Reg. ord. n. 60 del 2025 pubbl. su G.U. del 09/04/2025 n. 15
Ordinanza del Corte d'appello di Lecce del 29/01/2025
Tra: V. A.
Oggetto:
Reati e pene – Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – Trattamento sanzionatorio – Denunciata previsione per il “capo-promotore” di un’associazione finalizzata al narcotraffico, avente disponibilità di armi e con un numero di associati superiore a dieci, di una pena fissa di ventiquattro anni di reclusione – Contrasto con i principi di proporzionalità e di individualizzazione della pena.
Norme impugnate:
decreto del Presidente della Repubblica
del 09/10/1990
Num. 309
Art. 74
Co. 1
decreto del Presidente della Repubblica
del 09/10/1990
Num. 309
Art. 74
Co. 4
Parametri costituzionali:
Costituzione
Art. 3
Co.
Costituzione
Art. 27
Co.
Udienza Pubblica del 8 ottobre 2025 rel. LUCIANI
Testo dell'ordinanza
N. 60 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 gennaio 2025
Ordinanza del 29 gennaio 2025 della Corte d'appello di Lecce nel
procedimento penale a carico di V. A. .
Reati e pene - Associazione finalizzata al traffico illecito di
sostanze stupefacenti o psicotrope - Trattamento sanzionatorio -
Denunciata previsione per il "capo-promotore" di un'associazione
finalizzata al narcotraffico, avente disponibilita' di armi e con
un numero di associati superiore a dieci, di una pena fissa di
ventiquattro anni di reclusione.
- Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), art. 74,
commi 1 e 4.
(GU n. 15 del 09-04-2025)
LA CORTE DI APPELLO DI LECCE
Sezione unica penale
La Corte di appello di Lecce, Sezione unica penale, composta dai
magistrati:
dott.ssa Teresa Liuni - Presidente;
dott. Francesco Cacucci - consigliere rel.;
dott.ssa Adriana Almiento - consigliere;
letti gli atti del procedimento in epigrafe indicato nei
confronti di A. V. , nato a ... il .... difeso di fiducia dall'avv.
L. Massari;
letta la memoria depositata dall'avv. Ladislao Massari;
sentite le parti all'udienza del 2 ottobre 2024;
Osserva
Premesso in fatto.
Con sentenza del 9 luglio 2019, resa all'esito di giudizio
abbreviato, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di
Lecce ha condannato A. V. alla pena di anni venti di reclusione in
relazione ai delitti di cui agli articoli 74, commi 1°, 2°, 3° e 4°
del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (Capo G),
nonche' 81 e 110 del codice penale, 73 del decreto del Presidente
della Repubblica n. 309/1990 (Capo G27); in particolare, l'A. e'
stato ritenuto responsabile, in qualita' di «promotore» e
«dirigente», di un'associazione a delinquere finalizzata a commettere
piu' delitti tra quelli previsti dall'art. 73, del decreto del
Presidente della Repubblica n. 309/1990, «anche mediante
disponibilita' di armi, associazione costituita da piu' di dieci
persone», operante nella Provincia di ... dal ..., «con permanenza»;
in relazione al suddetto procedimento l'A. si trova in stato di
liberta'.
Avverso la sentenza ha proposto rituale appello il difensore
dell'A. con richiesta, in via principale, di assoluzione, ed in
subordine: di esclusione della qualifica di «capo-promotore»; di
qualificazione della condotta nella fattispecie di cui al comma 6°
dell'art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990;
di riduzione della pena anche previo riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche.
Il processo di appello e' attualmente in corso di svolgimento.
A scioglimento della riserva di cui all'udienza del 2 ottobre
2024, letta la memoria depositata dall'avv. L. Massari, ritiene
questa Corte di appello doversi sollevare questione di legittimita'
costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione,
dell'art. 74, commi 1° e 4° del decreto del Presidente della
Repubblica n. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella
parte in cui, con specifico riferimento alla pena per il
«capo-promotore» di un'associazione a delinquere finalizzata al
narcotraffico avente disponibilita' di armi e con un numero di
associati superiore a dieci, prevede la pena fissa di 24 anni di
reclusione; infatti, se e' vero che la norma richiamata prevede una
pena «non inferiore ad anni 24 di reclusione», l'art. 23 c.p.
prescrive che la pena della reclusione non possa essere superiore a
24 anni di reclusione.
