Reg. ord. n. 61 del 2025 pubbl. su G.U. del 16/04/2025 n. 16
Ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio del 25/02/2025
Tra: S. M. C/ Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS
Oggetto:
Previdenza – Impiego pubblico – Trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età – Prevista corresponsione decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro – Riconoscimento del trattamento secondo un meccanismo di rateizzazione, differentemente articolato in base all’ammontare complessivo della prestazione – Denunciata previsione di un pagamento rateale e differito che comprime in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, non sorretta dal carattere contingente, ma essendo al contrario strutturale – Incidenza su beni e diritti dei lavoratori pubblici che godono di tutela piena e incondizionata – Lesione del diritto del lavoratore a una retribuzione sufficiente e proporzionata all’attività lavorativa svolta – Violazione degli obblighi internazionali, come declinati dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che tutelano la sfera patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignità della persona umana.
Norme impugnate:
decreto-legge del 28/03/1997 Num. 79 Art. 3 Co. 2
legge del 28/05/1997 Num. 140
decreto-legge del 31/05/2010 Num. 78 Art. 12 Co. 7
legge del 30/07/2010 Num. 122
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 36 Co.
Costituzione Art. 117 Co. 1
Protocollo addizionale alla Convenzione europea diritti dell'uomo Art. 1 Co.
Udienza Pubblica del 10 febbraio 2026 rel. SAN GIORGIO
Testo dell'ordinanza
N. 61 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 febbraio 2025
Ordinanza del 25 febbraio 2025 del Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio sul ricorso proposto da S. M. contro Istituto nazionale
della previdenza sociale - INPS.
Previdenza - Impiego pubblico - Trattamenti di fine servizio,
comunque denominati, spettanti nei casi di cessazione dal servizio
per raggiungimento dei limiti di eta' - Prevista corresponsione
decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro -
Riconoscimento del trattamento secondo un meccanismo di
rateizzazione, differentemente articolato in base all'ammontare
complessivo della prestazione.
- Decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il
riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive
modifiche e integrazioni, art. 3, comma 2; decreto-legge 31 maggio
2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitivita' economica), convertito, con
modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive
modifiche e integrazioni, art. 12, comma 7.
(GU n. 16 del 16-04-2025)
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO
Sezione quinta
Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di
registro generale 10270 del 2024, proposto da S. M., rappresentato e
difeso dall'avvocato Pietro Frisani, con domicilio digitale come da
pec da registri di giustizia;
Contro INPS - Istituto nazionale previdenza sociale, in persona
del presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato
Flavia Incletolli, con domicilio digitale come da pec da registri di
giustizia;
Per l'accertamento - previa dichiarazione di rilevanza e non
manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale, rimettendo gli atti del giudizio alla Corte
costituzionale sulla prospettata questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997,
n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e
successive modifiche e dell'art. 12, comma 7, del decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitivita' economica), convertito, con
modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive
modifiche, con riferimento all'art. 36 della Costituzione e all'art.
1, protocollo 1, CEDU - del diritto del ricorrente in quanto cessato
dal servizio per raggiunti limiti di eta' in data 30 settembre 2023 a
percepire l'intero importo del TFS ancora da corrispondere da parte
dell'Istituto previdenziale senza dilazioni e senza rateizzazione e
la condanna del resistente a corrispondere senza dilazione l'intero
importo ancora dovuto, oltre interessi e rivalutazione dal di' del
dovuto sino al saldo.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Istituto
previdenziale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 gennaio 2025 la
dott.ssa Ida Tascone e uditi per le parti i difensori come
specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
Il ricorrente, ex dipendente del Ministero dell'interno -
Questura di Roma, collocato in quiescenza a decorrere dal 30
settembre 2023, ha chiesto che venga accertato il suo diritto a
percepire il trattamento di fine servizio (d'ora in poi TFS per
brevita') senza dilazioni e senza rateizzazioni e ha chiesto la
condanna dell'Istituto previdenziale a corrispondere senza dilazione
l'intero importo ancora dovuto oltre interessi e rivalutazione.
