˙ Sentenza  31/1980 (ECLI:IT:COST:1980:31)
Giudizio:  GIUDIZIO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA POTERI DELLO STATO
Presidente: AMADEI - Redattore:  - Relatore: LA PERGOLA
Udienza Pubblica del 06/04/1980;    Decisione  del 20/03/1980
Deposito del 25/03/1980;    Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  
Massime:  11354
Atti decisi: 

Pronuncia

N. 31

SENTENZA 20 MARZO 1980

Deposito in cancelleria: 25 marzo 1980.

Pres. AMADEI - Rel. LA PERGOLA

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Prof. GUIDO ASTUTI - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da Calderisi Giuseppe, Bises Andrea e Pietroletti Glauco, in nome e per conto del Comitato promotore del referendum abrogativo della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (limitatamente agli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 e a parte degli artt. 11, 12, 13, 14 e 16), ricorso depositato in Cancelleria il 31 gennaio 1979 ed iscritto al n. 4 del registro 1979, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell'ordinanza 24 maggio 1978, dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, che ha dichiarato non aver più corso le operazioni di cui alla richiesta di referendum popolare presentato il 30 giugno 1977, riguardante i suddetti articoli della legge n. 20 del 1962.

Vista l'ordinanza n. 2 dell'8 gennaio 1979, con la quale questa Corte ha dichiarato ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione di cui sopra;

Udito nell'udienza pubblica del 6 aprile 1979 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

Uditi gli avvocati Corrado De Martini e Mauro Mellini per Calderisi Giuseppe, Bises Andrea e Pietroletti Glauco.

Ritenuto in fatto:

1. - Col ricorso in epigrafe Giuseppe Calderisi, Andrea Bises e Glauco Pietroletti, tre dei promotori del referendum abrogativo della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (limitatamente agli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 16) hanno, in rappresentanza dei firmatari della relativa richiesta, sollevato conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato in riferimento all'ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum , depositata presso la cancelleria della Corte di cassazione, con la quale l'Ufficio centrale disponeva la cessazione delle operazioni connesse con detta richiesta.

2. - La suddetta richiesta di referendum era stata presentata il 30 giugno 1977; successivamente l'Ufficio centrale, con ordinanza in data 6 dicembre 1977 e questa Corte con sentenza n. 16 del 1978 ne dichiaravano - rispettivamente, ai sensi dell'art. 32 della legge n. 352 del 1970 e 33 della stessa legge e dell'art. 21. cost. 11 marzo 1953, n. 1 - la legittimità e l'ammissibilità.

3. - Nelle more della procedura, venivano presentate altre otto richieste di referendum abrogativo; di esse tutte, l'Ufficio centrale dichiarava successivamente la legittimità, con la sola eccezione della richiesta riguardante l'art. 5 legge 22 maggio 1975, che veniva escluso dal referendum, in quanto sostituito dall'art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533. Dal canto suo, con sentenza n. 16 del 1978, la Corte dichiarava ammissibili quattro delle otto richieste referendarie sopra menzionate, incluse quelle concernenti la legge 152 del 1975. Dal quesito referendario rimaneva tuttavia eccettuato l'art. 5 di quest'ultima legge, come aveva disposto la citata ordinanza dell'Ufficio centrale. In riferimento a tale ordinanza, i promotori del referendum abrogativo della legge n. 152 del 1975, proponevano quindi, il 7 gennaio 1978, ricorso per conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato; il conflitto era da questa Corte dichiarato ammissibile con ordinanza n. 17 del 1978. Nel corso del giudizio così instaurato, la Corte sollevava d'ufficio, con ordinanza n. 44 del 1978, questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della legge n. 352 del 1970, per possibile contrasto con l'art. 75 Cost.; la questione veniva successivamente decisa con sentenza n. 68 del 1978. Tale pronunzia dichiara l'illegittimità dell'art. 39, in quanto esso dispone che l'abrogazione delle leggi, degli atti legislativi, o delle singole disposizioni, a cui si riferisce il referendum, implichi in ogni caso la cessazione delle relative operazioni. Nella stessa decisione sono enunciati i criteri discretivi che soccorrono l'Ufficio centrale nell'applicare il disposto della norma in questione; criteri che il legislatore aveva, appunto, mancato di stabilire. Lo svolgimento della consultazione popolare resta necessariamente precluso - è stato affermato in quel giudizio - soltanto quando le norme contemplate dalla richiesta referendaria siano state espressamente abrogate, e l'abrogazione non venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia. Diversamente, l'Ufficio centrale è tenuto ad accertare, prima di dichiarare cessate le operazioni in corso, che la nuova normativa abbia modificato i principi ispiratori della legge, dell'atto avente forza di legge, (comunque, dell'intero ed organico corpo) della disciplina preesistente, ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare. Dove non ricorrano siffatti estremi, si rende necessaria una diversa soluzione. I principi costituzionali - è stato al riguardo precisato - esigono da un canto che l'abrogazione non possa non dispiegare i suoi effetti, dall'altro che non vada frustrata l'iniziativa assunta dai promotori del referendum con riguardo alla legislazione preesistente. L'Ufficio centrale dovrà, allora, trasferire dalla normazione anteriore a quella sopravvenuta il quesito referendario che è sottoposto agli elettori.

