N. 30
SENTENZA 20 MARZO 1980
Deposito in cancelleria: 25 marzo 1980.
Pres. AMADEI - Rel. LA PERGOLA
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Prof. GUIDO ASTUTI - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da Galli Maria Luisa, Zardini Maria Luisa e Volpe Esperia in nome e per conto del Comitato promotore del referendum abrogativo degli artt. 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554 e 555 del codice penale, ricorso depositato in Cancelleria il 31 gennaio 1979 ed iscritto al n. 3 del registro 1979, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell'ordinanza 24 maggio 1978 dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, che ha dichiarato non aver più corso le operazioni di cui alla richiesta di referendum popolare presentata il 12 luglio 1975, riguardante i suddetti articoli del codice penale.
Vista l'ordinanza n. 1 dell'8 gennaio 1979, con la quale questa Corte ha dichiarato ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione di cui sopra;
udito nell'udienza pubblica del 6 aprile 1979 il Giudice relatore Antonio La Pergola;
uditi gli avvocati Corrado De Martini e Mauro Mellini per Galli Maria Luisa, Zardini Maria Luisa e Volpe Esperia.
Ritenuto in fatto:
1. - Il presente conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato è sollevato da Maria Luisa Galli, Maria Luisa Zardini ed Esperia Volpe, in rappresentanza dei promotori del referendum per l'abrogazione popolare degli artt. 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 554, e 555 del codice penale.
2. - La richiesta del detto referendum era stata presentata il 12 luglio 1975: l'Ufficio centrale, con ordinanza 7 novembre 1975, e la Corte con sentenza 18 dicembre 1975, ne dichiaravano, rispettivamente, ai sensi dell'art. 32 legge n. 352 del 25 maggio 1970 e 33 della stessa legge e dell'art. 2 1. cost. 11 marzo 1953, n. 1, la legittimità e la ammissibilità; questa Corte rilevava peraltro di avere con precedenti pronunzie dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 553, comma primo, (sentenza n. 49 del 1971) e la illegittimità costituzionale parziale dell'art. 546 del codice penale, l'una e l'altra di queste norme figurando fra quelle, per le quali era stata promossa la consultazione elettorale; l'Ufficio centrale, riesaminate in conseguenza le richieste dei promotori, disponeva con ordinanza 7 gennaio 1976, la cessazione delle operazioni referendarie, limitatamente all'art. 553 c.p.
3. - Essendo sopravvenuto lo scioglimento anticipato delle camere, il referendum sulle rimanenti disposizioni del codice penale doveva essere rinviato fino al compimento del termine - in punto di fatto scaduto nel 1978 - quale è appositamente previsto dall'art. 34, commi secondo e terzo, della legge n. 352 del 1970. Il 30 giugno 1977 venivano intanto presentate altre otto richieste di abrogazione popolare. Di esse tutte l'Ufficio centrale dichiarava successivamente la legittimità, con la sola eccezione della richiesta riguardante l'art. 5 legge 22 maggio 1975, n. 152, che veniva escluso dal referendum, in quanto sostituito dall'art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533. Dal canto suo, con sentenza n. 16 del 1978, la Corte dichiarava ammissibili quattro delle otto richieste referendarie sopra menzionate, incluse quelle concernenti la legge n. 152 del 1975: dal quesito referendario rimaneva tuttavia eccettuato l'art. 5 di quest'ultima legge, come aveva disposto la citata ordinanza dell'Ufficio centrale. In riferimento a tale ordinanza, i promotori del referendum abrogativo della legge n. 152 del 1975, proponevano quindi, il 7 gennaio 1978, ricorso per conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato; il conflitto era da questa Corte dichiarato