SENTENZA N. 214
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso dalla Corte d’appello di Lecce, sezione unica penale, nel procedimento penale a carico di V. A. con ordinanza del 29 gennaio 2025, iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2025.
Visti l’atto di costituzione di V. A. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 ottobre 2025 il Giudice relatore Massimo Luciani;
uditi l’avvocato Ladislao Massari per V. A. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 ottobre 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 29 gennaio 2025, iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2025, la Corte d’appello di Lecce, sezione unica penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui prevede per il “capo-promotore” di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, aggravata dalla disponibilità di armi e dal numero di associati superiore a dieci, «la pena fissa di 24 anni di reclusione». Tale ordinanza è stata emessa nel giudizio sull’appello proposto da V. A. avverso la sentenza con cui il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lecce, in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato l’imputato alla pena di venti anni di reclusione per i reati di cui agli artt. 74, commi 1, 2, 3 e 4, e 73 del menzionato d.P.R. n. 309 del 1990.
1.1.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo premette che l’appellante è stato condannato all’esito del giudizio abbreviato a una pena finale di venti anni di reclusione, alla cui determinazione il giudice di primo grado è pervenuto partendo da una pena base, per il reato associativo di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 aggravato ai sensi dei commi 3 e 4, pari ad anni ventiquattro di reclusione, aumentata per la recidiva e per le aggravanti contestate a trentasei anni. Pena contenuta, ai sensi dell’art. 78 del codice penale, in anni trenta e infine ridotta, per la scelta del rito, appunto a venti anni.
Le questioni sarebbero dunque rilevanti, in quanto, «nell’eventualità del rigetto di tutti i motivi di gravame proposti dalla difesa», la Corte d’appello «si troverebbe nella condizione di confermare anche il trattamento sanzionatorio comminato all’imputato dal GUP, dovendo fare applicazione della disposizione censurata senza possibilità di operare un’eventuale graduazione della pena rispetto al disvalore del fatto ed alla personalità dell’imputato».
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene anzitutto che la norma di cui all’art. 74, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990 contrasti con gli artt. 3 e 27 Cost.
Osserva, a tal proposito, che la disposizione censurata prevede «una pena che può qualificarsi come “fissa”, in quanto “non inferiore a ventiquattro anni di reclusione” [enfasi nell’originale], a fronte del limite massimo di tale pena detentiva stabilito, nell’art. 23 c.p., sempre in ventiquattro anni». Tale trattamento sanzionatorio, in quanto rigido e non modulabile secondo i criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., non sarebbe compatibile con i princìpi costituzionali di proporzionalità e necessaria individualizzazione della pena.
In tal senso viene richiamata la giurisprudenza costituzionale in tema di sindacato sulla misura della pena, che, afferma il rimettente, nel riconoscere la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle comminatorie edittali per i fatti previsti come reati, afferma ch’essa incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che viene superato allorché le pene comminate appaiono manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto come reato. In tal caso si realizzerebbe una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., poiché una pena non proporzionata alla gravità del fatto e non percepita come tale dal condannato si risolverebbe in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 197 del 2023, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n. 313 del 1990).
Con riferimento alle pene fisse il rimettente richiama i princìpi affermati dalla sentenza n. 50 del 1980 di questa Corte, a tenor dei quali «[l]’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti – in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento – contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile “personale” la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma; e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile “finalizzata”, nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma, Cost. Il principio d’uguaglianza trova in tal modo dei concreti punti di riferimento, in materia penale, nei presupposti e nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli altri) espressamente assegnati alla pena nello stesso sistema costituzionale. L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, “proporzione” della pena rispetto alle “personali” responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale».
Nel medesimo senso vengono citate, nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 222 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle pene accessorie in materia di reati fallimentari previste nella misura fissa di dieci anni dall’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), e la sentenza n. 112 del 2019, relativa alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui assoggetta alla confisca per equivalente non soltanto il profitto dell’illecito, ma anche i mezzi impiegati per commetterlo.
In tale quadro interpretativo il rimettente richiama i princìpi affermati dalla giurisprudenza costituzionale giusta i quali «[i]n linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono [...] in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenza n. 50 del 1980). Ribadisce, dunque, che «se la “regola” è rappresentata dalla “discrezionalità”, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo “indiziata” di illegittimità; e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda “proporzionata” all’intera gamma dei comportamenti tipizzati» (sentenza n. 222 del 2018).