Il conflitto di attribuzione instaurato dai promotori del referendum veniva conseguentemente deciso con sentenza n. 69 del 1978: l'Ufficio centrale, ha statuito la Corte, non è costituzionalmente investito del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie senza prima aver accertato, secondo i criteri sopra descritti, se le leggi, gli atti legislativi o le singole disposizioni, cui il referendum si riferisce, risultino o no sostanzialmente modificati dalla normazione medio tempore intervenuta.

4. - Nel ricorso introduttivo del presente giudizio, i promotori del referendum deducono che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato alla specie i canoni ermeneutici enunciati nelle suddette pronunzie della Corte. L'organo decidente avrebbe, altresì, trascurato che gli artt. 10 e 11 della legge 10 maggio 1978, n. 170 "Nuove norme sui procedimenti di accusa di cui alla legge 25 gennaio 1962, n. 20", mantengono ancora in vigore - con riguardo ai procedimenti presso la Commissione inquirente, per i quali siano già stati compiuti atti aventi rilevanza istruttoria - le norme della legge n. 20 del 1962, che formavano oggetto della richiesta di referendum : con il risultato che, nei confronti di tali ultime norme, la nuova disciplina non avrebbe prodotto quell'effetto abrogativo al quale l'ulteriore effetto preclusivo della consultazione referendaria è logicamente subordinato. All'erroneo procedimento interpretativo così denunziato sarebbe conseguita la decisione impugnata col ricorso per asserita invasione della sfera garantita ai promotori del referendum. Il conflitto di attribuzione sorgerebbe dunque, con riguardo alla sfera di applicazione dell'istituto del referendum, fra la frazione del corpo elettorale che ha promosso la consultazione elettorale e l'Ufficio centrale, che ha disposto la cessazione delle relative operazioni.