ammissibile con ordinanza n. 17 del 1978. Nel corso del giudizio così instaurato, la Corte sollevava d'ufficio, con ordinanza n. 44 del 1978, questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della legge n. 352 del 1970, per possibile contrasto con l'art. 75 Cost.; la questione veniva successivamente decisa con sentenza n. 68 del 1978. Tale pronunzia dichiara l'illegittimità dell'art. 39, in quanto esso dispone che l'abrogazione delle leggi, degli atti legislativi, delle singole disposizioni, a cui si riferisce il referendum, implichi in ogni caso la cessazione delle relative operazioni. Nella stessa decisione sono enunciati i criteri discretivi che soccorrono l'Ufficio centrale nell'applicare il disposto della norma in questione; criteri che il legislatore aveva, appunto, mancato di stabilire. Lo svolgimento della consultazione popolare resta necessariamente precluso - è stato affermato in quel giudizio - soltanto quando le norme contemplate dalla richiesta referendaria siano state espressamente abrogate, e l'abrogazione non venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia. Diversamente, l'Ufficio centrale è tenuto ad accertare, prima di dichiarare cessate le operazioni in corso, che la nuova normativa abbia modificato i principi ispiratori della legge, dell'atto avente forza di legge, (comunque, dell'intero ed organico corpo) della disciplina preesistente, ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare. Dove non ricorrano siffatti estremi, si rende necessaria una diversa soluzione. I principi costituzionali - è stato al riguardo precisato - esigono da un canto che l'abrogazione non possa non dispiegare i suoi effetti, dall'altro che non vada frustrata l'iniziativa assunta dai promotori del referendum con riguardo alla legislazione preesistente. L'Ufficio centrale dovrà, allora, trasferire dalla normazione anteriore a quella sopravvenuta il quesito referendario che è sottoposto agli elettori.
Il conflitto di attribuzione instaurato dai promotori del referendum veniva conseguentemente deciso con sentenza n 69 del 1978: l'Ufficio centrale, ha statuito la Corte, non è costituzionalmente investito del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie senza prima aver accertato, secondo i criteri sopra descritti, se le leggi, gli atti legislativi o le singole disposizioni, cui il referendum si riferisce, risultino o no sostanzialmente modificati dalla normazione medio tempore intervenuta.
4. - Nel ricorso introduttivo del presente giudizio, i promotori del referendum deducono che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato alla specie i canoni ermeneutici indicati nelle suddette pronunzie della Corte. L'organo decidente avrebbe, altresì, erroneamente assunto che la legge n. 194 del 1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza abbia spiegato, nei confronti della preesistente disciplina dell'aborto di donna consenziente dettata dal codice penale - e per la quale era stato richiesto il referendum - quell'effetto abrogativo che è necessario presupposto dell'ulteriore effetto preclusivo del referendum, qual è previsto nell'art. 39 legge n. 352 del 1970. A tale erroneo procedimento interpretativo sarebbe conseguita l'ordinanza che è impugnata con il ricorso per asserita invasione della sfera dei promotori. Il conflitto prospettato alla Corte sorgerebbe dunque, con riguardo alla sfera di applicazione del referendum, fra la frazione del corpo elettorale, che ha promosso il referendum e l'Ufficio centrale, che ha disposto la cessazione delle relative operazioni. Con ordinanza n. 1 del 1979 questa Corte ha in via di prima e sommaria delibazione dichiarato l'ammissibilità del ricorso proposto. I ricorrenti hanno curato gli adempimenti di rito.