Il rimettente aggiunge che la norma censurata sarebbe altresì in contrasto con l’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a tenor del quale «[l]e pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Infatti, sostiene, la decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, del 25 ottobre 2004, che prevede «norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti», ribadisce il doveroso rispetto del principio di proporzione nella determinazione del trattamento sanzionatorio, da ritenersi non compatibile con la previsione di pene che siano fisse nel loro quantum.
Nel ricordare la giurisprudenza costituzionale formatasi anche a proposito della proporzione delle sanzioni amministrative di carattere “punitivo” (vengono richiamate le sentenze n. 185 del 2021 e n. 40 del 2023) e delle sanzioni disciplinari (viene richiamata la sentenza n. 51 del 2024), l’ordinanza di rimessione ritiene che «la pena rigida di ventiquattro anni di reclusione […] non può ritenersi “ragionevolmente proporzionata” rispetto all’intera gamma dei comportamenti riconducibili al tipo di reato, che si presta a ricomprendere fenomeni associativi dalle caratteristiche estremamente eterogenee e con ben diverso grado di pericolosità per i beni giuridici tutelati».
In primo luogo, non sarebbe possibile operare una diversificazione della risposta punitiva nella fattispecie di associazioni dedite al traffico di droghe “leggere”; inoltre, non sarebbe possibile differenziare il trattamento sanzionatorio in base ai requisiti, più o meno strutturati, dei sodalizi criminosi finalizzati al narcotraffico.
Tanto premesso, il rimettente sostiene che «[l]’espunzione dal testo dell’art. 74 DPR 309/90 della circostanza aggravante di cui al comma 4° con riferimento alla posizione del “capo-promotore” consentirebbe al giudice di commisurare la pena nella forbice tra un minimo di venti anni (previsto dall’art. 74 comma 1°) ed un massimo di ventiquattro di reclusione (art. 23 c.p.) in presenza di un’associazione armata e con un numero di associati superiore a dieci, tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze indicate nell’art. 133 c.p., così da commisurare la pena al caso concreto ed alla personalità dell’autore, avendo la possibilità di graduare la sanzione secondo i criteri di proporzionalità e di adeguatezza; in tal guisa la pena apparirebbe una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, “capo-promotore” del sodalizio, “in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost.” (così sentenza n. 222 del 2018)».
Né tale conclusione potrebbe essere revocata in dubbio dall’argomento che la cornice edittale prevista dalla disposizione censurata sarebbe comunque “neutralizzabile” in caso di equivalenza o prevalenza di eventuali circostanze attenuanti, essendo stato chiarito dalla giurisprudenza costituzionale che «l’applicazione di circostanze attenuanti è soltanto eventuale, e non è in grado pertanto di sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di una pena manifestamente eccessiva nel minimo» (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 22 del 2023 [recte: n. 63 del 2022].
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le sopradescritte questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
2.1.– Le questioni sarebbero inammissibili per plurimi profili.
Innanzitutto, viene eccepito un difetto di rilevanza, evincendosi dalla scarna motivazione dell’ordinanza di rimessione che la questione è meramente ipotetica ed eventuale, limitandosi il giudice a quo ad affermare che «nell’eventualità del rigetto di tutti i motivi di gravame proposti dalla difesa», la Corte d’appello «si troverebbe nella condizione di confermare anche il trattamento sanzionatorio comminato all’imputato dal GUP, dovendo fare applicazione della disposizione censurata senza possibilità di operare un’eventuale graduazione della pena rispetto al disvalore del fatto ed alla personalità dell’imputato», sulla base di una valutazione del tutto astratta.
Un’ulteriore causa di inammissibilità starebbe nella formulazione del petitum, in quanto esorbitante o aberrante rispetto alle questioni sollevate: il rimettente omette di indicare la diversa misura di pena da potersi applicare nel caso di specie, sollecitando peraltro un’espunzione della circostanza aggravante, che «è cosa ben diversa dall’aumento di pena (che deriva [da] detta aggravante)».