5. - In successive memorie, e all'udienza pubblica del 6 aprile 1979, la difesa dei promotori del referendum ha insistito nelle conclusioni già prese, per dedurre l'ammissibilità e la fondatezza del ricorso. I ricorrenti eccepiscono altresì in via pregiudiziale l'incostituzionalità, vuoi dell'intera legge n. 170 del 1978, per presunto contrasto con gli artt. 1, comma secondo, e 75 Cost., vuoi - in riferimento, oltre che ai citati precetti, all'art. 48 Cost. - dell'art. 3 legge n. 352 del 1970. L'una e l'altra questione di legittimità costituzionale sono prospettate sul presupposto che, una volta indetto il referendum , il potere di abrogare o modificare le norme, investite dalla relativa richiesta, sia sottratto al monopolio del parlamento e restituito al popolo: al quale, si dice, sarebbe così garantito il concreto e diretto esercizio della sovranità che ad esso costituzionalmente appartiene, non importa se in contrasto con gli orientamenti espressi dalla maggioranza parlamentare. La potestà altrimenti devoluta all'organo legislativo incontrerebbe qui un limite di ordine temporale; la legge n. 170 del 1978 - in quanto emanata in ispreto a tal limite, dopo che il referendum sulle norme da essa poste era stato indetto, e allo scopo prevalente di precluderne lo svolgimento - risulterebbe viziata da eccesso di potere e frode alla Costituzione. Nel merito, si afferma che l'Ufficio centrale avrebbe condotto le indagini ad esso riservate assumendo erroneamente che le disposizioni della legge n. 20 del 1962, oggetto della richiesta referendaria, esaurissero la disciplina dei poteri e del funzionamento della Commissione inquirente, e andassero, quindi, poste a raffronto con le sopravvenienti norme della legge n. 170 del 1978 sotto il profilo dei rispettivi principi ispiratori. L'organo decidente avrebbe comunque errato nell'applicazione del criterio prescelto, ritenendo di poter ricostruire detti principi in base alla pura e semplice ricognizione quantitativa delle attribuzioni affidate alla Commissione nella vecchia legge e nella nuova, senza indagarne la natura e senza risalire agli intenti perseguiti dal legislatore nel configurarle. Si osserva altresì dai ricorrenti che gli artt. 10 e 11 della legge n. 170 del 1978, con l'eccettuare dal nuovo regime i procedimenti in corso per i quali siano stati compiuti atti di rilevanza istruttoria, implicherebbe un'ingiustificata discriminazione nel trattamento di chi è soggetto all'attività inquirente della Commissione, e perciò la violazione dell'art. 3 della Costituzione. Alla Corte viene pertanto chiesto di: "in via preliminare ritenere la illegittimità costituzionale della legge 10 maggio 1978, n. 170 perché viziata per eccesso di potere, frode costituzionale, e comunque per contrasto con gli artt. 1, secondo comma, e 75 Cost.; nel merito, dichiarare che all'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni del referendum abrogativo riguardante gli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11 parte, 13, 14 parte, 16 parte della legge 25 gennaio 1962, n. 20, dichiarando al tempo stesso - previa declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 11 legge 10 maggio 1978, n. 170 per contrasto con l'art. 3 Costituzione - che la richiesta di referendum va trasferita agli artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 della legge 10 maggio 1978, n. 170; ovvero, in subordine, dichiarando che la richiesta di referendum va estesa anche agli artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 della legge 10 maggio 1978, n. 170; in ogni caso, annullando conseguentemente l'ordinanza dell'Ufficio centrale in data 25 maggio 1978" (impugnata con il ricorso).

Considerato in diritto:

1. - Con il ricorso in epigrafe tre dei promotori del referendum per l'abrogazione della legge 25 gennaio 1962, n. 20 (limitatamente agli artt. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11 parte, 12 parte, 13 parte, 14 parte, 16 parte) hanno, in rappresentanza dei sottoscrittori della relativa richiesta, sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione. I ricorrenti impugnano l'ordinanza con la quale quell'Ufficio, ex art. 39 della legge n. 352 del 1970, aveva disposto la cessazione delle operazioni connesse con detta richiesta. Con ordinanza n. 2 del 1979, la Corte ha ritenuto la concorrenza dei requisiti prescritti dal primo comma dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953 perché possa aversi conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Tale pronunzia è stata resa, tuttavia, in linea di prima e sommaria delibazione, riservato ogni definitivo giudizio circa l'ammissibilità ed il merito del ricorso.

Rimane, dunque, anzitutto da accertare - definitivamente, in questa sede - se il ricorso in esame sia ammissibile. Si assume dai ricorrenti che il conflitto riguardi la sfera di applicazione dell'istituto del referendum , configurato dal testo costituzionale, ed insorga fra la frazione del corpo elettorale, la quale ha nel nostro caso promosso il referendum e l'Ufficio centrale che ha, dal canto suo, disposto la cessazione delle relative operazioni; si deduce infatti che detto organo ha con l'ordinanza impugnata invaso la sfera garantita ai promotori del referendum, e leso il loro interesse, costituzionalmente protetto, allo svolgimento della consultazione popolare; si chiede pertanto alla Corte di dichiarare che all'Ufficio centrale non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie, e di annullare in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. La Corte ritiene di doversi fermare a considerare il prospettato conflitto sotto il profilo afferente al possibile oggetto della controversia.

