SENTENZA N. 162
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra D. F. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 27 gennaio 2025, iscritta al n. 30 del registro ordinanze 2025 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2025.
Visti gli atti di costituzione di D. F., dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica del 23 settembre 2025 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi;
uditi gli avvocati Amos Andreoni per D. F., Antonella Patteri per l’INPS, nonché l’avvocato dello Stato Pietro Garofoli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 24 settembre 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 gennaio 2025 iscritta al n. 30 del registro ordinanze 2025, il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, in riferimento agli artt. 2, 3, quest’ultimo per il profilo dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, 38, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Le censure si appuntano sulla citata disposizione nella parte in cui – nel porre il divieto di cumulo della pensione anticipata maturata per avere raggiunto la cosiddetta “quota 100” con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, nel periodo compreso fra il primo giorno di decorrenza della pensione così anticipata e la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia – essa, per come interpretata dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 4 dicembre 2024, n. 30994, fa conseguire alla violazione di tale divieto la sospensione dell’erogazione della pensione per un’intera annualità, anche nel caso di svolgimento di attività di lavoro subordinato per periodi molto limitati (anche per una o poche giornate all’anno) e con redditi esigui.
1.1.– Il rimettente deve decidere sul ricorso promosso da un pensionato “quota 100”, che percepisce l’indicato trattamento pensionistico sin dal 1° novembre 2019 e che, successivamente, ha sottoscritto un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato (alle dipendenze di una società agricola) avente ad oggetto l’attività di raccolta dell’uva nel periodo compreso tra il 15 settembre 2020 e il 30 settembre 2020. Il rapporto di lavoro si esauriva, tuttavia, nell’arco di una giornata, pari a otto ore di lavoro, e il reddito effettivamente percepito dal ricorrente era contenuto in complessivi euro 83,91 lordi. Con provvedimento del 9 settembre 2021, l’INPS comunicava al ricorrente «la costituzione di un indebito di euro 23.949,05», a titolo di «somme non dovute sulla pensione» per il periodo relativo a tutto l’anno 2020.
Nel giudizio a quo il pensionato ha chiesto, in via principale e previo accertamento della natura di lavoro autonomo occasionale (e non subordinato) dell’attività svolta: (a) di dichiarare illegittima la trattenuta di euro 23.949,05, operata dall’INPS a titolo di indebito, per l’asserita violazione del menzionato divieto di cumulo; (b) conseguentemente, di condannare l’INPS alla restituzione dell’intera somma.
In subordine, il ricorrente ha chiesto la restituzione della somma trattenuta a titolo di indebito, al netto dell’importo di euro 83,91 ricevuto come compenso per l’attività svolta oppure, in via ulteriormente subordinata, dell’importo di euro 2.021,56, pari al rateo mensile netto di pensione riscosso nel periodo considerato.
Il Tribunale di Ravenna ritiene di non poter riqualificare il rapporto di lavoro come autonomo (anziché subordinato), posto che, come emerso nell’istruttoria, gli elementi formali – concordemente fatti propri dalle parti all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro – sarebbero preponderanti sugli scarni e non univoci elementi sostanziali addotti a sostegno di tale riqualificazione. Afferma, quindi, che il reddito percepito ricade nel divieto di cumulo di cui all’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.
E tuttavia dubita che la conseguenza riconnessa dalla citata sentenza della Corte di cassazione n. 30994 del 2024 alla violazione di tale divieto di cumulo – corrispondente alla perdita del trattamento di pensione per un intero anno – sia compatibile con la Costituzione.
1.2.– Tale previsione si porrebbe anzitutto in contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.
La norma censurata, infatti, in presenza, come nel caso di specie, di un reddito da lavoro subordinato anche minimo e del tutto inadeguato a qualsiasi sostentamento del lavoratore-pensionato, giungerebbe a prevedere una conseguenza della violazione del divieto di cumulo manifestamente sproporzionata, tale da compromettere integralmente il sostentamento dell’individuo.
Tale previsione sarebbe anche irragionevole.