2.2.– Le questioni sarebbero comunque manifestamente infondate, in quanto si risolverebbero nella sollecitazione di un intervento creativo di questa Corte, che, lungi dal «ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico», imporrebbe una elaborazione ex novo del trattamento sanzionatorio relativo al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, da ottenersi «con l’abrogazione di un’aggravante sulla cui legittimità costituzionale non pare esservi dubbio alcuno».
In ogni caso, le questioni sarebbero manifestamente infondate anche perché non sarebbero ravvisabili alcuna irragionevolezza o sproporzione del trattamento sanzionatorio né una correlativa violazione del principio della funzione rieducativa della pena: le censure del rimettente parrebbero frutto di un esame astratto e parziale della norma incriminatrice, privo di un concreto confronto con la peculiarità della fattispecie di un sodalizio articolato e armato finalizzato al traffico di sostanze stupefacenti.
3.– Si è costituita in giudizio la parte V. A., appellante nel giudizio a quo, concludendo per la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.
Nel richiamare lo svolgimento del processo a quo e i principali argomenti dell’ordinanza di rimessione, la parte illustra diffusamente gli approdi dottrinali e i tracciati della giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzione della pena e sull’illegittimità costituzionale delle pene fisse.
Con una successiva memoria, oltre ad arricchire i richiami giurisprudenziali in ordine alla ritenuta fondatezza delle questioni, la parte replica alle eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura dello Stato, citando la sentenza di questa Corte n. 113 del 2025 a proposito della rilevanza della questione sull’entità della pena nel processo penale e contestando la natura esorbitante o aberrante del petitum.
4.– Ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’Unione camere penali italiane (UCPI) ha depositato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae, chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate.
L’opinione è stata ammessa con decreto presidenziale del 1° settembre 2025.
L’amicus curiae svolge considerazioni analoghe a quelle del rimettente e della parte, evidenziando che la pena fissa è sospettata di illegittimità costituzionale per il difetto di graduabilità rispetto alla concreta gravità della fattispecie; illegittimità che non sarebbe superabile «nemmeno derubricando la pena dell’art. 74 come “pena fissa non assoluta” per la possibilità per il giudice di ricorrere alle circostanze attenuanti (anche le generiche) al fine di ridurre il carico sanzionatorio e garantire così una maggiore simmetria tra gravità del fatto concreto e pena irrogata». Sostiene, inoltre, la fondatezza della censura prospettata con riferimento all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, iscritta al n. 60 reg. ord. del 2025, la Corte d’appello di Lecce, sezione unica penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 4, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede per il “capo-promotore” di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, aggravata dalla disponibilità di armi e dal numero di associati superiore a dieci, «la pena fissa di 24 anni di reclusione».
1.1.– Quanto ai fatti di causa, il giudice a quo premette che: l’appellante è stato condannato all’esito del giudizio abbreviato a una pena finale di venti anni di reclusione, alla cui determinazione il giudice di primo grado è pervenuto partendo da una pena base, per il reato associativo di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 aggravato ai sensi dei commi 3 e 4, pari ad anni ventiquattro di reclusione, aumentata per la recidiva e per le aggravanti contestate a trentasei anni, contenuta, ai sensi dell’art. 78 cod. pen., in anni trenta, infine ridotta, per la scelta del rito, appunto a venti anni.
Le questioni sarebbero dunque rilevanti in quanto, «nell’eventualità del rigetto di tutti i motivi di gravame proposti dalla difesa», la Corte d’appello «si troverebbe nella condizione di confermare anche il trattamento sanzionatorio comminato all’imputato dal GUP, dovendo fare applicazione della disposizione censurata senza possibilità di operare un’eventuale graduazione della pena rispetto al disvalore del fatto ed alla personalità dell’imputato».
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la previsione normativa di cui all’art. 74, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990 contrasti con gli artt. 3 e 27 Cost., nonché con l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Preliminarmente va rilevato che, come risulta da quanto prima riportato, l’ordinanza di rimessione richiama anche il comma 1 dell’art. 74, ma tale richiamo è meramente formale e deve ritenersi incluso nella censura del comma 4, considerando che il comma 1 disciplina la fattispecie base del reato associativo e non è investito da alcuna specifica censura.