2. - Per prima cosa, giova richiamare - in quanto esso viene in rilievo, nella specie, com'è di seguito spiegato - il sistema delle disposizioni emanate con la legge 25 maggio 1970, n. 352 ("Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo"). Ai sensi dell'art. 32 della legge citata, l'Ufficio centrale esamina tutte le richieste referendarie "allo scopo di accertare che siano conformi alle norme di legge": cioè alle norme, poste con legge ordinaria, che governano la procedura conseguente all'iniziativa del referendum abrogativo; il successivo giudizio sull'ammissibilità è invece riservato alla cognizione di questa Corte (ai sensi dell'art. 2 1. cost. 11 marzo 1953, n. 1, e dell'art. 33 della legge n. 352), ed esige che la richiesta referendaria, una volta dichiarata legittima dall'Ufficio centrale, sia esaminata alla stregua della Costituzione, ed in particolare della norma (art. 75, comma secondo, Cost.), la quale individua le categorie di leggi, o di atti aventi forza di legge, eccettuate dal regime dell'abrogazione popolare. Nel citato art. 32 sono poi puntualmente previste le attribuzioni dell'Ufficio centrale nel corso della procedura: esso si pronunzia, in ogni caso, con ordinanza, comunicata e notificata a norma dell'art. 13 della stessa legge n. 352. I presentatori della richiesta referendaria, o i delegati o i rappresentanti dei promotori (cfr. artt. 9, comma primo, 19, comma secondo, della legge n. 352) hanno facoltà di produrre memorie o deduzioni. Dopo di che, l'Ufficio centrale decide in via definitiva, ex art. 32, ultimo comma, sulla legittimità di tutte le richieste depositate.

3. - Si colloca nel quadro della disciplina sopra descritta anche il potere, attribuito all'Ufficio centrale ex art. 39 della legge n. 352.

"Se prima della data di svolgimento del referendum" - dispone testualmente il citato articolo - "la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di esse, cui il referendum si riferisce, siano state abrogate, l'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione dichiara che le operazioni relative non hanno più corso". Di questa disposizione, com'è detto in narrativa, la Corte ha - con sentenza n. 68 del 1978, e nei limiti ivi precisati - dichiarato l'illegittimità costituzionale. Nella stessa pronunzia sono enunciati i criteri che qui soccorrono all'Ufficio centrale nel decidere, ma che il legislatore aveva omesso di adottare. Le operazioni referendarie devono essere in ogni caso fatte cessare - ha in proposito avvertito la Corte - quando le norme, alle quali esse si riferiscono, siano state rimosse col solo mezzo tecnico dell'abrogazione espressa. Dove l'abrogazione sia invece accompagnata da nuova disciplina, sostitutiva delle norme inizialmente contemplate dalla richiesta referendaria, l'Ufficio centrale decide diversamente, secondo i casi: deve disporre la cessazione delle operazioni, se accerta che la più recente disciplina abbia modificato i principi essenziali dell'intero atto legislativo (comunque, dell'organico corpo normativo), ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare; altrimenti, esso deve disporre che il referendum abbia luogo, trasferendo tuttavia il quesito, sul quale sono chiamati a pronunziarsi gli elettori, dalle norme poste in precedenza alle altre che le hanno sostituite (ma non ne hanno, qui, modificato principi ispiratori o singoli precetti). In quest'ultima evenienza, è stato infatti ritenuto, il successivo atto del legislatore produce pur sempre il caratteristico effetto dell'abrogazione: non produce, però, l'ulteriore effetto, che vulnererebbe il disposto dell'art. 75 Cost., di impedire lo svolgimento della consultazione popolare già promossa con riguardo alla legislazione preesistente.