Premesso che tra le finalità della normativa sulla pensione anticipata “quota 100” vi è quella del ricambio generazionale nel lavoro subordinato, tale finalità non sarebbe assicurata dalla disposizione censurata, giacché una prestazione lavorativa contingentata in alcune giornate in un anno solare, per la sua natura e per la sua esiguità temporale ed economica, non potrebbe incidere sulle dinamiche del mercato del lavoro. Infatti, solo durante il periodo effettivamente interessato dal rapporto di lavoro al pensionato potrebbe essere ascritto di avere sottratto lavoro a un altro lavoratore o, comunque, cumulato reddito e pensione. Invece, il riferimento fatto dalla Corte di cassazione all’intera annualità, oltre che privo di appoggio testuale, sarebbe anche privo di ragionevolezza, considerato che è la stessa normativa primaria a individuare nell’erogazione della pensione un’obbligazione di durata a periodicità mensile.
Anche ove si ravvisasse, nella misura ablativa individuata dalla Corte di cassazione, una vera e propria sanzione per il comportamento del pensionato, il rimettente ritiene che siano comunque violati i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, data la mancanza di stretta consequenzialità causale e logica tra la violazione della regola del cumulo e la sua estrema conseguenza, nonché la manifesta sproporzione tra i redditi percepiti e la sanzione comminata. Considerato che i principi di proporzionalità e ragionevolezza informano tutto il sistema, la qualifica del meccanismo de quo come sanzione o come semplice effetto giuridico non rivestirebbe importanza dirimente al fine di risolvere la questione di legittimità costituzionale in esame.
È prospettata anche la violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost.
La scelta ablativa di un anno intero di pensione, a fronte dello svolgimento di periodi di lavoro limitati e inferiori all’annualità (quasi sempre connessi con la percezione di somme estremamente modeste, se non irrisorie) finirebbe essenzialmente per privare della protezione previdenziale l’assicurato, che pur ne avrebbe diritto per avere versato la contribuzione necessaria all’attivazione del trattamento. Il trattamento previdenziale acquisito sarebbe posto nel nulla per una intera annualità, a fronte di un’attività lavorativa limitata a singoli periodi o, addirittura, esclusivamente ad alcune giornate di lavoro, inidonea pertanto a pregiudicare l’obiettivo di sistema del ricambio generazionale. Per i soli pensionati “quota 100” che hanno svolto una minima e parziale attività lavorativa subordinata si verrebbe, così, «a creare una sorta di “esodati” […], privati dell’intero trattamento pensionistico annuale, […] senza alcun mezzo di sostentamento o alcuno strumento previdenziale loro dedicato».
È ravvisato, infine, anche il contrasto con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
Sul punto, il rimettente ritiene che – premessa la riconducibilità dell’acquisito diritto al trattamento previdenziale al concetto di diritto al «bene» di cui al citato art. 1 – l’ablazione totale di tale trattamento per un intero anno, causata dallo svolgimento di una, pur incompatibile, attività lavorativa, sia sproporzionata e ingiustificata, risolvendosi nella lesione del diritto al rispetto dei propri beni, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La perdita del trattamento pensionistico, secondo le modalità e per le ragioni descritte, renderebbe evidente la violazione del diritto del pensionato al godimento dei propri beni, peraltro funzionali al soddisfacimento di esigenze minime di vita ed anzi di sopravvivenza; dal che deriverebbe anche la lesione della sua dignità e quindi dell’art. 2 Cost., peraltro in assenza di motivi di pubblica utilità o di interesse generale, idonei a giustificarne il sacrificio.
1.3.– Quanto alla rilevanza, il Tribunale di Ravenna osserva che la richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale «escluderebbe l’esistenza della quasi totalità del credito INPS per cui è causa», posto che l’indebito del ricorrente sarebbe limitato al rateo di pensione percepito nel mese di settembre del 2020, laddove la riconosciuta non fondatezza delle questioni sollevate comporterebbe il rigetto del ricorso.
Quanto, poi, alla possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il rimettente osserva che, sebbene quest’ultima non preveda espressamente le conseguenze della violazione del divieto di cumulo, la circostanza che la citata sentenza n. 30994 del 2024 della Corte di cassazione le abbia individuate proprio nella perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento, lo esonererebbe dall’onere di fornire una diversa interpretazione, ritenuta conforme a Costituzione (la quale, peraltro, sarebbe immancabilmente riformata nelle fasi di gravame).
