una) nella motivazione, ma nessuna di esse reca indicazione alcuna del fatto - reato ascritto all'imputato o agli imputati cui l'ordinanza si riferisce, tutte limitandosi all'affermazione che "il reato in questione è stato commesso ed accertato in data anteriore al 15 marzo 1978".
Alcune di tali ordinanze, poi, non contengono nemmeno l'indicazione del nome dell'imputato, che può desumersi soltanto dall'avvenuta notifica dell'ordinanza alla parte.
Né il riferimento, che le ordinanze naturalmente contengono, alla norma del provvedimento di amnistia n. 413 del 1978, della quale denunziano la incostituzionalità, cioè all'art. 2 (comma secondo), lett. c, n. 1, del detto decreto presidenziale, consente di risalire al reato imputato. Infatti, la citata norma elenca una serie di reati che vengono esclusi dall'amnistia, per alcuni dei quali stabilisce eccezioni alla esclusione. D'altra parte il richiamo che la detta norma fa all'art. 41, lett. b, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e alle successive sue modificazioni, allarga l'ambito delle fattispecie previste.
Pertanto, tutte le questioni sollevate con le dette ordinanze dal pretore di Scicli sono inammissibili, se non altro per l'impossibilità di un qualsiasi controllo sulla rilevanza delle questioni medesime.
Ad eguale conclusione deve pervenirsi a proposito dell'ordinanza (n. 646 del reg. ord. 1978) del pretore di Siracusa, la quale, oltre a non contenere alcun elemento di identificazione del fatto oggetto dell'imputazione, non contiene neppure la specifica indicazione della norma sospettata di incostituzionalità.
3. - Con l'ordinanza del 19 ottobre 1978 (n. 684 del reg. ord. 1978) alla quale fanno riferimento quanto alla motivazione altre sue dodici ordinanze (nn. da 313 a 324 del reg. ord. 1979), il pretore di Nardò, attingendo largamente alle discussioni parlamentari sulla legge 3 agosto 1978, n. 405, con la quale fu delegato il Presidente della Repubblica a concedere l'amnistia, poi concessa col d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413, sottopone a vivace critica, per la loro formulazione ritenuta poco felice dal punto di vista della tecnica legislativa, la legge e il susseguente decreto che l'ha riprodotta letteralmente.
La risultante normativa dell'art. 2, lett. c, n. 1, della legge e del decreto per la sua genericità e imprecisione terminologica, per la imperfetta definizione delle fattispecie legali alle quali si riferisce il provvedimento di clemenza, potrebbe "determinare ... difficoltà interpretative ed applicative insuperabili" e l'attribuzione al giudice di una "illimitata discrezionalità" nell'applicazione della legge, con la conseguente violazione del principio di eguaglianza.
La genericità e imprecisione della legge secondo il giudice a quo avrebbe dovuto essere corretta, con le necessarie tassative specificazioni, dal Presidente della Repubblica nell'emanare il decreto, "in coerenza con il peculiare compito attribuitogli dall'art. 79 della Costituzione".
Ciò non è avvenuto, onde "il sospetto che, in definitiva, l'organo costituzionale, cui era esclusivamente attribuito il compito ora evidenziato, abbia finito col trasferirlo al giudice in via applicativa" con violazione degli artt. 79 e segg. della Costituzione, ai quali nel dispositivo dell'ordinanza vengono aggiunti (oltre il già citato art. 3) gli artt. 55 e segg., 70 e segg., 83 e segg.
Una censura di incostituzionalità meno ampiamente motivata, ma sostanzialmente analoga a quelle sovraesposte viene rivolta all'art. 2, lett. c, n. 1, del d.P.R. n. 413/1978 nonché all'art. 2, lett. c, n. 1, della legge di delegazione n. 405/1978 con riferimento ai soli artt. 3 e 79 della Costituzione, dal pretore di San Pietro Vernotico con l'ordinanza n. 683 del reg. ord. 1978.
Il detto giudice a quo imputa alla norma denunziata di aver posto criteri "vaghi, generici, indifferenziati e oggettivamente non caratterizzati", lasciando così al giudice una "assoluta e sconfinata discrezionalità" con il conseguente pericolo di applicazioni diverse rispetto a situazioni oggettivamente eguali, e perciò con violazione dell'art. 3 della Costituzione. Il pretore di San Pietro Vernotico soggiunge che l'aver di fatto trasferito dal Presidente della Repubblica al giudice la individuazione dei fatti - reato rientranti nell'amnistia si risolve in una violazione dell'art. 79 della Costituzione il quale demanda in via esclusiva al Presidente della Repubblica, su legge di delegazione delle Camere, la concessione dell'amnistia e dell'indulto.
