SENTENZA N. 199
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 21 settembre 2021, n. 127 (Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening), convertito, con modificazioni, nella legge 19 novembre 2021, n. 165, introduttivo dell’art. 9-quinquies del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87; dell’art. 1 del decreto-legge 7 gennaio 2022, n. 1 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore), convertito, con modificazioni, nella legge 4 marzo 2022, n. 18, introduttivo degli artt. 4-quater e 4-quinquies, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 (Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76, promosso dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra E.A. L., G.B.R. C. e Assessorato delle infrastrutture e della mobilità della Regione siciliana, con ordinanza del 17 febbraio 2025, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2025.
Visto l’atto di intervento di S. G.;
udita nella camera di consiglio del 17 novembre 2025 la Giudice relatrice Maria Alessandra Sandulli;
deliberato nella camera di consiglio del 17 novembre 2025.
Ritenuto in fatto
1.‒ Con ordinanza del 17 febbraio 2025 (reg. ord. n. 74 del 2025), il Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, commi primo e secondo, e 36 della Costituzione, dell’art. 1 del decreto-legge 21 settembre 2021, n. 127 (Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening), convertito, con modificazioni, nella legge 19 novembre 2021, n. 165, «nella parte in cui prevede che, “ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro, nell’ambito del territorio nazionale, … è fatto obbligo di possedere e di esibire, su richiesta, una delle certificazioni verdi COVID-19 da vaccinazione, guarigione o test”, nonché nella parte in cui prevede che il lavoratore pubblico privo di certificazione verde “è considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della predetta certificazione” e, comunque, non oltre la “cessazione dello stato di emergenza” e che “per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati”»; nonché dell’art. 1 del decreto-legge 7 gennaio 2022, n. 1 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore), convertito, con modificazioni, nella legge 4 marzo 2022, n. 18, «nella parte in cui prevede che l’obbligo vaccinale per la prevenzione del Covid-19 “si applica” a tutti i cittadini “che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età”, che tutti i lavoratori, pubblici e privati, ultracinquantenni “ai quali si applica l’obbligo vaccinale” “per l’accesso ai luoghi di lavoro nell’ambito del territorio nazionale, devono possedere e sono tenuti a esibire una delle certificazioni verdi COVID-19 di vaccinazione o di guarigione” e che i lavoratori ultracinquantenni destinatari dell’obbligo vaccinale, qualora “comunichino di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 di cui al comma 1 o risultino privi della stessa al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro” non possono accedere “ai luoghi di lavoro” e “sono considerati assenti ingiustificati” e che “per i giorni di assenza ingiustificata …, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati”».
2.‒ Il giudice a quo riferisce che le due ricorrenti nel giudizio principale sono dipendenti a tempo indeterminato della Regione siciliana, in servizio presso l’Ufficio provinciale della Motorizzazione civile di Catania, alle quali, a decorrere dal 15 ottobre 2021, in attuazione di quanto disposto dall’art. 1 del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, per il settore pubblico (che ha introdotto l’art. 9-quinquies nel decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, recante «Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19», convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87), sarebbe stato impedito l’accesso alla sede di lavoro perché prive di una delle richieste certificazioni verdi COVID-19 attestanti la vaccinazione, la guarigione o l’effettuazione di un test antigenico rapido o molecolare (cosiddetto green pass base).
L’impedimento al suddetto accesso sarebbe perdurato con l’entrata in vigore dell’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni disposto dall’art. 1 del d.l. n. 1 del 2022, come convertito, (che ha introdotto gli artt. 4-quater e 4-quinquies nel decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, recante «Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici», convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76), dal momento che le stesse ricorrenti non avrebbero inteso sottoporsi al vaccino e, conseguentemente, non avrebbero potuto accedere al luogo di lavoro in quanto prive della richiesta certificazione.
Poiché il lavoratore privo del green pass base e, dopo l’introduzione dell’obbligo vaccinale, il lavoratore ultracinquantenne privo del green pass rafforzato, non poteva accedere al luogo di lavoro e veniva, di conseguenza, considerato assente ingiustificato, con perdita della retribuzione e di ogni altro compenso o emolumento, le ricorrenti, ultracinquantenni prive di green pass base e, poi, di green pass rafforzato, come precisa l’ordinanza, erano state considerate dal 15 ottobre 2021 assenti ingiustificate senza diritto alla retribuzione e a qualsiasi altro emolumento legato al rapporto di lavoro.
Con ricorso depositato in data 26 marzo 2022, le due lavoratrici chiedevano, pertanto, in via d’urgenza «di essere reintegrate nel posto di lavoro, con il pagamento delle retribuzioni dovute dal momento dell’interdizione dal luogo di lavoro sino all’effettiva reintegra, ovvero, in subordine, di disporre il pagamento di un congruo assegno alimentare, in attesa della definizione del processo». Nel merito, prospettando l’illegittimità costituzionale delle richiamate disposizioni per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 32 e 36 Cost., le stesse chiedevano l’accertamento del loro «diritto ad essere immediatamente reintegrate nel posto di lavoro e ad ottenere il pagamento della retribuzione, e di ogni altro emolumento comunque denominato, incluso il versamento dei contributi pensionistici direttamente all’Ente previdenziale, con decorrenza dal 15 ottobre 2021, o in via meramente gradata con decorrenza dal 15 febbraio 2022, e fino alla effettiva reintegra, con conseguente condanna della parte resistente alla immediata reintegra delle lavoratrici ed al pagamento delle somme pretese» e, sempre in via gradata, l’accertamento del loro «diritto, per il periodo ricompreso tra il 15 ottobre 2021 e l’effettiva ripresa del servizio, a percepire quanto meno un assegno c.d. alimentare, in ragione del 50% della retribuzione corrente, o di quella diversa, maggior o minore, somma che dovesse essere ritenuta equa e di giustizia, oltre agli assegni per i carichi di famiglia».
All’udienza fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, le ricorrenti rinunciavano alla domanda in via d’urgenza, dando atto di essere state riammesse in servizio il 2 maggio 2022.
In esito all’udienza fissata per la trattazione del merito, il Tribunale ha adottato l’ordinanza in epigrafe, con la quale ha rimesso a questa Corte le già indicate questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, e 1 del d.l. n. 1 del 2022, come convertito, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, commi primo e secondo, e 36 Cost.
3.‒ Esclusa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il rimettente reputa rilevanti le proposte questioni sul presupposto che «solo ove le disposizioni di cui si chiede lo scrutinio di costituzionalità venissero ritenute illegittime, nella parte in cui, appunto, impongono l’esclusione dal contesto lavorativo delle ricorrenti ed il conseguente venir meno del loro diritto al correlato trattamento retributivo, ivi compresa l’erogazione di un assegno alimentare o di qualsiasi altro emolumento di natura assistenziale, le domande attoree potrebbero trovare accoglimento».