Il rimettente rileva, a tal proposito, che «la Corte di cassazione sezione lavoro, allorquando [si] pronuncia per la prima volta su una questione, adotta una pronuncia dotata di stabilità interna ed è estremamente difficile per non dire impossibile che, in assenza di elementi normativi sopravvenuti, essa muti la propria opinione», cosicché essa costituirebbe “diritto vivente”.
In ogni caso – sottolinea ancora il Tribunale – la citata pronuncia della Cassazione toglierebbe «spazio di manovra per un’interpretazione conforme a Costituzione» da parte del giudice di merito. Secondo il rimettente ci si troverebbe di fronte alla medesima situazione presa in considerazione da questa Corte nella sentenza n. 208 del 2024 e cioè a una situazione in cui, pur esclusa – per il numero limitato di pronunce di legittimità – la configurabilità di un «diritto vivente idoneo a essere assunto come oggetto del giudizio di legittimità costituzionale», la tesi della Cassazione di non poter pervenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, considerata insieme alle esigenze di certezza giuridica, particolarmente acute nel settore processuale (così come, secondo il rimettente, lo sarebbero nel settore previdenziale connesso a questioni di sostentamento), avevano giustificato l’adozione di una pronuncia di accoglimento al fine di assicurare il rispetto dei principi costituzionali in gioco.
1.4.– Tanto premesso, il Tribunale di Ravenna, dopo aver sottolineato che sulle questioni sollevate nel presente giudizio questa Corte non si è ancora pronunciata, vertendo la sentenza n. 234 del 2022 sul differente profilo del regime differenziato del divieto di cumulo fra lavoratori autonomi occasionali e lavoratori dipendenti, afferma che l’auspicata caducazione della norma posta dal “diritto vivente” impone di individuare un criterio (diverso da quello annuale) di delimitazione nel tempo degli effetti della incumulabilità, criterio che ravvisa nella dimensione temporale mensile, corrispondente al rateo di riferimento.
Considerato che le pensioni vengono erogate per legge mensilmente, il rimettente ritiene naturale che la regola del cumulo operi a livello mensile, privando il pensionato dei ratei nelle sole mensilità nelle quali egli ha cumulato redditi da lavoro subordinato e pensione “quota 100”.
1.5.– In conclusione, il Tribunale di Ravenna chiede che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella parte in cui – nell’interpretazione della Corte di cassazione – stabilisce che «la violazione del divieto di cumulo tra redditi pensionistici e da lavoro subordinato … comporta la perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento».
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate dal Tribunale di Ravenna vengano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
Esse sarebbero anzitutto inammissibili in quanto dirette a censurare non la disposizione nel suo dato testuale e precettivo, bensì la lettura che di essa ha dato una singola pronuncia di una sezione semplice della Corte di cassazione, che non può costituire “diritto vivente”, in quanto non resa dalle Sezioni unite e, quindi, tale da essere suscettibile di «un revirement giurisprudenziale, o di conflitti d’interpretazione delle norme anche in assenza di “elementi normativi sopravvenuti”». Il rimettente, pertanto, ben avrebbe potuto adottare una interpretazione costituzionalmente orientata della norma.
Nel merito, le questioni sarebbero tutte prive di fondamento.
Il divieto di cumulo, stabilito per la pensione “quota 100” – diversamente da quanto previsto per la pensione di anzianità e la pensione anticipata “ordinaria” – deriverebbe dal carattere derogatorio e contingente della misura stessa, specificamente volta a disincentivare il lavoro dipendente successivamente al collocamento a riposo, a fronte della rilevanza dei costi sostenuti dal sistema previdenziale nel riconoscimento di tali canali di uscita anticipata dal mondo del lavoro e dell’obiettivo del ricambio generazionale nel mercato del lavoro.
La previsione della sospensione della pensione per un’intera annualità, quale conseguenza della violazione del divieto di cumulo, non darebbe luogo, quindi, a un sacrificio sproporzionato e irragionevole, ma si inserirebbe nel quadro di una manovra economica caratterizzata da obiettive emergenze finanziarie e mirerebbe a liberare posti di lavoro per favorire l’occupazione e la conseguente crescita economica.
Essa, inoltre, si limiterebbe a imporre al pensionato solamente una scelta tra la sospensione del trattamento pensionistico e la rinuncia a intraprendere un nuovo rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi, oppure un lavoro autonomo non occasionale.