In punto di rilevanza della questione, sussistono i presupposti
per l'applicazione dell'art. 74, commi 1° e 4° del decreto del
Presidente della Repubblica n. 309/1990; infatti:
A. V. e' stato condannato alla pena di anni venti di
reclusione, oltre alle pene accessorie, in relazione al delitto di
cui all'art. 74, commi 1°, 2°, 3° e 4° del decreto del Presidente
della Repubblica n. 309/1990, in qualita' di «capo-promotore» di
un'associazione a delinquere dedita al narcotraffico, avente
disponibilita' di armi e con numero di associati superiore a dieci;
il Giudice dell'udienza preliminare ha determinato il trattamento
sanzionatorio nei termini che seguono (pag. 163 della motivazione):
«partendo da una p.b. di cui all'art. 74, del decreto del Presidente
della Repubblica n. 309/1990, aggravato come in contestazione, pari
ad anni 24, ritenuta la contestata recidiva (16 anni), calcolato
l'aumento per l'aggravante di cui al comma 3°, pari a sei mesi e per
l'aggravante di cui al comma 4°, pari a sei mesi, si giungerebbe ad
una pena di anni 36 che, contenuta nei limiti di cui all'art. 78
c.p., diviene di anni 30, ridotta per la scelta del rito a 20 anni di
reclusione;
il GUP ha, quindi, ritenuto integrata a carico dell'imputato
la partecipazione al delitto associativo con la qualifica di
«capo-promotore», unitamente alle circostanze aggravanti della
«disponibilita' di armi» e della presenza di un numero di associati
superiore a dieci; conseguentemente ha determinato la p.b. nella
misura di anni 24 di reclusione, ai sensi dell'art. 74, comma 4° del
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990;
nell'eventualita' del rigetto di tutti i motivi di gravame
proposti dalla difesa, questa Corte di appello si troverebbe nella
condizione di confermare anche il trattamento sanzionatorio comminato
all'imputato dal GUP, dovendo fare applicazione della disposizione
censurata senza possibilita' di operare un'eventuale graduazione
della pena rispetto al disvalore del fatto ed alla personalita'
dell'imputato.
Osservato, in punto di non manifesta infondatezza della
questione.
1. L'art. 74, comma 4°, del decreto del Presidente della
Repubblica n. 309/1990 prevede, per il «capo e promotore» di
un'associazione a delinquere dedita al narcotraffico avente
disponibilita' di armi e con numero di associati di dieci e piu', una
pena che puo' qualificarsi come «fissa», in quanto «non inferiore a
ventiquattro anni di reclusione», a fronte del limite massimo di tale
pena detentiva stabilito, nell'art. 23 c.p., sempre in ventiquattro
anni.
Il trattamento sanzionatorio previsto nella norma censurata, in
quanto rigido e non modulabile secondo i criteri stabiliti dall'art.
133 c.p., non appare compatibile con i principi costituzionali di
proporzionalita' e necessaria individualizzazione della pena.
1.1. L'art. 25, comma 2° Cost. assegna alla discrezionalita' del
legislatore la determinazione del trattamento sanzionatorio per i
fatti previsti come reato; tuttavia, come piu' volte evidenziato
dalla Corte costituzionale, tale discrezionalita' incontra il proprio
limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative,
limite che e' superato allorche' le pene comminate appaiano
manifestamente sproporzionate rispetto alla gravita' del fatto
previsto quale reato.
In tal caso si realizza una violazione congiunta degli articoli 3
e 27 Cost., poiche' una pena non proporzionata alla gravita' del
fatto e non percepita come tale dal condannato, si risolve in un
ostacolo alla sua funzione rieducativa (si richiamano le sentenze n.
313 del 1990, n. 341 del 1994, n. 68 del 2012 e n. 236 del 2016, n.
222 del 2018, n. 197 del 2023).
La giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente sottolineato
che il principio di proporzionalita' della pena, desunto dagli
articoli 3 e 27, terzo comma, Cost. esige «che la pena sia
adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di
offensivita' del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche
al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo», il quale a sua
volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della
volonta' criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della
colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno
influito sul processo motivazionale dell'autore, rendendolo piu' o
meno rimproverabile» (sentenza n. 197 del 2023).
1.2. Come evidenziato da autorevole dottrina, la Corte
costituzionale ha in alcune occasioni esteso il sindacato sulla
proporzionalita' della pena anche al profilo della necessaria
individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in ossequio al
principio della «personalita' della responsabilita' penale» sancito
dall'art. 27, comma 1° Cost.
Si richiama, in primo luogo, la sentenza n. 50 del 1980, avente
ad oggetto la questione di legittimita' costituzionale relativa
all'art. 5 della legge 5 maggio 1976, n. 313 nella parte in cui,
sostituendo il terzo comma dell'art. 121 del t.u. delle norme
concernenti la disciplina della circolazione stradale, approvato con
del decreto del Presidente della Repubblica 15 giugno 1959, n. 393,
prevedeva la pena, in misura fissa, di lire 800.000 di ammenda e 15
giorni d'arresto per chiunque circolasse con un veicolo che superava
il peso complessivo a pieno carico consentito di oltre 30 quintali,
in tal modo ponendosi in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto
equiparava rigidamente quoad poenam situazioni diverse, come
comportamenti dolosi e colposi, ed in genere violazioni di diversa
gravita', sotto il profilo oggettivo e/o soggettivo, della medesima
norma. Nell'occasione, pur avendo come principale parametro di
riferimento il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., il
giudice delle leggi ha affermato che «l'adeguamento delle risposte
punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o
differenziazione di trattamento - contribuisce da un lato, a rendere
quanto piu' possibile "personale" la responsabilita' penale, nella
prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo
e' strumento per una determinazione della pena quanto piu' possibile
"finalizzata", nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, Cost. Il
principio d'uguaglianza trova in tal modo dei concreti punti di
riferimento, in materia penale, nei presupposti e nei fini (e nel
collegamento fra gli uni e gli altri) espressamente assegnati alla
pena nello stesso sistema costituzionale. L'uguaglianza di fronte
alla pena viene a significare, in definitiva, "proporzione" della
pena rispetto alle "personali" responsabilita' ed alle esigenze di
risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che e'
essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni
individuali e di limite della potesta' punitiva statuale».