Ora, senza una simile pronunzia, il disposto dell'art. 39 avrebbe - indistintamente in ogni sopravvenienza del fenomeno abrogativo da esso considerato - implicato una corrispondente compressione della sfera di attuazione di un fondamentale istituto del nostro ordinamento, qual è il referendum. La Corte ha stabilito come il congegno di detta norma debba operare, e ne ha rimesso l'applicazione al motivato apprezzamento dell'Ufficio centrale. Ciò - è bene ricordare - proprio al fine di assicurare il rispetto della volontà manifestata dalla frazione del corpo elettorale che ha promosso la consultazione referendaria, e in tutto l'ambito in cui le attribuzioni a questa riconosciute risultano costituzionalmente protette. Ad analoga esigenza risponde, poi, il requisito, enucleato con la citata decisione dal sistema della legge n. 352, che l'Ufficio centrale decida ex art. 39 solo dopo aver sentito chi avanti ad esso rappresenta i promotori del referendum: per questa via è estesa al nostro caso la garanzia procedurale, che troviamo sancita nell'art. 32 della stessa legge.

Le considerazioni testé esposte trovano, ancora, accoglimento e sviluppo nella sentenza n. 69 del 1978, che dirime un precedente conflitto di attribuzione, sollevato dai promotori di altro referendum abrogativo nei confronti dell'Ufficio centrale. Il potere che l'art. 39 configura - è stato affermato in quel giudizio - spetta all'Ufficio centrale, se ed in quanto esso abbia previamente accertato, secondo la sentenza n. 68 del 1978, che ricorrono gli estremi per disporre la cessazione delle operazioni in corso, ed abbia escluso per converso che il referendum vada trasferito dalle norme preesistenti alle nuove. Esaurite le indagini ad esso in proposito riservate, l'Ufficio centrale è d'altra parte investito del potere, come previsto dalla legge, in piena conformità dei principi costituzionali. Il che conferma che questa sua attribuzione, così configurata, sorge necessariamente entro i limiti posti a salvaguardia della sfera riconosciuta ai promotori del referendum .

4. - Delle precedenti sentenze della Corte occorre tener conto nell'esame della specie. I ricorrenti lamentano infatti che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato al caso attuale i canoni ermeneutici in esse indicati. Le norme investite dalla richiesta di referendum , si afferma, non contengono la compiuta, e nemmeno l'essenziale disciplina dei poteri e delle attività procedurali della Commissione inquirente, essendo la materia disciplinata anche in altre sedi normative. L'organo decidente - si soggiunge - avrebbe quindi, nel seguire le prescrizioni di questa Corte, dovuto condurre il suo esame sui contenuti normativi dei singoli disposti, e non, come esso ha invece fatto, sui principi che ispirano rispettivamente la legge n. 20 del 1962 e la legge n. 170 del 1978, intervenuta nelle more della procedura referendaria. Comunque, l'Ufficio centrale avrebbe adoperato uno scorretto metodo di valutazione, ritenendo di poter dedurre tali principi dalla semplice ricognizione quantitativa delle competenze affidate alla Commissione nell'una e nell'altra normativa, senza indagare la complessiva fisionomia dell'organo, la quale sarebbe rimasta fondamentalmente inalterata nella legge n. 170 del 1978. L'Ufficio centrale non avrebbe poi considerato che gli artt. 10 e 11 di quest'ultima legge - con riferimento ai procedimenti di accusa in corso, per i quali siano stati compiuti atti di rilevanza istruttoria - lasciano in vigore le norme già poste dalla legge n. 20 del 1962: con il risultato, si deduce, di sottrarle a quell'effetto abrogativo, che giustificherebbe l'ulteriore effetto impeditivo della consultazione referendaria.

All'interpretazione denunziata come erronea sarebbe infine conseguita la decisione che, col precludere il ricorso alle urne, si assume abbia invaso la sfera, e leso l'interesse dei ricorrenti.

