Legge - Analogia - Divieto di farvi ricorso in malam partem in materia penale, in applicazione del principio di legalità - Necessario riferimento al testo e al significato letterale della norma incriminatrice, e non alla sua interpretazione successiva, a garanzia del consociato (nel caso di specie: non fondatezza della questione avente a oggetto l'applicabilità, secondo il diritto vivente, della fattispecie incriminatrice di evasione dagli arresti domiciliari anche all'indagato, oltre che all'imputato). (Classif. 141003).
L’ordinamento giuridico preclude il ricorso all’analogia in malam partem nella materia penale, in applicazione del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. nonché, a livello di fonti primarie, dell’art. 14 delle preleggi e, implicitamente, dell’art. 1 cod. pen. Tale divieto non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali e costituisce, così, un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. Infatti, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – e non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte. (Precedenti: S. 98/2021 - mass. 43904; S. 447/1998).
(Nel caso di specie, è dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Pisa, sez. pen., in riferimento all’art. 25 Cost., dell’art. 385, terzo comma, cod. pen., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, prevede che l’indagato possa essere punito per l’evasione dal regime degli arresti domiciliari, nonostante la lettera della disposizione faccia riferimento esclusivamente all’imputato. La disposizione censurata deve essere letta alla luce del codice linguistico tecnico inerente al contesto temporale della sua adozione: il significato del termine «imputato», mutuato dal codice di rito allora vigente, indicava, quale soggetto attivo del reato, una figura specifica, delimitata in un preciso arco procedimentale, nel cui perimetro, in base all’attuale codice di procedura penale, rientra chi assume la qualifica di «persona sottoposta alle indagini». Nell’originario impianto codicistico, infatti, l’assunzione dello specifico status di imputato abbisognava solo di elementi, anche non particolarmente qualificati, idonei a far ipotizzare il coinvolgimento dell’individuo nei fatti oggetto del procedimento: si tratta, dunque, dello stesso soggetto, individuato con un diverso termine, onde il riferimento all’«imputato» includeva, all’epoca, il soggetto che, oggi, al di là del nomen, assume la denominazione di «indagato». Includere quest’ultimo nella fattispecie incriminatrice dell’art. 385 cod. pen., di conseguenza, non richiede il ricorso all’analogia, né si ravvisa alcuna lesione del principio di legalità nella disposizione censurata e nella sua applicazione corrente).