4.‒ In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo espone unitariamente le ritenute ragioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, osservando che «analoghi sono i presupposti applicativi (mancata vaccinazione) e analoghe sono le conseguenze previste, nell’un caso per l’inadempimento dell’obbligo vaccinale e, nell’altro caso, per la mancata sottoposizione a vaccinazione […], e cioè la sostanziale esclusione dal mondo del lavoro, con la conseguente perdita del relativo trattamento economico» e che «è possibile quindi ritenere che già il citato articolo [1] (così come anche gli artt. 2 e 3) del d.l. n. 127/2021 contenessero un obbligo surrettizio di vaccinazione, essi ponendo i lavoratori di fronte all’alternativa ineludibile di vaccinarsi (qualora non guariti o esentati o, come vedremo, qualora non intendessero sottoporsi a tampone ogni due giorni) o di essere temporaneamente estromessi dal posto di lavoro».
Ciò posto, l’ordinanza tratta preliminarmente le questioni riferite agli artt. 2, 3, 4 e 36 Cost, rilevando innanzitutto che l’art. 2 Cost., nel prevedere una particolare tutela dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (tra cui rientrano i luoghi di lavoro), «non sembra permettere l’adozione di misure che, per l’intransigenza e il rigorismo che le connoti, possano arrivare fino al punto di ledere la dignità della persona, circostanza che sicuramente si verifica quando, come disposto dalle norme denunciate, a questa si precluda l’accesso al luogo di lavoro e ad ogni forma di trattamento retributivo, normalmente destinato al sostentamento proprio e della propria famiglia» (a sostegno viene richiamata la sentenza n. 137 del 2021 di questa Corte, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92, recante «Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita», nella parte in cui prevedeva la revoca di alcune prestazioni assistenziali quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, anche nei confronti di coloro che, condannati per determinati reati, scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere).
Per effetto delle disposizioni censurate, infatti, i lavoratori ultracinquantenni inadempienti all’obbligo vaccinale, e, prima dell’introduzione del suddetto obbligo, i lavoratori privi di green pass base, avrebbero perso «ogni possibilità di far fronte alle esigenze basilari della loro vita, non potendo fare affidamento su alcuna forma di sostegno economico, e, ancor prima e ancor più significativamente, si trovano ad essere privati del diritto fondamentale alla libera esplicazione della loro personalità sul luogo di lavoro». Le disposizioni in esame violerebbero, quindi, il diritto dei lavoratori non vaccinati alla dignità e all’identità personale, intesa come libertà di autodeterminarsi nella vita privata.
In particolare, a proposito dell’obbligo vaccinale, il rimettente espone che sarebbe, infatti, ovvio che, non potendo più frequentare l’ambiente di lavoro, mantenere i rapporti con i colleghi e con gli utenti e arricchire sul campo la propria qualificazione professionale, «i lavoratori non vaccinati, costretti a restare a casa in condizioni di piena inoperosità, hanno subito una grave e perdurante lesione della loro sfera di dignità personale e di integrità morale, finendo per essere ingiustificatamente ghettizzati e discriminati rispetto alla generalità dei lavoratori e questo per effetto di una loro scelta – quella di non vaccinarsi – libera e consapevole, non costituente né reato né illecito disciplinare». Precludere «al lavoratore non vaccinato la possibilità di espletare la prestazione lavorativa (anziché applicare altre soluzioni, ad es,: la sottoposizione del lavoratore a un rigido sistema di controllo tramite test di rivelazione del virus; l’assegnazione a mansioni diverse, ove possibili, etc.)» significherebbe, inoltre, privarlo di «un sostentamento minimo per far fronte alle proprie esigenze basilari […] ad eccessivo detrimento del valore della dignità della persona, con possibile violazione, oltre che dell’art. 2, anche dell’art. 3 Cost.».
Lesiva della dignità personale sarebbe anche la disposizione introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, che costringeva i lavoratori non vaccinati (tra cui i lavoratori ultracinquantenni prima dell’introduzione dell’obbligo vaccinale), qualora sprovvisti di certificazione di avvenuta guarigione, a sottoporsi periodicamente (ogni due giorni) al test mediante “tampone”, gravandoli così di un onere che «oltre a provocare inevitabili fastidi e sofferenze a livello fisico (provocate dall’inserimento ripetuto dell’apposito attrezzo nelle narici o nella faringe) e sottrazione di tempo di vita alle ordinarie occupazioni personali, a lungo andare comportava un notevole esborso economico per gli interessati».
4.1.‒ Per altro e connesso profilo, l’art. 1 del d.l. n. 1 del 2022, come convertito, violerebbe il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., dal momento che il legislatore, nel sancire un obbligo vaccinale generalizzato e indiscriminato per tutti i soggetti ultracinquantenni, lo avrebbe ancorato esclusivamente a una soglia di età anagrafica e non a effettive esigenze di tutela della salute individuale e di prevenzione della diffusione del virus, «senza che sia dato comprendere le ragioni oggettive di natura sanitaria per le quali una persona sana di 50 anni fosse tenuta a vaccinarsi, mentre un soggetto immunodepresso e fragile di 49 anni, viceversa, fosse esentato dal correlativo obbligo» e «senza operare alcuna ragionevole distinzione tra lavoratori addetti a mansioni comportanti contatti costanti con il pubblico degli utenti (in relazione alle quali avrebbero potuto astrattamente ipotizzarsi esigenze di contenimento del rischio di contagio) e lavoratori (come sembrano essere le odierne ricorrenti, assegnate ad un ufficio della Motorizzazione civile) adibiti a mansioni non comportanti tali rischi».