In particolare, il ricorrente ha dedotto in fatto che il TFS a
lui spettante dovrebbe essere determinato nella misura di euro
99.675,05 - come da prospetto di simulazione estratto dal sito MyINPS
- e che detta somma, essendo superiore ad euro 50.000,00, ai sensi
dell'art. 1, comma 484, della legge n. 147/2013, dovrebbe essere
corrisposta allo stesso in due rate, la prima al 1° gennaio 2025
(ovvero nel terzo mese successivo all'acquisito del diritto avvenuto
a seguito del decorso del termine di dodici mesi dalla cessazione dal
servizio in data 1° ottobre 2024) e la seconda al 1° gennaio 2026.
Con memoria depositata nei termini dell'art. 73, c.p.a. viene
precisato che «solo in data 22 ottobre 2024, quindi dopo la
presentazione del ricorso, l'INPS ha disposto con bonifico il
pagamento in favore del sig. M. di una singola e parziale tranche
della prestazione (euro 43.649,30, somma peraltro inferiore ai
50.000,00 euro previsti dalla legge)».
Il ricorrente, nel motivare in ordine alla propria pretesa di
vedersi riconosciuto il trattamento di fine servizio, ha rilevato
l'illegittimita' costituzionale delle norme che hanno disposto la
rateizzazione chiedendo la sospensione del presente giudizio e la
rimessione degli atti innanzi alla Corte costituzionale.
L'Istituto previdenziale si e' costituito in giudizio con
apposita memoria ed ha eccepito il difetto di legittimazione e la
carenza di interesse del ricorrente, nonche' l'inammissibilita' della
domanda in quanto, cosi' come formulata, si risolve nella richiesta
di annullamento di un provvedimento di rango formalmente legislativo,
che esula dalle attribuzioni del giudice amministrativo; ha, poi,
dedotto l'infondatezza della domanda perche' le modalita' di
pagamento adottate sarebbero pienamente conformi al dettato
normativo.
Alla pubblica udienza del 10 gennaio 2025 il ricorso e' stato
trattenuto in decisione.
In via preliminare occorre esaminare l'eccezione spiegata
dall'Istituto previdenziale in ordine alla carenza di legittimazione
e dell'interesse a ricorrere dell'istante, che risulta destituita di
fondamento.
In particolare, la parte resistente lamenta la mancata
impugnazione di un provvedimento da parte del ricorrente, posto che
lo stesso si sarebbe limitato a chiedere «l'accertamento del proprio
diritto a percepire senza rateizzazione l'indennita' di buona uscita,
in vista della futura liquidazione e del futuro pagamento in forma
rateale» (pag. 2 della memoria di costituzione), mentre «il
provvedimento che si assume lesivo non [sarebbe] ancora intervenuto,
non essendo ancora scaduti i termini per la liquidazione della buona
uscita...» e, allo stato, il pregiudizio sarebbe «meramente futuro e
ipotetico» (pag. 3 della memoria di costituzione).
Al riguardo, occorre rilevare come, nel caso di specie, l'oggetto
del giudizio non si sostanzia in un'azione di annullamento del
provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, bensi' in una mera
azione di accertamento di un diritto soggettivo e, segnatamente, del
diritto del ricorrente alla corresponsione della prestazione a lui
spettante senza dilazioni e rateizzazioni.
Orbene, tralasciando i casi in cui la domanda di accertamento e'
contemplata dal codice del processo amministrativo (cfr. articoli 31
e 34, comma 3, c.p.a.), si deve ribadire che sin dai primi tempi di
applicazione della disciplina processuale la giurisprudenza
amministrativa - con la sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato del 13 luglio 2022, n. 8 - ha affermato che, nel contesto
dell'atipicita' dei rimedi giurisdizionali, risulta ammissibile in
via generale la domanda di accertamento, sussistendo un adeguato
interesse.
Invero, la garanzia di tutela giurisdizionale prevista dagli
articoli 24, 103 e 113 della Carta costituzionale impone anche per
gli interessi legittimi, come pacificamente ritenuto nel processo
civile per i diritti soggettivi, l'esperibilita' dell'azione di
accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in
cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione
risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa
sostanziale del ricorrente.
