Ritenuto in fatto
1.– Con decisione n. 253 del 12 gennaio 2022, iscritta al n. 23 del registro ordinanze del 2022, il Consiglio di garanzia del Senato della Repubblica ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), e dell’art. 1, comma 1, della deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica del 16 ottobre 2018, n. 6 (Rideterminazione della misura degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità, relativi agli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011), denunziandone il contrasto con gli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, della Costituzione.
Il rimettente riferisce di essere investito della decisione sul ricorso n. 288, presentato dall’Amministrazione del Senato in data 8 ottobre 2020, con il quale è stato chiesto l’annullamento e la riforma, previa sospensione cautelare, della decisione adottata dalla Commissione contenziosa il 30 settembre 2020, n. 660. Quest’ultima aveva parzialmente accolto i numerosi ricorsi proposti avverso la citata deliberazione n. 6 del 2018, nella parte in cui, all’art. 1, prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2019, i trattamenti economici dei senatori cessati dal mandato, sia diretti, sia di reversibilità, siano rideterminati applicando il metodo contributivo e che tale sistema – da attuarsi mediante la moltiplicazione del montante contributivo individuale per un coefficiente di trasformazione correlato all’età anagrafica del senatore alla data della decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata – valga sia per gli assegni in corso di erogazione, sia per quelli di futura erogazione maturati sulla base della normativa vigente al 31 dicembre 2011 e relativi agli anni di mandato svolti fino a tale data.
L’organo di autodichia, premesso di aver accolto, con decisione n. 237 del 2020, l’istanza cautelare di sospensione avanzata dall’Amministrazione del Senato, riferisce di dover decidere anche sul ricorso n. 289, relativo a due distinti giudizi, il primo dei quali promosso in adesione ad altro ricorso collettivo e il secondo in via autonoma, nei quali un ex senatore ha impugnato l’art. 2, comma 7, della stessa deliberazione – nella parte in cui prescrive che, nel caso in cui, dopo la maturazione dell’assegno vitalizio, il senatore abbia versato ulteriori contributi in relazione allo svolgimento di un successivo mandato parlamentare, i contributi medesimi concorrono a formare un nuovo e diverso montante – lamentando che il criterio così enunciato produrrebbe una distorsione nei meccanismi di calcolo del trattamento spettante al senatore cessato dal mandato.
1.1.– Per quanto concerne il primo ricorso, il Consiglio di garanzia riferisce, anzitutto, che la decisione di primo grado ha annullato la deliberazione impugnata nella parte in cui: a) dispone la totale rimozione dei provvedimenti di liquidazione a suo tempo adottati e impone nuovi criteri di liquidazione totalmente diversi, così intervenendo sull’atto genetico del diritto e non sul rapporto, in contrasto, tra l’altro, con l’art. 4, comma 1, e con la terza disposizione transitoria del «Regolamento delle pensioni dei senatori», approvato con deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato del 31 gennaio 2012, n. 113; b) prevede il ricalcolo del vitalizio mediante la moltiplicazione del montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data di decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata, anziché alla data di entrata in vigore della stessa deliberazione n. 6 del 2018; c) comporta una sensibile riduzione degli importi di minore entità, mentre non produce alcun effetto su quelli di ammontare massimo; d) stabilisce criteri di temperamento e di correzione dei risultati della rideterminazione dei vitalizi inidonei a eliminare le conseguenze più gravi prodotte dal nuovo metodo di calcolo; e) dispone l’applicazione dei medesimi criteri ai trattamenti di reversibilità senza considerare che i relativi importi sono stati già ridotti del quaranta per cento e che l’ulteriore decurtazione incide sulla qualità della vita dei percettori.
Il Collegio rimettente riferisce di avere accolto quattro istanze cautelari con le quali altrettanti appellati avevano chiesto la sospensione dell’efficacia della delibera in contestazione e il ripristino della corresponsione dell’originaria misura dell’assegno vitalizio.
1.2.– Con riguardo al ricorso n. 289, il Consiglio di garanzia espone che, nel contraddittorio con l’Amministrazione del Senato, la Commissione contenziosa ha dato atto che una parte delle richieste formulate in giudizio era stata esaminata con la decisione del 25 giugno 2020, con la quale erano state annullate le disposizioni della deliberazione n. 6 del 2018 disciplinanti il ricalcolo dell’ammontare degli importi mediante la moltiplicazione del montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data di decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata, anziché alla data di entrata in vigore della deliberazione medesima. La stessa Commissione di primo grado ha ribadito che spetta all’Amministrazione l’eventuale individuazione di criteri matematici diversi e più equi da impiegare nel calcolo dei contributi versati in periodi differenti tra una prima cessazione del mandato parlamentare e una successiva e non immediata elezione in una delle due Camere.
Espone, infine, il Consiglio di garanzia che il ricorrente ha proposto appello avverso tale decisione denunziandone la contraddittorietà sotto diversi profili e che di tale procedimento, nel quale si è costituita l’Amministrazione del Senato, è stata disposta la trattazione congiunta con quello introdotto con il ricorso n. 288.
1.3.– Ciò posto, il rimettente osserva che il vitalizio spettante ai parlamentari cessati dal mandato ha avuto origine da una forma di mutualità – quella delle Casse di previdenza per i deputati e i senatori istituite nel 1956 – che nel tempo si è trasformata in un istituto di previdenza obbligatoria di carattere pubblicistico. Nell’evoluzione successiva – prosegue il provvedimento di rimessione – l’istituto avrebbe assunto una configurazione ancipite, riconducibile, in parte, al modello pensionistico e, in parte, e in modo più spiccato, al paradigma delle assicurazioni private.
Il vitalizio, opina l’organo di autodichia, costituisce, invero, almeno nella sua fase iniziale, un «ristoro generico ed astratto per il pregiudizio esistenziale connesso allo svolgimento del mandato» e, quindi, risponde all’esigenza di indennizzare la perdita di opportunità, talora irripetibili, conseguente allo svolgimento dell’incarico.
Nondimeno, puntualizza ancora il rimettente, a tale natura si aggiunge quella previdenziale, così che l’assegno vitalizio risulta connotato da una duplice funzione, idonea «a permeare l’intero istituto, ancorché rispetto ai due possibili estremi si manifestino maggiormente o la prima o la seconda descritta».
Il carattere composito del vitalizio, così come configurato dalla disciplina anteriore alla riforma del 2012 ‒ operata con il nuovo regolamento delle pensioni dei senatori del 2012 ‒ , in cui la funzione indennitaria appariva più evidente, impedirebbe di applicare alle prestazioni erogate sotto il previgente regime giuridico i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale con specifico riferimento alla materia pensionistica e, in particolare, le considerazioni svolte da questa Corte in merito alla necessità che la previsione di contributi a carico dei titolari delle pensioni più elevate sia improntata alla ragionevolezza, alla proporzionalità e alla temporaneità (viene citata la sentenza n. 234 del 2020).
A giudizio del Collegio rimettente, attesa l’esigenza di maggior rigore nella gestione delle risorse dello Stato, può, in astratto, valutarsi ragionevole un intervento volto a ridurre anche i vitalizi anteriori al 2012, «purché ciò avvenga nel rispetto dei principi di rango costituzionale».
Se, dunque, per un verso, precisa il Consiglio di garanzia, appare, nella specie, ragionevole applicare perpetuamente, anche a ritroso, gli stessi criteri utilizzati per i parlamentari eletti dal 2012, altrettanto non può dirsi per il nuovo coefficiente di calcolo introdotto dalla normativa censurata, essendo lo stesso commisurato all’aspettativa di vita del percettore alla data della maturazione del diritto all’erogazione dell’emolumento.
Assume, al riguardo, il rimettente che «pretendere di valutare l’aspettativa di vita già a far data dalla pregressa maturazione del diritto vuol dire da un lato trattare in modo radicalmente differente i parlamentari in ragione di un dato del tutto occasionale qual è l’età del soggetto al momento della conclusione del mandato, e dall’altro tradire il metodo della distribuzione del rischio in ragione dello scarto tra aspettativa di vita e durata effettiva della vita del singolo vitaliziato».