Il giudice a quo osserva che la disposizione censurata prevede «una pena che può qualificarsi come “fissa”, in quanto “non inferiore a ventiquattro anni di reclusione”, a fronte del limite massimo di tale pena detentiva stabilito, nell’art. 23 c.p., sempre in ventiquattro anni». Tale trattamento sanzionatorio, essendo rigido e non modulabile secondo i criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen., non sarebbe compatibile con i princìpi costituzionali di proporzionalità e necessaria individualizzazione della pena.
A conforto del dubbio di legittimità costituzionale, il rimettente richiama numerose pronunce di questa Corte in materia di pene fisse.
2.– Le eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza proposte dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, descritte in narrativa, non sono meritevoli di accoglimento.
2.1.– La prima eccezione di difetto di rilevanza è basata sul rilievo che le questioni sarebbero meramente ipotetiche ed eventuali, limitandosi il giudice a quo ad affermare che «nell’eventualità del rigetto di tutti i motivi di gravame proposti dalla difesa», la Corte d’appello «si troverebbe nella condizione di confermare anche il trattamento sanzionatorio comminato all’imputato dal GUP, dovendo fare applicazione della disposizione censurata senza possibilità di operare un’eventuale graduazione della pena rispetto al disvalore del fatto ed alla personalità dell’imputato», sulla base di una valutazione del tutto astratta.
Sennonché, come recentemente chiarito da questa Corte, «il processo penale non consente oggi in via generale (al di fuori della specifica ipotesi prevista, ora, dall’art. 545- bis cod. proc. pen.) una scissione del giudizio in due distinti momenti: l’uno potenzialmente sfociante in una pronuncia (non definitiva) sul solo an della responsabilità dell’imputato per i reati ascrittigli, l’altro dedicato alla determinazione della pena a carico dell’imputato già riconosciuto colpevole. Ciò costringe il giudice a formulare eventuali questioni di legittimità costituzionale in una fase processuale in cui non ha ancora statuito sulla colpevolezza dell’imputato. In questa fase, sarebbe evidentemente improprio richiedere – ai fini dell’ammissibilità delle questioni – una puntuale motivazione in proposito. Una tale motivazione finirebbe, anzi, per anticipare valutazioni che il giudice ha l’obbligo di svolgere soltanto nella sentenza che chiude il processo. Conseguentemente – e a meno che dall’ordinanza di rimessione emerga evidente l’assenza di responsabilità penale dell’imputato per i reati ascrittigli, ovvero lo stesso giudice si riservi espressamente una tale valutazione esprimendo così, in sostanza, i propri dubbi in proposito (come nel caso di cui all’ordinanza n. 56 del 2023) – le questioni sull’entità della pena per il reato contestato sollevate nel corso di un giudizio penale suscettibile di sfociare in una sentenza di condanna non possono, di regola, essere considerate premature» (sentenza n. 113 del 2025).
2.2.– L’ulteriore eccezione di inammissibilità concerne la formulazione del petitum, che sarebbe esorbitante o aberrante rispetto alle questioni sollevate, in quanto il rimettente, sostiene la difesa erariale, ometterebbe di indicare la diversa misura della pena da applicare nel caso di specie, sollecitando peraltro l’espunzione della circostanza aggravante, che «è cosa ben diversa dall’aumento di pena (che deriva [da] detta aggravante)». Nemmeno essa merita accoglimento.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 175 del 2018; in tal senso, altresì, sentenza n. 176 del 2019).
Nel caso in esame, sebbene il rimettente solleciti la «espunzione dal testo dell’art. 74 DPR 309/90 della circostanza aggravante di cui al comma 4° con riferimento alla posizione del “capo-promotore”», in tal senso sovrapponendo il piano della fattispecie aggravante al diverso profilo del trattamento sanzionatorio, è possibile ritenere che dal tenore complessivo della motivazione emergano con sufficiente chiarezza il contenuto e il verso delle censure. Il petitum dell’ordinanza è volto, infatti, a “consentire” al giudice «di commisurare la pena nella forbice tra un minimo di venti anni (previsto dall’art. 74 comma 1°) ed un massimo di ventiquattro di reclusione (art. 23 c.p.) in presenza di un’associazione armata e con un numero di associati superiore a dieci, tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze indicate nell’art. 133 c.p., così da commisurare la pena al caso concreto ed alla personalità dell’autore, avendo la possibilità di graduare la sanzione secondo i criteri di proporzionalità e di adeguatezza».