La mancata previsione, nel testo finale del codice, di una norma
esplicita sull'azione generale di accertamento, non puo' essere
considerata sintomatica della volonta' legislativa di sancire una
preclusione di dubbia costituzionalita', ma e' spiegabile, anche alla
luce degli elementi ricavabili dai lavori preparatori, con la
considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire
statuizioni dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di
norma una tutela idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce
meramente dichiarative in cui la funzione di accertamento non si
appalesa strumentale all'adozione di altra pronuncia di cognizione ma
si presenta, per cosi' dire, allo stato puro, ossia senza
sovrapposizione di altre funzioni. Ne deriva, di contro, che, ove
dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno
di tutela, l'azione di accertamento atipica, ove sorretta da un
interesse ad agire concreto ed attuale ex art. 100, del codice di
procedura civile, risulta praticabile in forza delle coordinate
costituzionali ed europee.
Nel caso in esame, peraltro, si chiede la tutela di diritti
soggettivi in materia di pubblico impiego non contrattualizzato, e
quindi in ambito di giurisdizione esclusiva amministrativa, con
l'ovvia conseguenza che l'azione di accertamento deve essere
senz'altro ammessa, negli stessi limiti in cui essa sarebbe
ammissibile in un processo civile, avente per oggetto situazioni
soggettive similari.
Il sig. M. ha, in sostanza, correttamente dedotto la lesione
della propria posizione giuridica sostanziale, indicando tutti gli
elementi di diritto e di fatto posti a fondamento della domanda di
accertamento rispetto alla quale risulta titolare di un interesse
qualificato e differenziato legittimante l'azione.
Parimenti del tutto infondata e' l'eccezione di inammissibilita'
per impugnazione diretta delle norme ritenute incostituzionali.
In realta', il ricorrente ha chiesto l'accertamento del proprio
diritto a ottenere il pagamento immediato e integrale del trattamento
di fine servizio e, al fine di dimostrare le proprie pretese, ha
dedotto l'illegittimita' costituzionale delle norme che ne
disciplinano la corresponsione.
Passando all'esame del merito del ricorso occorre previamente
esaminare la questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla
parte ricorrente.
Le disposizioni della cui compatibilita' con la Costituzione si
dubita stabiliscono che «1. Il trattamento pensionistico dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma
2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive
modificazioni, compresi quelli di cui ai commi 4 e 5 dell'art. 2
dello stesso decreto legislativo, e' corrisposto in via definitiva
entro il mese successivo alla cessazione dal servizio. In ogni caso
l'ente erogatore, entro la predetta data, provvede a corrispondere in
via provvisoria un trattamento non inferiore al 90 per cento di
quello previsto, fatte salve le disposizioni eventualmente piu'
favorevoli. 2. Alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio,
comunque denominati, per i dipendenti di cui al comma 1, loro
superstiti o aventi causa, che ne hanno titolo, l'ente erogatore
provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di
lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei
limiti di eta' o di servizio previsti dagli ordinamenti di
appartenenza, per collocamento a riposo d'ufficio a causa del
raggiungimento dell'anzianita' massima di servizio prevista dalle
norme di legge o di regolamento applicabili nell'amministrazione,
decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Alla
corresponsione agli aventi diritto l'ente provvede entro i successivi
tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi» (art. 3 del
decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 convertito con modificazioni dalla
legge 28 maggio 1997, n. 140).
«7. A titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici
attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel
rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti
dall'aggiornamento del programma di stabilita' e crescita, dalla data
di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3,
dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento
dell'indennita' di buonuscita, dell'indennita' premio di servizio,
del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennita'
equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a
seguito di cessazione a vario titolo dall'impiego e' effettuato:
a) in un unico importo annuale se l'ammontare complessivo
della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, e'
complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro;
b) in due importi annuali se l'ammontare complessivo della
prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, e'
complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro.
In tal caso il primo importo annuale e' pari a 50.000 euro e il
secondo importo annuale e' pari all'ammontare residuo;
c) in tre importi annuali se l'ammontare complessivo della
prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, e'
complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in tal caso il
primo importo annuale e' pari a 50.000 euro, il secondo importo
annuale e' pari a 50.000 euro e il terzo importo annuale e' pari
all'ammontare residuo» (art. 12, comma 7, decreto-legge 31 maggio
2010, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010,
n. 122).