4. - Le questioni non sono fondate.
È discusso in dottrina il rapporto, derivante dalla normativa costituzionale, fra legge di delegazione e decreto presidenziale: né mancano scrittori secondo i quali le Camere non possono disciplinare in tutto e per tutto il provvedimento di clemenza, e il decreto presidenziale non può limitarsi a riprodurre letteralmente il contenuto della legge di delegazione, spettando, invece, al Presidente non soltanto, come è pacifico, il potere - dovere della emanazione del provvedimento nel rispetto dei criteri fissati dalla legge, ma quello della integrazione e specificazione anche tecnica della normativa. Senonché, mentre è pacifico, ed è stato ritenuto dalla Corte (sent. 110/1962), che la legge delegante possa consentire "un qualche potere di scelta" al decreto presidenziale, e che questo, in ogni caso, in un certo ambito di discrezionalità specialmente tecnica, possa meglio specificare i termini della clemenza, deve anche ritenersi acquisita (come espressamente dichiarato dalla Corte con sent. 171/1973) la legittimità costituzionale della prassi secondo la quale la legge delegante disciplina puntualmente il contenuto del provvedimento di clemenza, e il decreto presidenziale lo riproduce testualmente.
Non esiste, dunque, la denunziata violazione dell'art. 79 della Costituzione nel fatto che il d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413 riproduca senza modificazioni e letteralmente le disposizioni della legge 3 agosto 1978, n. 405; né sono pertinenti gli altri parametri citati genericamente e senza alcuna motivazione.
5. - Più delicata si presenta la questione sotto il profilo della possibile violazione del principio di eguaglianza, in sede di applicazione della legge, e a causa della non perfetta puntualizzazione del suo contenuto precettivo, implicando detta questione in primo luogo la determinazione dell'ambito in cui opera l'art. 3 della Costituzione.
Anche senza attribuire valore assoluto alla tesi dell'Avvocatura, che il principio di eguaglianza possa essere invocato solo a proposito delle norme di legge e non mai della loro interpretazione (non potendosi astrattamente escludere l'ipotesi che l'assoluta indeterminatezza della norma si traduca in ineluttabile disparità della sua applicazione, e quindi in concreta diseguaglianza imputabile alla norma stessa), si deve ritenere che una legge la quale nel definire le specie utilizzi concetti di comune esperienza o desumibili da altre fonti legislative e dalla pregressa elaborazione giurisprudenziale non imponga al giudice alcun onere che esorbiti dal normale, anche se difficile, compito della interpretazione.
Non sono poche le norme penali che per la latitudine della loro previsione, non suscettibile di una descrizione tassativa, richiedono, per la loro interpretazione, il ricorso del giudice a concetti di comune esperienza, o - come si esprime la sentenza n. 191 del 1970 - "a nozioni proprie del linguaggio e della intelligenza comuni". Basti menzionare ad esempio: gli artt. 529 c.p. (atti osceni), 594 e 595 (offesa all'onore e decoro e alla reputazione), 591 (abbandono di persona incapace "per altra causa"), 570 (condotta contraria all'ordine e alla morale della famiglia), 705 (commercio non autorizzato di "cose preziose"), 708 (possesso di oggetti di valore non confacenti al proprio stato), 61 nn. 1 e 7 (aggravanti per motivi abbietti e futili e per danno patrimoniale di rilevante gravità), 62 nn. 2 e 4 (attenuanti per motivi di particolare valore morale e sociale e per danno patrimoniale di speciale tenuità).
La Corte ha già avuto occasione di dichiarare che il principio nullum crimen sine lege "non è attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria, o all'uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato" (sent. 27/1961).
Lo stesso pretore di Nardò ricorda che la Corte costituzionale ha negato l'incostituzionalità, per insufficienza di tassatività ed univocità, di concetti quali "onore", "pudore", "osceno", utilizzati dal legislatore e si limita ad obiettare che, nel caso dell'applicazione dell'amnistia, "l'integrazione della fattispecie legale" da parte del giudice sarebbe più difficile, riguardando la sussistenza o meno di una causa estintiva del reato. Differenziazione che non ha pregio alcuno perché sia nel decidere una condanna, sia nell'applicare l'amnistia, è in gioco l'esistenza e l'entità del fatto, ai fini della qualificazione del reato.