4.2.‒ Sulla prospettata violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., il rimettente osserva che nel caso di specie difetterebbero le condizioni richieste da questa Corte per imporre un trattamento sanitario obbligatorio, quale appunto sarebbe la vaccinazione prevista dalle disposizioni in esame, in quanto la stessa non preserverebbe lo stato di salute di coloro che non vi si sono assoggettati e non escluderebbe conseguenze negative sullo stato di salute di coloro che vi hanno fatto ricorso. Quanto alla prima condizione, l’ordinanza rileva che è «un dato acquisito che la vaccinazione non ha impedito l’ulteriore circolazione del virus, i soggetti vaccinati potendo ugualmente contagiarsi e contagiare» e che «tutt’al più, ha evitato, nei confronti di taluni soggetti fragili, l’ospedalizzazione, il ricovero nei reparti di terapia intensiva ed il decesso». Quanto alla seconda condizione, reputa che la vaccinazione avrebbe «prodotto, in coloro che ad essa si sono sottoposti, conseguenze lesive che appaiano superiori e più significative di quelle normali ed insite in ogni trattamento sanitario o farmacologico e, pertanto, non “tollerabili”», essendo «cronaca di tutti i giorni il fatto che persone giovani e sane, a volte anche atleti e sportivi famosi, vengano colpite da “malori improvvisi” che ne provocano la menomazione o, in alcuni casi, la morte» (a sostegno viene richiamato il rapporto annuale dell’Agenzia italiana del farmaco, AIFA, sulla sicurezza dei vaccini anti COVID-19 relativo al periodo 27 dicembre 2020-26 dicembre 2022 e uno studio pubblicato sulla rivista Vaccine del 2 aprile 2024). Anziché adottare misure costrittive e generalizzate, sarebbe stato, a suo avviso, pertanto, più ragionevole «affidarsi al principio di auto-responsabilità personale, confidando nella prudenza e nella cautela di coloro che, affetti dal morbo, avrebbero dovuto evitare di uscire da casa e di avere contatti con estranei», nonché al «principio di raccomandazione della vaccinazione» in base al quale «le pubbliche autorità, mediante campagne vaccinali ed altre opportune iniziative informative, dovrebbero tentare di suggerire e consigliare i cittadini, convincendo la massa dei pazienti a sottoporsi volontariamente e coscientemente alla vaccinazione, dopo avere meditato ed essersi formati liberamente una propria opinione al riguardo».
4.3.‒ Con specifico riferimento all’art. 32, secondo comma, Cost., il rimettente osserva che «le estreme e draconiane conseguenze imposte ex lege per i lavoratori non sottoposti a vaccinazione (esclusione dalla sede lavorativa, emarginazione dal contesto lavorativo, assenza dal lavoro, privazione di qualsiasi emolumento legato al rapporto di lavoro), con il necessario clamore creatosi agli occhi dei colleghi e degli utenti, abbiano determinato negli interessati la lesione del loro diritto alla riservatezza e al mantenimento della loro vita lavorativa e di relazione», in contrasto con la disposizione costituzionale che vieta alle leggi in materia di trattamenti sanitari obbligatori di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
4.4.‒ Da ultimo, l’ordinanza rileva che l’impossibilità del lavoratore non vaccinato di accedere a forme di assistenza minime, come quella dell’assegno alimentare, arrecherebbe un ulteriore vulnus all’art. 3 Cost. per violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza, posto che determina la privazione di quelle misure di sostegno «previste persino in caso di sospensione cautelare del lavoratore, laddove quest’ultimo abbia commesso (o sia sospettato di aver integrato la commissione di) determinati fatti costituenti reato, idonei a determinare anche l’irrogazione di sanzioni disciplinari» (sono citate a sostegno varie disposizioni tra cui l’art. 82 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato», e l’art. 76 del Contratto collettivo regionale di lavoro della Regione siciliana del 9 maggio 2019, relativo al triennio giuridico 2016-2018).
5.‒ Le parti del giudizio a quo non si sono costituite innanzi a questa Corte, né è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ha depositato atto d’intervento S. G., esponendo di trovarsi nella medesima posizione delle ricorrenti nel giudizio a quo (ultracinquantenne non vaccinato, interdetto dal lavoro e privato della retribuzione e di ogni altro emolumento) e di aver intrapreso un analogo giudizio innanzi al Tribunale ordinario di Velletri, prospettando le medesime questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Catania. In vista della camera di consiglio, l’interveniente ha depositato memoria fuori termine chiedendo di celebrare il giudizio in udienza pubblica.
Hanno depositato opinioni scritte, ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la Droit Uniforme ASBL, la Confederazione legale per i diritti dell’uomo e l’associazione Avvocati liberi - United Lawyers for Freedom, denunciando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni in esame anche per profili ulteriori rispetto a quelli dedotti nell’ordinanza di rimessione. Le opinioni sono state ammesse con decreto presidenziale del 14 ottobre 2025.
Considerato in diritto
1.‒ Il Tribunale di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 74 del 2025), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, commi primo e secondo, e 36 Cost., dell’art. 1 del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, e dell’art. 1 del d.l. n. 1 del 2022, come convertito.
La prima disposizione ha introdotto l’art. 9-quinquies nel d.l. n. 52 del 2021, come convertito, il quale al comma 1 dispone, per quanto di interesse ai fini del presente giudizio, che «[d]al 15 ottobre 2021 e fino al 31 dicembre 2021, termine di cessazione dello stato di emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, al personale delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, […], ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro, nell’ambito del territorio nazionale, in cui il predetto personale svolge l’attività lavorativa, è fatto obbligo di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19 di cui all’articolo 9, comma 2» e, al comma 6, che «[i]l personale di cui al comma 1, nel caso in cui comunichi di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 o qualora risulti privo della predetta certificazione al momento dell’accesso al luogo di lavoro, al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro, è considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della predetta certificazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021, termine di cessazione dello stato di emergenza, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati».
La seconda disposizione, sempre per quanto di interesse ai fini del presente giudizio, ha introdotto gli artt. 4-quater e 4-quinquies nel d.l. n. 44 del 2021, come convertito, disponendo, che «[d]alla data di entrata in vigore della presente disposizione e fino al 15 giugno 2022, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, di cui all’articolo 3-ter, si applica ai cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione europea residenti nel territorio dello Stato, nonché agli stranieri di cui agli articoli 34 e 35 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età, fermo restando quanto previsto dagli articoli 4, 4-bis e 4-ter» (art. 4-quater, comma 1); che «[a] decorrere dal 15 febbraio 2022, i soggetti di cui agli articoli 9-quinquies, commi 1 e 2, 9-sexies, commi 1 e 4, e 9-septies, commi 1 e 2, del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, ai quali si applica l’obbligo vaccinale di cui all’articolo 4-quater del presente decreto, per l’accesso ai luoghi di lavoro nell’ambito del territorio nazionale, devono possedere e sono tenuti a esibire una delle certificazioni verdi COVID-19 di vaccinazione o di guarigione di cui all’articolo 9, comma 2, lettere a), b) e c-bis), del decreto-legge n. 52 del 2021» (art. 4-quinquies, comma 1); che i «lavoratori di cui al comma 1, nel caso in cui comunichino di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 di cui al comma 1 o risultino privi della stessa al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro, al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, sono considerati assenti ingiustificati, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, fino alla presentazione della predetta certificazione e, comunque, non oltre il 15 giugno 2022. Per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati. Per le imprese, fino al 15 giugno 2022, si applica l’articolo 9-septies, comma 7, del decreto-legge n. 52 del 2021» (art. 4-quinquies, comma 4).