Le norme in questione, per la loro chiarezza testuale, non si
prestano a interpretazioni adeguatrici o costituzionalmente
orientate, comportando il rigetto del ricorso con conseguente
dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al pubblico
dipendente per effetto della cessazione del rapporto di servizio,
potendo quindi essere soltanto assoggettate allo scrutinio di
legittimita' costituzionale.
Tali elementi fondano, innanzitutto, il presupposto della
rilevanza della questione, ai sensi dell'art. 23, comma 2, della
legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale e' necessario che «il
giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione di legittimita' costituzionale» della
norma primaria contestata.
Parimenti, il conflitto delle norme in esame con il principio di
giusta retribuzione e di tutela della sfera patrimoniale del
lavoratore, radicato nell'art. 36 della Costituzione e nell'art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto
dell'art. 1 del protocollo n. 1, CEDU, si presenta, ad avviso di
questo Collegio, «non manifestamente infondato», ai sensi del
medesimo art. 23 della legge n. 87/1953.
E' opinione di questo Tribunale che sia rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale
degli articoli 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79,
convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e
dell'art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78,
convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per
contrasto con l'art. 36 e l'art. 117, comma primo, della Carta
costituzionale in relazione al parametro interposto dell'art. 1 del
protocollo n. 1 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre
1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4
agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del protocollo addizionale alla
Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).
Con precedente ordinanza di rimessione (17 maggio 2022, n. 6223)
questo Tribunale (Sezione terza quater) ha sollevato, per contrasto
all'art. 36 della Costituzione, la medesima questione di legittimita'
costituzionale, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata,
con riferimento proprio agli articoli 3, comma 2, del decreto-legge
28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della
finanza pubblica), convertito con modificazioni dalla legge 28 maggio
1997, n. 140, e 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78
(Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitivita' economica), convertito con modificazioni dalla legge
30 luglio 2010, n. 122.
Il dubbio di incompatibilita' tra gli articoli 3, comma 2, del
decreto-legge n. 79/1997 e 12, comma 7, del decreto-legge n. 78/2010,
e l'art. 36 della Costituzione e' stato alimentato dall'esame della
giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riguardo
alla sentenza n. 159 del 25 giugno 2019, che, nel ritenere non
fondate le eccezioni di incostituzionalita' degli articoli sopra
detti con particolare riguardo ai lavoratori che non hanno raggiunto
i limiti di eta' o di servizio previsti dagli ordinamenti di
appartenenza, ha ritenuto che «La disciplina che ha progressivamente
dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla
cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale
definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti
pubblici che l'aveva giustificata. Con particolare riferimento ai
casi in cui sono raggiunti i limiti di eta' e di servizio, la duplice
funzione retributiva e previdenziale delle indennita' di fine
rapporto, conquistate "attraverso la prestazione dell'attivita'
lavorativa e come frutto di essa" (sentenza n. 106 del 1996, punto
2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in
contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta
retribuzione, anche differita, tutelano la dignita' della persona
umana».
Secondo la giurisprudenza della Corte le indennita' di fine
rapporto «costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro
prestato, la cui corresponsione viene differita - appunto in funzione
previdenziale - onde agevolare il superamento delle difficolta'
economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la
retribuzione» (sentenza n. 458/2005), ritenendosi, in sostanza,
l'essenziale natura di retribuzione differita collegata a una
concorrente funzione previdenziale (cfr. sentenza n. 438/2005).
L'art. 36 della Costituzione statuisce che il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualita' e quantita'
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare e a se' ed
alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
La retribuzione, pertanto, da una parte, non deve mai perdere il
suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e, dall'altro,
deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 della Carta
costituzionale, avendo a riguardo non solo alla entita' della
retribuzione, ma anche alla tempestivita' della sua corresponsione.
E' infatti evidente che una retribuzione corrisposta con ampio
ritardo ha per il lavoratore una utilita' inferiore a quella
corrisposta tempestivamente.
Proprio il carattere di retribuzione differita riconosciuta alle
indennita' di fine rapporto, comporta la necessita' che anche queste
ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e non possano
essere diluite strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del
lavoro.