1.3. Con la sentenza n. 222 del 2018 (con cui e' stata dichiarata
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 - Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa -
nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti
dal presente articolo importa per la durata di dieci anni
l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e
l'incapacita' per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi
presso qualsiasi impresa», anziche': «la condanna per uno dei fatti
previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio
di una impresa commerciale e l'incapacita' ad esercitare uffici
direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni») e' stato
richiamato il parametro di riferimento rappresentato dal principio
della «personalita'» della responsabilita' penale previsto dall'art.
27 comma 1° Cost. Tale principio richiede che la pena applicata a
ciascun autore di reato costituisca «una risposta - oltre che non
sproporzionata - il piu' possibile «individualizzata», e dunque
calibrata sulla situazione del singolo condannato", cosi' da
assolvere pienamente alla sua funzione rieducativa.
1.4. Nella sentenza n. 112 del 2019 (relativa alla questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 187-sexies del decreto
legislativo n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto
dall'art. 9, comma 2, lettera a, della legge 18 aprile 2005, n. 62 -
Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti
dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee. Legge
comunitaria 2004 - nella parte in cui esso assoggetta a confisca per
equivalente non soltanto il profitto dell'illecito ma anche i mezzi
impiegati per commetterlo, ossia l'intero prodotto dell'illecito), la
Corte ha ribadito che «La considerazione, accanto all'art. 3 Cost.,
del principio di personalita' della responsabilita' penale sancito
dal primo comma dell'art. 27 Cost. - da leggersi anch'esso alla luce
della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo
comma dello stesso art. 27 Cost. - e' inoltre alla base
dell'ulteriore canone della necessaria individualizzazione della
pena, pure enucleato da una risalente giurisprudenza di questa Corte,
che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel
loro ammontare (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso
conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del
1963). Tale canone esige che - nel passaggio dalla comminatoria
astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflazione da
parte del giudice - la pena si atteggi come risposta proporzionata
anche alla concreta gravita', oggettiva e soggettiva, del singolo
fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessita'
dell'attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella
determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un
massimo predeterminati dal legislatore».
1.5. In conclusione, l'esigenza di «mobilita'» (sentenza n. 67
del 1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della
pena - e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua
determinazione in concreto, di una certa discrezionalita' nella
commisurazione tra il minimo e il massimo previsti dalla legge -
costituisce secondo il giudice delle leggi «naturale attuazione e
sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale
(principio d'uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia
penale» (sentenza n. 50 del 1980), rispetto ai quali «l'attuazione di
una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione piu'
che l'uniformita'» (cosi', ancora, la sentenza n. 104 del 1968). Con
la conseguenza, espressamente tratta dalla citata sentenza n. 50 del
1980 e ribadita nella sentenza n. 222 del 2018, che «in linea di
principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con
il "volto costituzionale" del sistema penale; ed il dubbio
d'illegittimita' costituzionale potra' essere, caso per caso,
superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e
per la misura della sanzione prevista, quest'ultima appaia
ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di
comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».
Pertanto, come si legge sempre nella sentenza n. 222 del 2018,
«se la "regola" e' rappresentata dalla "discrezionalita'", ogni
fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) e'
per cio' solo "indiziata" di illegittimita'; e tale indizio potra'
essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della
fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la
puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie
la renda "proporzionata" all'intera gamma dei comportamenti
tipizzati».
2. La norma censurata si pone, altresi', in contrasto con l'art.
49, paragrafo 3, CDFUE, secondo cui «le pene inflitte non devono
essere sproporzionate rispetto al reato».
Infatti la decisione-quadro 2004/757/GAI - che prevede «norme
minime relative agli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni
applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti» -
all'art. 4 ribadisce il doveroso rispetto del principio di
proporzione nella determinazione del trattamento sanzionatorio (art.
4: «Ciascuno stato membro provvede affinche' i reati... ...siano
soggetti a pene detentive effettive, proporzionate e dissuasive»), da
ritenersi non compatibile con la previsione di pene fisse nel loro
ammontare.
3. La Corte costituzionale ha esteso il divieto di pene
sproporzionate anche a sanzioni amministrative di carattere
«punitivo», seppure avendo come parametro di riferimento il solo
principio di uguaglianza sancito dall'art. 3.
Con sentenza n. 185 del 2021 e' stata dichiara l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 7, comma 6, secondo periodo, decreto-legge
n. 158 del 2012, conv., con modificazioni, nella legge n. 189 del
2012. E' stato, infatti, affermato che l'attribuzione al giudice di
un margine di discrezionalita' nella commisurazione della sanzione -
non solo penale, ma anche amministrativa - tra un minimo e un
massimo, cosi' da adeguarla alla specificita' del singolo caso,
rappresenta la naturale attuazione di principi costituzionali, a
cominciare da quello di eguaglianza. Nella specie, la fissita' della
sanzione amministrativa a carico dei concessionari del gioco e dei
titolari di sale giochi e scommesse per la violazione degli obblighi
di avvertimento sui rischi di dipendenza dal gioco d'azzardo,
impedisce di tener conto della diversa gravita' dei singoli illeciti,
che dipende dall'ampiezza dell'offerta di gioco e dal tipo di
violazione commessa. Cio' comporta che la sanzione fissa puo'
risultare manifestamente sproporzionata rispetto all'illecito
commesso e, quindi, costituzionalmente illegittima.
