Diritti inviolabili o fondamentali - In genere - Diritto alla vita - Posizione apicale nell'ordinamento, quale suo valore supremo - Conseguente dovere per l'ordinamento di apprestarne adeguata tutela - Limiti - Riconoscimento del diritto di rifiutare le cure al paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli - Conseguente restrizione dell'area del perdurante divieto dell'aiuto al suicidio - Necessità di un intervento legislativo volto a bilanciare il diritto all'autodeterminazione con la tutela della vita (nel caso di specie: non fondatezza delle questioni, aventi ad oggetto la fattispecie di aiuto al suicidio, come determinato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, laddove non esclude la punibilità per chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio anche a favore della persona non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, sebbene soggetta a sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile. Rinnovato auspicio di un intervento legislativo, nonché stringente appello perché sull'intero territorio nazionale sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza). (Classif. 081001).
La vita umana, oggetto di tutela espressa da parte di tutte le carte internazionali dei diritti umani, è un bene che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona. Pur in assenza di riconoscimento esplicito nel testo della Costituzione, la vita va ricondotta all’area dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dall’art. 2 Cost., e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana; essa del resto è presupposto per l’esercizio di tutti gli altri diritti inviolabili. (Precedenti: S. 50/2022 - mass. 44534; S. 35/1997 - mass. 23114; S. 1146/1988; O. 207/2018 - mass. 41525).
Dal riconoscimento del diritto alla vita scaturisce il corrispondente dovere dell’ordinamento di assicurarne la tutela attraverso la legge, oltre che, più in generale, attraverso l’azione di tutti i pubblici poteri. (Precedenti: S. 50/2022 - mass. 44534; O. 207/2018 - mass. 41525).
Ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli è titolare di un diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali). In tal modo, l’ordinamento riconosce in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, mediante il rifiuto o la richiesta di interruzione di trattamenti necessari a sostenerne le funzioni vitali. (Precedente: O. 207/2018 - mass. 41523).
L’esecuzione di un trattamento sanitario sul e nel proprio corpo contro la propria volontà violerebbe, oltre che l’art. 32, secondo comma, Cost., l’art. 13 Cost., nonché lo stesso diritto fondamentale all’integrità fisica della persona, espressamente riconosciuto dall’art. 3 CDFUE, riconducibile al novero dei diritti inviolabili della persona di cui all’art. 2 Cost. e all’area di tutela del diritto alla vita privata proclamato dall’art. 8 CEDU. (Precedenti: S. 22/2022 - mass. 44587; S. 127/2022 - mass. 44866; S. 238/1996 - mass. 22598).
Dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. discende il diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico, inclusi quelli necessari a garantirne la sopravvivenza; diritto sul quale si fonda la valutazione di irragionevolezza del divieto di aiuto al suicidio prestato in favore di chi già abbia la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando un trattamento di sostegno vitale. La persistente operatività del divieto di assistenza al suicidio non opera quando: (a) una persona è affetta da una patologia irreversibile, la quale sia (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, e che è (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Non spetta alla Corte costituzionale di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa.
La subordinazione della liceità della condotta di aiuto al suicidio alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale non è contraria all’art. 3 Cost., dal momento che è irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in una situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale. Le due situazioni sono, infatti, differenti.
Per prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, è necessario il rispetto delle essenziali condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019. Deve così escludersi che la clausola di equivalenza, stabilita nel dispositivo di tale sentenza con riferimento ai fatti anteriori alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, possa estendersi a fatti commessi successivamente – in Italia o all’estero –, ai quali si applicano invece i requisiti procedurali lì stabiliti; fermo restando che l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie.
La nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio dell’ordinanza n. 207 del 2018 e della sentenza n. 242 del 219. Pertanto, nella misura in cui le procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente – quali l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali –, si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la sua morte in un breve lasso di tempo, esse dovranno essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale. Tutte queste procedure possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto.
(Nel caso di specie, sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal GIP del Tribunale di Firenze in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, dell’art. 580 cod. pen., nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tale incriminazione deve essere intesa come funzionale a proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà; soprattutto nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine. Non è violato il diritto all’autodeterminazione del paziente fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. Se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea al tempo stesso rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost., quali la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi, o la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una pressione sociale indiretta su altre persone malate o semplicemente anziane e sole. Né è leso il diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, dal momento che, secondo l’accezione fornitane dalla Corte EDU, gli Stati parte dispongono di un considerevole margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra tale diritto e gli interessi tutelati da simili incriminazioni, e segnatamente le ragioni di tutela della vita umana. E nemmeno può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU, visto che non può ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale. Va ribadito con forza l’auspicio che il legislatore e il SSN intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla Corte costituzionale, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei medesimi principi. Parimente, deve essere confermato lo stringente appello affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010). (Precedenti: S. 242/2019 - mass. 40813; O. 207/2018 - mass. 41524).