5. - In successive memorie, e all'udienza pubblica del 6 aprile 1979, la difesa dei promotori del referendum ha insistito nelle conclusioni già prese, per dedurre l'ammissibilità e la fondatezza del ricorso. I ricorrenti eccepiscono altresì in via pregiudiziale l'incostituzionalità, vuoi dell'intera legge n. 194 del 1978, per presunto contrasto con gli artt. 1, comma secondo, e 75 Cost., vuoi - in riferimento, oltre che ai citati precetti, all'art. 48 Cost. - dell'art. 3 legge n. 352 del 1970. L'una e l'altra questione di legittimità costituzionale sono prospettate sul presupposto che, una volta indetto il referendum, il potere di abrogare o modificare le norme, investite dalla relativa richiesta, sia sottratto al monopolio del parlamento e restituito al popolo: al quale, si dice, sarebbe così garantito il concreto e diretto esercizio della sovranità che ad esso costituzionalmente appartiene, non importa se in contrasto con gli orientamenti espressi dalla maggioranza parlamentare. La potestà altrimenti devoluta all'organo legislativo incontrerebbe qui un limite di ordine temporale; la legge n. 194 del 1978 - in quanto emanata in ispregio a tal limite, dopo che il referendum sulle norme da essa poste era stato indetto, e allo scopo prevalente di precluderne lo svolgimento - risulterebbe viziata da eccesso di potere e frode alla Costituzione. Nel merito, si afferma che la disciplina dell'aborto di donna consenziente, posta dal codice penale, così come modificata dalla sentenza della Corte, con la quale ne è stata dichiarata l'illegittimità parziale (sentenza n. 27 del 1975) rispondeva già, sostanzialmente, agli stessi principi che hanno più di recente informato la legge sull'interruzione volontaria della gravidanza. Si osserva, inoltre, che quest'ultima legge dispone per un verso - con l'art. 22, comma primo - l'abrogazione dell'intero titolo decimo del codice penale, ma per l'altro contiene, all'art. 22, ultimo comma, un'espressa statuizione, in forza della quale deve ritenersi che l'art. 546 c.p. "aborto di donna consenziente" e l'art. 549 "morte o lesione della donna" siano mantenuti in vigore con riguardo ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della nuova legge. L'art. 22, ultimo comma, è infatti così testualmente formulato: "Salvo che sia stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per reato di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della nuova legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli artt. 4 e 6 (della legge n. 194)". Ove invece si ritenesse - proseguono i ricorrenti - che la disposizione testé citata configuri altro illecito penale, distinto dai reati previsti sia dall'art. 546 del codice penale, sia dall'art. 19 della legge n. 194, ne seguirebbe che, in base ad essa, vengono penalmente sanzionati fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge che li considera come reati: e allora la Corte dovrebbe sollevare innanzi a se stessa la questione di legittimità costituzionale di detta norma, in riferimento al disposto dell'art. 25 Cost. I ricorrenti deducono dunque che il referendum, del quale l'Ufficio centrale avrebbe indebitamente impedito lo svolgimento, debba invece avere luogo con riguardo all'art. 19 della legge n. 194 del 1978. Nel relativo quesito andrebbero incluse le norme del codice penale 546 e 549, comma secondo, delle quali si assume la permanenza in vigore, nonché l'art. 22, comma terzo, della legge n. 194, da cui si fa appunto discendere la perdurante efficacia delle prime. Ciò sempre sull'assunto che la norma della nuova legge la quale sanziona penalmente l'interruzione volontaria della gravidanza, lasci sostanzialmente inalterati i principi ispiratori delle norme incriminatrici dell'aborto di donna consenziente, contenute nel codice penale.
Alla Corte è pertanto chiesto di: "in via preliminare ritenere l'illegittimità costituzionale della legge 22 maggio 1978 n. 194 perché viziata per eccesso di potere, frode costituzionale, e comunque per contrasto con gli articoli 1, secondo comma, e 75 Cost.; nel merito, dichiarare che all'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni del referendum abrogativo degli artt. 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554, 555 del codice penale r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, dichiarando al tempo stesso - previa declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 22 legge 22 maggio 1978, n. 194, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost. - che la richiesta di referendum deve essere limitata agli artt. 546 e 549, secondo comma, codice penale ed estesa all'art. 19 legge 22 maggio 1978, n. 194; ovvero in subordine dichiarando che la richiesta di referendum deve essere limitata agli artt. 546 e 549, secondo comma, codice penale ed estesa agli artt. 19 e 22 legge 22 maggio 1978, n. 194; in ogni caso, annullando conseguentemente l'ordinanza dell'Ufficio centrale in data 26 maggio 1978". (Impugnata con il ricorso).
Considerato in diritto:
1. - Con il ricorso in epigrafe tre dei promotori del referendum per l'abrogazione degli artt. 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 554 e 555 del codice penale, hanno, in rappresentanza dei sottoscrittori della relativa richiesta, sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione. I ricorrenti impugnano l'ordinanza con la quale quell'Ufficio, ex art. 39 della legge n. 352 del 1970, aveva disposto la cessazione delle operazioni connesse con detta richiesta. Con ordinanza n. 1 del 1979, la Corte ha ritenuto la concorrenza dei requisiti prescritti dal primo comma dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953 perché possa aversi conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Tale pronunzia è stata resa, tuttavia, in linea di prima e sommaria delibazione, riservato ogni definitivo giudizio circa l'ammissibilità ed il merito del ricorso.