In sintesi, la prima disposizione stabilisce che, «al fine di prevenire la diffusone dell’infezione da SARS-CoV-2», per accedere ai luoghi di lavoro il personale del settore pubblico deve possedere ed esibire una certificazione da vaccinazione, guarigione o test (cosiddetto green pass base: art. 9, comma 1, lettera a-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come convertito e modificato) e che, in caso di mancato possesso della suddetta certificazione, il lavoratore, «al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro», è considerato assente ingiustificato, senza diritto alla retribuzione né altro compenso o emolumento, per i giorni di assenza ingiustificata, sia pure conservando il posto di lavoro e non subendo conseguenze disciplinari. La seconda disposizione sancisce, invece, l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni, stabilendo che, ai fini dell’accesso al luogo di lavoro, i lavoratori (pubblici e privati) destinatari dell’obbligo vaccinale debbano possedere ed esibire una certificazione di vaccinazione o guarigione (cosiddetto green pass rafforzato: art. 9, comma 1, lettera a-ter, del d.l. n. 52 del 2021, come convertito e modificato), e che, in caso di mancato possesso della suddetta certificazione, il lavoratore, «al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro», è considerato assente ingiustificato, senza diritto alla retribuzione né altro compenso o emolumento per i giorni di assenza ingiustificata, sia pure conservando il posto di lavoro e non subendo conseguenze disciplinari. Le conseguenze per il mancato adempimento degli obblighi sanciti dalle due disposizioni sono esattamente le stesse, ma, con l’entrata in vigore della seconda disposizione, l’obbligo vaccinale (o comunque l’obbligo di possedere ed esibire una certificazione di vaccinazione o guarigione, cosiddetto green pass rafforzato) ha sostituito per chi ne fosse destinatario l’obbligo di esibire e possedere il green pass base sancito dalla prima disposizione, il quale ha così continuato a operare esclusivamente per i lavoratori infracinquantenni.
2.‒ Il giudice rimettente ritiene in primo luogo che le conseguenze previste per il mancato adempimento degli obblighi di prevenzione sanitaria sanciti dalle disposizioni censurate ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro siano lesive innanzitutto degli artt. 2, 3, 4 e 36 Cost. Tali conseguenze – individuate nel divieto di accedere ai luoghi di lavoro con perdita della retribuzione e di ogni altro emolumento, ivi compreso l’assegno alimentare – priverebbero i lavoratori inadempienti di «ogni possibilità di far fronte alle esigenze basilari della loro vita, non potendo fare affidamento su alcuna forma di sostegno economico, e, ancor prima e ancor più significativamente, […] del diritto fondamentale alla libera esplicazione della loro personalità sul luogo di lavoro», sicché, non potendo più frequentare l’ambiente di lavoro, mantenere i rapporti con i colleghi e con gli utenti e arricchire sul campo la loro qualificazione professionale, «i lavoratori non vaccinati, costretti a restare a casa in condizioni di piena inoperosità, hanno subito una grave e perdurante lesione della loro sfera di dignità personale e di integrità morale, finendo per essere ingiustificatamente ghettizzati e discriminati rispetto alla generalità dei lavoratori e questo per effetto di una loro scelta – quella di non vaccinarsi – libera e consapevole, non costituente né reato né illecito disciplinare».
2.1.‒ Le suddette conseguenze contrasterebbero altresì con l’art. 32, secondo comma, Cost., il quale preclude alle leggi in materia di trattamenti sanitari obbligatori di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
2.2.‒ Per altro profilo, l’impossibilità del lavoratore non vaccinato di accedere (anche) all’assegno alimentare risulterebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza enunciato dall’art. 3 Cost., considerato che il diritto al suddetto assegno è riconosciuto al lavoratore sospeso cautelarmente dal servizio a seguito di sottoposizione a procedimento penale e/o disciplinare.
2.3.‒ Il rimettente dubita anche della legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale in sé considerato, in tesi surrettiziamente sancito già dal d.l. n. 127 del 2021, laddove pone «i lavoratori di fronte all’alternativa ineludibile di vaccinarsi (qualora non guariti o esentati o, […] qualora non intendessero sottoporsi al tampone ogni due giorni) o di essere temporaneamente estromessi dal posto di lavoro». Secondo l’ordinanza di rimessione, entrambi i suddetti “obblighi” (quello esplicito e quello surrettizio) si sostanzierebbero in un trattamento sanitario obbligatorio non rispettoso dell’art. 32, primo comma, Cost. in quanto non preserverebbe lo stato di salute di coloro che non vi sono assoggettati e non escluderebbe conseguenze negative sullo stato di salute di coloro che vi sono assoggettati. Da un lato, infatti, sarebbe «un dato acquisito che la vaccinazione non ha impedito l’ulteriore circolazione del virus, i soggetti vaccinati potendo ugualmente contagiarsi e contagiare»; dall’altro, la vaccinazione avrebbe «prodotto, in coloro che ad essa si sono sottoposti, conseguenze lesive che appaiano superiori e più significative di quelle normali ed insite in ogni trattamento sanitario o farmacologico e, pertanto, non “tollerabili”», essendo «cronaca di tutti i giorni il fatto che persone giovani e sane, a volte anche atleti e sportivi famosi, vengano colpite da “malori improvvisi” che ne provocano la menomazione o, in alcuni casi, la morte».
2.4.‒ Inoltre, l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni violerebbe il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., determinando una ingiustificata disparità di trattamento tra gli ultracinquantenni e gli infracinquantenni. Come si è già precisato, il giudice a quo contesta che l’obbligo sia ancorato esclusivamente a una soglia di età anagrafica, anziché a effettive esigenze di tutela della salute individuale e di prevenzione della diffusione del virus, e che esso sia stato imposto «senza operare alcuna ragionevole distinzione tra lavoratori addetti a mansioni comportanti contatti costanti con il pubblico degli utenti (in relazione alle quali avrebbero potuto astrattamente ipotizzarsi esigenze di contenimento del rischio di contagio) e lavoratori (come sembrano essere le odierne ricorrenti, assegnate ad un ufficio della motorizzazione) adibiti a mansioni non comportanti tali rischi».
2.5.‒ Dal suo canto, la necessità di «sottoporsi ogni due giorni al tampone» per ottenere il green pass base in assenza di vaccinazione o avvenuta guarigione sarebbe lesiva della dignità della persona, in quanto provocherebbe fastidi e sofferenze a livello fisico, sottrarrebbe tempo alle ordinarie occupazioni personali e comporterebbe «a lungo andare» un notevole esborso economico.
3.‒ In via preliminare, con riguardo all’intervento di S. G., si osserva che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 140 del 2024, n. 39 del 2024, n. 130 del 2023 e n. 158 del 2020), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale). In questo ambito, l’intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto quando si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (art. 4, comma 3, delle Norme integrative) e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 66 del 2025, n. 140, n. 39 e n. 22 del 2024, n. 206 del 2019). Non è, dunque, sufficiente, al fine di rendere ammissibile l'intervento, la circostanza che il soggetto sia titolare di interessi analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, o che sia parte in un giudizio analogo, ma diverso dal giudizio a quo, sul quale la decisione di questa Corte possa influire.