Nello stesso senso si richiama la sentenza n. 40 del 2023, con
cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4,
comma 1, primo periodo, decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 297,
recante «Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento
(CEE) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni
geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e
alimentari», nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa
pecuniaria «di euro cinquantamila», anziche' «da un minimo di
diecimila a un massimo di cinquantamila euro».
Per quanto in questa sede rileva si richiama, infine, anche la
recente sentenza n. 51 del 5 marzo 2024 (dep. 28 marzo 2024, Gazzetta
Ufficiale 3 aprile 2024), con cui la Corte costituzionale ha
dichiarato, in riferimento all'art. 3 Cost., costituzionalmente
illegittimo l'art. 12, comma 5, decreto legislativo 23 febbraio 2006,
n 109 in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, eliminando
dalla disposizione la parte in cui stabilisce l'automatica rimozione
dalla magistratura del magistrato che abbia riportato condanna a pena
detentiva non sospesa per delitto non colposo non inferiore ad un
anno.
Anche in questo caso il giudice di legittimita' ha evidenziato
che, quanto alla proporzionalita' della sanzione disciplinare, il
requisito puo' essere soddisfatto soltanto da una «valutazione
individualizzata della gravita' dell'illecito, alla quale la risposta
sanzionatorio deve essere calibrata»; tanto sul rilievo che «le
sanzioni fisse sono tendenzialmente in contrasto con questo
principio».
4. Tutto cio' premesso, la pena rigida di ventiquattro anni di
reclusione per il «capo-promotore» di un'associazione a delinquere
armata dedita al narcotraffico non puo' ritenersi «ragionevolmente
proporzionata» rispetto all'intera gamma dei comportamenti
riconducibili al tipo di reato, che si presta a ricomprendere
fenomeni associativi dalle caratteristiche estremamente eterogenee e
con ben diverso grado di-pericolosita' peri beni giuridici tutelati.
In primo luogo occorre rilevare che, con riguardo alla pena
prevista dall'art. 74, comma 4° del decreto del Presidente della
Repubblica n. 309/1990, per il capo-promotore di un'associazione
armata dedita al narcotraffico non e' possibile operare la
diversificazione della risposta punitiva per le associazioni dedite
al traffico di droghe «leggere», rispetto ai sodalizi finalizzati al
traffico di stupefacenti previsti nella prima e terza tabella. La
fattispecie, dunque, ingloba condotte che hanno un diverso disvalore
e che non potrebbero essere punite tutte allo stesso modo, come del
resto si desume dalla diversita' del trattamento sanzionatorio
previsto per le ipotesi di cui all'art. 73, decreto del Presidente
della Repubblica n. 31909/90 a seconda che si riferiscano a «droghe
pesanti» o a «droghe leggere».
Ed ancora, l'allarme sociale determinato da condotte organizzate
di narcotraffico, nonche' la gravita' dei fatti concreti
riconducibili all'associazione armata organizzata e diretta dal
«promotore» possono declinarsi in maniera differente, a seconda della
struttura organizzativa del sodalizio (la giurisprudenza di
legittimita' afferma, con orientamento consolidato, che per la
configurabilita' dell'associazione dedita al narcotraffico non e'
richiesta la presenza di una complessa e articolata organizzazione
dotata di notevoli disponibilita' economiche, ma e' sufficiente
l'esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla
predisposizione di mezzi, per il perseguimento del fine comune,
create in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle
singole deliberazioni criminose, con il contributo dei singoli
associati), del numero complessivo degli associati, dell'ambito
territoriale di estensione e della durata di operativita' del
sodalizio.
L'espunzione dal testo dell'art. 74, decreto del Presidente della
Repubblica n. 309/1990 della circostanza aggravante di cui al comma
4° con riferimento alla posizione del «capo-promotore» consentirebbe
al giudice di commisurare la pena nella forbice tra un minimo di
venti anni (previsto dall'art. 74, comma 1°) ed un massimo di
ventiquattro di reclusione (art. 23 c.p.) in presenza di
un'associazione armata e con un numero di associati superiore a
dieci, tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze
indicate nell'art. 133 c.p., cosi' da commisurare la pena al caso
concreto ed alla personalita' dell'autore, avendo la possibilita' di
graduare la sanzione secondo i criteri di proporzionalita' e di
adeguatezza; in tal guisa la pena apparirebbe una risposta - oltre
che non sproporzionata - il piu' possibile «individualizzata», e
dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato,
«capo-promotore» del sodalizio, «in attuazione del mandato
costituzionale di "personalita'" della responsabilita' penale di cui
all'art. 27, primo comma, Cost.» (cosi' sentenza n. 222 del 2018).
Come insegna la Corte costituzionale, questa conclusione non
potrebbe essere revocata in dubbio sulla base dell'argomento per cui
la cornice edittale prevista dal comma 4 dell'art. 74 T.U. sugli
stupefacenti potrebbe essere comunque «neutralizzata» in caso di
equivalenza o prevalenza di eventuali attenuanti, e in particolare
delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis del
codice penale.