Rimane, dunque, anzitutto da accertare - definitivamente, in questa sede - se il ricorso in esame sia ammissibile. Si assume dai ricorrenti che il conflitto riguardi la sfera di applicazione dell'istituto del referendum, configurato dal testo costituzionale, ed insorga tra la frazione del corpo elettorale, la quale ha nel nostro caso promosso il referendum e l'Ufficio centrale che ha, dal canto suo, disposto la cessazione delle relative operazioni; si deduce infatti che detto organo ha con l'ordinanza impugnata invaso la sfera garantita ai promotori del referendum, e leso il loro interesse, costituzionalmente protetto, allo svolgimento della consultazione popolare; si chiede pertanto alla Corte di dichiarare che all'Ufficio centrale non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie, e di annullare in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. La Corte ritiene di doversi fermare a considerare il prospettato conflitto sotto il profilo afferente al possibile oggetto della controversia.
2. - Per prima cosa, giova richiamare - in quanto esso viene in rilievo nella specie, com'è di seguito spiegato - il sistema delle disposizioni emanate con la legge 25 maggio 1970, n. 352 ("Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo"). Ai sensi dell'art. 32 della legge citata, l'Ufficio centrale esamina tutte le richieste referendarie "allo scopo di accertare che siano conformi alle norme di legge": cioè alle norme, poste con legge ordinaria, che governano la procedura conseguente alla iniziativa del referendum abrogativo; il successivo giudizio sull'ammissibilità è invece riservato alla cognizione di questa Corte (ai sensi dell'art. 2 1. cost. 11 marzo 1953, n. 1, e dell'art. 33 della legge n. 352), ed esige che la richiesta referendaria, una volta dichiarata legittima dall'Ufficio centrale, sia esaminata alla stregua della Costituzione, ed in particolare della norma (art. 75, comma secondo, Cost.), la quale individua le categorie di leggi, o di atti aventi forza di legge, eccettuate dal regime dell'abrogazione popolare. Nel citato art. 32 sono poi puntualmente previste le attribuzioni dell'Ufficio centrale nel corso della procedura: esso si pronunzia, in ogni caso, con ordinanza, comunicata e notificata a norma dell'art. 13 della stessa legge n. 352. I presentatori della richiesta referendaria, o i delegati o i rappresentanti dei promotori (cfr. artt. 9, comma primo, 19, comma secondo, della legge n. 352) hanno facoltà di produrre memorie o deduzioni. Dopo di che, l'Ufficio centrale decide in via definitiva, ex art. 32, ultimo comma, sulla legittimità di tutte le richieste depositate.
3. - Si colloca nel quadro della disciplina sopra descritta anche il potere, attribuito all'Ufficio centrale ex art. 39 della legge n. 352.
"Se prima della data di svolgimento del referendum" - dispone testualmente il citato articolo - "la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di esse, cui il referendum si riferisce, siano state abrogate, l'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione dichiara che le operazioni relative non hanno più corso". Di questa disposizione, com'è detto in narrativa, la Corte ha - con sentenza n. 68 del 1978, e nei limiti ivi precisati - dichiarato l'illegittimità costituzionale. Nella stessa pronunzia sono enunciati i criteri che qui soccorrono all'Ufficio centrale nel decidere, ma che il legislatore aveva omesso di adottare. Le operazioni referendarie devono essere in ogni caso fatte cessare - ha in proposito avvertito la Corte - quando le norme, alle quali esse si riferiscono, siano state rimosse col solo mezzo tecnico dell'abrogazione espressa. Dove l'abrogazione sia invece accompagnata da nuova disciplina, sostitutiva delle norme inizialmente contemplate dalla richiesta referendaria, l'Ufficio centrale decide diversamente, secondo i casi: deve disporre la cessazione delle operazioni, se accerta che la più recente disciplina abbia modificato i principi essenziali dell'intero atto legislativo (comunque, dell'organico corpo normativo), ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare; altrimenti, esso deve disporre che il referendum abbia luogo, trasferendo tuttavia il quesito, sul quale sono chiamati a pronunziarsi gli elettori, dalle norme poste in precedenza alle altre, che le hanno sostituite (ma non ne hanno, qui, modificato principi ispiratori o singoli precetti). In quest'ultima evenienza, è stato infatti ritenuto, il successivo atto del legislatore produce pur sempre il caratteristico effetto dell'abrogazione: non produce, però, l'ulteriore effetto, che vulnererebbe il disposto dell'art. 75 Cost., di impedire lo svolgimento della consultazione popolare già promossa con riguardo alla legislazione preesistente.