Poiché S. G. non è parte del giudizio a quo e, per quanto sopra richiamato, non può, ritenersi titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, il suo intervento deve essere dichiarato inammissibile.
4.‒ Sempre in via preliminare, occorre richiamare il costante orientamento di questa Corte secondo cui «non possono essere presi in considerazione “ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 56 del 2009, n. 86 del 2008)” (sentenza n. 203 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 150 e n. 85 del 2020)» (sentenza n. 165 del 2020, punto 2.1. del Considerato in diritto). Questa Corte deve pertanto pronunciarsi soltanto sulle questioni poste dall’ordinanza di rimessione, mentre ogni questione diversa, come quelle dedotte nelle opinioni degli amici curiae, rimane estranea al thema decidendum.
5.‒ Passando al merito, per ragioni di ordine logico-espositivo, verranno dapprima esaminate le questioni riguardanti gli obblighi censurati in sé considerati e, poi, quelle riguardanti le conseguenze derivanti dal loro mancato adempimento.
6.‒ La questione riguardante l’obbligo vaccinale sancito dal d.l. n. 1 del 2022, sollevata con riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non è fondata.
6.1.‒ Le ragioni che hanno indotto a introdurre l’obbligo del vaccino anti SARS-CoV-2 per gli ultracinquantenni risultano chiaramente anche dai lavori preparatori della legge di conversione del suddetto decreto, nei quali si sottolinea come la necessità di assicurare la massima copertura vaccinale a tale fascia di popolazione si basi «su evidenze scientifiche nazionali e internazionali accumulate sia nel corso della pandemia che nell’ultimo mese, periodo di crescente circolazione della variante Omicron del virus Sars-CoV-2». Vi si aggiunge poi che «tutti i dati a disposizione hanno infatti mostrato una frequenza maggiore (incidenza) di infezioni gravi ed esiti peggiori in soggetti di questa fascia di età» e si rimarca pure che l’incidenza di ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi «è molto più elevata rispetto alla popolazione più giovane e soprattutto nei soggetti non vaccinati»; e che, di conseguenza, «alla luce dei dati esposti, per la protezione dei soggetti di età superiore a cinquanta anni la vaccinazione e i relativi richiami effettuati secondo le raccomandazioni del Ministero della Salute rimangano l’intervento più efficace per ridurre la malattia grave e il conseguente ricorso all’assistenza sanitaria» (così la relazione di presentazione del d.d.l. di conversione in legge del d.l. n. 1 del 2022).
L’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni introdotto dalla suddetta disposizione teneva, dunque, in considerazione i dati scientifici e statistici in quel momento disponibili, che individuavano in tale fascia di popolazione i soggetti colpiti con più frequenza da infezioni gravi ed esiti peggiori della malattia, con le relative conseguenze in termini di maggior incidenza delle ospedalizzazioni. Come indicato dalla stessa disposizione, l’introduzione dell’obbligo vaccinale mirava, infatti, a «tutelare la salute pubblica» e a «mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», risolvendosi in una misura finalizzata a proteggere i più fragili e a preservare gli ospedali (anche) dall’eccessivo sovraccarico dovuto all’aumento delle ospedalizzazioni.
In altre occasioni, questa Corte ha già rilevato come «le autorità scientifiche attestino concordemente la sicurezza dei vaccini per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 oggetto di [autorizzazione in commercio condizionata] CMA e la loro efficacia nella riduzione della circolazione del virus (come emerge dalla diminuzione del numero dei contagi, nonché del numero di casi ricoverati, in area medica e in terapia intensiva, e dall’entità dei decessi associati al SARS-CoV-2 relativi al periodo che parte dall’inizio della campagna di vaccinazione di massa risalente a marzo-aprile 2021)» e che, pertanto, appare «evidente […], in coerenza con il dato medico-scientifico che attesta la piena efficacia del vaccino e l’idoneità dell’obbligo vaccinale rispetto allo scopo di ridurre la circolazione del virus, la non irragionevolezza del ricorso ad esso, “[a] fronte di ‘un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque’ (sentenza n. 127 del 2022)” (sentenza n. 171 del 2022), caratterizzato da rapidità e imprevedibilità del contagio» (sentenza n. 14 del 2023, punto 11 del Considerato in diritto). Al contempo, la vaccinazione è stata ritenuta una misura proporzionata alle finalità perseguite «in ragione della natura transitoria dell’imposizione dell’obbligo vaccinale, correlata alla sua rigorosa modulazione in stretta connessione con l’andamento della situazione pandemica» (sentenza n. 185 del 2023, punto 7 del Considerato in diritto).
Tali considerazioni valgono anche per la questione odierna.
L’obiettivo di proteggere i soggetti più fragili, coerente con le evidenze scientifiche e statistiche disponibili al tempo, rivela chiaramente una legittima finalità di tutela della salute pubblica, anche in termini di contenimento del carico ospedaliero, che giustifica l’introduzione dell’obbligo in questione. Come più volte affermato da questa Corte, infatti, la discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso cui assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive deve essere esercitata «sulla base delle conoscenze medico-scientifiche fornite dalle autorità di settore al momento dell’assunzione della decisione» (sentenza n. 14 del 2023, punto 8.2. del Considerato in diritto).
Conseguentemente, la non irragionevolezza delle disposizioni attualmente censurate deve essere scrutinata in base alle conoscenze medico-scientifiche disponibili al momento della loro adozione, nonché «in considerazione della peculiarità delle condizioni epidemiologiche» sussistenti a quel momento e, in particolare, «della gravità e dell’imprevedibilità del decorso della pandemia» (sentenza n. 186 del 2023, punto 5.1. del Considerato in diritto).
In definitiva, il fatto che l’obbligo vaccinale sia rivolto esclusivamente ai soggetti ultracinquantenni non determina un’irragionevole disparità di trattamento rispetto a quelli infracinquantenni, ma, come emerge dagli indicati lavoratori preparatori, risponde a una valutazione non irragionevole delle evidenze scientifiche che individuavano nei primi i soggetti più esposti alla malattia severa. E la misura risulta non sproporzionatamente preordinata a tutelare la salute pubblica, in quanto rivolta a proteggere i soggetti più fragili, a contenere il carico ospedaliero, oltre che, pur sempre, a ridurre la circolazione del virus.