3.– Tanto premesso, va preliminarmente rilevato che la censura proposta con riferimento all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE deve essere dichiarata inammissibile, in quanto, oltre a non essere stata introdotta invocando (nemmeno nel solo dispositivo) il parametro interponente dell’art. 117, primo comma, Cost., risulta apoditticamente prospettata senza alcuna adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni di violazione del parametro evocato. Come invece affermato, fra le molte, dalla sentenza n. 135 del 2023, «[p]er giurisprudenza costante di questa Corte deve ritenersi “inammissibile la questione di legittimità costituzionale posta senza un’adeguata ed autonoma illustrazione, da parte del giudice rimettente, delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro evocato” (sentenza n. 252 del 2021 e, da ultimo, sentenze n. 2 del 2023, n. 263, n. 256, n. 253 e n. 128 del 2022)».
4.– Va invece rilevato d’ufficio un diverso e assorbente profilo di inammissibilità delle questioni, consistente nell’erroneità del presupposto interpretativo, determinata anche da un’incompleta ricostruzione del quadro normativo.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, cui consegua un difetto dell’itinerario motivazionale dell’ordinanza di rimessione determina l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, potendo essa incidere sia sulla rilevanza che sulla non manifesta infondatezza delle medesime, precludendone quindi lo scrutinio nel merito (ex plurimis, sentenze n. 81 del 2022, n. 201, n. 61 e n. 15 del 2021, n. 264, n. 213 del 2020 e n. 27 del 2015; ordinanze n. 229 del 2020, n. 162 del 2019 e n. 244 del 2017). Al riguardo, è stato più volte ribadito che «l’incompleta ricostruzione della cornice legislativa e giurisprudenziale di riferimento rende inammissibili le questioni sollevate solo se compromette irrimediabilmente l’iter logico argomentativo posto a fondamento delle valutazioni del rimettente sia sulla rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 61 del 2021, n. 136 del 2020, n. 150 del 2019 e n. 27 del 2015; ordinanze n. 108 del 2020, n. 136 e n. 30 del 2018 e n. 88 del 2017)» (sentenza n. 194 del 2021).
L’ordinanza introduttiva del presente giudizio appare caratterizzata proprio da questo difetto di ricostruzione del quadro normativo. Il verso delle censure è infatti orientato dal presupposto dell’asserita natura di «pena fissa» della reclusione «non inferiore a ventiquattro anni», che – considerati i princìpi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale – ne determinerebbe l’illegittimità. Tale presupposto è però fallace.
4.1.– Va preliminarmente osservato che per il reato associativo commesso da chi riveste un ruolo apicale, di cui all’art. 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, è prevista la pena della «reclusione non inferiore a venti anni». È qui stabilito, dunque, soltanto il minimo edittale, sicché, ai sensi della norma generale di cui all’art. 23 cod. pen., la pena della reclusione può essere in tal caso determinata tra un minimo di venti anni e un massimo di ventiquattro anni. La pena prevista per la fattispecie-base, pertanto, non è fissa.
Analogamente, il comma 4 dello stesso art. 74, oggetto specifico delle censure del rimettente, contempla, per il soggetto che abbia un ruolo apicale nella commissione del reato associativo pluriaggravato dal numero di associati (comma 3) e dalla disponibilità di armi (comma 4), una pena che «non può essere inferiore a ventiquattro anni» di reclusione.
Questa previsione, che disciplina il trattamento sanzionatorio di una fattispecie aggravante, va a sua volta letta alla luce della norma generale dell’art. 64, primo comma, cod. pen. relativa all’ipotesi del riconoscimento di una sola circostanza aggravante, a tenor della quale, «[q]uando ricorre una circostanza aggravante, e l’aumento di pena non è determinato dalla legge, è aumentata fino a un terzo la pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso».
Così disponendo, l’art. 64 cod. pen. fa sì che, qualora l’aumento di pena per una circostanza aggravante non sia determinato espressamente dalla legge (come invece accade nella fattispecie qui scrutinata, quanto all’aumento del minimo), possa essere disposto un aumento fino a un terzo.
Occorre altresì sottolineare che il generale criterio moderatore previsto dall’art. 66 cod. pen., nel caso di concorso di più circostanze aggravanti, stabilisce che l’aumento non può superare il triplo del massimo stabilito dalla legge per il reato-base, e comunque la pena di anni trenta se si tratta di reclusione.