Al riguardo e' stato affermato che «l'applicazione di circostanze
attenuanti e' soltanto eventuale, e non e' in grado pertanto di
sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di una pena
manifestamente eccessiva nel minimo» (sentenza n. 22 del 2023).
Cio' vale anche rispetto alle circostanze attenuanti generiche,
«la cui funzione "naturale" e' quella di adeguare la misura della
pena alla sussistenza di speciali indicatori (oggettivi o soggettivi)
di un minor disvalore del fatto concreto all'esame del giudice
rispetto alla gravita' ordinaria dei fatti riconducibili alla
fattispecie base di reato; e non gia' quella di correggere
l'eventuale sproporzione dei minimi edittali stabiliti dal
legislatore rispetto a un fatto il cui disvalore sia conforme a
quello che ordinariamente caratterizza la fattispecie criminosa»
(sentenza n. 63 del 2022).
P.Q.M.
visto l'art. 23 della legge n. 87/1953;
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 27 della
Costituzione, dell'art. 74, commi 1° e 4°, decreto del Presidente
della Repubblica n. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella
parte in cui, con specifico riferimento alla pena prevista dall'art.
74, comma 4°, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990,
per il «capo-promotore» di un'associazione finalizzata al
narcotraffico avente disponibilita' di armi e con un numero di
associati superiore a dieci, prevede la pena fissa di 24 anni di
reclusione.
Dispone la sospensione del processo e l'immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale.
Dispone, altresi', che la presente ordinanza sia notificata al
sig. Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata al
sig. Presidente del Senato ed al sig. Presidente della Camera dei
deputati.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti.
Lecce, 29 gennaio 2025
La Presidente: Liuni
Il consigliere estensore: Cacucci
Oggetto:
Reati e pene – Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – Trattamento sanzionatorio – Denunciata previsione per il “capo-promotore” di un’associazione finalizzata al narcotraffico, avente disponibilità di armi e con un numero di associati superiore a dieci, di una pena fissa di ventiquattro anni di reclusione – Contrasto con i principi di proporzionalità e di individualizzazione della pena.
Norme impugnate:
decreto del Presidente della Repubblica del 09/10/1990 Num. 309 Art. 74 Co. 1
decreto del Presidente della Repubblica del 09/10/1990 Num. 309 Art. 74 Co. 4
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 3 Co.
Costituzione Art. 27 Co.
Udienza Pubblica del 8 ottobre 2025 rel. LUCIANI
Testo dell'ordinanza
N. 60 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 gennaio 2025 Ordinanza del 29 gennaio 2025 della Corte d'appello di Lecce nel procedimento penale a carico di V. A. . Reati e pene - Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope - Trattamento sanzionatorio - Denunciata previsione per il "capo-promotore" di un'associazione finalizzata al narcotraffico, avente disponibilita' di armi e con un numero di associati superiore a dieci, di una pena fissa di ventiquattro anni di reclusione. - Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), art. 74, commi 1 e 4. (GU n. 15 del 09-04-2025) LA CORTE DI APPELLO DI LECCE Sezione unica penale La Corte di appello di Lecce, Sezione unica penale, composta dai magistrati: dott.ssa Teresa Liuni - Presidente; dott. Francesco Cacucci - consigliere rel.; dott.ssa Adriana Almiento - consigliere; letti gli atti del procedimento in epigrafe indicato nei confronti di A. V. , nato a ... il .... difeso di fiducia dall'avv. L. Massari; letta la memoria depositata dall'avv. Ladislao Massari; sentite le parti all'udienza del 2 ottobre 2024; Osserva Premesso in fatto. Con sentenza del 9 luglio 2019, resa all'esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Lecce ha condannato A. V. alla pena di anni venti di reclusione in relazione ai delitti di cui agli articoli 74, commi 1°, 2°, 3° e 4° del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (Capo G), nonche' 81 e 110 del codice penale, 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (Capo G27); in particolare, l'A. e' stato ritenuto responsabile, in qualita' di «promotore» e «dirigente», di un'associazione a delinquere finalizzata a commettere piu' delitti tra quelli previsti dall'art. 73, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, «anche mediante disponibilita' di armi, associazione costituita da piu' di dieci persone», operante nella Provincia di ... dal ..., «con permanenza»; in relazione al suddetto procedimento l'A. si trova in stato di liberta'. Avverso la sentenza ha proposto rituale appello il difensore dell'A. con richiesta, in via principale, di assoluzione, ed in subordine: di esclusione della qualifica di «capo-promotore»; di qualificazione della condotta nella fattispecie di cui al comma 6° dell'art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990; di riduzione della pena anche previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il processo di appello e' attualmente in corso di svolgimento. A scioglimento della riserva di cui all'udienza del 2 ottobre 2024, letta la memoria depositata dall'avv. L. Massari, ritiene questa Corte di appello doversi sollevare questione di legittimita' costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 74, commi 1° e 4° del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui, con specifico riferimento alla pena per il «capo-promotore» di un'associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico avente disponibilita' di armi e con un numero di associati superiore a dieci, prevede la pena fissa di 24 anni di reclusione; infatti, se e' vero che la norma richiamata prevede una pena «non inferiore ad anni 24 di reclusione», l'art. 23 c.p. prescrive che la pena della reclusione non possa essere superiore a 24 anni di reclusione. In punto di rilevanza della questione, sussistono i presupposti per l'applicazione dell'art. 74, commi 1° e 4° del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990; infatti: A. V. e' stato condannato alla pena di anni venti di reclusione, oltre