6.2.‒ Nemmeno la lamentata assenza di una «ragionevole distinzione tra lavoratori addetti a mansioni comportanti contatti costanti con il pubblico degli utenti (in relazione alle quali avrebbero potuto astrattamente ipotizzarsi esigenze di contenimento del rischio di contagio) e lavoratori (come sembrano essere le odierne ricorrenti, assegnate ad un ufficio della motorizzazione) adibiti a mansioni non comportanti tali rischi» esclude la ragionevolezza e proporzionalità dell’obbligo in esame. Come si è già rilevato, l’obbligo vaccinale censurato è stato introdotto per tutelare tutti i soggetti ultracinquantenni in quanto fragili e più esposti alla malattia severa, a prescindere dalla circostanza che siano lavoratori o meno e dalle mansioni che possano eventualmente svolgere. La censura appare pertanto non fondata anche sotto questo profilo, poiché travisa la ratio sottesa all’imposizione dell’obbligo, ritenendola erroneamente ancorata alla tipologia delle mansioni svolte.
7.‒ Anche la questione sollevata in riferimento all’art. 32, primo comma, Cost., non è fondata.
7.1.‒ Innanzitutto, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, le evidenze scientifiche disponibili al momento di entrata in vigore dell’obbligo vaccinale confermano l’efficacia della vaccinazione anti COVID-19 come misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione. Al riguardo, questa Corte ha già rilevato che, secondo quanto affermato dall’Istituto superiore di sanità (ISS), «“[l]a vaccinazione anti-COVID-19 costituisce una misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2”» e che «[n]umerose evidenze scientifiche internazionali hanno dimostrato l’elevata efficacia dei vaccini anti-COVlD-19 disponibili ad oggi, sia nella popolazione generale sia in specifici sottogruppi di categorie a rischio, inclusi gli operatori sanitari (pagine 2 e 3 della nota dell’ISS)» (sentenza n. 14 del 2023, punto 10.2. del Considerato in diritto). Nella stessa occasione, si è, poi, evidenziato che «[a]l di là della fisiologica eterogeneità delle risposte immunitarie dei singoli individui e della maggiore capacità della variante Omicron di eludere l’immunità rispetto alle varianti precedenti, viene attestato che “la protezione rimane elevata specialmente nei confronti della malattia severa o peggior esito” (pagina 3 della nota dell’ISS)» e che sempre l’ISS ha, inoltre, chiarito che «“anche se l’efficacia vaccinale non è pari al 100%, ma del resto nessun vaccino ha una tale efficacia, l’elevata circolazione del virus SARS-CoV-2 rende comunque rilevante la quota di casi prevenibile (pagina 5 della nota dell’ISS)”» (ancora sentenza n. 14 del 2023, punto 10.2. del Considerato in diritto).
7.2.‒ Quanto al rilievo che i trattamenti sanitari obbligatori non devono nuocere alla salute di chi vi è assoggettato, questa Corte ha già preso in attenta considerazione le conclusioni dell’AIFA e dell’ISS sulla sicurezza dei vaccini anti COVID-19. A tale proposito ha, in particolare, rimarcato che, «[s]econdo le conclusioni esposte, “la maggior parte delle reazioni avverse ai vaccini sono non gravi e con esito in risoluzione completa. Le reazioni avverse gravi hanno una frequenza da rara a molto rara e non configurano un rischio tale da superare i benefici della vaccinazione»; e ha soggiunto che «[n]on è stato inoltre osservato alcun eccesso di decessi a seguito di vaccinazione e il numero di casi in cui la vaccinazione può aver contribuito all’esito fatale dell’evento avverso è estremamente esiguo e comunque non tale da inficiare il beneficio di tali medicinali” (pagine 26 e 27 della nota dell’AIFA)» (sentenza n. 14 del 2023, punto 10.3. del Considerato in diritto). Ha inoltre precisato che «[s]empre relativamente al profilo della sicurezza, l’ISS, a sua volta, attesta che “[a]d oggi miliardi di persone nel mondo sono state vaccinate contro COVID-19. I vaccini anti SARS-CoV-2 approvati sono stati attentamente testati e continuano ad essere monitorati costantemente. Numerose evidenze scientifiche internazionali hanno confermato la sicurezza dei vaccini anti-COVID-19” (pagina 6 della nota dell’ISS)» (ancora sentenza n. 14 del 2023, punto 10.3. del Considerato in diritto).
Del resto, questa Corte ha affermato, anche con riferimento ai vaccini anti SARS-CoV-2, che «il rischio remoto di eventi avversi anche gravi non possa, in quanto tale, reputarsi non tollerabile, costituendo piuttosto […] titolo per l’indennizzo» e che «devono ritenersi leciti i trattamenti sanitari, e tra questi le vaccinazioni obbligatorie, che, al fine di tutelare la salute collettiva, possano comportare il rischio di “conseguenze indesiderate, pregiudizievole oltre il limite del normalmente tollerabile” (sentenza n. 118 del 1996)» (sentenza n. 14 del 2023, punto 5.3. del Considerato in diritto). Il fatto che un trattamento sanitario possa considerarsi lecito pur se comporti il rischio remoto di conseguenze avverse anche gravi, conferma, anche riguardo a tale profilo, la non fondatezza della questione.
8.‒ È parimenti non fondata la questione riguardante la necessità di «sottoporsi ogni due giorni al tampone», dalla quale il rimettente desume una lesione della dignità personale.
Gli unici elementi addotti dall’ordinanza per giustificare la prospettata lesione riguardano la «provocazione di inevitabili fastidi e sofferenze a livello fisico (provate dall’inserimento ripetuto dell’apposito attrezzo nelle narici o nella faringe)», la «sottrazione di tempo di vita alle ordinarie occupazioni personali» e il fatto che «a lungo andare» la sottoposizione a tampone avrebbe comportato «un notevole esborso economico». Anche volendo prescindere dalla genericità delle suddette affermazioni, è evidente che il tempo richiesto per la sottoposizione a tampone non è idoneo a impedire lo svolgimento delle ordinarie occupazioni personali, così come l’operazione in sé, per un verso, non implica alcun apprezzamento negativo della persona che vi è sottoposta e, per l’altro, anche in considerazione della sua breve durata, non appare in grado di provocare sofferenze fisiche significative. Pertanto, non è tale da compromettere o ledere la dignità personale. Inoltre il rimettente non circostanzia l’effettiva entità e incidenza del lamentato «notevole esborso economico», che, in ogni caso, non vale a condizionare l’autodeterminazione al punto da prevalere sull’esigenza di ridurre la diffusione nei luoghi di lavoro di un virus di eccezionale gravità come il SARS-CoV-2. L’obbligo in questione è, invero, una misura meramente transitoria (legata alla straordinarietà del contesto pandemico) che, in modo non irragionevole né sproporzionato, realizza quel necessario «contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con il coesistente diritto degli altri e quindi con l’interesse della collettività» (ancora sentenza n. 14 del 2023, punto 5 del Considerato in diritto, richiamando le sentenze n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990, la quale, al punto 2 del Considerato in diritto, ha affermato che il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività «esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico», fermo restando che l’eventuale sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri «implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri […] di un equo ristoro»).
