N. 21
SENTENZA 22 FEBBRAIO 1980
Deposito in cancelleria: 27 febbraio 1980.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 64 del 5 marzo 1980.
Pres. AMADEI - Rel. ELIA
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente - Dott. GIULIO GIONFRIDA - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. LEOPOLDO ELIA - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma primo, del d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411 ("Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70"), con riferimento all'art. 35 ed all'allegato n. 6 del medesimo decreto promosso con ordinanza emessa il 17 gennaio 1977 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sui ricorsi proposti da Bivona Maria Felicia ed altri contro il Presidente del Consiglio dei ministri e l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, iscritta al n. 115 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 128 del 10 maggio 1978.
Visti gli atti di costituzione di Evangelista Romeo e De Giovanni Franco, di Cima Bruno ed altri e dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 ottobre 1979 il Giudice relatore Leopoldo Elia;
uditi gli avvocati Nicola Picardi per Cima Bruno ed altri, Gino Sacerdoti per l'INPS, Federico Sorrentino (delegato dall'avv. Antonio Sorrentino) per Evangelista Romeo e De Giovanni Franco e il sostituto avvocato generale dello Stato Paolo D'Amico, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto:
1. - Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza emessa il 17 gennaio 1977, sollevava questione di costituzionalità dell'art. 44, primo comma, del d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411, recante "Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70", che regola l'inquadramento del personale appartenente ai ruoli transitori speciali attribuendogli, a decorrere dal 1 ottobre 1973, la qualifica spettante ai dipendenti dei ruoli ordinari con posizione giuridica o solo economica equiparabile, per contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione e con riferimento all'art. 35 ed all'allegato n. 6 del medesimo decreto che regolano l'inquadramento del personale appartenente ai ruoli ordinari; avendo riguardo anche a quanto dispone l'art. 5 della legge 20 marzo 1975, n. 70, secondo cui il personale degli enti pubblici deve essere assunto mediante concorso.
Il denunziato decreto presidenziale - che il T.A.R., con sentenza interlocutoria (invero non inserita nel fascicolo trasmesso alla Corte) emessa in pari data (come risulta dall'ordinanza di rimessione), aveva ritenuto atto avente forza di legge e cioè decreto legislativo - prevede un meccanismo di inquadramento, fondato sulla equiparazione della qualifica o, alternativamente, del trattamento economico che svantaggerebbe gli impiegati di ruolo ordinario. La qualifica di costoro, infatti, viene determinata, ai sensi dell'art. 35 dello stesso decreto e della allegata tabella n. 6, avendo riguardo al solo servizio di ruolo prestato ed alle sole qualifiche effettivamente conseguite nello svolgimento della carriera; la qualifica degli impiegati dei ruoli transitori speciali viene determinata invece tenendo conto del servizio non di ruolo prestato e degli emolumenti percepiti a titolo di beneficio meramente economico, senza corrispondenza funzionale con le mansioni esercitate. Tale meccanismo, del tutto incompatibile con la stessa finalità di riassetto degli organici degli enti pubblici perseguita dal decreto, contrasterebbe con i principi di eguaglianza ed imparzialità che esigono uniforme trattamento di situazioni omogenee e diverso di situazioni eterogenee.
L'ordinanza stessa, regolarmente notificata e comunicata, veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 128 del 10 maggio 1978.
2. - Nel giudizio innanzi a questa Corte interveniva la Presidenza del Consiglio attraverso l'Avvocatura dello Stato.
Riteneva il Presidente del Consiglio intervenuto esatta la decisione del T.A.R. in ordine alla natura del decreto presidenziale impugnato, esistendo in Costituzione una precisa riserva di legge in materia organizzativa (art. 97), apparendo decisiva la circostanza che il trattamento economico dei dipendenti delle Regioni, secondo la stessa legge (art. 35), deve essere disciplinato con legge regionale e dovendo ritenersi il tempo di emanazione del decreto sufficientemente determinato in rapporto sia agli atti del complesso procedimento onde è preceduto sia alle scadenze triennali previste. I lavori preparatori, d'altra parte, nella loro contraddittorietà non offrirebbero elementi significativi in contrasto con tali conclusioni.
Nel merito peraltro il Presidente del Consiglio chiedeva che la Corte si pronunziasse nel senso della manifesta infondatezza. osservava infatti che, ove i dipendenti già inseriti nei ruoli transitori speciali fossero stati inquadrati nel nuovo ordinamento solo in base alla qualifica ottenuta ed alla funzione svolta, non si sarebbe tenuto conto del fatto che la loro carriera era risultata assai più lenta nel suo svolgimento della carriera di coloro che appartenevano ai ruoli ordinari. A fini appunto di giustizia era stato allora preso in considerazione anche il solo trattamento economico correlato all'attività di servizio. Né potrebbe, d'altra parte, essere considerata con sfavore una norma volta a sanare per il passato assunzioni avvenute senza concorso, essendo stato stabilito solo con la normativa del 1970 e del 1975 in modo inderogabile il principio secondo cui unico modo di accesso al pubblico impiego è il concorso.