alle pene accessorie, in relazione al delitto di cui all'art. 74, commi 1°, 2°, 3° e 4° del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, in qualita' di «capo-promotore» di un'associazione a delinquere dedita al narcotraffico, avente disponibilita' di armi e con numero di associati superiore a dieci; il Giudice dell'udienza preliminare ha determinato il trattamento sanzionatorio nei termini che seguono (pag. 163 della motivazione): «partendo da una p.b. di cui all'art. 74, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, aggravato come in contestazione, pari ad anni 24, ritenuta la contestata recidiva (16 anni), calcolato l'aumento per l'aggravante di cui al comma 3°, pari a sei mesi e per l'aggravante di cui al comma 4°, pari a sei mesi, si giungerebbe ad una pena di anni 36 che, contenuta nei limiti di cui all'art. 78 c.p., diviene di anni 30, ridotta per la scelta del rito a 20 anni di reclusione; il GUP ha, quindi, ritenuto integrata a carico dell'imputato la partecipazione al delitto associativo con la qualifica di «capo-promotore», unitamente alle circostanze aggravanti della «disponibilita' di armi» e della presenza di un numero di associati superiore a dieci; conseguentemente ha determinato la p.b. nella misura di anni 24 di reclusione, ai sensi dell'art. 74, comma 4° del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990; nell'eventualita' del rigetto di tutti i motivi di gravame proposti dalla difesa, questa Corte di appello si troverebbe nella condizione di confermare anche il trattamento sanzionatorio comminato all'imputato dal GUP, dovendo fare applicazione della disposizione censurata senza possibilita' di operare un'eventuale graduazione della pena rispetto al disvalore del fatto ed alla personalita' dell'imputato. Osservato, in punto di non manifesta infondatezza della questione. 1. L'art. 74, comma 4°, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 prevede, per il «capo e promotore» di un'associazione a delinquere dedita al narcotraffico avente disponibilita' di armi e con numero di associati di dieci e piu', una pena che puo' qualificarsi come «fissa», in quanto «non inferiore a ventiquattro anni di reclusione», a fronte del limite massimo di tale pena detentiva stabilito, nell'art. 23 c.p., sempre in ventiquattro anni. Il trattamento sanzionatorio previsto nella norma censurata, in quanto rigido e non modulabile secondo i criteri stabiliti dall'art. 133 c.p., non appare compatibile con i principi costituzionali di proporzionalita' e necessaria individualizzazione della pena. 1.1. L'art. 25, comma 2° Cost. assegna alla discrezionalita' del legislatore la determinazione del trattamento sanzionatorio per i fatti previsti come reato; tuttavia, come piu' volte evidenziato dalla Corte costituzionale, tale discrezionalita' incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che e' superato allorche' le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravita' del fatto previsto quale reato. In tal caso si realizza una violazione congiunta degli articoli 3 e 27 Cost., poiche' una pena non proporzionata alla gravita' del fatto e non percepita come tale dal condannato, si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (si richiamano le sentenze n. 313 del 1990, n. 341 del 1994, n. 68 del 2012 e n. 236 del 2016, n. 222 del 2018, n. 197 del 2023). La giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente sottolineato che il principio di proporzionalita' della pena, desunto dagli articoli 3 e 27, terzo comma, Cost. esige «che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensivita' del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo», il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volonta' criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell'autore, rendendolo piu' o meno rimproverabile» (sentenza n. 197 del 2023). 1.2. Come evidenziato da autorevole dottrina, la Corte costituzionale ha in alcune occasioni esteso il sindacato sulla proporzionalita' della pena anche al profilo della necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in ossequio al principio della «personalita' della responsabilita' penale» sancito dall'art. 27, comma 1° Cost. Si richiama, in primo luogo, la sentenza n. 50 del 1980, avente ad oggetto la questione di legittimita' costituzionale relativa all'art. 5 della legge 5 maggio 1976, n. 313 nella parte in cui, sostituendo il terzo comma dell'art. 121 del t.u. delle norme concernenti la disciplina della circolazione stradale, approvato con del decreto del Presidente della Repubblica 15 giugno 1959, n. 393, prevedeva la pena, in misura fissa, di lire 800.000 di ammenda e 15 giorni d'arresto per chiunque circolasse con un veicolo che superava il peso complessivo a pieno carico consentito di oltre 30 quintali, in tal modo ponendosi in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto equiparava rigidamente quoad poenam situazioni diverse, come comportamenti dolosi e colposi, ed in genere violazioni di diversa gravita', sotto il profilo oggettivo e/o soggettivo, della medesima norma. Nell'occasione, pur avendo come principale parametro di riferimento il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., il giudice delle leggi ha affermato che «l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - contribuisce da un lato, a rendere quanto piu' possibile "personale" la responsabilita' penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione della pena quanto piu' possibile "finalizzata", nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, Cost. Il principio d'uguaglianza trova in tal modo dei concreti punti di riferimento, in materia penale, nei presupposti e nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli altri) espressamente assegnati alla pena nello stesso sistema costituzionale. L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, "proporzione" della pena rispetto alle "personali" responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potesta' punitiva statuale». 