Il Consiglio di garanzia, richiamata la legge della Regione Siciliana 28 novembre 2019, n. 19 (Disposizioni per la rideterminazione degli assegni vitalizi), che ha stabilito un criterio di ricalcolo riferito a parametri di età non retroattivi, e individuata in tale normativa una soluzione plausibile, ritiene, dunque, di dover confermare la decisione di primo grado laddove ha annullato la deliberazione impugnata nella parte in cui essa prevede il ricalcolo del vitalizio mediante la moltiplicazione del montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data di decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata, anziché alla data di entrata in vigore della stessa deliberazione n. 6 del 2018, o a data successiva per i parlamentari ancora in carica. In tal modo, si escludono applicazioni retroattive, nel rispetto, argomenta il rimettente, dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Per quel che concerne i trattamenti di reversibilità, il Collegio rimettente rammenta come spetti alla discrezionalità del Consiglio di presidenza del Senato stabilire ragionevoli criteri di ricalcolo o di tagli o di temperamenti, in ciò condividendo la decisione assunta sul punto dalla Commissione contenziosa.
Quanto, invece, alle restituzioni conseguenti alla disposta sostituzione di un coefficiente anagrafico diverso da quello previsto dalla deliberazione n. 6 del 2018, il Collegio assume che la questione dei cosiddetti arretrati potrebbe essere risolta facendo riferimento ai contenuti della sentenza di questa Corte n. 10 del 2015, la quale, pur dichiarando la illegittimità costituzionale della norma tributaria censurata, ha escluso la retroattività della sua decisione.
Nondimeno, poiché, a suo avviso, i criteri di calcolo della previsione impugnata potrebbero sottrarsi a qualsivoglia censura, se la riduzione fosse contenuta entro «apprezzabili limiti di tempo», il Consiglio di garanzia rinvia la decisione sulle restituzioni all’esito dell’incidente di legittimità costituzionale, che ritiene di promuovere in ordine alla «più ampia questione» relativa alla «compatibilità costituzionale o meno di un ricalcolo di prestazioni patrimoniali in godimento in via permanente, una volta cessata l’attività cui quelle prestazioni ineriscono».
A tal fine, in punto di rilevanza, il giudice a quo, pur prendendo atto dell’orientamento di questa Corte, secondo il quale le norme contenute nei regolamenti parlamentari maggiori sarebbero sottratte al sindacato di legittimità costituzionale (viene citata la sentenza n. 120 del 2014), sottolinea come la deliberazione in scrutinio sia stata adottata nell’ambito della potestà normativa “minore”, devoluta al Consiglio di presidenza dall’art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica 17 febbraio 1971 e s.m.i., la quale, tuttavia, non può ritenersi assoluta e totalmente libera nei fini, dovendo piuttosto svolgersi nel rispetto della Costituzione, delle regole dell’ordinamento giuridico generale, nonché del diritto sovranazionale. Per tale ragione, opina il rimettente, la legge n. 724 del 1994, all’art. 26, comma 1, lettera b), ha previsto la soppressione di qualsiasi regime fiscale particolare per gli assegni vitalizi dei parlamentari. Tale normativa si rivelerebbe, tuttavia, incompleta, non avendo previsto per i vitalizi l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento previdenziale, come enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, e segnatamente la preclusione di discipline particolari con essi contrastanti.
La carenza legislativa, spiega il rimettente, assume rilevanza ai fini dell’esame di un punto controverso e fondamentale del giudizio, «vale a dire la legittimità costituzionale o no di una disciplina (quella sugli assegni vitalizi e le pensioni degli ex senatori), che abbia imposto i criteri di cui all’originaria delibera del Consiglio di presidenza, in modo perpetuo e non già transitorio», in spregio alle indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale (viene citata la sentenza di questa Corte n. 234 del 2020).
Quanto alla non manifesta infondatezza, il Consiglio di garanzia del Senato osserva che la materia dei vitalizi involge diritti soggettivi perfetti, la cui disciplina può essere affidata all’autonomia interna delle Camere, ma non in totale assenza di «vincoli di livello generale stabiliti dalla legge dello Stato», come quelli operanti sul piano fiscale, in assenza dei quali si determinerebbe un vulnus al principio di ragionevolezza e di parità di trattamento.
Sulla scorta di tali premesse, il Consiglio di garanzia solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, nel sopprimere qualsiasi regime fiscale particolare per gli assegni vitalizi – oggi pensioni – degli ex parlamentari, non prevede altresì che queste prestazioni vadano disciplinate nel rispetto dei principi generali in materia previdenziale, precisando che lo scrutinio incidentale di legittimità costituzionale si rende necessario per stabilire se il criterio di calcolo indicato con la decisione di autodichia vada applicato anche per la restituzione delle somme non corrisposte dal 1° gennaio 2019 sino alla pronuncia dello stesso Consiglio.
Il giudice a quo ritiene, altresì, di sottoporre a questa Corte la questione, di ordine generale e necessitante di «una soluzione definitiva e non equivoca», concernente la possibilità che i regolamenti cosiddetti minori, adottati dagli Uffici di presidenza e rientranti nel diritto parlamentare di tipo amministrativo, siano suscettibili di sindacato di legittimità costituzionale.
Ciò in quanto, osserva il rimettente, la giurisprudenza costituzionale che sottrae a tale scrutinio i regolamenti cosiddetti maggiori non può essere automaticamente estesa a quelli “minori”, che «ben potrebbero meritare la qualifica di atti aventi forza di legge ed essere privi di ogni valore organizzativo, così da essere estranei al principio di separazione dei poteri che giustifica ogni insindacabilità».
A sostegno di tale assunto, il Collegio evoca la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze del Senato della Repubblica per sottolineare come la stessa, nonostante involga diritti soggettivi oggetto di riserva di legge (come quello riconosciuto dall’art. 36, secondo comma, Cost.), scaturisca da delibere del Consiglio di presidenza, con la conseguenza che, a meno di ritenere che si pongano in contrasto con la Costituzione, tali fonti devono essere inscritte tra gli atti aventi forza di legge, in linea con le enunciazioni della giurisprudenza convenzionale (viene citata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 28 aprile 2009, n. 14, Savino e altri contro Italia).
Poiché anche gli atti normativi parlamentari devono essere conformi alla Costituzione – opina il rimettente –, o si assume che il sindacato di legittimità costituzionale spetti agli organi di autodichia, oppure si ammette che le fonti in questione siano scrutinabili da questa Corte all’esito di una interpretazione dell’art. 134 Cost. coerente con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale e sovranazionale, specie con riferimento all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (viene citata la sentenza n. 1146 del 1988 di questa Corte).
Il Collegio rimettente ritiene preferibile la soluzione interpretativa che ascrive a questa Corte il sindacato di legittimità costituzionale sui regolamenti parlamentari “minori”, i quali, ove si rivelino capaci di incidere su diritti dei privati, dovrebbero essere considerati atti aventi forza di legge estranei all’area di assoluta sovranità e indipendenza spettante alle Camere.
D’altro canto, osserva il Consiglio di garanzia, questa Corte avrebbe già riconosciuto la natura sostanziale di atti normativi a fonti formalmente non riconducibili agli atti aventi forza di legge, ammettendone la scrutinabilità ai sensi dell’art. 134 Cost. (viene citata la sentenza n. 311 del 1993).
Il rimettente solleva, quindi, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica n. 6 del 2018, «con riguardo alla corresponsione delle restituzioni (c.d. “arretrati”) già a far data dalla delibera del Consiglio di Presidenza».
2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti, con diversi atti, alcuni ex senatori, per lo più appellati nel giudizio a quo, oltre a un’associazione di categoria, come di seguito si passa brevemente ad illustrare.