Tale inquadramento generale appare utile a evidenziare la duplice forma di incidenza delle circostanze sulla pena: per aumento o diminuzione predeterminati a livello edittale dal legislatore (in misura fissa o con l’indicazione di un limite minimo e/o di un limite massimo); per aumento o diminuzione frazionari (che il giudice deve operare sulla pena-base nel rispetto dei limiti massimi fissati dal codice).
4.2.– Il comma 4 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, qui censurato, si limita a stabilire l’aumento minimo della pena (pari a quattro anni), senza incidere su quello massimo (pari a un terzo della pena edittale ai sensi dell’art. 64 cod. pen.), la cui misura ovviamente dipende dalla pena-base determinata in concreto dal giudice nell’ambito del compasso edittale (tra 20 e 24 anni di reclusione) risultante dal comma 1 dello stesso art. 74 e dalla norma generale di cui all’art. 23 cod. pen. Di conseguenza, una forbice extra-edittale è comunque presente e, qualora la pena-base sia determinata nel massimo edittale di ventiquattro anni, l’aumento frazionario può giungere sino a trenta anni di reclusione (per effetto del criterio moderatore previsto dal codice).
4.3.– Tanto premesso, il rimettente invoca l’asserita natura di «pena fissa» della reclusione «non inferiore a ventiquattro anni» per sollecitare una declaratoria di illegittimità costituzionale che deriverebbe dai princìpi affermati in materia da questa Corte.
Tuttavia, anche in dottrina si è escluso che i casi di pena indicata soltanto nel minimo potessero inquadrarsi nella nozione di pena fissa.
La fattispecie della “pena fissa”, invero, è integrata unicamente dai trattamenti sanzionatori del tutto anelastici, in cui la sovrapposizione fra l’astratta comminatoria edittale e la concreta irrogazione della pena è completa: in un simile caso il giudice non può procedere ad alcun adattamento. Diversa, invece, è la fattispecie del trattamento sanzionatorio solo parzialmente anelastico, che si ha quando la pena non è compiutamente graduabile dal giudice sulla base degli ordinari criteri di commisurazione.
Così delimitato il campo, l’ipotesi della pena detentiva autenticamente fissa si rivela, almeno nel corpus codicistico, del tutto marginale. I casi paradigmatici sono quello dell’ergastolo (che lo è logicamente, ma – come risulta dalla sentenza di questa Corte n. 94 del 2023 – costituisce una pena illegittima solo quando è “indefettibile”) e quelli della pena della «reclusione di anni trenta» prevista per le ipotesi di delitti aggravati dall’evento del sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630, secondo comma, cod. pen., come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, recante «Norme penali e processuali per la prevenzione e repressione di gravi reati», convertito, con modificazioni, nella legge 18 maggio 1978, n. 191), a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis, secondo comma, cod. pen., come introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 59 del 1978, come convertito) e a scopo di coazione (art. 289-ter, secondo comma, cod. pen., inserito dall’art. 2, comma 1, lettera a, del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», ma già previsto dall’art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718, recante «Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979»), da cui derivi la morte quale conseguenza non voluta.
4.4.– Ciò posto, va precisato che, a partire dalla sentenza n. 50 del 1980, questa Corte ha affermato l’esistenza di un sospetto di illegittimità costituzionale delle pene fisse, entro un sindacato di costituzionalità calibrato non più soltanto sull’art. 27, primo e terzo comma, Cost., ma altresì sull’art. 3 Cost.
Si è così manifestata una propensione per la graduabilità del trattamento sanzionatorio quale strumento di adattamento della pena al concreto fatto-reato: «[i]n questi termini, sussiste di regola l’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, “proporzionale”, delle pene inflitte con le sentenze di condanna. Di tale esigenza, appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice costituiscono lo strumento normale. In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenza n. 50 del 1980).