1.3. Con la sentenza n. 222 del 2018 (con cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 - Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa - nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacita' per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziche': «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacita' ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni») e' stato richiamato il parametro di riferimento rappresentato dal principio della «personalita'» della responsabilita' penale previsto dall'art. 27 comma 1° Cost. Tale principio richiede che la pena applicata a ciascun autore di reato costituisca «una risposta - oltre che non sproporzionata - il piu' possibile «individualizzata», e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato", cosi' da assolvere pienamente alla sua funzione rieducativa. 1.4. Nella sentenza n. 112 del 2019 (relativa alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 187-sexies del decreto legislativo n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall'art. 9, comma 2, lettera a, della legge 18 aprile 2005, n. 62 - Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee. Legge comunitaria 2004 - nella parte in cui esso assoggetta a confisca per equivalente non soltanto il profitto dell'illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l'intero prodotto dell'illecito), la Corte ha ribadito che «La considerazione, accanto all'art. 3 Cost., del principio di personalita' della responsabilita' penale sancito dal primo comma dell'art. 27 Cost. - da leggersi anch'esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso art. 27 Cost. - e' inoltre alla base dell'ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enucleato da una risalente giurisprudenza di questa Corte, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). Tale canone esige che - nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflazione da parte del giudice - la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravita', oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessita' dell'attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore». 1.5. In conclusione, l'esigenza di «mobilita'» (sentenza n. 67 del 1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della pena - e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua determinazione in concreto, di una certa discrezionalita' nella commisurazione tra il minimo e il massimo previsti dalla legge - costituisce secondo il giudice delle leggi «naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d'uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale» (sentenza n. 50 del 1980), rispetto ai quali «l'attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione piu' che l'uniformita'» (cosi', ancora, la sentenza n. 104 del 1968). Con la conseguenza, espressamente tratta dalla citata sentenza n. 50 del 1980 e ribadita nella sentenza n. 222 del 2018, che «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il "volto costituzionale" del sistema penale; ed il dubbio d'illegittimita' costituzionale potra' essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest'ultima appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». Pertanto, come si legge sempre nella sentenza n. 222 del 2018, «se la "regola" e' rappresentata dalla "discrezionalita'", ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) e' per cio' solo "indiziata" di illegittimita'; e tale indizio potra' essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda "proporzionata" all'intera gamma dei comportamenti tipizzati». 2. La norma censurata si pone, altresi', in contrasto con l'art. 49, paragrafo 3, CDFUE, secondo cui «le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Infatti la decisione-quadro 2004/757/GAI - che prevede «norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti» - all'art. 4 ribadisce il doveroso rispetto del principio di proporzione nella determinazione del trattamento sanzionatorio (art. 4: «Ciascuno stato membro provvede affinche' i reati... ...siano soggetti a pene detentive effettive, proporzionate e dissuasive»), da ritenersi non compatibile con la previsione di pene fisse nel loro ammontare. 3. La Corte costituzionale ha esteso il divieto di pene sproporzionate anche a sanzioni amministrative di carattere «punitivo», seppure avendo come parametro di riferimento il solo principio di uguaglianza sancito dall'art. 3. Con sentenza n. 185 del 2021 e' stata dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 6, secondo periodo, decreto-legge n. 158 del 2012, conv., con modificazioni, nella legge n. 189 del 2012. E' stato, infatti, affermato che l'attribuzione al giudice di un margine di discrezionalita' nella commisurazione della sanzione - non solo penale, ma anche amministrativa - tra un minimo e un massimo, cosi' da adeguarla alla specificita' del singolo caso, rappresenta la naturale attuazione di principi costituzionali, a cominciare da quello di eguaglianza. Nella specie, la fissita' della sanzione amministrativa a carico dei concessionari del gioco e dei titolari di sale giochi e scommesse per la violazione degli obblighi di avvertimento sui rischi di dipendenza dal gioco d'azzardo, impedisce di tener conto della diversa gravita' dei singoli illeciti, che dipende dall'ampiezza dell'offerta di gioco e dal tipo di violazione commessa. Cio' comporta che la sanzione fissa puo' risultare manifestamente sproporzionata rispetto all'illecito commesso e, quindi, costituzionalmente illegittima. Nello stesso senso si richiama la sentenza n. 40 del 2023, con cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1, primo periodo, decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 297, recante «Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CEE) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari», nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «di euro cinquantamila», anziche' «da un minimo di diecimila a un massimo di cinquantamila euro». Per quanto in questa sede rileva si richiama, infine, anche la recente sentenza n. 51 del 5 marzo 2024 (dep. 28 marzo 2024, Gazzetta Ufficiale 3 aprile 2024), con cui la Corte costituzionale ha dichiarato, in riferimento all'art. 3 Cost., costituzionalmente illegittimo l'art. 12, comma 5, decreto legislativo 23 febbraio 2006, n 109 in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, eliminando dalla disposizione la parte in cui stabilisce l'automatica rimozione dalla magistratura del magistrato che abbia riportato condanna a pena detentiva non sospesa per delitto non colposo non inferiore ad un anno. Anche in questo caso il giudice di legittimita' ha evidenziato che, quanto alla proporzionalita' della sanzione disciplinare, il requisito puo' essere soddisfatto soltanto da una «valutazione individualizzata della gravita' dell'illecito, alla quale la risposta sanzionatorio deve essere calibrata»; tanto sul rilievo che «le sanzioni fisse sono tendenzialmente in contrasto con questo principio». 