Cio' a maggior ragione se si considera che, notoriamente, il
lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in eta' avanzata, in
molti casi si propone - proprio attraverso l'integrale e immediata
percezione di detto trattamento - di recuperare una somma gia' spesa
o in via di erogazione per le principali necessita' di vita, ovvero
di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari
gia' assunti, magari da tempo.
E' poi da ricordare che la Corte ha piu' volte affermato il
principio per il quale una misura quale quella in esame, per superare
lo scrutinio di costituzionalita', non puo' riguardare un arco
temporale indefinito, ma deve essere giustificato da una crisi
contingente e deve atteggiarsi quale misura una tantum (sentenze n.
178 del 2015 e n. 173 del 2016).
La misura in questione, al contrario, pur legata a una situazione
di crisi contingente non ha una durata prestabilita ma ha assunto un
carattere strutturale.
Infatti, l'art. 3 del decreto-legge n. 79 del 1997 ha previsto
dapprima un termine minimo di sei mesi per la liquidazione delle
indennita' di fine servizio; termine che l'art. 1, comma 22, lettera
a), del decreto-legge n. 138 del 2011 ha fissato in sei mesi per il
solo caso di pensionamento di vecchiaia e ha innalzato a ventiquattro
mesi per l'ipotesi di un pensionamento di anzianita'.
Il termine di sei mesi, sancito per i pensionamenti di vecchiaia,
e' stato innalzato a dodici mesi dall'art. 1, comma 484, lettera b),
della legge n. 147 del 2013, mentre resta immutato il termine minimo
di ventiquattro mesi per le indennita' di fine servizio corrisposte
per il caso di pensionamenti anticipati. Vige poi sempre un ulteriore
termine di tre mesi per l'effettiva erogazione: solo quando sia
decorso infruttuosamente tale ultimo termine, sono dovuti gli
interessi.
L'art. 12, comma 7, del decreto-legge n. 78 del 2010 - a seguito
delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 484, lettera a), della
legge n. 147 del 2013 - ha previsto un meccanismo di rateizzazione,
articolato secondo soglie piu' elevate rispetto a quelle oggi vigenti
(una rata annuale per le indennita' fino a 50.000,00 euro; due rate
annuali oltre i 50.000,00 e fino ai 100.000,00 euro; tre rate annuali
per le indennita' di importo che e' pari o superiore ai 100.000,00
euro).
Con la legge di stabilita' per il 2014, con l'art. 1, comma 484,
in sostanza, si e' aggravato il sacrificio imposto con il
differimento gia' stabilito nel 1997, ampliando a dodici mesi il
termine minimo per la liquidazione delle indennita' di fine servizio
e prevedendo un meccanismo di rateizzazione che penalizza oltremodo i
beneficiari dei trattamenti in esame, perche' e' piu' gravoso
rispetto a quello stabilito dal decreto-legge n. 78 del 2010 nella
sua originaria versione.
Dall'esame della sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 adottata
dalla Consulta a seguito della citata ordinanza di rimessione
(Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - Roma - Sezione III
quater - 17 maggio 2022, n. 6223) si evince che l'Istituto
previdenziale dichiara di farsi carico del monito espresso dal
giudice delle leggi nella precedente sentenza n. 159 del 2019, con la
quale si e' rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti di
eta' e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale,
delle indennita' di cui si tratta rischia di essere compromessa, in
contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta
retribuzione, anche differita, tutelano la dignita' della persona.
Evidenzia l'Istituto che successivamente a tale pronuncia, sono
stati adottati il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
22 aprile 2020, n. 51 (Regolamento in materia di anticipo del
TFS/TFR, in attuazione dell'art. 23, comma 7, del decreto-legge 28
gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28
marzo 2019, n. 26), contenente le modalita' di attuazione delle
disposizioni di cui all'art. 23 del decreto-legge n. 4 del 2019, come
convertito, nonche' il decreto del Ministro per la pubblica
amministrazione 19 agosto 2020, relativo all'approvazione
dell'accordo quadro per il finanziamento dell'anticipo della
liquidazione dell'indennita' di fine servizio comunque determinata,
secondo quanto previsto dall'art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 4
del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro
e delle politiche sociali, il Ministro dell'economia e delle finanze,
il Ministro per la pubblica amministrazione e l'Associazione bancaria
italiana.
