Spese di giustizia - Spese processuali - Regolamentazione nel giudizio civile - Regola generale victus victori - Pagamento delle spese di lite da parte del soccombente - Applicazione al caso in cui la parte vittoriosa sia ammessa al patrocinio a spese dello Stato - Utilizzo degli ordinari criteri di liquidazione delle spese, in ragione dell'autonomia tra il giudizio civile e l'ammissione al patrocinio, in luogo dei criteri dimidiati legati al beneficio - Esclusione della natura tributaria della regola (nel caso di specie: non fondatezza delle questioni sollevate sulla disposizione che prevede, secondo l'interpretazione del diritto vivente, che in caso di vittoria della lite della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato la quantificazione delle spese processuali dovute dal soccombente, con pagamento a favore dello Stato, segua i criteri ordinari, in misura piena e non dimidiata). (Classif. 239004).
La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile attiene alla regola generale victus victori, stabilita dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ.; l’alea del processo grava, infatti, sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. Le spese di lite, dunque, devono essere sopportate da chi ha reso necessaria l’attività del giudice. (Precedente: S. 77/2018).
Nel caso in cui la parte vittoriosa è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la regolamentazione delle spese di lite attiene a un rapporto distinto o e autonomo da quello che sorge per effetto dell’ammissione stessa; quest’ultimo, a cui le parti del giudizio rimangono estranee, si instaura direttamente tra il difensore del beneficiario del patrocinio e lo Stato, mentre il primo si instaura inter partes, tra soccombente e vincitore, con il giudice che applica gli ordinari criteri di liquidazione delle spese. (Precedente: S. 109/2022).
L’obbligazione tributaria implica una effettiva decurtazione patrimoniale attraverso un prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva. (Precedente: S. 128/2022).
Manovre legislative che prevedono l’abbattimento del compenso professionale non hanno attinenza con gli obblighi tributari, trattandosi più semplicemente di una modalità, parzialmente diversa, di determinazione dei compensi medesimi, in funzione di prestazioni di facere. (Precedente: S. 192/2015).
(Nel caso di specie, sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost., dell’art. 133, comma 1, del d.lgs. n. 113 del 2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, che prevede, secondo l’interpretazione datane dal diritto vivente a partire dal 2018, che in caso di vittoria della lite della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato la quantificazione delle spese processuali dovute dal soccombente, con pagamento a favore dello Stato, segue i criteri ordinari, in misura piena e non dimidiata. L’istituto della rifusione delle spese è concettualmente estraneo alla logica propria dell’obbligazione tributaria; in caso contrario, peraltro, si garantirebbe un ingiustificato vantaggio patrimoniale al soccombente solo perché la controparte rientra fra gli indigenti, giungendosi, inoltre, al paradosso per cui mentre l’abbattimento della metà del compenso spettante al difensore della parte che fruisce del beneficio non costituisce un prelievo tributario nei confronti del difensore della parte non abbiente che la subisce, diverrebbe tale per la controparte soccombente. Quest’ultima, invece, è condannata secondo gli ordinari criteri di liquidazione delle spese e non subisce alcuna reale decurtazione).