4. Tutto cio' premesso, la pena rigida di ventiquattro anni di reclusione per il «capo-promotore» di un'associazione a delinquere armata dedita al narcotraffico non puo' ritenersi «ragionevolmente proporzionata» rispetto all'intera gamma dei comportamenti riconducibili al tipo di reato, che si presta a ricomprendere fenomeni associativi dalle caratteristiche estremamente eterogenee e con ben diverso grado di-pericolosita' peri beni giuridici tutelati. In primo luogo occorre rilevare che, con riguardo alla pena prevista dall'art. 74, comma 4° del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, per il capo-promotore di un'associazione armata dedita al narcotraffico non e' possibile operare la diversificazione della risposta punitiva per le associazioni dedite al traffico di droghe «leggere», rispetto ai sodalizi finalizzati al traffico di stupefacenti previsti nella prima e terza tabella. La fattispecie, dunque, ingloba condotte che hanno un diverso disvalore e che non potrebbero essere punite tutte allo stesso modo, come del resto si desume dalla diversita' del trattamento sanzionatorio previsto per le ipotesi di cui all'art. 73, decreto del Presidente della Repubblica n. 31909/90 a seconda che si riferiscano a «droghe pesanti» o a «droghe leggere». Ed ancora, l'allarme sociale determinato da condotte organizzate di narcotraffico, nonche' la gravita' dei fatti concreti riconducibili all'associazione armata organizzata e diretta dal «promotore» possono declinarsi in maniera differente, a seconda della struttura organizzativa del sodalizio (la giurisprudenza di legittimita' afferma, con orientamento consolidato, che per la configurabilita' dell'associazione dedita al narcotraffico non e' richiesta la presenza di una complessa e articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilita' economiche, ma e' sufficiente l'esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla predisposizione di mezzi, per il perseguimento del fine comune, create in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, con il contributo dei singoli associati), del numero complessivo degli associati, dell'ambito territoriale di estensione e della durata di operativita' del sodalizio. L'espunzione dal testo dell'art. 74, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 della circostanza aggravante di cui al comma 4° con riferimento alla posizione del «capo-promotore» consentirebbe al giudice di commisurare la pena nella forbice tra un minimo di venti anni (previsto dall'art. 74, comma 1°) ed un massimo di ventiquattro di reclusione (art. 23 c.p.) in presenza di un'associazione armata e con un numero di associati superiore a dieci, tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze indicate nell'art. 133 c.p., cosi' da commisurare la pena al caso concreto ed alla personalita' dell'autore, avendo la possibilita' di graduare la sanzione secondo i criteri di proporzionalita' e di adeguatezza; in tal guisa la pena apparirebbe una risposta - oltre che non sproporzionata - il piu' possibile «individualizzata», e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, «capo-promotore» del sodalizio, «in attuazione del mandato costituzionale di "personalita'" della responsabilita' penale di cui all'art. 27, primo comma, Cost.» (cosi' sentenza n. 222 del 2018). Come insegna la Corte costituzionale, questa conclusione non potrebbe essere revocata in dubbio sulla base dell'argomento per cui la cornice edittale prevista dal comma 4 dell'art. 74 T.U. sugli stupefacenti potrebbe essere comunque «neutralizzata» in caso di equivalenza o prevalenza di eventuali attenuanti, e in particolare delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis del codice penale. Al riguardo e' stato affermato che «l'applicazione di circostanze attenuanti e' soltanto eventuale, e non e' in grado pertanto di sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di una pena manifestamente eccessiva nel minimo» (sentenza n. 22 del 2023). Cio' vale anche rispetto alle circostanze attenuanti generiche, «la cui funzione "naturale" e' quella di adeguare la misura della pena alla sussistenza di speciali indicatori (oggettivi o soggettivi) di un minor disvalore del fatto concreto all'esame del giudice rispetto alla gravita' ordinaria dei fatti riconducibili alla fattispecie base di reato; e non gia' quella di correggere l'eventuale sproporzione dei minimi edittali stabiliti dal legislatore rispetto a un fatto il cui disvalore sia conforme a quello che ordinariamente caratterizza la fattispecie criminosa» (sentenza n. 63 del 2022). P.Q.M. visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 74, commi 1° e 4°, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui, con specifico riferimento alla pena prevista dall'art. 74, comma 4°, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, per il «capo-promotore» di un'associazione finalizzata al narcotraffico avente disponibilita' di armi e con un numero di associati superiore a dieci, prevede la pena fissa di 24 anni di reclusione. Dispone la sospensione del processo e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dispone, altresi', che la presente ordinanza sia notificata al sig. Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata al sig. Presidente del Senato ed al sig. Presidente della Camera dei deputati. Manda alla cancelleria per gli adempimenti. Lecce, 29 gennaio 2025 La Presidente: Liuni Il consigliere estensore: Cacucci