Ora è ben vero che la formulazione tecnica del provvedimento di amnistia del 1978, e in ispecie dell'art. 2, lett. c, n. 1, che elenca le esclusioni oggettive dall'amnistia in materia di reati urbanistici con le relative eccezioni, non è particolarmente perspicua e puntuale, sì da rendere - come è stato rilevato in dottrina - disagevole, faticosa e "macchinosa" la sua applicazione. Ma le difficoltà interpretative che la stessa dottrina e le decisioni dei giudici di merito e della Cassazione aiutano a superare, non conducono a escludere la possibilità di una sostanziale uniformità applicativa non inferiore a quella normalmente consentita per non poche altre leggi.
I pretori di Nardò e di San Pietro Vernotico dovevano stabilire se fossero incluse nell'amnistia o escluse da essa violazioni di legge relative a fabbricati di varie dimensioni tutti costruiti senza licenza ed alcuni, inoltre, costruiti in zone soggette a vincolo paesaggistico. In concreto la loro difficoltà di interpretazione si riferiva soltanto alla locuzione (del denunziato art. 2, lett. c, n. 1, del d.P.R. n. 413 del 1978): "salvo che si tratti ... di violazioni che comportino una limitata entità dei volumi illegittimamente realizzati o limitate modifiche nei volumi esistenti, e sempre che non sussista lesione degli interessi pubblici tutelati da vincoli di carattere ... paesaggistico ... previsti da strumenti normativi ed urbanistici sulle aree o edifici interessati".
Lo stabilire in concreto, e rispetto alle singole fattispecie, il valore dei termini "limitata entità" e "limitate modificazioni" richiede senza dubbio un apprezzamento del giudice compreso entro un certo margine di discrezionalità. Ma già la Cassazione, alla quale in definitiva spetta di comporre a unità le eventuali rilevanti differenze interpretative dei giudici di merito, ha avuto occasione di indicare criteri integrativi del precetto letterale della legge desunti sia dalla legislazione relativa all'edilizia economica e popolare, sia dalla individuata volontà del legislatore di escludere dal beneficio dell'amnistia le costruzioni di carattere speculativo e di includervi le piccole unità immobiliari unifamiliari e le costruzioni rurali di piccole dimensioni con riguardo alle necessità elementari e alle esigenze agricole di una famiglia colonica.
E per quanto riguarda poi l'esistenza o inesistenza di interessi pubblici tutelati da vincoli paesaggistici, basta ricordare che la disposizione del decreto di clemenza si riferisce a vincoli "previsti da strumenti normativi ed urbanistici", per escludere che esistano per il giudice difficili problemi di interpretazione, dovendo egli limitarsi ad accertare non l'interesse paesaggistico, ma l'esistenza di quei vincoli legislativi o amministrativi.
Deve dunque escludersi che, pur nella sua non troppo felice formulazione, la impugnata norma del d.P.R. 4 agosto 1973, n. 413 ponga al giudice che deve applicarla insuperabili problemi di interpretazione con la conseguente possibilità di così gravi discriminazioni a danno (o a favore) dei singoli imputati di reati contemplati nel provvedimento di clemenza, da realizzare violazione del principio di eguaglianza fissato nell'art. 3 della Costituzione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, lett. c, n. 1, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413 sollevata dal pretore di Scicli con le centosette ordinanze di cui in epigrafe con riferimento agli artt. 3, 25, 79 e 111 della Costituzione;
dichiara inammissibile la stessa questione di legittimità costituzionale sollevata dal pretore di Siracusa con l'ordinanza di cui in epigrafe con riferimento all'art. 3 della Costituzione;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, lett. c, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413, sollevata dal pretore di Nardò con le tredici ordinanze di cui in epigrafe con riferimento agli artt. 3 e 79 della Costituzione;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, lett. c, n. 1, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413 e dell'art. 2, lett. c, n. l, della legge 3 agosto 1978, n. 405, sollevata dal pretore di San Pietro Vernotico con l'ordinanza di cui in epigrafe con riferimento agli artt. 3 e 79 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI - GIULIO GIONFRIDA - EDOARDO VOLTERRA - GUIDO ASTUTI - MICHELE ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO ELIA - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE - Cancelliere