Espone, ancora, l'INPS che gli atti citati consentono ai
lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art.
1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche) - che cessano o sono cessati dal servizio
con diritto a pensione per raggiungimento dei requisiti previsti
dall'art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre
2011, n. 214, o con diritto a pensione al raggiungimento della
cosiddetta «quota 100» come previsto dall'art. 14 del decreto-legge
n. 4 del 2019, come convertito - di presentare a banche ed
intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari
all'importo dell'indennita' di fine servizio maturata, nella misura
massima di 45.000 euro ovvero all'importo spettante qualora la
predetta indennita' sia di importo inferiore.
In aggiunta, lo stesso sottolinea che, con deliberazione del
consiglio di amministrazione dell'INPS 9 novembre 2022, n. 219, e'
stata istituita una nuova prestazione a favore degli iscritti alla
Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, avente ad
oggetto l'anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti
pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di
fine rapporto.
Sennonche' le misure appena illustrate risultano inadeguate, in
quanto - come sancito anche dal giudice delle leggi nella successiva
sentenza n. 130 del 23 giugno 2023 intervenuta a seguito della citata
ordinanza di rimessione - non si registra, allo stato, una riforma
organica specificamente volta a porre rimedio al vulnus
costituzionale riscontrato.
Non puo', infatti, ritenersi tale la disciplina
dell'anticipazione della prestazione dettata dall'art. 23 del
decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale e'
possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all'importo
massimo di 45.000 euro, dell'indennita' di fine servizio maturata,
garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto
l'emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato
dall'art. 4, comma 2, del decreto ministeriale 19 agosto 2020 in
misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato)
maggiorato dello 0,40 per cento.
Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere svolte in
merito all'anticipazione istituita con la deliberazione del consiglio
di amministrazione dell'INPS 9 novembre 2022, n. 219. Essa e'
prevista a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle
prestazioni creditizie e sociali e consente di usufruire di un
finanziamento pari all'intero ammontare del trattamento maturato e
liquido, erogato al tasso di interesse pari all'1 per cento fisso,
unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per
cento dell'importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente
quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine
rapporto; a cio' si aggiunga che si registra la definitiva chiusura
dell'accesso alla misura per gli iscritti al Fondo credito.
Le normative richiamate investono, infatti, solo indirettamente
la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine
servizio.
Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si
limitano a riconoscere all'avente diritto la facolta' di evitare la
percezione differita dell'indennita' accedendo pero' al finanziamento
oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo. Il legislatore
non ha, dunque, ancora espunto dal sistema il meccanismo dilatorio
all'origine della riscontrata violazione, ne' si e' fatto carico
della spesa necessaria a ripristinare l'ordine costituzionale
violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della
fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla
retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi
due parametri, alla quantita' e alla qualita' del lavoro, e' parte
del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del
1996).
Nello specifico, con la citata sentenza n. 130 del 23 giugno 2023
la Corte costituzionale ha scrutinato la questione di legittimita'
costituzionale in riferimento all'art. 36 della Costituzione,
evidenziando che la legittimita' costituzionale delle norme dalle
quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del
lavoratore e' condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei
sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere
«eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo
prefisso» (ordinanza n. 299 del 1999), e come il termine dilatorio di
dodici mesi quale risultante dall'art. 3, comma 2, del decreto-legge
n. 79 del 1997 convertito nella legge gia' citata, ad oggi non
rispetti piu' ne' il requisito della temporaneita', ne' i limiti
posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalita'.
Si tratta di una previsione che non costituisce piu' un
intervento urgente di riequilibrio finanziario ma di una misura
avente carattere strutturale che ha dunque perso la sua originaria
ragionevolezza.
La perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle
indennita' di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione
previdenziale, in quanto contrasta con la particolare esigenza di
tutela avvertita dal dipendente al termine dell'attivita' lavorativa
cui deve ulteriormente aggiungersi il fatto che la dilazione non e'
controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria e
dunque incide in maniera rilevante sulla consistenza economica della
prestazione, stante anche il sensibile incremento della pressione
inflazionistica del quadro macroeconomico attuale e posto che, ai
sensi dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, allo
scadere del termine annuale e di quello ulteriore di tre mesi sono
dovuti i soli interessi di mora.
