Processo tributario - In genere - Nuove prove in appello - Divieto assoluto, introdotto per mezzo di decreto legislativo, di deposito delle notifiche dell'atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell'articolo 14 comma 6-bis - Denunciata violazione dei criteri di delega, irragionevolezza, violazione del diritto di difesa e del giusto processo e del raggiungimento di una decisione giusta - Insussistenza - Non fondatezza delle questioni. (Classif. 201001).
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, sez. 16, e dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sez. 19, in riferimento complessivamente agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 102, primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., dell’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. bb), del d.lgs. n. 220 del 2023, nella parte in cui non consente la produzione in appello delle «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis». Quanto alla asserita violazione dei principi di delega, censurata dal giudice lombardo, considerata l’ampiezza del criterio fissato dall’art. 19, comma 1, lett. d), della legge delega n. 111 del 2023, non può ritenersi che il legislatore delegato, nel prevedere, accanto ad un generale divieto di nova temperato, l’ulteriore e più stringente norma proibitiva di cui al censurato art. 58, comma 3, si sia discostato dalla ratio della legge delega. Non contrasta, inoltre, con il principio di ragionevolezza né lede il diritto alla prova e al contraddittorio la scelta, alla base della previsione in scrutinio, di proibire il deposito delle notificazioni anche quando risultino indispensabili ai fini della decisione. Diversamente da quanto ritenuto dalle Corti rimettenti, la deroga in scrutinio appare sorretta da una adeguata ragione giustificativa. I documenti in esame – a differenza delle notifiche degli atti processuali che, essendo volte a documentare la regolarità dell’instaurazione e dello svolgimento del processo, sfuggono al divieto probatorio in scrutinio – forniscono la prova di una condizione di validità o di efficacia dell’esercizio della funzione impositiva, e per tale ragione la produzione degli stessi nei giudizi in cui tale profilo risulti controverso esaurisce l’attività istruttoria. Va, inoltre, considerato che la nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli, facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria. Il divieto di produzione delle notifiche in appello si sottrae anche alle censure di irragionevolezza e di violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., anche là dove non esclude dal proprio ambito di applicazione l’ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Rispetto alla notificazione degli atti tributari non è configurabile, infatti, né l’ipotesi in cui il documento venga ad esistenza successivamente allo spirare dei termini per le deduzioni istruttorie del giudizio di primo grado in cui sia in contestazione l’atto notificato, né quella in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sua esistenza solo dopo che sia maturata detta preclusione: ciò in quanto l’atto tributario produce i suoi effetti tipici per mezzo della notificazione, sicché o la notifica esiste – e quindi deve essere necessariamente conosciuta dall’amministrazione, sulla quale grava un dovere qualificato di documentazione del procedimento notificatorio e di conservazione e custodia dei relativi atti – prima che la pretesa impositiva venga azionata, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere. La restrizione censurata, in definitiva, è diretta a evitare che il giudizio di primo grado venga inutilmente instaurato in difetto di una regolare notifica, nonché ad arginare le distorsioni processuali indotte dalla grave vulnerabilità ed inefficienza, anche con riferimento al sistema delle notifiche, che ancora affligge il sistema italiano della riscossione. Non è fondata neppure la censura di violazione del principio di eguaglianza e di parità delle armi, posto che, come già evidenziato, il regime diversificato introdotto per gli atti in questione risulta non manifestamente irragionevole. Parimenti non fondata è la censura con la quale si lamenta che la disposizione in scrutinio impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione giusta attraverso la ricerca della verità materiale, in contrasto con gli artt. 102, primo comma, e 111, primo comma, Cost.: l’aderenza della ricostruzione processuale dei fatti alla verità materiale non è oggetto di specifica protezione costituzionale, essendo piuttosto le garanzie del giusto processo espressamente sancite dall’art. 111 Cost. a coadiuvare il giudice nell’accertamento della verità conducendolo ad una decisione giusta. Deve, infine, escludersi la denunciata ingerenza del legislatore nel potere giurisdizionale di valutazione della prova. Anzitutto, l’apprezzamento della indispensabilità non concerne l’attitudine dimostrativa della prova, quanto, piuttosto, la sua idoneità ad eliminare ogni possibile incertezza in ordine ad una ricostruzione fattuale già effettuata dal giudice di prime cure. In ogni caso, l’ordinamento processuale ammette la possibilità che il potere giudiziale di valutazione della prova subisca limitazioni imposte dalla legge, come è reso evidente dal principio generale espresso dall’art. 116 cod. proc. civ.