Tale misura, peraltro, sarebbe stata già dichiarata non sproporzionata né irragionevole nella sentenza n. 234 del 2022 di questa Corte.
Anche la dedotta violazione dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU sarebbe priva di fondamento, non potendo parlarsi nella specie di un diritto pensionistico acquisito, ma di un regime transitorio cui il contribuente accede, nelle more del raggiungimento dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, in via opzionale, al ricorrere di determinati requisiti e di precise condizioni.
3.– Anche l’INPS, parte del giudizio principale, si è costituito in giudizio e ha chiesto che le questioni sollevate dal Tribunale di Ravenna siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
In via preliminare, l’ente previdenziale ritiene che le questioni siano inammissibili in quanto finalizzate a ottenere un intervento manipolativo «del tutto eccentrico rispetto all’oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale». Si chiederebbe, infatti, non già la mera caducazione della disposizione censurata, ma una riscrittura della stessa, volta a sostituire l’interpretazione assurta a diritto vivente.
Nel merito, tutte le questioni sarebbero prive di fondamento.
Anzitutto, sarebbe tale la censura di violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità. L’applicabilità della norma che stabilisce l’incumulabilità dei redditi da lavoro autonomo e subordinato con la speciale pensione anticipata in esame non potrebbe ritenersi condizionata all’elemento, del tutto estrinseco e perfino casuale, dello svolgimento di un numero alto o basso di giornate lavorative, non avendo il legislatore previsto alcuna relativizzazione o gradazione, in termini quantitativi, della incumulabilità tra reddito da lavoro e pensione.
Posto che la razionalità del divieto disposto con la norma censurata – riconosciuta anche da questa Corte nella sentenza n. 234 del 2022 – sarebbe connessa, a un tempo, alla garanzia della sostenibilità del sistema previdenziale e del ricambio generazionale, la previsione della sospensione del trattamento di quiescenza nel caso di violazione del divieto suddetto sarebbe strumentale al perseguimento di tali obiettivi. Lo svolgimento di un’attività di lavoro subordinato, in costanza di trattamento pensionistico, costituirebbe invero elemento fattuale in contrasto con il presupposto richiesto dal legislatore per usufruire di tale favorevole trattamento pensionistico e cioè l’effettiva uscita del pensionato dal mercato del lavoro.
Né sarebbe corretta l’osservazione del rimettente circa l’inidoneità dello svolgimento di poche giornate lavorative a influire sulle dinamiche del mercato del lavoro, giacché nell’attuale contesto il lavoro subordinato ha assunto forme atipiche, tali per cui l’attività dei lavoratori dipendenti è sempre più caratterizzata da temporaneità e precarietà.
Inoltre, l’INPS rileva che – diversamente da quanto asserito dal rimettente – la sospensione del trattamento pensionistico per l’intero anno di riferimento troverebbe un appiglio testuale nella parte della disposizione censurata in cui, dall’incumulabilità, viene esclusa solo l’attività da lavoro autonomo occasionale entro la soglia di reddito non superiore a euro 5.000 annui.
Il riferimento all’anno di percezione del reddito, espressamente indicato come criterio temporale per definire la portata della deroga all’incumulabilità, dovrebbe, pertanto, intendersi operante, in chiave di lettura sistematica, in ogni ipotesi nella quale debba essere vagliata la sussistenza della incumulabilità.
Ad avviso dell’INPS, peraltro, questa Corte, già nella sentenza n. 234 del 2022, avrebbe stabilito che non esiste alcuna criticità nella sospensione annuale della pensione per l’anno di percezione del reddito da lavoro, seppure di modesta entità.
Anche la dedotta violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., sarebbe priva di fondamento.
La completa protezione dell’art. 38 Cost. sarebbe riservata ai trattamenti di vecchiaia funzionali a sopperire alle esigenze di vita di coloro che, per il raggiungimento dell’età pensionabile, versano in quello stato di bisogno conseguente alla difficoltà o impossibilità di continuare a lavorare oltre una certa età. Pertanto, la previsione di determinate e speciali ipotesi di anticipazione della pensione rispetto al compimento dell’età pensionabile sarebbe rimessa alla discrezionale valutazione del legislatore, non costituendo oggetto della citata tutela previdenziale.