La Corte costituzionale ha dunque concluso, pur dichiarando
inammissibili le questioni sottoposte, con la considerazione che, per
porre rimedio alla situazione sopra evidenziata, occorre un
intervento del legislatore affinche' trovi una soluzione che miri a
superare il differimento della liquidazione e del pagamento delle
indennita' di fine servizio, in ossequio ai principi di adeguatezza
della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalita', e che si
sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via
agli altri.
Allo stato, pero', non risulta adottata alcuna organica revisione
dell'intera materia, peraltro indicata come indifferibile negli
ultimi anni nell'ambito del dibattito parlamentare, registrandosi
solo un'iniziativa legislativa (C. 1254 sulla riduzione dei termini
per la liquidazione del trattamento di fine servizio dei dipendenti
delle amministrazioni) volta a sancire la riduzione del termine
dilatorio per la liquidazione nei casi di cessazione dal servizio
(anche a seguito di collocamento a riposo d'ufficio) per
raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio e la rivalutazione
delle fasce di importo per l'erogazione rateale dei medesimi
trattamenti.
Come riportato nella relazione illustrativa, la proposta di legge
intende adempiere al monito espresso dalla Corte costituzionale che,
nella gia' indicata sentenza n. 130 del 2023, ha rilevato come la
ridefinizione delle norme relative al termine dilatorio di
differimento dei trattamenti in questione (con limitato riferimento
ai trattamenti spettanti nei casi di cessazione dal servizio per
raggiungimento dei limiti di eta' o di servizio, o per collocamento a
riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianita' massima
di servizio), nonche' al riconoscimento secondo modalita' rateali dei
medesimi trattamenti che superino un determinato importo, deve essere
operata dal legislatore, mediante scelte discrezionali di
rimodulazione che tengano conto del differimento generale del termine
di liquidazione; in ogni caso, per tale proposta non sembra che
l'iter legislativo di approvazione risulti efficacemente avviato con
conseguente violazione reiterata del dettato costituzionale (sentenze
gia' citate, n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023).
Poste tali premesse, si puo' ritenere che - come sostenuto dal
giudice delle leggi - la previsione di un pagamento rateale comprima
in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori
pubblici, in violazione dell'art. 36 della Carta, non essendo
sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere
strutturale.
La retribuzione, pertanto, da una parte, non deve mai perdere il
suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e, dall'altro,
deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 della Carta,
con riferimento non solo alla entita' della retribuzione, ma anche
alla tempestivita' della sua corresponsione.
E' infatti evidente che una retribuzione corrisposta con ampio
ritardo ha per il lavoratore una utilita' inferiore a quella
corrisposta tempestivamente.
Proprio il carattere di retribuzione differita riconosciuta alle
indennita' di fine rapporto comporta la necessita' che anche queste
ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e non possano
essere diluite strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del
lavoro.
Come e' noto, il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se
in eta' avanzata, in molti casi si propone - proprio attraverso
l'integrale e immediata percezione di detto trattamento - di
recuperare una somma gia' spesa o in via di erogazione per le
principali necessita' di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in
modo definitivo ad impegni finanziari gia' assunti, magari da tempo.
La Corte costituzionale ha piu' volte affermato il principio per
il quale una misura quale quella in esame, per superare lo scrutinio
di costituzionalita', non puo' riguardare un arco temporale
indefinito, ma deve essere giustificato da una crisi contingente e
deve atteggiarsi quale misura una tantum (sentenze n. 178 del 2015 e
n. 173 del 2016).
Peraltro, non puo' non rilevarsi il contrasto con l'art. 117,
comma primo, della Costituzione, in relazione al parametro interposto
dell'art. 1 protocollo n. 1 alla CEDU (concernente il diritto al
rispetto della proprieta', tra cui rientra anche la tutela dei
diritti di credito) posto che - per costante giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell'uomo (Fabian c. Ungheria [GC], n.
78117/13, 5 settembre 2017; Stefanetti, n. 21838/10, 15 settembre
2014) - le pensioni e conseguentemente anche il trattamento di fine
servizio maturato per effetto della vita lavorativa costituiscono un
«bene» ai sensi della Convenzione.