2.1.– Si sono costituiti gli ex senatori (o familiari di ex senatori) L. S. e altri, concludendo, da un lato, per la rilevanza e la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994, previa affermazione della sussistenza, in materia di vitalizi, della riserva di legge ex art. 69 Cost., e, dall’altro lato, per la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale avente a oggetto l’art. 1, comma 1, della deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica n. 6 del 2018, previa affermazione dell’inidoneità dei regolamenti parlamentari (ivi compresi i cosiddetti regolamenti minori) a disciplinare materie coperte da riserva di legge, con conseguente loro non sindacabilità da parte di questa Corte. In alternativa, qualora questa Corte reputi sussistente il proprio potere di sindacare detti regolamenti, si è concluso per la fondatezza della questione concernente l’art. 1, comma 1, della deliberazione n. 6 del 2018, per violazione degli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU). È stata altresì avanzata la richiesta, «in ogni caso», di chiarire che gli organi di autodichia non sono dotati degli stessi poteri interpretativi, modificativi e manipolativi propri di questa Corte.
In punto di rilevanza e di ammissibilità delle questioni, i deducenti, pur dicendosi «consapevoli della problematicità delle stesse, per come prospettate dal giudice a quo», auspicano che questa Corte «prenda esplicita posizione su alcune importanti questioni poste dall’atto di rimessione».
Premesso che i vitalizi «non sono assimilabili tout court a pensioni da lavoro dipendente», essi richiamano il disposto dell’art. 69 Cost. (a norma del quale «[i] membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita dalla legge»), che segnerebbe, anche per i vitalizi, la natura di «indennizzo» per la «temporanea perdita della capacità di produrre reddito da lavoro», garantendo al parlamentare una «situazione reddituale che, sollevandolo da preoccupazioni economiche, gli consenta il libero svolgimento del mandato elettivo». Il vitalizio, del resto, rappresenterebbe «la proiezione economica dell’indennità parlamentare», come da ultimo affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione (ordinanze 8 luglio 2019, n. 18265 e n. 18266, che hanno affermato la competenza degli organi dell’autodichia a conoscere delle cause relative ai vitalizi degli ex parlamentari).
Proprio per questo, anche i vitalizi, come le indennità, oggetto dell’art. 69 Cost., dovrebbero sottostare alla riserva di legge di cui alla menzionata disposizione costituzionale, la quale introdurrebbe «un obbligo positivo del legislatore di prevedere e disciplinare tutti gli istituti di natura economica», ivi compresi i vitalizi, «indispensabili per l’effettiva garanzia del libero accesso al mandato parlamentare e dell’autonomia e indipendenza degli eletti». Si tratterebbe, peraltro, di una riserva relativa di legge, sicché la disciplina tanto delle indennità quanto dei vitalizi «dovrebbe dividersi tra legge e regolamenti parlamentari, spettando all’una la disciplina di fondo e agli altri la specificazione applicativa dei principi posti dal legislatore». Tuttavia, si fa notare che, ad oggi, la disciplina dei vitalizi – tanto alla Camera, quanto al Senato – è stata «contenuta in regolamenti parlamentari senza alcun criterio legislativo». Le leggi che hanno disciplinato le indennità (sia la previgente legge 9 agosto 1948, n. 1102, recante «Determinazioni dell’indennità spettante ai membri del Parlamento», sia la successiva legge 31 ottobre 1965, n. 1261, recante «Determinazione della indennità spettante ai membri del Parlamento»), infatti, non hanno dettato regole pure per i vitalizi – al massimo, limitandosi a dare per presupposto e a riconoscere il sistema mutualistico già introdotto e operante –, lasciando che questa lacuna fosse riempita dai regolamenti parlamentari, peraltro da quelli cosiddetti “minori”. Tale «illegittimo assetto», si fa notare, non sarebbe stato affatto avallato dalla giurisprudenza costituzionale, la quale si sarebbe limitata solo a prenderne atto (è richiamata la sentenza n. 289 del 1994).
Ne deriverebbe – ad avviso dei deducenti – l’«incostituzionalità della mancanza di disciplina nella legge impugnata, ovvero nella legge n. 1261/1965», laddove omette di regolare l’istituto del vitalizio.
Gli esponenti, tuttavia, non condividono l’ordinanza di rimessione né nella parte in cui essa qualifica come atti aventi forza di legge i cosiddetti regolamenti parlamentari “minori” (anche denominati come «regolamenti di diritto parlamentare amministrativo»), né nella parte in cui essa asserisce che l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, costantemente affermata da questa Corte (a esempio, da ultimo, con la sentenza n. 120 del 2014), riguarderebbe solo i regolamenti cosiddetti “maggiori”, e non anche quelli “minori”. Ad avviso dei deducenti, inoltre, la riserva di regolamento, come attribuita alle Camere dalla Costituzione, incontrerebbe «un limite invalicabile nei casi in cui la Costituzione medesima contempli una riserva di legge», e quindi anche nel caso di cui all’art. 69 Cost., il cui testo «è chiaro nel rimetterne la disciplina – quanto meno nei suoi tratti essenziali – alla legge formale, escludendo in tal modo che essi possano essere interamente disciplinati dai regolamenti parlamentari, maggiori o minori che siano». Di conseguenza, la materia delle indennità parlamentari e dei vitalizi non potrebbe essere disciplinata dai regolamenti parlamentari, siano essi “maggiori” o “minori”, trattandosi di materia coperta da riserva di legge; per l’effetto – a giudizio degli esponenti – il Consiglio di garanzia rimettente non potrebbe far altro che annullare ex tunc la deliberazione n. 6 del 2018, «senza necessità di alcuna declaratoria di incostituzionalità».
In particolare, secondo i deducenti, ove un regolamento parlamentare contrasti con norme e principi costituzionali, «gli organi dell’autodichia devono e possono disapplicarlo, oppure – ove impugnato – annullarlo»; non potrebbero, invece, dichiararlo costituzionalmente illegittimo, ai sensi e agli effetti dell’art. 136 Cost. Né tali organi potrebbero modulare gli effetti temporali di un eventuale annullamento, similmente a quanto fatto da questa Corte con la sentenza n. 10 del 2015.
Peraltro, nella non condivisa ipotesi in cui i regolamenti cosiddetti minori fossero considerati fonte legittima per la disciplina di una materia (come quella dei vitalizi) coperta da riserva di legge, gli esponenti sostengono che il relativo controllo di legittimità costituzionale «non potrebbe che competere alla Corte costituzionale».
Venendo, infine, a trattare di alcuni profili afferenti al merito, i deducenti evidenziano i «gravi profili di illegittimità» che, a loro giudizio, sarebbero riscontrabili nella delibera censurata dal Consiglio di garanzia. Rilevanza assumerebbero, innanzi tutto, i principi in materia di tutela dell’affidamento, relativi ai rapporti contrattuali (con richiamo, qui, alla sentenza n. 92 del 2013 di questa Corte), specialmente alla luce della giurisprudenza costituzionale in materia di riduzione di trattamenti previdenziali già accordati o in fase di maturazione. In tale prospettiva, la non modificabilità retroattiva del trattamento previdenziale costituirebbe il principio generale che la censurata deliberazione n. 6 del 2018 non rispetta.
2.2.– Si sono costituiti nel presente giudizio l’Associazione ex parlamentari della Repubblica, A. A. e I.M. D., formulando affermazioni e conclusioni del tutto analoghe a quelle poc’anzi riportate.
2.3.– Nel giudizio innanzi alla Corte si è inoltre costituito G. C., concludendo per l’inammissibilità, o comunque per la non fondatezza, delle due questioni sollevate dal Consiglio di garanzia del Senato.