Infine, egualmente priva di fondamento sarebbe la censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Non vi sarebbe stata, infatti, alcuna lesione da parte di terzi, Stato o INPS, del patrimonio del pensionato. Al contrario, la pensione sarebbe stata riconosciuta e posta in regolare pagamento nella misura di legge, sulla quale non vi è stata contestazione di sorta. L’ente previdenziale precisa che la restituzione dei ratei percepiti da parte del titolare della pensione si determina allorquando quest’ultimo, per una sua scelta, assolutamente libera, compie l’azione che ne rende illegittima la percezione.
4.– Nel giudizio si è costituito anche D. F., ricorrente nel giudizio a quo, il quale chiede che vengano accolte tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Ravenna.
Nel ribadire gli argomenti già svolti nell’ordinanza di rimessione a sostegno dell’irragionevolezza e della sproporzione della sospensione del trattamento previdenziale per un intero anno, pur a fronte di un reddito da lavoro percepito assai limitato, la difesa della parte aggiunge un ulteriore motivo di irrazionalità interna della norma censurata, come interpretata dalla Corte di cassazione.
Dalla previsione della incumulabilità contenuta nella disposizione censurata, si farebbero discendere gli effetti propri della incompatibilità, con una palese contraddizione interna alla fattispecie. Mentre l’incompatibilità determinerebbe la alternatività tra due istituti giuridici (tra due prestazioni previdenziali concomitanti o tra una prestazione previdenziale e un concorrente reddito da lavoro) e comporterebbe dunque la revoca della prestazione e la perdita definitiva del trattamento, l’incumulabilità determinerebbe invece solo la sospensione di un trattamento rispetto all’altro e la neutralizzazione delle porzioni di prestazione erogata limitatamente al periodo di coesistenza delle due fattispecie.
La parte, pertanto, ritiene che la nozione di incumulabilità debba essere interpretata nel suo significato letterale, inserendosi in un contesto legislativo che ha progressivamente liberalizzato la possibilità di percepire redditi da lavoro nonostante il pensionamento, con riguardo sia alle pensioni di vecchiaia, sia a quelle di anzianità (viene richiamato, a tal proposito, l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133).
La difesa del ricorrente ricorda che tale scelta legislativa è stata ispirata dalla esigenza di contrastare il lavoro nero, secondo una ratio che, anche nel caso di specie, meriterebbe attenta ponderazione, unitamente all’intento di favorire l’ampliamento del mercato del lavoro. Ciò tanto più nei casi di mercati di dimensioni ridotte, come quello venuto all’attenzione nel giudizio a quo, in cui la prestazione irregolare del lavoro potrebbe facilmente diventare un espediente per sottrarsi a un’interpretazione restrittiva come quella assunta dal diritto vivente della Corte di cassazione.
Egualmente fondate sarebbero, poi, le censure rivolte all’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento all’art. 38, secondo comma, Cost., principalmente sulla base di argomenti sovrapponibili a quelli svolti nell’ordinanza di rimessione.
La finalità di favorire il ricambio generazionale nel mondo del lavoro, perseguita con l’introduzione della pensione anticipata “quota 100”, non potrebbe giustificare la violazione del suddetto parametro costituzionale, che si determinerebbe ove il soggetto che si rioccupi per brevissimo periodo dovesse rimanere senza reddito e senza pensione e addirittura con l’obbligo di restituire i ratei di pensione percepiti prima della rioccupazione.
Peraltro, la difesa della parte rileva l’assenza di base normativa a fondamento della circolare dell’INPS 9 agosto 2019, n. 117 (“Pensione quota 100” ai sensi dell’articolo 14 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26. Chiarimenti in materia di incumulabilità della pensione con i redditi da lavoro e di valutazione dei periodi di lavoro svolto all’estero ai fini del conseguimento della stessa), che – ben prima della più volte citata sentenza n. 30994 del 2024 della Corte di cassazione – aveva già previsto la conseguenza della sospensione del trattamento di pensione per l’intera annualità in cui si sia svolto il lavoro e percepito un reddito, posto che la normativa di riferimento, ove fa menzione della incumulabilità, non individuerebbe alcun ulteriore parametro per la quantificazione della ritenuta pensionistica da operare.