Secondo le norme generali applicabili, il diritto matura ed entra
a far parte del patrimonio del titolare al momento in cui si
soddisfano i requisiti per il pensionamento (collocamento a riposo
per raggiunti limiti di eta' o di servizio). Nel caso di specie il
differimento e la rateazione del trattamento di fine servizio di cui
alla normativa in oggetto e' tale da pregiudicare l'essenza dei
diritti pensionistici del soggetto, trattandosi di misura ormai
divenuta definitiva e strutturale, che va a violare il disposto
dell'art. 1, prot. n. 1, CEDU laddove il trattamento di fine servizio
costituisce espressione di una legittima aspettativa della persona,
gia' entrata a far parte del suo patrimonio per effetto del
raggiungimento dei requisiti necessari.
Sul punto, non puo' non richiamarsi la delicata questione sorta
con riferimento ai diritti finanziariamente condizionati con
riferimento all'esigibilita' dei diritti nei «limiti delle risorse
disponibili» (cfr. sentenza della Corte costituzionale 16 dicembre
2016, n. 275).
La Corte delle leggi ha chiarito in questa importante pronuncia
che e' «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul
bilancio, e non l'equilibrio di questo a condizionarne la doverosa
erogazione». Nella sostanza, neppure in materia finanziaria esiste
«un limite assoluto alla cognizione del giudice di costituzionalita'
delle leggi», in quanto l'avvenuto inserimento del principio di
pareggio di bilancio in Costituzione ne comporta l'inserimento «nella
tavola complessiva dei valori costituzionali», per cui «non si puo'
ipotizzare che la legge di approvazione del bilancio o qualsiasi
altra legge incidente sulla stessa costituiscano una zona franca
sfuggente a qualsiasi sindacato del giudice di costituzionalita', dal
momento che non vi puo' essere alcun valore costituzionale la cui
attuazione possa essere ritenuta esente dalla inviolabile garanzia
rappresentata dal giudizio di legittimita' costituzionale».
Orbene, la previsione di un pagamento rateale del TFS non puo'
essere arbitrariamente differito e reso incerto da previsioni
legislative, le quali - seppur inserite in manovre finanziarie volte
a sopperire a contingenti esigenze di riequilibrio finanziario -
finiscono cosi' con l'incidere su beni e diritti dei lavoratori
pubblici che godono di tutela piena ed incondizionata, con
conseguente sacrificio della sua effettivita', in violazione
dell'art. 36 della Costituzione, che sancisce il criterio di
proporzionalita' della retribuzione, e dell'art. 117, primo comma,
della Costituzione, alla luce delle norme della Convenzione europea,
come interpretate dalla Corte di Strasburgo, che tutelano la sfera
patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignita' della persona
umana.
Il giudizio presente va quindi sospeso, con trasmissione, ai
sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, degli atti alla
Corte costituzionale, affinche' decida della questione di
legittimita' costituzionale che, con la presente ordinanza,
incidentalmente si pone.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione
quinta):
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente;
Sospende il giudizio e, ai sensi dell'art. 23 della legge 11
marzo 1953, n. 87;
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale
affinche' si pronunci sulla questione di legittimita' costituzionale
degli articoli 3, comma 2, del decreto-legge n. 79/1997 e 12, comma
7, del decreto-legge n. 78/2010, per contrasto con l'art. 36 della
Costituzione e l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all'art. 1 del protocollo n. 1 alla CEDU;
Dispone la comunicazione della presente ordinanza alle parti
in causa, nonche' la sua notificazione al Presidente del Consiglio
dei ministri, al Presidente del Senato della Repubblica e al
Presidente della Camera dei deputati;
Rinvia ogni ulteriore statuizione all'esito del giudizio
incidentale promosso con la presente ordinanza.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1
e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli
5 e 6 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignita'
della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere
all'oscuramento delle generalita'.
Cosi' deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 10
gennaio 2025 con l'intervento dei magistrati:
Leonardo Spagnoletti - Presidente;
Virginia Arata - referendario;
Ida Tascone - referendario, estensore.
Il Presidente: Spagnoletti
L'estensore: Tascone