In altra parte dell’ordinanza, del resto, lo stesso Tribunale individua proprio nella «sottoposizione del lavoratore a un rigido sistema di controllo tramite test di rivelazione del virus» una delle misure alternative che avrebbero potuto consentire al lavoratore non vaccinato di espletare la prestazione lavorativa e così fruire del sostentamento necessario alla soddisfazione dei suoi bisogni primari.
9.‒ Si possono a questo punto esaminare le questioni riguardanti le conseguenze del mancato adempimento degli obblighi introdotti dalle disposizioni censurate ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro, sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 4 e 36 Cost. Come già precisato, le conseguenze sono le stesse per l’inadempimento di entrambi gli obblighi e si sostanziano nel divieto di accedere ai luoghi di lavoro, nell’essere considerati assenti ingiustificati e nella perdita della retribuzione e di ogni altro compenso o emolumento legato al rapporto di lavoro.
9.1.‒ Merita anzitutto rilevare che, nella prospettiva del rimettente, la dedotta lesione della dignità personale finisce per confondersi con quella del diritto al lavoro. È rivelatore in tal senso il passaggio dell’ordinanza in cui si afferma che «il diritto al lavoro costituisce una delle principali prerogative dell’individuo che trova protezione nell’ambito dei “principi fondamentali” della Carta costituzionale […]. Nel momento in cui la legge, nel precludere al lavoratore non vaccinato la possibilità di espletare la prestazione lavorativa […], non consente neppure che lo stesso possa fruire di un sostentamento minimo, essa, così facendo, non può che esporsi al dubbio di rivelarsi eccessivamente sbilanciata e sproporzionata ad eccessivo detrimento del valore della dignità della persona». In sostanza, secondo il giudice rimettente, la lesione della dignità personale deriverebbe a monte dalla lesione del diritto al lavoro, sul presupposto che se un soggetto viene privato del lavoro, della retribuzione e dei benefici connessi alla frequenza dell’ambiente lavorativo (rapporti con i colleghi e con gli utenti e conseguente arricchimento professionale) non è in grado di sostentarsi e di vivere dignitosamente.
9.2.‒ Ciò posto, poiché il luogo di lavoro è uno degli ambienti più esposti alla circolazione del virus, è necessario che la salute dei soggetti che lo frequentano riceva adeguata protezione. A tal fine, come si è già precisato, l’art. 1 del d.l. n. 127 del 2021, come convertito (inserendo l’art. 9-quinquies nel d.l. n. 52 del 2021, come convertito) ha disposto che, per accedere al luogo di lavoro, i lavoratori del settore pubblico, a prescindere dall’età, debbano esibire e possedere il green pass base (da vaccinazione, guarigione o test) e che, in mancanza, «al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro», non possano accedervi e siano considerati assenti ingiustificati senza diritto alla retribuzione (pur conservando il posto e senza conseguenze disciplinari). Con il d.l. n. 1 del 2022, come convertito, per i lavoratori ultracinquantenni la medesima finalità di protezione della salute nei luoghi di lavoro è assolta dall’obbligo vaccinale, che, a prescindere dallo status di lavoratore, è già generalmente imposto a coloro che abbiano superato i cinquant’anni, in quanto soggetti fragili, a tutela della salute generale e per evitare il sovraccarico delle strutture ospedaliere. È, infatti, evidente che, quando un soggetto ultracinquantenne è anche un lavoratore, l’obbligo vaccinale di cui è destinatario rappresenta, secondo elementari criteri di logica, lo strumento deputato anche a «tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro». Il fatto che agli ultracinquantenni sia precluso di accedere a tali luoghi con il green pass base è coerente con la loro situazione di soggetti destinatari dell’obbligo vaccinale. Se, infatti, si consentisse anche agli ultracinquantenni di accedere con il solo green pass base, ne risulterebbe depotenziato l’obbligo vaccinale imposto a tutela della loro salute e degli effetti di carattere generale che ne conseguono; obbligo che, se rapportato al contesto lavorativo, assolve efficacemente anche alla funzione di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. È per questa ragione che l’art. 1 del d.l. n. 1 del 2022, come convertito, (inserendo l’art. 4-quinquies nel d.l. n. 44 del 2021, come convertito), nel riprendere la formula utilizzata dall’art. 1 del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, dispone che, «al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro», gli ultracinquantenni sprovvisti del green pass rafforzato non possono accedere ai luoghi di lavoro e sono considerati assenti ingiustificati senza diritto alla retribuzione (pur conservando il posto di lavoro e senza conseguenza disciplinari).
Le richiamate conseguenze del mancato adempimento dei rispettivi obblighi sanitari, entrambi non irragionevoli e non sproporzionati come già ampiamente detto, rispondono, dunque, nell’ambito del rapporto di lavoro, alla finalità di «tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi» dove esso si svolge; e al contempo rappresentano un importante deterrente – diverso dalle sanzioni che puniscono l’accesso in violazione del divieto – per indurre i lavoratori a rispettare gli obblighi in esame.
9.3.‒ Ciò posto, le questioni sollevate richiedono di chiarire se il diritto di svolgere l’attività lavorativa debba essere sempre e comunque garantito o se, invece, vi siano casi in cui esso possa essere compromesso o sacrificato. In quest’ottica, la problematica è stata già affrontata da questa Corte, in particolare con la sentenza n. 15 del 2023, che ha affermato che «[i]l diritto fondamentale al lavoro, garantito nei principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost., avuto riguardo al dipendente che abbia scelto liberamente di non adempiere all’obbligo vaccinale, non implica necessariamente il diritto di svolgere l’attività lavorativa ove la stessa costituisca fattore di rischio per la tutela della salute pubblica (…)» (punto 12.2. del Considerato in diritto). Nell’obiettivo di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, l’obbligo di vaccinazione viene, infatti, a integrare ex lege il contratto di lavoro, configurandosi come un ulteriore obbligo inerente al rapporto di lavoro. Si è, così, testualmente precisato che «[a]ll’inosservanza dell’obbligo vaccinale, la legge impositiva dello stesso attribuisce rilevanza meramente sinallagmatica, cioè sul piano degli obblighi e dei diritti nascenti dal contratto di lavoro, quale evento determinante la sopravvenuta e temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere attività lavorative che comportassero, in qualsiasi altra forma e in considerazione delle necessità dell’ambiente di cura, il rischio di diffusione del contagio da SARS-Cov-2» (punto 12.1. del Considerato in diritto). Se, pertanto, tale obbligo resta inadempiuto dal lavoratore per una sua scelta individuale, la prestazione da questo offerta «non è conforme al contratto, come integrato dalla legge» e, pertanto, deve ritenersi «giustificato il rifiuto della stessa da parte del datore di lavoro» e «lo stato di quiescenza in cui entra l’intero rapporto è semplicemente un mezzo per la conservazione dell’equilibrio giuridico- economico del contratto» (punto 13.5. del Considerato in diritto). In altri termini, come chiarito dalla richiamata sentenza, la mancata corresponsione della retribuzione è coerente con il sinallagma contrattuale, che, così come integrato dalla legge a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, richiede il rispetto degli obblighi di prevenzione sanitaria imposti dalle disposizioni censurate.