Risulterebbe, inoltre, violato il principio di affidamento di cui all’art. 3 Cost., considerato che ogni pensionato, dato il tenore testuale della norma, potrebbe, al massimo, aspettarsi una ritenuta mensile della pensione concomitante con il lavoro svolto e non certo una ritenuta annuale.
Sarebbe, infine, fondata anche la questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, sulla base dei medesimi argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione.
5.– All’udienza pubblica le parti e l’interveniente hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 30 del 2025) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella parte in cui – per come interpretato dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 30994 del 2024 – fa discendere dalla violazione del divieto di cumulo della pensione anticipata “quota 100” con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, nel periodo compreso fra il primo giorno di decorrenza della pensione anticipata e la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, la sospensione dell’erogazione del trattamento per un’intera annualità e non solo limitatamente ai mesi di effettivo svolgimento di attività di lavoro subordinato, anche quando quest’ultima abbia luogo per periodi molto limitati (per una o poche giornate all’anno) e con redditi esigui.
Il rimettente – chiamato a pronunciarsi sulla pretesa illegittimità dell’indebito accertato dall’INPS nei confronti di un titolare di pensione anticipata “quota 100” che, in violazione del citato divieto di cumulo, aveva svolto attività di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze di una società agricola, per la raccolta dell’uva, per una durata corrispondente a una giornata lavorativa (otto ore) e per un reddito complessivo di euro 83,91 lordi – ritiene che la previsione della sospensione del trattamento pensionistico per un’intera annualità sia lesiva, innanzitutto, dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della proporzionalità e della ragionevolezza.
Una simile conseguenza della violazione del divieto di cumulo sarebbe, infatti, non solo manifestamente sproporzionata, in quanto in grado di compromettere integralmente il sostentamento dell’individuo, ma anche irragionevole, non risultando idonea a perseguire la principale finalità della normativa sulla pensione anticipata in esame e cioè quella del ricambio generazionale nel mercato del lavoro. Una prestazione lavorativa contingentata in alcune giornate (o addirittura in una sola giornata) nell’arco di un anno solare, sarebbe inidonea, per la sua natura e per la sua esiguità temporale ed economica, a incidere sulle dinamiche di tale mercato.
La previsione censurata sarebbe, inoltre, lesiva dell’art. 38, secondo comma, Cost.: il soggetto sarebbe, infatti, privato della protezione previdenziale per un intero anno, a fronte dello svolgimento di periodi di lavoro limitati, anche molto inferiori all’annualità. Di conseguenza, risulterebbe violato pure il diritto del pensionato al godimento dei propri beni, di cui all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, evocato per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in assenza di motivi di pubblica utilità o di interesse generale, idonei a giustificarne il sacrificio secondo la giurisprudenza convenzionale. Considerato che tali beni sarebbero funzionali al soddisfacimento di esigenze minime di vita e anzi di sopravvivenza, dalla violazione del richiamato diritto deriverebbe anche la lesione della dignità del pensionato e, attraverso di essa, la violazione dell’art. 2 Cost.
2.– In via preliminare, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato in relazione al fatto che il rimettente, pur ritenendo possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, non l’ha seguita, sollevando questione di legittimità costituzionale della medesima, in base all’opposta lettura che di essa ha dato una singola pronuncia della sezione lavoro della Corte di cassazione, ritenuta per errore diritto vivente.
3.– L’eccezione è fondata.
3.1.– Il Tribunale di Ravenna muove dal rilievo che la disposizione censurata non prevede espressamente le conseguenze della violazione del divieto di cumulo tra la pensione anticipata “quota 100” e lo svolgimento di attività lavorativa. A tal proposito, osserva che «il legislatore avrebbe potuto regolare come meglio credeva la fattispecie», purché «nel rispetto dei limiti», corrispondenti alla proporzionalità e ragionevolezza della misura, nonché del diritto del pensionato al sostentamento, ma «non lo ha fatto».
Tuttavia, la circostanza che la Corte di cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 30994 del 2024, abbia individuato le citate conseguenze proprio nella perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento, lo esonererebbe dall’onere di fornire un’interpretazione adeguatrice, data «l’esistenza di un diritto vivente». Il rimettente precisa, a tal proposito che, allorquando la sezione lavoro della Corte di cassazione «pronuncia per la prima volta su una questione, adotta una pronuncia dotata di stabilità interna ed è estremamente difficile per non dire impossibile che, in assenza di elementi normativi sopravvenuti, essa muti la propria opinione».