Pur ribadendo la segnalata «tendenziale contrarietà delle pene fisse al “volto costituzionale” dell’illecito penale», questa Corte ha nondimeno chiarito come essa «debba intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso […] non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide e articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice» (ordinanza n. 91 del 2008, concernente l’aumento frazionario fisso di pena previsto dall’art. 99, primo, terzo e quarto comma, cod. pen. nel caso di recidiva reiterata), escludendo altresì dal perimetro delle pene fisse l’ipotesi delle pene pecuniarie «proporzionali», la cui eventuale illegittimità «non deriverebbe, però, dalla lamentata, ma insussistente, loro fissità strutturale; né si ricollegherebbe alla mancata previsione di un valore massimo; essa, semmai, potrebbe derivare dalla irragionevolezza o dalla sproporzione dei fattori da considerare nel computo della pena: del valore-base o dell’elemento moltiplicatore prescelti dal legislatore in relazione alla fattispecie di reato alla quale si devono applicare» (sentenza n. 142 del 2017). Analogamente, è stata esclusa l’illegittimità costituzionale dell’aumento di pena in misura fissa previsto dall’art. 590-ter cod. pen. («la pena è aumentata da un terzo a due terzi e comunque non può essere inferiore a tre anni») per l’ipotesi dell’aggravante della fuga del conducente in caso di lesioni personali stradali e nautiche. La relativa questione di legittimità costituzionale, infatti, è stata ritenuta non fondata anche in quanto il trattamento sanzionatorio doveva considerarsi proporzionato, tenuto conto del disvalore delle condotte oggetto di previsione e della possibilità di applicare le circostanze attenuanti, che rendeva “non assoluta” la fissità della pena (sentenza n. 195 del 2023).
Al contrario, in coerenza con i princìpi già affermati dalla citata sentenza n. 50 del 1980, questa Corte, ravvisando l’ipotesi di una vera e propria pena fissa, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle pene accessorie fallimentari previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare, che stabiliva una pena indefettibile di dieci anni. Al riguardo, con la sentenza n. 222 del 2018 si è innanzitutto ribadito che «se la “regola” è rappresentata dalla “discrezionalità”, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo “indiziata” di illegittimità; e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda “proporzionata” all’intera gamma dei comportamenti tipizzati». Ciò posto, questa Corte ha affermato che «una durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi “ragionevolmente ‘proporzionata’ rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”, in base al poc’anzi menzionato test enunciato dalla sentenza n. 50 del 1980. […] Una simile rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; e appare dunque distonica rispetto al menzionato principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio».
5.– Alla stregua delle considerazioni che precedono è dunque opportuno precisare che, mentre la “pena fissa” è oggetto di una presunzione, sia pur solo relativa, di illegittimità costituzionale, una pena come quella qui in considerazione, caratterizzata non dalla fissità, ma da un profilo di pur evidente irrigidimento, è soggetta all’ordinario sindacato di costituzionalità sulla dosimetria della pena.
La norma censurata, come già rilevato, non contempla una “pena fissa”, ma una pena identificata solo nel minimo, nel senso che determina un aumento fisso del solo minimo edittale nel caso di concorso di circostanze aggravanti (in tal senso si è pronunciata altresì la Corte di cassazione, sesta sezione penale, sentenza 18 febbraio-21 marzo 2025, n. 11494, dichiarando manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale della medesima norma oggetto di scrutinio in questa sede). Essa, infatti, come detto (v. supra, punto 4.2.) si limita a stabilire l’aumento minimo della pena (pari a quattro anni), senza incidere su quello massimo (pari a un terzo della pena edittale), in tal modo salvaguardando una forbice extra-edittale che lascia comunque aperto un non trascurabile compasso, idoneo a consentire una sufficiente elasticità nella commisurazione giudiziale della pena, nei termini sopra indicati.
Va inoltre considerato che, venendo in rilievo il trattamento sanzionatorio previsto per una fattispecie circostanziale, la pena di ventiquattro anni di reclusione è costruita dal legislatore come risultato del possibile aumento dovuto al riconoscimento di due aggravanti: effetto che, in concreto, ben potrebbe essere eliso dal concorso di una o più circostanze attenuanti.
Ne consegue che i princìpi invocati dal rimettente mediante il richiamo alla giurisprudenza costituzionale sulle “pene fisse” non appaiono pertinenti alla disciplina censurata. Le questioni vanno pertanto dichiarate inammissibili per erroneità del presupposto interpretativo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione e 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dalla Corte d’appello di Lecce, sezione unica penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Massimo LUCIANI, Redattore
Igor DI BERNARDINI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 dicembre 2025
Il Cancelliere
F.to: Igor DI BERNARDINI
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