A giudizio del deducente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994 sarebbe manifestamente irrilevante. Né la deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato n. 6 del 2018 potrebbe essere intesa come strumento idoneo a disciplinare la materia degli assegni vitalizi, nonostante quanto in contrario rilevato dal Consiglio di Stato nel parere del 26 luglio 2018, n. 2016, reso dall’adunanza della commissione speciale. Quella dei vitalizi è infatti una materia che «esula completamente e palesemente dalla previsione testuale degli articoli 64, comma I, e 72, commi I e II, della Costituzione», rimanendo estranea all’organizzazione e al funzionamento delle Camere. Essa non riguarderebbe la garanzia di indipendenza delle Camere rispetto agli altri poteri (ossia, lo «statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari» che, secondo la sentenza n. 120 del 2014 di questa Corte, segna l’ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari). Di conseguenza, non potrebbe giustificarsi la sottrazione della materia degli assegni vitalizi «a qualsiasi giurisdizione» ed essa dovrebbe costituire oggetto di apposita normazione per legge ordinaria (come è avvenuto per il trattamento economico dei parlamentari, oggetto della legge n. 1261 del 1965). Del resto, se le indennità dei parlamentari devono essere disciplinate con legge (art. 69 Cost.), ciò «a maggior ragione» dovrebbe valere anche per i vitalizi.
Al più, secondo il deducente, la materia dei vitalizi risulterebbe assoggettata a un regime di «concorrenza» tra la legge ordinaria e il regolamento parlamentare, il quale sarebbe chiamato ad «attuare le previsioni di legge, nel rispetto dei principi e delle regole costituzionali».
Anche della seconda questione di legittimità costituzionale – concernente l’art. 1, comma 1, della deliberazione n. 6 del 2018 – viene sostenuta l’inammissibilità. Premesse alcune notazioni sui cosiddetti regolamenti minori (o di «diritto parlamentare amministrativo»), il deducente osserva che la giurisprudenza di questa Corte, laddove ha escluso la sottoponibilità dei regolamenti parlamentari al proprio sindacato, non avrebbe mai distinto le due categorie dei «regolamenti maggiori» e dei «regolamenti minori». Nella previsione dell’art. 134 Cost., che circoscrive il sindacato di questa Corte solo alle leggi e agli atti aventi forza di legge, non rientrerebbero né i regolamenti “maggiori” né quelli “minori”: ne sarebbe conferma quanto statuito da questa Corte, a esempio nella sentenza n. 154 del 1985, o ancora nella sentenza n. 120 del 2014 in cui si è espressamente escluso che i regolamenti parlamentari – pur recando norme che entrano a far parte dell’ordinamento generale – possano considerarsi quali atti aventi forza di legge.
2.4.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si sono costituiti anche gli appellati C.F. B. e altri, chiedendo che questa Corte, «dichiarata la propria competenza, si pronunci sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di garanzia».
Gli esponenti, dopo aver sintetizzato il dibattito sulla questione del controllo della legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari – rammentando come la stessa sia stata variamente risolta dagli organi di autodichia delle Camere –, corroborano con ampia argomentazione l’assunto, sostenuto dal rimettente, secondo il quale il tipo di deliberazione in scrutinio integrerebbe un atto con forza di legge, come tale scrutinabile mediante incidente di costituzionalità.
2.5.– Si sono costituiti in giudizio anche gli ex senatori L. F. e altri, chiedendo rigettarsi «ogni prospettiva di non corresponsione “delle somme trattenute corrispondenti al periodo ricompreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di efficacia di questa sentenza”» e dichiararsi fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 1, comma 1, della deliberazione del Consiglio di presidenza n. 6 del 2018.
Gli appellati rilevano, innanzitutto, che il provvedimento in scrutinio, comportando una severa riduzione del reddito di numerosi senatori cessati dalla carica, violerebbe il «diritto umano» a una vita dignitosa e, in alcuni casi, alla stessa sopravvivenza.
Nell’atto di costituzione, mediante ampi richiami giurisprudenziali e rimandi a dati normativi ritenuti significativi, nonché alle decisioni rese in sede di autodichia, si argomenta diffusamente la tesi della natura previdenziale dei vitalizi dei parlamentari, dalla quale si fa discendere l’applicazione alla materia in oggetto dei principi della materia pensionistica, con particolare riferimento ai limiti di aggredibilità delle somme ricevute a titolo di trattamento di quiescenza, all’esigenza di tutelare ogni forma di risparmio a scopo pensionistico e al divieto di riforma in peius con effetti retroattivi sui redditi erogati a titolo di pensione.
Si assume, altresì, che il rimettente avrebbe correttamente rilevato come la deliberazione in scrutinio non si sia limitata a incidere sul quantum del vitalizio, avendo, per contro, radicalmente cambiato le regole per la determinazione del reddito previdenziale, così incidendo retroattivamente su ciascuna posizione soggettiva, ancorché ampiamente consolidata.
Si evidenzia, ancora, come la disposizione censurata si ponga in contrasto con la giurisprudenza costituzionale secondo la quale le misure che incidono in modo penalizzante sulle pensioni di maggiore entità – i contributi di solidarietà – devono essere necessariamente temporanee e devono avere riguardo al tempo trascorso tra la definizione dell’assetto originario e la modifica, al grado di consolidamento della posizione soggettiva e alla proporzionalità dell’intervento che comprime la situazione preesistente.
La deliberazione in scrutinio recherebbe, inoltre, vulnus ad altri principi costituzionali, afferenti alla finalità di garanzia dell’indipendenza parlamentare cui è rivolto il trattamento previdenziale in questione, nonché all’art. 69 Cost., nella misura in cui pretende di dettare una disciplina economica riguardante i parlamentari cessati dal mandato, pur in assenza di una previsione di legge.
A tale riguardo, si deduce che la legge n. 1261 del 1965 sulle indennità parlamentari demanda ai regolamenti “minori” la disciplina di dettaglio e che tale previsione, in quanto espressamente dettata per i membri del Parlamento, non può essere riferita alla materia dei vitalizi, la quale concerne, invece, i parlamentari cessati dal mandato.
In aggiunta, la deliberazione n. 6 del 2018, imponendo una modifica peggiorativa in via retroattiva del trattamento spettante ai senatori cessati, recherebbe vulnus ai principi di ragionevolezza e di certezza del diritto.
Sarebbero, infine, violati gli artt. 48, 51 e 68 Cost., ponendosi la deliberazione censurata in contrasto con il favor per l’accesso dei cittadini alle cariche elettive. Tale previsione, infatti, sortirebbe un effetto di deterrenza sotto il profilo della partecipazione attiva alla rappresentanza parlamentare.
In merito alla questione degli arretrati che sarebbero dovuti in conseguenza dell’annullamento parziale della deliberazione n. 6 del 2018, disposto dal Consiglio di garanzia, si esclude che nel caso di specie possa trovare applicazione la tecnica di modulazione temporale degli effetti, derogatoria dell’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale, adottata in alcune occasioni da questa Corte (viene citata la sentenza n. 10 del 2015), al fine di evitare effetti «ancor più incompatibili con la Costituzione».
Nella fattispecie in scrutinio – si evidenzia – non sarebbe ravvisabile alcuno dei fattori che possano limitare l’ordinaria retroattività delle pronunce di annullamento. Al contrario, se non venissero versate le somme indebitamente non erogate dal 1° gennaio 2019 sino al deposito della decisione n. 253 del 2022, si determinerebbe un vulnus a diritti aventi natura previdenziale e attinenti alle funzioni parlamentari, con pregiudizio per i valori costituzionali ad essi sottesi.
2.6.– Si sono altresì costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale gli ex senatori G. C. e M.R. B., chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate.
In merito alla scrutinabilità, davanti a questa Corte, di un regolamento parlamentare “minore”, quale sarebbe la deliberazione n. 6 del 2018 in esame, si evidenzia, in adesione alle argomentazioni svolte dal rimettente, che, alla luce della giurisprudenza costituzionale secondo la quale i regolamenti delle Camere non sono suscettibili di sindacato di costituzionalità, ove, come nel caso di specie, il regolamento parlamentare costituisca l’unica fonte di una disciplina che incide sui diritti dei destinatari, si determinerebbe una disparità di trattamento rispetto all’ipotesi in cui la regolamentazione sia disposta con legge.