A tale argomento il giudice a quo aggiunge che la citata pronuncia, là dove ha escluso espressamente l’esistenza di un dubbio di costituzionalità della norma in questione, così come da essa interpretata, toglierebbe «spazio di manovra per un’interpretazione conforme a Costituzione» da parte del giudice di merito.
3.2.– A sostegno dell’esito di inammissibilità, è opportuno richiamare sinteticamente gli approdi nel tempo raggiunti da questa Corte sull’onere di interpretazione delle disposizioni censurate che grava sul giudice rimettente, il cui assolvimento consente l’esame nel merito delle questioni sollevate.
Secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, «se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime “perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)”, ciò però non significa che “ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito” (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017)» (sentenza n. 77 del 2018). In particolare, ciò avviene allorquando il giudice abbia motivato, in maniera non implausibile, l’impraticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, escludendola consapevolmente o per la presenza di un orientamento giurisprudenziale contrario consolidato, che assurga a “diritto vivente”, o per il tenore letterale della disposizione censurata. In entrambe le suddette ipotesi, «[l]a correttezza o meno dell’esegesi presupposta dal rimettente – e, più in particolare, la superabilità o non superabilità degli ostacoli addotti» alla predetta interpretazione – “attiene […] al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza della questione stessa” (da ultimo, sentenza n. 204 del 2021)» (sentenza n. 219 del 2022).
Più precisamente, in presenza di uno stabile approdo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità – ravvisato non solo in presenza di un’interpretazione fornita dalle sezioni unite della Corte di cassazione e poi stabilizzatasi nella giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 73 del 2024) ma, più in generale, a fronte di una interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità reiterata e conseguentemente stabile (sentenza n. 38 del 2024) – il giudice a quo ha «la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di diritto vivente e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenza n. 243 del 2022)» (sentenza n. 73 del 2024). Ciò «senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi» (sentenza n. 180 del 2021): la norma «vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o di questa Corte (sentenze n. 141 del 2019 e n. 191 del 2016)» (ancora, sentenza n. 73 del 2024).
In tal caso, del “diritto vivente” questa Corte «non può che prendere atto, non potendo sostituirsi alla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione delle disposizioni legislative, ed essendo piuttosto il proprio compito confinato alla verifica se il risultato di tale interpretazione sia compatibile con i parametri costituzionali evocati dal giudice a quo» (sentenza n. 116 del 2023).
In considerazione del rilievo assegnato al «consolidamento» dell’interpretazione della disposizione censurata offerta dalla giurisprudenza di legittimità diviene, dunque, centrale l’accertamento dello stesso, connesso all’«uso ripetuto nel tempo» e al «grado di consenso raccolto» (sentenza n. 38 del 2024). Accertamento che, «soprattutto in mancanza di un arresto nomofilattico delle Sezioni unite» (ancora, sentenza n. 38 del 2024), è necessario a «verificare se decisioni, pur rese dalla Corte di cassazione, possano o meno ritenersi espressive di quella consolidata interpretazione della legge che rende la norma, che ne è stata ritratta, vero e proprio “diritto vivente” nell’ambito e ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, atteso che la “vivenza” della norma costituisce “una vicenda per definizione aperta” (sentenza n. 202 del 2023)» (nuovamente, sentenza n. 38 del 2024).
Ancora, solo nell’ipotesi in cui sia la lettera della disposizione censurata a opporsi, secondo una non implausibile motivazione del giudice rimettente, a un’esegesi condotta secondo i canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme, «il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (sentenza n. 91 del 2013): infatti, il «dato letterale , [...] costituisce il naturale limite dello stesso dovere del giudice di interpretare la legge in conformità alla Costituzione (sentenze n. 102 del 2021, n. 253 del 2020, n. 174 del 2019 e n. 82 del 2017)» (sentenza n. 18 del 2022).
3.3.– Tanto premesso, gli argomenti svolti dal Tribunale di Ravenna a fondamento dell’impraticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata dall’art. 14, comma 3, del d.l. n.4 del 2019, come convertito, non risultano convincenti.