3. - Si costituiva l'Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale deducendo l'infondatezza della questione sulla base di rilievi non dissimili rispetto a quelli svolti dall'Avvocatura dello Stato.
Si costituivano i controinteressati Evangelista Romeo e De Giovanni Franco i quali eccepivano l'irrilevanza della questione. Nel giudizio a quo, asserivano, il ricorso era innanzi tutto originato dall'inquadramento nel ruolo di collaboratori dei dirigenti dei ruoli ordinari e solo in connessione con tale motivo si lamentava l'inquadramento degli ex appartenenti ai ruoli transitori speciali in posizione più favorevole; l'interesse dunque dei ricorrenti, che giuridicamente sostiene il ricorso, non era rivolto a produrre un mero danno ad altri ma ad acquisire un vantaggio. Il T.A.R., con sentenza interlocutoria, ha dichiarato inammissibile, perché rivolta contro atti aventi forza di legge, la censura relativa all'inquadramento dei dirigenti del ruolo ordinario nella qualifica di collaboratori; ha poi sollevato questione di costituzionalità in ordine alla norma che regola l'inquadramento dei dirigenti dei ruoli transitori speciali rompendo il nesso che univa le due censure e riducendo la materia del contendere ad una inammissibile richiesta di altrui danno senza vantaggio proprio. Si ravviserebbe dunque l'opportunità di rimettere gli atti al giudice a quo, perché valuti più attentamente la rilevanza della questione proposta e comunque motivi più diffusamente sul punto.
Nel merito i controinteressati chiedevano pronunzia di rigetto con argomenti simili a quelli già svolti dalla difesa dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e dall'Avvocatura dello Stato.
Si costituivano anche i ricorrenti nel processo a quo i quali osservavano che la questione è inammissibile, atteso che il d.P.R. n. 411 del 1976 impugnato non ha forza di legge. Se la legge che fonda tale d.P.R. dovesse considerarsi legge delega verrebbe a contrastare con l'art. 76 della Costituzione mancando di tutti i requisiti richiesti da tale norma.
Nel merito, in ogni caso, sarebbe evidente la sperequazione che si viene a creare tra appartenenti ai ruoli transitori speciali ed appartenenti ai ruoli ordinari. Dietro un'apparente equiparazione in realtà la normativa finisce con il preferire proprio i primi, i quali conservano la qualifica dirigenziale a danno dei secondi che sono inseriti nella qualifica di collaboratori, cui sono affidati compiti, come precisa l'allegato n. 1, puramente preparatori, istruttori ed esecutivi e sarebbe evidente come tale sperequazione a danno proprio di coloro che sono entrati in seguito a concorso contrasti con i dettami del principio di eguaglianza e di imparzialità.
La censura di costituzionalità peraltro dovrebbe investire non l'impugnato art. 44 del d.P.R. n. 411 del 1976 che concerne i ruoli transitori speciali ma l'art. 35 del medesimo d.P.R., invocato come termine di raffronto, il quale concerne appunto gli impiegati dei ruoli ordinari e dunque regola la posizione dei ricorrenti. Se violazione del principio di eguaglianza ed imparzialità esiste, essa tocca proprio la mancata immissione nella qualifica dirigenziale di chi tale qualifica aveva già conseguito nei ruoli ordinari.
Per raggiungere tale scopo la Corte potrebbe sollevare innanzi a sé questione di costituzionalità relativamente all'art. 35 del d.P.R. n. 411 del 1976, considerandolo rilevante nel giudizio attuale che concerne propriamente l'art. 44, in quanto una pronunzia di accoglimento che, incidendo sull'articolo 35, eliminasse la sperequazione, condizionerebbe anche la decisione sull'art. 44. La Corte potrebbe anche rimettere gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza, nella prospettiva indicata.
Con successive memorie ed all'udienza del 24 ottobre 1979 le parti costituite svolgevano ulteriormente i rispettivi assunti.
Considerato in diritto:
Tra le eccezion; pregiudiziali viene in evidenza quella che nega al d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411 la natura di atto avente forza di legge.
L'eccezione è fondata.
In effetti il d.P.R. né si qualifica espressamente come atto emesso in base a legge di delegazione ex artt. 76 e 77, primo comma, Cost., né manifesta altrimenti la volontà del Governo di farlo valere come legge delegata. Inoltre non risulta in alcun modo che il legislatore, con l'art. 28 della legge 20 marzo 1975, n. 70, abbia inteso conferire all'autorità governativa il potere di approvare un testo avente forza di legge: e ciò solo sarebbe sufficiente per escluderne la sindacabilità in questa sede (tra le altre, sentt. n. 4 del 1958 e 150 del 1967).