Ora, senza una simile pronunzia, il disposto dell'art. 39 avrebbe - indistintamente in ogni sopravvenienza del fenomeno abrogativo da esso considerato - implicato una corrispondente compressione della sfera di attuazione di un fondamentale istituto del nostro ordinamento, qual è il referendum . La Corte ha stabilito come il congegno di detta norma debba operare, e ne ha rimesso l'applicazione al motivato apprezzamento dell'Ufficio centrale. Ciò - è bene ricordare - proprio al fine di assicurare il rispetto della volontà manifestata dalla frazione del corpo elettorale che ha promosso la consultazione referendaria, e in tutto l'ambito in cui le attribuzioni a questa riconosciute risultano costituzionalmente protette. Ad analoga esigenza risponde, poi, il requisito, enucleato con la citata decisione dal sistema della legge n. 352, che l'Ufficio centrale decida ex art. 39 solo dopo aver sentito chi avanti ad esso rappresenta i promotori del referendum: per questa via è estesa al nostro caso la garanzia procedurale, che troviamo sancita nell'art. 32 della stessa legge.
Le considerazioni testé esposte trovano, ancora, accoglimento e sviluppo nella sentenza n. 69 del 1978, che dirime un precedente conflitto di attribuzione, sollevato dai promotori di altro referendum abrogativo nei confronti dell'Ufficio centrale. Il potere che l'art. 39 configura - è stato affermato in quel giudizio - spetta all'Ufficio centrale, se ed in quanto esso abbia previamente accertato, secondo la sentenza n. 68 del 1978, che ricorrono gli estremi per disporre la cessazione delle operazioni in corso, ed abbia escluso per converso che il referendum vada trasferito dalle norme preesistenti alle nuove. Esaurite le indagini ad esso in proposito riservate, l'Ufficio centrale è d'altra parte investito del potere, come previsto dalla legge, in piena conformità dei principi costituzionali. Il che conferma che questa sua attribuzione, così configurata, sorge necessariamente entro i limiti posti a salvaguardia della sfera riconosciuta ai promotori del referendum .
4. - Delle precedenti sentenze della Corte occorre tener conto nell'esame della specie. I ricorrenti lamentano infatti che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato al caso attuale i canoni ermeneutici in esse indicati. L'organo decidente, si afferma, ha ravvisato una sostanziale diversità fra i principi che ispirano la disciplina dell'aborto di donna consenziente posta dal codice penale, per la quale è stato richiesto il referendum, ed il successivo regime dell'interruzione volontaria della gravidanza, introdotto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 ("Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"): laddove, si soggiunge, esso avrebbe dovuto ritenere il contrario. L'art. 22 della legge citata, si osserva poi, dispone sì, per un verso, al comma primo, l'abrogazione espressa dell'intero titolo X del codice penale, ma per l'altro, all'ultimo comma, mantiene ancora in vigore l'art. 546 (aborto di donna consenziente) nonché l'art. 549, secondo comma, (morte o lesione della donna) del codice penale, con riguardo ai fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della stessa legge n. 194. L'Ufficio centrale sarebbe quindi, anche qui, incorso in errore, ritenendo che la nuova legge abbia,. nei confronti di dette norme del codice, dispiegato quell'effetto abrogativo, al quale l'ulteriore effetto impeditivo della consultazione referendaria è logicamente subordinato.
All'interpretazione denunziata come erronea sarebbe infine conseguita la decisione che, col precludere il ricorso alle urne, si assume abbia invaso la sfera, e leso l'interesse dei ricorrenti.