Ma con tutto ciò non si contesta - anzi, si presuppone - che l'Ufficio centrale abbia adempiuto alle indagini, dalle quali ogni sua decisione ex art. 39 deve essere preceduta, ed abbia motivato in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. Non si contesta, nemmeno, che prima di decidere esso abbia sentito i promotori del referendum . Pacificamente, dunque, sussistono i presupposti, in presenza dei quali l'attribuzione del potere qui considerato si concreta, in capo all'Ufficio centrale, precisamente come esige la sentenza n. 69 del 1978. L'attribuzione ha il suo pieno titolo giustificativo proprio in quel che risulta dalle stesse deduzioni dei ricorrenti: l'Ufficio centrale ha valutato la disciplina sopravvenuta in rapporto alle norme che formavano oggetto della richiesta di referendum; siffatta indagine - si deve aggiungere - è evidentemente servita a stabilire non soltanto se fra l'una e l'altra normativa vi fosse corrispondenza di principi ispiratori, ma, anche - e in primo luogo - se ricorresse l'ipotesi della abrogazione configurata dall'art. 39, e con quali effetti temporali. Così atteggiandosi la specie, va allora escluso che la controversia prospettata alla Corte verta sulla titolarità - sull'appartenenza all'Ufficio centrale, appunto - del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie; potere che, peraltro, come si è detto, ha sicuro fondamento nella Costituzione.

Resta il fatto che i ricorrenti denunziano comunque l'invasione della propria sfera, e censurano, a questo riguardo, il modo come l'Ufficio centrale avrebbe deciso. Ma vale in proposito un duplice e concorrente ordine di osservazioni.

Da un lato, siamo di fronte a un potere che si è nella specie esplicato in base ai criteri appositamente stabiliti dalla Corte per tutelare la sfera dei promotori: e che pertanto, ai fini del presente giudizio, questa stessa sfera non può invadere, o ledere altrimenti.

D'altro lato, entro la sfera delle proprie attribuzioni, l'Ufficio centrale è investito di un potere decisorio, e così decide, anche nel nostro caso, con le garanzie procedurali e nelle forme, che si connettono con la sua qualifica di organo decidente. Ad esso, in quanto tale, è dunque garantita una funzione, le cui modalità di esercizio non spetta alla Corte sindacare. Una volta che, come nella specie, si radichi il potere, riconosciuto all'Ufficio centrale, di decidere ex art. 39, la decisione nel merito, che a detto organo è riservata in via esclusiva e definitiva, non può essere censurata in questa sede. Né si può trascurare che nella specifica materia di cui ci occupiamo vige la distinzione, rilevata anche in altre pronunzie (sentenze n.251 del 1975 e 16 del 1978), fra i compiti, rispettivamente attribuiti alla Corte e all'Ufficio centrale, di accertare la conformità delle richieste referendarie, nell'un caso ad un parametro costituzionale, nell'altro alle norme della legge ordinaria. ora, anche le indagini affidate all'Ufficio centrale in sede di applicazione dell'art. 39 involgono - come necessaria operazione dell'interprete, retta dai criteri sopra visti - sia il coordinamento sia la valutazione comparativa di norme, che si succedono nel tempo, sempre sul piano della legge ordinaria e delle fonti normative a questa equiparate: tale, però, non è la sfera in cui la Corte è abilitata ad intervenire; essa è l'altra, autonoma e particolare, del controllo di costituzionalità, che si esercita col giudizio di ammissibilità, ed è la sola, del resto, riservata alla Corte secondo il vigente ordinamento del referendum.

La conclusione raggiunta vale a maggior ragione - anche alla luce di precedenti pronunzie (sentenza n. 289 del 1974) - se si voglia ritenere che il presente giudizio sia stato promosso attribuendo all'Ufficio centrale natura di organo giurisdizionale in senso stretto, con le conseguenze che scaturirebbero da una simile prospettazione del conflitto. Difetta comunque, per le ragioni già dette, la materia propria di un conflitto di attribuzione, di cui la Corte possa conoscere: con il che resta assorbito ogni altro rilievo in ordine all'ammissibilità del ricorso.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 1980.

F.to: LEONETTO AMADEI - EDOARDO VOLTERRA - GUIDO ASTUTI - MICHELE ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO ELIA - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI.

GIOVANNI VITALE - Cancelliere