Non con riferimento al dato letterale, considerato che è lo stesso rimettente a rilevare l’esistenza di una lacuna normativa nel citato art. 14, comma 3, in ordine alla previsione delle conseguenze del divieto del cumulo, e a evidenziare che il legislatore ben avrebbe potuto colmarla, purché, però, nel rispetto sia dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, sia del diritto del pensionato al sostentamento. Ed è sempre il rimettente a ritenere non contraddetta dal silenzio del legislatore, anzi ben possibile, l’interpretazione costituzionalmente adeguata della disposizione esaminata, che ricava dal contesto normativo di riferimento e, in specie, dalla previsione dell’erogazione mensile dei ratei di pensione.
A sostegno di tale praticabilità, il Tribunale di Ravenna peraltro assume che – di contro all’assunto dell’INPS – tale interpretazione non sia stata esclusa dalla sentenza n. 234 del 2022, con cui questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla medesima disposizione oggi in esame, ma in riferimento al diverso profilo concernente l’ambito di operatività del divieto di cumulo, ha respinto, in ragione della disomogeneità delle fattispecie poste a raffronto, la richiesta di estensione ai redditi da lavoro subordinato intermittente della deroga alla incumulabilità prevista per i redditi di lavoro autonomo occasionale sino a 5000 euro annui.
L’unico ostacolo indicato dal rimettente sta, dunque, nella citata sentenza n. 30994 del 2024, che ha individuato le conseguenze della violazione del divieto di cumulo di cui al citato art. 14, comma 3, nella perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento.
Tale sentenza, tuttavia, è rimasta finora unica nella giurisprudenza di legittimità, anche perché adottata assai di recente. Essa, peraltro, risulta non avere avuto un seguito generalizzato da parte dei giudici di merito, considerato che essa è stata seguita da alcune pronunce (fra le altre, Corte d’appello Milano, sezione lavoro, sentenza 7 agosto 2025, n. 629; Corte d’appello Bologna, sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2025, n. 311), ma se ne rinvengono altre che l’hanno disattesa, esprimendo un diverso indirizzo (fra le altre, Corte d’appello Brescia, sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2025, n. 81; Corte d’appello Trento, sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2025, n. 14), in alcuni casi in linea con l’interpretazione proposta dall’attuale rimettente.
Appare, pertanto, evidente che non ricorrono, nella specie, quei requisiti di reiterazione e stabilità che questa Corte ha ripetutamente ritenuto necessari a conferire all’orientamento interpretativo espresso dalla giurisprudenza di legittimità un grado di consolidamento tale da rivelare il suo radicamento nell’ordinamento (fra le altre, sentenze n. 101 del 2023 e n. 122 del 2017) e da farlo assurgere realmente a “diritto vivente”, così da indurre il giudice che ne ravvisi il possibile contrasto con la Costituzione a investire questa Corte e da indurre questa Corte a pronunciarsi su di esso.
Lo stesso rimettente, d’altronde, finisce per riconoscere che la pronuncia di legittimità evocata come ostacolo all’interpretazione costituzionalmente orientata non è “diritto vivente”, richiamando la sentenza n. 208 del 2024 che ha ritenuto che due pronunce di legittimità, per il numero limitato e il tempo ridotto entro il quale erano state adottate, non integravano gli estremi di un «diritto vivente idoneo a essere assunto come oggetto del giudizio di legittimità costituzionale».
Nondimeno, il rimettente ravvisa, come si è già detto, un ostacolo all’interpretazione costituzionalmente orientata proprio nella citata unica pronuncia della sezione lavoro della Corte di cassazione finora adottata sul tema e nella norma ivi desunta dall’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito; pronuncia quest’ultima ancora suscettibile, secondo l’ordinaria dinamica giurisprudenziale, di venire confermata, come pure di essere oggetto di revirement, e perciò non qualificabile alla stregua di già “vivente” in questa forma nell’ordinamento.
Il giudice rimettente quindi può – e deve – procedere all’interpretazione della disposizione censurata confrontandosi con il citato precedente giurisprudenziale, che tuttavia non radica una situazione di «diritto vivente».
4.– In definitiva, deve dichiararsi l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevate dal Tribunale di Ravenna, non avendo quest’ultimo correttamente assolto all’onere di preventiva interpretazione della disposizione censurata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, quest’ultimo sotto il profilo dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, 38, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 4 novembre 2025
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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