L’ammissibilità del sindacato di legittimità costituzionale sul regolamento in scrutinio troverebbe conferma nella circostanza che la deliberazione n. 6 del 2018 risulterebbe “embricata” con l’art. 26 della legge n. 724 del 1994, così che, ove si ritenga che tale disposizione legislativa contenga la «norma in bianco implicita», secondo la quale il Consiglio di presidenza potrebbe ridurre la misura del vitalizio in godimento ad libitum, allora la stessa norma di legge dovrebbe formare oggetto di incidente di costituzionalità, derivando la prova della sua illegittimità costituzionale proprio dagli esiti dell’esercizio del potere regolamentare nel caso concreto.
Di conseguenza, soggiungono gli esponenti, per il tramite dell’art. 26 della legge n. 724 del 1994, lo scrutinio di legittimità costituzionale si rivolgerebbe proprio al contenuto materiale della deliberazione del Consiglio di presidenza impugnata.
Il sindacato di legittimità costituzionale sul complesso normativo costituito dalla legge e dal regolamento – proseguono gli esponenti – è stato ritenuto praticabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale, la quale avrebbe più volte chiarito che, ove la regolamentazione censurata di illegittimità costituzionale sia rappresentata, nella sostanza, dal combinato disposto di una norma primaria e di una norma sub-primaria e la prima risulti in concreto applicabile attraverso le specificazioni formulate nella fonte secondaria, è possibile il sindacato di costituzionalità sulla norma primaria tenendo conto che l’altra costituisce un completamento del relativo contenuto prescrittivo (viene citata la sentenza n. 200 del 2018).
In punto di rilevanza, si assume che l’incidente di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 724 del 1994 consentirà al rimettente di operare «quel “bilanciamento” secundum constitutionem dallo stesso ritenuto necessario per riconoscere o meno la sussistenza del diritto sugli arretrati del vitalizio con decorrenza dal 1° gennaio 2019».
In merito alla questione sollevata in relazione all’art. 1, comma 1, della deliberazione n. 6 del 2018, si assume, invece, che la caducazione che deriverebbe dalla declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe la riespansione del trattamento di vitalizio previdenziale dei comparenti, nei termini indicati nella sentenza parziale resa dal Consiglio di garanzia, con decorrenza dal 1° gennaio 2019, con conseguente liquidazione di tutti gli arretrati medio tempore maturati.
Nel merito, a sostegno delle argomentazioni del Collegio rimettente, gli appellati assumono che le questioni sollevate siano fondate sia per ragioni connesse alla scelta della fonte attraverso la quale è stata disposta la rideterminazione dei trattamenti economici dei senatori cessati, sia per ragioni di ordine sostanziale legate al contenuto della riforma in scrutinio.
Di seguito, gli appellati sottolineano che, in conseguenza della rideterminazione operata dal regolamento censurato, in molti casi il trattamento avrebbe subito una riduzione «quasi dimidium» e di carattere definitivo, la cui misura dimostrerebbe l’irragionevolezza della nuova disciplina e del suo carattere essenzialmente espropriativo nei confronti di un bene già acquisito al patrimonio degli interessati.
Ancora, ad avviso degli appellati, il complesso normativo in scrutinio si porrebbe in contrasto con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale, con particolare riferimento allo ius superveniens riduttivo delle cosiddette “pensioni d’oro” estranee al sistema contributivo, introdotto dall’art. 1, commi 261 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), con richiamo alla sentenza n. 234 del 2020.
Si sottolinea che i limiti all’ingerenza pubblica sui crediti previdenziali, stabiliti da questa Corte per le pensioni di ammontare superiore a 100.000,00 euro annui, e riguardanti riduzioni del dieci per cento di durata temporanea, varrebbero a maggior ragione nel caso di specie, in cui si è al cospetto di una decurtazione maggiore e definitiva operata su un trattamento di ammontare inferiore.
Si aggiunge che occorrerebbe, comunque, considerare la «causa particolare» del vitalizio, che rappresenta una proiezione economica dell’indennità parlamentare per la parentesi di vita successiva allo svolgimento del mandato. Tale assimilazione attesterebbe la contrarietà della disciplina censurata all’art. 69 Cost., il quale offre una garanzia costituzionale che copre sia l’an che il quantum del vitalizio.
2.7.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si sono, infine, costituiti G. Z. e altri, tutti ex senatori, per sostenere la fondatezza delle censure svolte dal rimettente.
Ad avviso degli appellati, la deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato n. 6 del 2018 avrebbe modificato retroattivamente la disciplina sostanziale dell’assegno vitalizio, intervenendo sul momento genetico del diritto e stravolgendone in modo definitivo il contenuto, la finalità e l’entità, senza, quindi, rispettare i parametri della eccezionalità e della temporaneità della misura ablativa.
Attraverso una minuziosa ricostruzione della evoluzione storica della disciplina dei vitalizi, gli appellati pongono in luce come tale emolumento abbia mutato nel tempo la propria natura, acquisendo già con la sentenza di questa Corte n. 289 del 1994 la connotazione previdenziale definitivamente confermata dalla riforma del 2012 e, da ultimo, dalla stessa deliberazione in scrutinio.
Si rileva, quindi, che la legge n. 724 del 1994, pur sopprimendo il regime fiscale speciale precedentemente previsto per i parlamentari, assoggettandoli alla disciplina del testo unico delle imposte sui redditi, non ha, tuttavia, previsto che la materia dei vitalizi dovesse essere regolamentata in ossequio ai principi generali in materia previdenziale e, in particolare, ai principi di irretroattività, salvezza dei diritti acquisiti, uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
In aggiunta, si corroborano le motivazioni spese dal rimettente a supporto del secondo dei profili di illegittimità costituzionale prospettati, evidenziandosi che i vitalizi, costituendo – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità – una proiezione economica dell’indennità spettante ai parlamentari, rientrerebbero nella riserva di legge di cui all’art. 69 Cost. Di conseguenza, in materia di vitalizi, non sarebbe giustificato un «intervento autonomo e autoreferenziale dei regolamenti parlamentari», essendo necessaria una disciplina legislativa «a garanzia e tutela dei parlamentari in qualità di individui dell’ordinamento generale», ossia di soggetti terzi da preservare dal potere amministrativo del Parlamento.
La riserva di legge, o comunque la preferenza per la disciplina legislativa comporterebbe ricadute sul piano della tutela giurisdizionale, posto che solo nelle materie regolate dalla legge l’organo di autodichia è legittimato alla rimessione, in via incidentale, delle questioni di legittimità costituzionale al sindacato di questa Corte.
Ancora, gli appellati deducono che, ove si ritenesse che il Consiglio di presidenza del Senato potesse validamente adottare la deliberazione in scrutinio, dovrebbe allora sostenersi che tale regolamento sia suscettibile di sindacato di legittimità costituzionale, militando a favore di tale ricostruzione l’esigenza di uniformità dell’interpretazione della Costituzione e di effettività della tutela giurisdizionale (vengono citate le sentenze n. 213 del 2017 e n. 120 del 2014). Ciò, sul presupposto che l’indipendenza delle Camere non possa compromettere diritti fondamentali, né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili (viene citata l’ordinanza n. 91 del 2016).
Ove, accogliendo tale impostazione, si ritenesse che il regolamento “minore” sia suscettibile di scrutinio di legittimità costituzionale, dovrebbe assumersene la manifesta illegittimità costituzionale, per avere violato i principi generali di irretroattività, di temporaneità, di ragionevolezza e di proporzionalità, essendo intervenuto «in maniera unilaterale, arbitraria e permanente» su diritti soggettivi perfetti aventi natura prevalentemente previdenziale, con la conseguenza che all’esito del suo annullamento sorgerebbe il diritto alla percezione di tutti gli arretrati.
3.– Con memorie successivamente depositate, hanno svolto difese gli ex senatori G. C. e M.R. B., nonché F.C. B. e altri, ribadendo, nella sostanza, le precedenti proprie deduzioni.
Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di garanzia del Senato della Repubblica, chiamato a decidere, in grado di appello, alcune controversie relative all’applicazione della nuova disciplina dei vitalizi riconosciuti agli ex parlamentari, come introdotta dalla deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica n. 6 del 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 1, comma 1, della medesima deliberazione del Consiglio di presidenza, per contrasto di entrambe le disposizioni con gli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, Cost.
L’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994 è censurato «nella parte in cui – nel sopprimere qualsiasi regime fiscale particolare per gli assegni vitalizi (ora pensioni) degli ex parlamentari – non prevede altresì che queste prestazioni vanno disciplinate nel rispetto dei principi generali in materia previdenziale, in rapporto agli articoli 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, della Costituzione, tra cui – per quanto di interesse – i limiti posti al legislatore nell’individuazione dei parametri per determinare i vitalizi e con essi i limiti per un eventuale adeguamento retroattivo».
La seconda questione investe l’art. 1, comma 1, della deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato n. 6 del 2018, «laddove qualificata come “regolamento minore” avente forza di legge, nella parte in cui viola i principi di proporzionalità e ragionevolezza nella determinazione retroattiva dei vitalizi, in rapporto agli articoli 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, della Costituzione, sempre ai fini di un eventuale adeguamento retroattivo per il periodo di tempo sopra indicato».
2.– In via preliminare, è appena il caso di ricordare che, come già chiarito da questa Corte, l’autorità rimettente ha legittimazione a sollevare l’incidente di legittimità costituzionale, come giudice a quo, ai sensi dell’art. 1 della legge costituzionale 13 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale) e dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). Il Consiglio di garanzia del Senato costituisce, infatti, un «organo di autodichia, chiamato a svolgere, in posizione super partes, funzioni giurisdizionali» volte alla decisione di controversie – nella specie, quelle che sono insorte tra l’amministrazione del Senato della Repubblica e gli ex senatori, in tema di ricalcolo dei vitalizi – per l’obiettiva applicazione della legge (sentenze n. 213 del 2017; nello stesso senso, seppure con riferimento a soggetti diversi, sentenze n. 376 del 2001 e n. 226 del 1976).
3.– La riforma adottata con la deliberazione n. 6 del 2018 – così come l’omologa normativa introdotta dall’Ufficio di presidenza della Camera dei deputati con deliberazione del 12 luglio 2018, n. 14 – ha significativamente innovato la disciplina dell’assegno vitalizio, delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, nonché dei trattamenti di reversibilità, relativi agli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011, uniformandola al regime previdenziale, basato sul metodo contributivo, vigente nell’ordinamento generale.
3.1.– La novella costituisce l’ultimo approdo di una evoluzione normativa che, fatta eccezione per la disciplina fiscale, di rango legislativo, ha sempre trovato il suo assetto in regolamenti degli organi di vertice amministrativo delle Camere. Essa rinviene la sua genesi nella istituzione, con delibere degli Uffici di presidenza di Camera e Senato del 9 aprile del 1954, di due distinte casse di previdenza per i deputati e i senatori, aventi lo scopo di provvedere alla corresponsione di una «pensione vitalizia» a favore dei parlamentari cessati dal mandato, delle loro vedove e dei loro orfani. Le casse furono poi disciolte nel 1959 e successivamente, con decorrenza 1° gennaio 1960, unificate nella Cassa di previdenza per i parlamentari della Repubblica. La configurazione dell’istituto esibiva, in quell’epoca, tratti tipicamente mutualistici (sentenza n. 289 del 1994), come reso evidente dalla previsione dell’iscrizione d’ufficio del parlamentare alla cassa e dalla parziale alimentazione di questa mediante contribuzione obbligatoria (artt. 2, primo comma, e 3 dello «Statuto della cassa di previdenza per i senatori della repubblica»).
Negli anni successivi, essendo stata rilevata l’insufficienza, ai fini dell’attuazione della finalità mutualistica, dei contributi così raccolti, nel bilancio delle amministrazioni della Camera e del Senato fu introdotto un apposito capitolo dal quale trarre le risorse finanziarie necessarie all’erogazione della prestazione. Con le deliberazioni rispettivamente del 30 ottobre 1968 e del 18-23 ottobre 1968, l’Ufficio di presidenza della Camera e il Consiglio di presidenza del Senato adottarono i rispettivi regolamenti per la previdenza dei deputati e dei senatori, con i quali fu istituita una voce in entrata destinata a recepire le ritenute obbligatorie prelevate dall’indennità spettante agli stessi, secondo un meccanismo non dissimile da quello previsto per i lavoratori nell’ordinamento generale.
Con particolare riferimento al Senato, l’art. 1, primo comma, del «Regolamento per la previdenza e assistenza agli onorevoli senatori e loro familiari» stabiliva che tutti i senatori fossero assoggettati al versamento di contributi mensili, nella misura stabilita dal Consiglio di presidenza, mediante trattenuta d’ufficio sull’indennità. Inoltre, l’art. IV delle disposizioni transitorie e finali del medesimo regolamento prevedeva che «[g]li assegni vitalizi diretti e di riversibilità agli onorevoli senatori cessati dal mandato, nonché ai loro familiari e aventi causa, saranno corrisposti a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica, nel cui preventivo figurerà ogni anno un apposito capitolo di spesa denominato “Previdenza e assistenza per gli onorevoli senatori”, previo inserimento in entrata di una partita contenente l’ammontare delle contribuzioni degli onorevoli senatori».
L’ampiezza temporale dell’erogazione, a fronte di periodi di contribuzione spesso di breve durata, rese, tuttavia, precario l’equilibrio tra le entrate e le uscite, così che fu necessario un progressivo ampliamento del capitolo di bilancio deputato a finanziare l’erogazione dell’assegno.
Alla stregua del nuovo sistema, il vitalizio spettava ai senatori cessati dall’incarico elettivo – ma analoghe regole furono stabilite anche dalla Camera, per gli ex deputati – che avessero compiuto sessanta anni di età e che avessero versato contributi per un periodo di almeno cinque anni di mandato parlamentare (art. 2, primo comma). Nondimeno, per ogni anno di mandato o di contribuzione oltre il quinto l’età richiesta per il conseguimento del diritto al vitalizio era diminuita di un anno, fino al limite massimo di cinquanta anni (art. 2, secondo comma).
In caso di esercizio del mandato per un periodo inferiore al quinquennio, l’art. 6 del regolamento in esame prevedeva la possibilità di versare contributi in via volontaria, onde raggiungere tale ultimo limite temporale e ottenere l’assegno vitalizio minimo.
Il sistema così delineato presentava una connotazione lato sensu assicurativa (sentenza n. 289 del 1994), come confermato dalla deliberazione del Consiglio di presidenza del 30 giugno 1993, n. 44 (Aumento del contributo a carico dei Senatori ai fini dell’assegno vitalizio), con la quale l’organo di vertice amministrativo del Senato incluse i contributi per gli assegni vitalizi a carico dei senatori, «stante la loro natura non assimilabile a quella dei trattamenti pensionistici», nella base imponibile dell’indennità parlamentare «in analogia ai premi assicurativi destinati a costituire le rendite vitalizie».
Il descritto assetto normativo è rimasto in vigore, per il Senato, fino al 1997, allorquando, con la deliberazione del Consiglio di presidenza del 30 luglio, recante il nuovo «Regolamento per gli assegni vitalizi degli onorevoli senatori e loro familiari», le disposizioni regolamentari fino ad allora vigenti sono state oggetto di rilevanti modifiche, che hanno investito, anzitutto, le modalità di determinazione dell’assegno.
L’art. 19, primo comma, di tale regolamento disponeva, infatti, che la misura dell’assegno vitalizio diretto fosse deliberata dal Consiglio di presidenza e calcolata in percentuale dell’indennità parlamentare lorda, da un minimo del venticinque per cento (per cinque anni di contributi) ad un massimo dell’ottanta per cento (per trenta anni di contributi), secondo la «Tabella A» allegata al regolamento stesso.