Ma si può aggiungere che quando, con altre disposizioni della stessa legge n. 70 del 1975, si è voluto delegare al Governo la potestà legislativa, lo si è fatto in termini assolutamente inequivocabili (art. 3 in tema di conferma, ristrutturazione e soppressione di enti pubblici).
A escludere poi che il d.P.R. n. 411 del 1976 possa ritenersi atto avente forza di legge giova, ad abundantiam, la considerazione che se con l'art. 28 della legge 20 marzo 1975, n. 70 si fosse voluto davvero conferire una delega legislativa al Governo, questa verrebbe senza dubbio a porsi in contrasto con le condizioni prescritte nell'art. 76 Cost.: lasciando da parte la specificazione degli oggetti delegati e la prefissione dei principi e dei criteri direttivi, è evidente che fa difetto la previsione del momento finale del termine per l'esercizio della potestà delegata. Tale non può certo considerarsi la scadenza del triennio di durata degli accordi previsti dalla legge n. 70 del 1975 (art. 26, ultimo comma), perché questa evenienza produce soltanto la necessità di una nuova ipotesi di accordo sindacale e di una nuova disciplina da sottoporre all'approvazione del Consiglio dei ministri.
Non vale perciò richiamarsi alla sentenza di questa Corte n. 163 del 1963 giacché altro è che il termine sia fissato in via indiretta con l'indicazione di un evento futuro ma certo, altro è che il termine, come limite finale alla durata del potere conferito, non sia affatto previsto, risultando stabilite soltanto le scadenze entro le quali un potere permanente, seppur non continuo, dovrebbe essere esercitato.
Anche a prescindere dal problema della legittimità di deleghe attuabili con esercizio ripetuto e non istantaneo della potestà delegata, l'art. 26 violerebbe la prescrizione costituzionale sulla "temporaneità" della delegazione legislativa, volta appunto a precludere la facoltà di conferire al Governo deleghe a tempo indeterminato (sent. n. 163 del 1963).
La reiterazione triennale degli accordi e delle deliberazioni del Consiglio dei ministri conferma dunque che non si tratta in questa fattispecie di una delegazione di potere legislativo, ma di una devoluzione istituzionale di potere normativo con le procedure particolari indicate nelle leggi che tengono conto della contrattazione collettiva nei vari settori del pubblico impiego. E va da sé che, nel dubbio, debba accogliersi una interpretazione degli artt. 26 - 28 della legge n. 70 del 1975 compatibile con il rispetto delle norme costituzionali.
Le considerazioni fin qui formulate a favore della inammissibilità non sono superabili con gli argomenti fatti valere in contrario da taluni giudici e, in questa sede, dall'Avvocatura dello Stato. Invero, la contrattazione collettiva nel pubblico impiego, nelle forme e nei limiti in cui è riconosciuta e recepita secondo le leggi dell'ultimo decennio, costituisce una innovazione così significativa ed importante nel nostro ordinamento (e con tratti così peculiari), che non è possibile inquadrarla negli schemi richiamati a proposito della legge di delegazione 14 luglio 1959, n. 741 (norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori).
Inoltre il carattere della "innovatività", da riconoscere senz'altro ad alcune norme del d.P.R. n. 411 del 1976 anche rispetto a precetti legislativi di grado primario, non presuppone affatto il carattere legislativo del decreto, avendo la legge n. 70 del 1975 aperto larghi spazi alla normazione secondaria, nel quadro della riserva di legge relativa prevista dall'art. 97 Cost. Né vale riferirsi in contrario alla previsione dell'art. 35, legge n. 70 del 1975, secondo cui lo stato giuridico, il trattamento economico e l'indennità di fine servizio del personale degli enti pubblici sottoposti al controllo o alla vigilanza delle Regioni sono disciplinati con leggi regionali: giacché in questo caso la adozione dello strumento legislativo regionale era resa necessaria dall'art. 117, primo comma, Cost., secondo cui è la legge della regione l'atto normativo che deve porsi in relazione diretta con i principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato (in questo caso dalla legge n. 70 del 1975). AL carattere obbligato della previsione contenuta in proposito nell'art. 35, si contrappone la situazione relativamente libera del legislatore statale che poteva scegliere tra legge ordinaria, legge delegata ed atto di normazione secondaria. Infine non interessa qui accertare il carattere regolamentare o meno di quest'atto: restando così assorbito ogni altro rilievo circa la peculiarità del procedimento di formazione dell'atto stesso.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411, sollevata dal Tribunale amministrativo del Lazio con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI - GIULIO GIONFRIDA - EDOARDO VOLTERRA - MICHELE ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - LEOPOLDO ELIA - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE - Cancelliere