Le conseguenze derivanti dal mancato adempimento di tali obblighi non ledono, pertanto, alcuno degli evocati parametri costituzionali: né il diritto al lavoro e alla retribuzione (artt. 4 e 36 Cost), né il diritto alla dignità personale nell’accezione fatta propria dall’ordinanza (art. 2 Cost.), né il principio di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.). In primo luogo, perché sono comunque frutto di una scelta individuale. In secondo luogo, perché l’inosservanza di tali obblighi assume una rilevanza “meramente sinallagmatica” sul piano delle condizioni nascenti dal contratto di lavoro, nel senso che il loro inadempimento rende la prestazione non conforme alle regole del rapporto, giustificando così la preclusione a svolgere l’attività lavorativa e la conseguente privazione della retribuzione e di ogni altro compenso o emolumento. In terzo luogo, perché si tratta pur sempre di obblighi posti a tutela della salute degli altri, la cui ragionevolezza e proporzionalità, in casi analoghi, è stata più volte affermata e ribadita da questa Corte (supra); da ultimo, perché gli obblighi in questione sono meramente transitori e il loro inadempimento non determina né la perdita del posto di lavoro né conseguenze disciplinari.
Alla luce delle suesposte considerazioni è pertanto evidente l’inconferenza del richiamo ‒ contenuto nell’ordinanza di rimessione ‒ alla sentenza di questa Corte n. 137 del 2021, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevedeva la revoca di alcune prestazioni assistenziali, quali l’indennità di disoccupazione, l’assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili (anche) nei confronti di coloro che, condannati per determinati reati, scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere. Come del resto rilevato anche dallo stesso rimettente, la pronuncia da ultimo citata riguarda prestazioni meramente assistenziali, mentre la questione attualmente scrutinata concerne il trattamento retributivo correlato alla prestazione lavorativa.
10.‒ Le considerazioni che precedono possono estendersi alla questione sollevata in riferimento all’art. 32, secondo comma, Cost. Al di là del formale riferimento al suddetto parametro, la questione è essenzialmente analoga a quella sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 4 e 36 Cost., in quanto nella sostanza lamenta la lesione della vita di relazione dovuta alle conseguenze della mancata vaccinazione. Pertanto, al pari dell’altra, anche tale questione deve ritenersi non fondata per le ragioni che si sono già esposte.
11.‒ Da ultimo, non è fondata anche la questione riguardante l’assegno alimentare, sollevata con riferimento al principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., sul presupposto che, a differenza dei lavoratori inadempienti agli obblighi sanciti dalle disposizioni censurate, quelli sospesi dal servizio a seguito di sottoposizione a procedimento penale o disciplinare avrebbero comunque diritto al suddetto assegno.
La questione è stata già esaminata da questa Corte ribadendo per l’assegno alimentare le richiamate conclusioni maturate a proposito della retribuzione (sentenza n. 15 del 2023, punti 14.2. e 14.3. del Considerato in diritto e sentenza n. 188 del 2024, punto 4 del Considerato in diritto).
Come per la retribuzione, la mancata erogazione di un assegno alimentare in favore del lavoratore inadempiente agli obblighi imposti dalle disposizioni impugnate si giustifica in base al principio generale di corrispettività, dal momento che tale assegno è pur sempre collegato alla prestazione lavorativa. Conseguentemente, se la prestazione lavorativa non può essere svolta, l’assegno non può essere riconosciuto.
11.1.‒ Né potrebbe ravvisarsi alcuna disparità di trattamento rispetto al lavoratore sospeso dal servizio a seguito di sottoposizione a procedimento penale o disciplinare. Al riguardo, questa Corte ha già affermato che, nei casi indicati, «il riconoscimento dell’assegno alimentare si giustifica alla luce della necessità di assicurare al lavoratore un sostegno quando la temporanea impossibilità della prestazione sia determinata da una rinuncia unilaterale del datore di lavoro ad avvalersene e da atti o comportamenti che richiedono di essere accertati in vista della prosecuzione del rapporto», ma che ben diverso «è il caso in cui, per il fatto di non aver adempiuto all’obbligo vaccinale, è il lavoratore che decide di sottrarsi unilateralmente alle condizioni di sicurezza che rendono la sua prestazione lavorativa, nei termini anzidetti, legittimamente esercitabile» (sentenza n. 15 del 2013, punto 14.4. del Considerato in diritto).
11.2.‒ Le stesse conclusioni valgono anche se all’assegno alimentare voglia attribuirsi natura assistenziale e non retributiva. Come sempre rilevato da questa Corte, «anche muovendo da tale premessa interpretativa, tuttavia, rimane smentita la conclusione che configuri quale soluzione costituzionalmente obbligata l’accollo al datore di lavoro della erogazione solidaristica, in favore del lavoratore che non abbia inteso vaccinarsi e che sia perciò solo temporaneamente inidoneo allo svolgimento della propria attività lavorativa, di una provvidenza di natura assistenziale, esulante dai diritti di lavoro, atta a garantire la soddisfazione delle esigenze di vita del dipendente e della sua famiglia. Posto cioè che l’erogazione dell’assegno alimentare rappresenta per il datore di lavoro un costo netto, senza corrispettivo, non è irragionevole che il legislatore ne faccia a lui carico quando l’evento impeditivo della prestazione lavorativa abbia carattere oggettivo, e non anche quando l’evento stesso rifletta invece una scelta – pur legittima – del prestatore d’opera» (sentenza n. 15 del 2023, punto 14.5. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 188 del 2024, punto 5 del Considerato in diritto).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento di S. G.;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 21 settembre 2021, n. 127 (Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening), convertito, con modificazioni, nella legge 19 novembre 2021, n. 165, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, commi primo e secondo, 32, e 36 della Costituzione, dal Tribunale di ordinario Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 7 gennaio 2022, n. 1 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore), convertito, con modificazioni, nella legge 4 marzo 2022, n. 18, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, commi primo e secondo, e 36 Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Maria Alessandra SANDULLI, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2025
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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