3.2.– Una radicale modifica del sistema sin qui descritto si è avuta, per entrambe le Camere, con l’adozione, nel 2012, dei nuovi regolamenti delle pensioni dei deputati e dei senatori, adottati con deliberazioni degli organi di presidenza assunte d’intesa, rispettivamente, il 30 gennaio 2012 per la Camera dei deputati e il 31 gennaio 2012 per il Senato.
Tale riforma ha comportato una profonda trasformazione della disciplina del trattamento di quiescenza dei parlamentari.
Per quanto concerne più specificamente il Senato, l’art. 1, comma 1, del nuovo «Regolamento delle pensioni dei senatori» ha stabilito che la disciplina interessa i senatori in carica alla data del 1° gennaio 2012 ovvero eletti successivamente, nonché quelli che abbiano esercitato il mandato parlamentare precedentemente a tale data e successivamente rieletti. Il comma 2 dello stesso articolo ha precisato, inoltre, che «[i] senatori sono assoggettati d’ufficio alla contribuzione previdenziale, che si effettua mediante trattenute sull’indennità parlamentare, ovvero sulle competenze accessorie qualora abbiano optato, in luogo dell’indennità, per il trattamento economico in godimento presso la pubblica amministrazione di appartenenza, ai sensi dell’articolo 68 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».
L’art. 2 del citato regolamento ha definito i requisiti soggettivi per il conseguimento del trattamento di quiescenza, prescrivendo che i senatori conseguono il diritto alla pensione al compimento del sessantacinquesimo anno di età e a condizione di avere svolto un periodo effettivo di mandato per almeno cinque anni nel Parlamento, precisando che per ogni anno di mandato parlamentare oltre il quinto l’età richiesta per il conseguimento del diritto alla pensione è diminuita di un anno, con il limite all’età di sessanta anni.
La novità più significativa della novella del 2012 si rinviene nell’art. 3 del regolamento, ove viene esplicitamente dichiarato il passaggio del trattamento previdenziale per i senatori al sistema di liquidazione basato sul metodo contributivo. La medesima disposizione prescrive che l’emolumento sia calcolato moltiplicando il montante individuale dei contributi per il coefficiente di trasformazione riportato nell’«Allegato A», relativo all’età del senatore al momento del conseguimento del diritto alla pensione. L’accesso al trattamento è, quindi, condizionato alla sussistenza di un duplice requisito, anagrafico e contributivo. Quanto al primo, la provvidenza spetta al senatore che abbia compiuto il sessantacinquesimo anno di età e che abbia svolto mandati per almeno cinque anni. Quanto al requisito contributivo, in analogia a quanto previsto per il pubblico dipendente, la contribuzione prevista è pari al trentatré per cento, ripartita tra il senatore e la Camera di appartenenza, mentre la base imponibile contributiva è calcolata sulla indennità parlamentare lorda, con esclusione di qualsiasi indennità di funzione e accessoria.
La riforma del 2012 allinea il metodo di quantificazione del trattamento di quiescenza per i parlamentari a quello, conformato sul modello contributivo, affermatosi nell’ordinamento generale all’esito di una riforma organica avviata con la legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) e completata con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Inoltre, analogamente a quanto stabilito per la generalità dei lavoratori, anche ai senatori in carica alla data del 1° gennaio 2012 è applicato un sistema pro rata, il cui calcolo è definito dall’art. 4 del regolamento, a mente del quale per i suddetti parlamentari che abbiano esercitato il mandato precedentemente a tale data e che siano successivamente rieletti, il trattamento previdenziale è determinato dalla somma dell’assegno vitalizio definitivamente maturato alla data del 31 dicembre 2011, secondo il regolamento in vigore al momento di inizio del mandato, e dalla pensione calcolata con il sistema contributivo con riferimento agli ulteriori anni di mandato parlamentare esercitato. La pensione pro rata non può essere comunque superiore all’importo massimo del vitalizio previsto dal regolamento previgente (art. 4, comma 3, del Regolamento delle pensioni dei senatori).
Come già precisato, l’art. 1 della deliberazione n. 6 del 2018 ha poi disposto che le quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, maturati sulla base della normativa vigente alla data del 31 dicembre 2011, sono rideterminate moltiplicando il montante contributivo individuale per un coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data della decorrenza del trattamento pro rata.
3.3.– In tale cornice normativa, dominata dalle fonti di diritto parlamentare, il legislatore si è astenuto dal dettare una disciplina generale dei vitalizi, limitandosi a regolarne il solo trattamento fiscale.
In particolare, l’art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 69 (Disposizioni urgenti in materia di imposta sul reddito delle persone fisiche e versamento di acconto delle imposte sui redditi, determinazione forfettaria del reddito e dell’IVA, nuovi termini per la presentazione delle dichiarazioni da parte di determinate categorie di contribuenti, sanatoria di irregolarità formali e di minori infrazioni, ampliamento degli imponibili e contenimento delle elusioni, nonché in materia di aliquote IVA e di tasse sulle concessioni governative), convertito, con modificazioni, nella legge 27 aprile 1989, n. 154, aveva istituito un regime tributario di favore per i vitalizi degli ex parlamentari, estendendovi il trattamento fiscale privilegiato già previsto per le rendite vitalizie di cui all’(allora vigente) art. 47, primo comma, lettera h), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). Detto regime di favore, prima ancora della sua declaratoria di illegittimità costituzionale con la sentenza n. 289 del 1994 di questa Corte, fu abrogato dall’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica).
Di seguito, l’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994, qui in scrutinio, ha disposto la soppressione di tutti gli esistenti regimi fiscali particolari concernenti «gli assegni vitalizi spettanti ai membri del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo, della Corte costituzionale e dei consigli regionali per la quota parte che non derivi da fonti riferibili a trattenute effettuate al percettore già assoggettate a ritenute fiscali».
Successivamente, con l’art. 5-bis del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349, sono state precisate le «modalità applicative» della disposizione del 1994, disponendosi che «la quota parte di cui alla lettera b) è determinata, per i membri del Parlamento nazionale, in misura corrispondente al rapporto tra l’ammontare complessivo delle trattenute effettuate, assoggettate a ritenute fiscali, e la spesa complessiva per assegni vitalizi; tale rapporto si considera in ogni caso non superiore ai due quinti».
3.4.– Nella trama normativa sin qui ricomposta si inserisce la deliberazione n. 6 del 2018, del pari oggetto delle odierne questioni di legittimità costituzionale, con la quale, come evidenziato, il Consiglio di presidenza del Senato ha approvato la rideterminazione su base contributiva degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, nonché dei trattamenti di reversibilità, relativi agli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011.
Tale deliberazione fa seguito alla discussione di un disegno di legge di iniziativa parlamentare del 2015, presentato nella XVII Legislatura (Camera dei deputati – proposta di legge n. 3225, recante «Disposizioni in materia di abolizione dei vitalizi e nuova disciplina dei trattamenti pensionistici dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali»), approvato in prima lettura alla Camera e poi arrestatosi al Senato in concomitanza con la fine di quella legislatura.
I regolamenti del 2018, così come la proposta di legge del 2015 che li ha preceduti, mirano ad abolire gli assegni vitalizi maturati anteriormente alla riforma del 2012, riconfigurandone il regime giuridico alla stregua del modello previdenziale contributivo adottato nell’ordinamento generale.
A tal fine l’art. 1, commi 1 e 2, della deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 6 del 2018 dispone che, a decorrere dal 1° gennaio 2019, gli importi degli assegni vitalizi, diretti e di reversibilità, e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, maturati sulla base della normativa vigente alla data del 31 dicembre 2011, sono rideterminati moltiplicando il montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all’età anagrafica del senatore alla data della decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata.
4.– Così ricostruita la cornice normativa in cui si collocano le disposizioni censurate, è possibile procedere allo scrutinio delle odierne questioni.
5.– Esse sono inammissibili.
5.1.– Per quanto concerne la prima, avente ad oggetto l’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994, va, anzitutto, rilevato che non risultano adeguatamente esplicitate le ragioni della rilevanza della censurata disposizione ai fini della decisione della controversia all’esame del rimettente.