Ma con tutto ciò non si contesta - anzi, si presuppone - che l'Ufficio centrale abbia adempiuto alle indagini, dalle quali ogni sua decisione ex art. 39 deve essere preceduta, ed abbia motivato in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. Non si contesta, nemmeno, che prima di decidere esso abbia sentito i promotori del referendum . Pacificamente, dunque, sussistono i presupposti, in presenza dei quali l'attribuzione del potere qui considerato si concreta, in capo all'Ufficio centrale, precisamente come esige la sentenza n. 69 del 1978. L'attribuzione ha il suo pieno titolo giustificativo proprio in quel che risulta dalle stesse deduzioni dei ricorrenti: l'Ufficio centrale ha valutato la disciplina sopravvenuta in rapporto alle norme che formavano oggetto della richiesta di referendum; siffatta indagine - si deve aggiungere - è evidentemente servita a stabilire non soltanto se fra l'una e l'altra normativa vi fosse corrispondenza di principi ispiratori, ma, anche - e in primo luogo - se ricorresse l'ipotesi dell'abrogazione configurata dall'art. 39, e con quali effetti temporali. Così atteggiandosi la specie, va allora escluso che la controversia prospettata alla Corte verta sulla titolarità - sull'appartenenza all'Ufficio centrale, appunto - del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie; potere che peraltro, come si è detto, ha sicuro fondamento nella Costituzione.
Resta il fatto che i ricorrenti denunziano comunque l'invasione della propria sfera, e censurano, a questo riguardo, il modo come l'Ufficio centrale avrebbe deciso. Ma vale in proposito un duplice e concorrente ordine di osservazioni.
Da un lato, siamo di fronte a un potere che si è nella specie esplicato in base ai criteri appositamente stabiliti dalla Corte per tutelare la sfera dei promotori: e che pertanto, ai fini del presente giudizio, questa stessa sfera non può invadere, o ledere altrimenti.
D'altro lato, entro la sfera delle proprie attribuzioni, l'Ufficio centrale è investito di un potere decisorio: e così decide, anche nel nostro caso, con le garanzie procedurali e nelle forme, che si connettono con la sua qualifica di organo decidente. Ad esso, in quanto tale, è dunque garantita una funzione, le cui modalità di esercizio non spetta alla Corte sindacare. Una volta che, come nella specie, si radichi il potere, riconosciuto all'Ufficio centrale, di decidere ex art. 39, la decisione nel merito, che a detto organo è riservata in via esclusiva e definitiva, non può essere censurata in questa sede. Né si può trascurare che nella specifica materia di cui ci occupiamo vige la distinzione, rilevata anche in altre pronunzie (sentenze n. 251 del 1975 e 16 del 1978), fra i compiti, rispettivamente attribuiti alla Corte e all'Ufficio centrale, di accertare la conformità delle richieste referendarie, nell'un caso ad un parametro costituzionale, nell'altro alle norme della legge ordinaria. Ora, anche le indagini affidate all'Ufficio centrale in sede di applicazione dell'art. 39 involgono - come necessaria operazione dell'interprete, retta dai criteri sopra visti - sia il coordinamento sia la valutazione comparativa di norme, che si succedono nel tempo, sempre sul piano della legge ordinaria e delle fonti normative a questa equiparate: tale, però, non è la sfera in cui la Corte è abilitata ad intervenire; essa è l'altra, autonoma e particolare, del controllo di costituzionalità, che si esercita col giudizio di ammissibilità, ed è la sola, del resto, riservata alla Corte secondo il vigente ordinamento del referendum .
La conclusione raggiunta vale a maggior ragione - anche alla luce di precedenti pronunzie (sentenza n. 289 del 1974) - se si voglia ritenere che il presente giudizio sia stato promosso attribuendo all'Ufficio centrale natura di organo giurisdizionale in senso stretto, con le conseguenze che scaturirebbero da una simile prospettazione del conflitto. Difetta comunque, per le ragioni già dette, la materia propria di un conflitto di attribuzione, di cui la Corte possa conoscere: con il che resta assorbito ogni altro rilievo in ordine all'ammissibilità del ricorso.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI - EDOARDO VOLTERRA - GUIDO ASTUTI - MICHELE ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO ELIA - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE - Cancelliere