5.1.1.– Secondo il costante orientamento di questa Corte, la motivazione sulla rilevanza è da intendersi correttamente formulata quando illustra in modo non implausibile le ragioni che giustificano l’applicazione della norma censurata e determinano la pregiudizialità della questione rispetto alla definizione del processo principale (ex plurimis, sentenze n. 109 e n. 52 del 2022).
Nella specie, il giudice a quo si limita alla tautologica affermazione secondo la quale l’omessa previsione, nella disposizione in scrutinio, della soggezione della disciplina dei vitalizi ai principi generali dell’ordinamento previdenziale assumerebbe rilevanza ai fini dell’esame di un punto controverso e fondamentale del giudizio, «vale a dire la legittimità costituzionale o no di una disciplina (quella sugli assegni vitalizi e le pensioni degli ex senatori), che abbia imposto i criteri di cui all’originaria delibera del Consiglio di Presidenza, in modo perpetuo e non già transitorio».
Non vengono, tuttavia, chiarite le ragioni per le quali la omissione riscontrata nella legge n. 724 del 1994 costituirebbe un ostacolo alla decisione della controversia all’esame del rimettente, le cui doglianze investono una disposizione, appunto, l’art. 26, comma 1, lettera b), della predetta legge, che concerne il solo trattamento fiscale dell’istituto in scrutinio.
La individuazione di tale disciplina quale sedes materiae nella quale innestare l’auspicata pronuncia additiva avrebbe richiesto un supporto argomentativo idoneo ad esplicitare le ragioni per le quali l’addizione invocata sarebbe da collocarsi proprio in siffatto settoriale contesto normativo.
5.1.2.– Un ulteriore profilo di inammissibilità della questione per contraddittorietà logico-argomentativa emerge dalla circostanza che il Consiglio di garanzia, nel capo a) del dispositivo del suo provvedimento, annulla l’art. 1, comma 2, nella parte in cui prevede che il ricalcolo dei vitalizi avvenga in applicazione di un coefficiente di trasformazione basato su un dato retrospettivo, cioè sull’età del senatore alla data di decorrenza del trattamento previdenziale, anziché al momento dell’entrata in vigore dell’atto regolamentare in questione. Per giungere a tale conclusione, il rimettente fa leva sul parametro desunto dai principi fondamentali in materia previdenziale, come elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, e in particolare sul principio di non retroattività delle disposizioni che incidono in peius sui rapporti di durata. Tuttavia, lo stesso rimettente, al capo d) del dispositivo, evoca l’art. 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994 per denunziarne il carattere omissivo, sul rilievo che il legislatore fiscale avrebbe dovuto prevedere espressamente l’assoggettamento dei vitalizi ai principi generali in materia di previdenza, e chiede alla Corte di colmare l’indicata lacuna attraverso un intervento additivo. E proprio in ciò si rivela la contraddittorietà in cui incorre il giudice a quo, posto che, dopo aver ritenuto detti principi immanenti nel sistema e vincolanti, al punto di utilizzarli quali parametro per l’annullamento di una parte della delibera, ne rileva il mancato richiamo in una disposizione legislativa che, come già sottolineato, ha ad oggetto non già la disciplina generale dell’istituto di cui si tratta, ma solo la regolazione di un aspetto del tutto particolare.
5.2.– Parimenti inammissibile è la seconda questione sollevata dal Consiglio di garanzia in riferimento all’art. 1, comma 1, della deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato n. 6 del 2018.
5.2.1.– La determinazione in scrutinio, quale atto normativo adottato dall’organo di vertice dell’amministrazione del Senato, si inscrive nel novero dei regolamenti parlamentari cosiddetti “minori” o “derivati”, che rinvengono il proprio fondamento e la propria fonte di legittimazione in quelli cosiddetti “maggiori” o “generali”, approvati da ciascuna Camera a maggioranza assoluta dei suoi componenti ai sensi dell’art. 64, primo comma, Cost.
Come questi ultimi, anche i regolamenti parlamentari minori costituiscono una manifestazione della potestà normativa che la Costituzione riconosce alle Camere a presidio della loro indipendenza «e, perciò, per il libero ed efficiente svolgimento delle proprie funzioni» (sentenza n. 262 del 2017). Essi contribuiscono, come tali, a delineare lo «statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari» (sentenza n. 379 del 1996), quale definito e delimitato dagli artt. 64 e 72 Cost., ossia dalle norme che segnano l’ambito di competenza riservato avente ad oggetto l’organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione (sentenza n. 120 del 2014).
5.2.2.‒ Questa Corte ha inscritto i regolamenti maggiori tra le fonti dell’ordinamento generale della Repubblica, produttive di norme sottoposte agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni costituzionali, che ne delimitano la sfera di competenza (sentenza n. 120 del 2014), precisando comunque che detti regolamenti non sono annoverabili tra gli atti aventi forza di legge ai sensi dell’art. 134, primo alinea, Cost.
Tale precisazione va, a maggior ragione, ribadita con riguardo ai regolamenti minori, che, come dianzi sottolineato, trovano in quelli maggiori la propria fonte di legittimazione.
5.2.3.– Nella medesima decisione questa Corte ha anche rilevato che nel sistema delle fonti delineato dalla Costituzione il regolamento parlamentare è espressamente previsto dall’art. 64 come atto normativo dotato di una sfera di competenza riservata e distinta rispetto a quella della legge ordinaria, «nella quale, pertanto, neppure questa è abilitata ad intervenire».
La riserva di regolamento assume, nondimeno, carattere indefettibile soltanto in materia di procedimento legislativo. Con riferimento ad altri settori del diritto parlamentare resta demandata alla discrezionalità del Parlamento la scelta della fonte più congeniale alla materia da trattare.
La disciplina del vitalizio è stata posta, fin dalla sua istituzione, mediante regolamenti minori. E questa Corte ha rilevato la particolare natura di tale istituto, che ha trovato la sua origine nella mutualità e si è gradualmente trasformato in una forma di previdenza intesa in senso lato, «conservando peraltro un regime speciale che trova il suo assetto non nella legge, ma in regolamenti interni delle Camere» (sentenza n. 289 del 1994).
5.2.4.– Tuttavia, l’adozione di norme volte a disciplinare gli emolumenti dovuti al termine dell’incarico elettivo, investendo una componente essenziale del trattamento economico del parlamentare, contribuisce ad assicurare a tutti i cittadini uguale diritto di accesso alla relativa funzione, scongiurando il rischio che lo svolgimento del munus parlamentare, che talora si dispiega in un significativo arco temporale della vita lavorativa dell’eletto, possa rimanere sprovvisto di adeguata protezione previdenziale. Pertanto, la opzione per la fonte legislativa – del resto espressamente operata, con riguardo alla indennità, dall’art. 69 Cost. – garantirebbe in più la scrutinabilità dell’atto normativo davanti a questa Corte e assicurerebbe un’auspicabile omogeneità della disciplina concernente lo status di parlamentare.
5.2.5.– Alla luce di quanto sin qui esposto, poiché, come precisato da questa Corte, il problema dell’assoggettabilità al giudizio di legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari attiene all’ammissibilità della questione sollevata (sentenza n. 154 del 1985), le censure rivolte dal rimettente alla deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato n. 6 del 2018 devono essere dichiarate inammissibili, in quanto investono un atto normativo che non è compreso tra le fonti soggette al giudizio operato da questa Corte ai sensi dell’art. 134 Cost., e che, come già chiarito, costituisce, al pari dei regolamenti parlamentari maggiori, espressione dell’autonomia normativa accordata dalla Costituzione alle Camere.
Spetta, pertanto, agli organi dell’autodichia il giudizio – che si svolge «secondo moduli procedimentali di natura sostanzialmente giurisdizionale, idonei a garantire il diritto di difesa e un effettivo contraddittorio» (sentenza n. 262 del 2017) – sulla legittimità della deliberazione censurata.