Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza deliberata il 21 settembre 2015 e depositata l’11 marzo 2019, la Commissione tributaria regionale (CTR) del Molise ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge 18 ottobre 2001, n. 383 (Primi interventi per il rilancio dell’economia), nella parte in cui non include gli affini nel novero dei soggetti per i quali è escluso il pagamento dell’imposta da esso disciplinata.
La disposizione censurata, applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevede che: a) «[i] trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al quarto grado, sono soggetti alle imposte sui trasferimenti ordinariamente applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se il valore della quota spettante a ciascun beneficiario è superiore all’importo di 350 milioni di lire» (primo periodo); b) «[i]n questa ipotesi si applicano, sulla parte di valore della quota che supera l’importo di 350 milioni di lire, le aliquote previste per il corrispondente atto di trasferimento a titolo oneroso» (secondo periodo).
2.– Le questioni sono sorte nell’ambito di un giudizio che trae origine dal ricorso proposto dal donatario avverso l’avviso di liquidazione dell’imposta complementare di registro, determinata dall’Agenzia delle entrate, al netto della suddetta franchigia, in misura proporzionale all’importo della donazione di euro 7.830.000,00, stipulata il 22 giugno 2006.
Secondo quanto riferito dal rimettente, l’impugnato avviso di liquidazione era stato adottato perché tra il donante e il donatario intercorreva un rapporto di affinità di terzo grado e non di parentela. La Commissione tributaria provinciale di Campobasso aveva rigettato il ricorso – inteso ad ottenere l’estensione dell’esclusione dal pagamento dell’imposta prevista per le donazioni tra parenti –, ribadendo le motivazioni dell’avviso. Il contribuente aveva quindi appellato la sentenza di primo grado davanti alla CTR del Molise.
3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo in primo luogo osserva che l’atto di donazione oggetto dell’avviso di liquidazione risale al 22 giugno 2006 ed è stato registrato il 28 giugno 2006, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento impositivo deve essere vagliata alla luce del censurato art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001.
La successiva abrogazione di questa norma, disposta dall’art. 2, comma 52, lettera d), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, ha infatti effetto, secondo quanto previsto dal successivo comma 53 del medesimo art. 2, soltanto «per gli atti pubblici formati […] dalla data di entrata in vigore della legge di conversione» dello stesso d.l. n. 262 del 2006, ovvero dal 29 novembre 2006.
In secondo luogo, il Collegio rimettente rileva che il rapporto intercorrente tra il donante e l’appellante donatario è di affinità e non di parentela, sicché il contribuente, sulla scorta del tenore testuale della denunciata disposizione, non avrebbe diritto al «beneficio» da questa previsto.
3.1.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTR ritiene che l’art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001 arrechi un vulnus, innanzitutto, all’art. 3 Cost., in relazione al principio di eguaglianza.
L’omessa inclusione degli affini nel novero dei soggetti che non sono obbligati al pagamento dell’imposta di cui alla norma censurata determinerebbe, infatti, una ingiustificata discriminazione e una irragionevole disparità di trattamento rispetto ai parenti.
L’irragionevolezza sarebbe apprezzabile anche alla luce di «alcuni elementi ordinamentali» che riserverebbero un trattamento identico, o comunque omogeneo, ai parenti e agli affini e deporrebbero, pertanto, nel senso della loro «necessaria parificazione».
Al riguardo, il giudice a quo argomenta, innanzitutto, richiamando l’art. 7, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), come modificato dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale), il quale prevedeva – prima della sua abrogazione − che l’imposta sulle successioni e donazioni fosse determinata nella stessa misura percentuale sia per i parenti in linea collaterale fino al quarto grado, sia per gli affini in linea retta e per quelli in linea collaterale fino al terzo grado: disposizione, questa, che sarebbe significativa della volontà del legislatore di «accomunare» i parenti e gli affini.
Quindi, la CTR del Molise elenca una nutrita serie di previsioni normative parimenti sintomatiche, a suo avviso, della dedotta necessaria identità di trattamento tra le due categorie di familiari (parenti e affini).
Tali sarebbero, segnatamente, le norme recate dall’art. 87, quarto comma, del codice civile, che include gli affini tra i soggetti per quali è vietato unirsi reciprocamente in matrimonio; dall’art. 433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e 5), cod. civ., che impone agli affini, accanto al coniuge e a determinati parenti, l’obbligo di prestare gli alimenti; dall’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., che, nel disciplinare l’impresa familiare, considera anche gli affini, appunto, come familiari; dagli artt. 348 e 417 cod. civ., i quali, rispettivamente, prevedono che gli affini possono essere scelti per rivestire la figura di tutore e sono legittimati a proporre istanza di interdizione o di inabilitazione; dall’art. 2399 cod. civ., che pone una causa d’ineleggibilità e di decadenza alla carica di sindaco sia per gli affini che per i parenti degli amministratori della società per azioni, o di società da questa controllate, nonché di quelle che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; dall’art. 51 del codice di procedura civile, che disciplina le ipotesi di astensione del giudice; dall’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), il quale riconosce anche agli affini il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per l’assistenza al familiare portatore di handicap in situazione di gravità; infine, dall’art. 74 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), che, con specifico riguardo alle attività agricole, esclude, a determinate condizioni, la configurabilità di un rapporto di lavoro autonomo o subordinato in relazione alle prestazioni svolte tanto dai parenti quanto dagli affini sino al quarto grado.
3.1.1.– Ad avviso del rimettente, risulterebbero violati anche gli artt. 29 e 31 Cost., «posti in relazione» all’art. 2 Cost., «in considerazione del favore espresso dalla Carta Costituzionale nei confronti della famiglia e dei rapporti che ivi si esplicano».
I precetti di cui agli artt. 29 e 31 Cost. appresterebbero difatti una «particolare e specifica tutela» dell’intera collettività familiare che, alla luce delle considerazioni dianzi svolte, dovrebbe comprendere non solo i parenti ma anche gli affini.
3.1.2.– A conforto degli assunti posti a fondamento delle questioni sollevate, la CTR richiama, infine, la sentenza n. 203 del 2013, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non includeva nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo da esso previsto, e alle condizioni ivi stabilite, i parenti e gli affini entro il terzo grado conviventi con il familiare versante in situazione di grave disabilità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla disposizione censurata, idonei a prendersi cura della persona disabile.
4.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
4.1.– L’eccezione d’inammissibilità è argomentata con l’asserito difetto di motivazione della non manifesta infondatezza.
Sarebbe stata, in particolare, omessa qualsiasi motivazione sulle ragioni del contrasto, affermato in via meramente assertiva, tra la norma censurata e gli artt. 2, 29 e 31 Cost.
Analoga carenza minerebbe la prospettata compromissione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Il Collegio rimettente, pur avendo elencato diverse disposizioni dalle quali intende desumere l’uniformità di trattamento tra le due categorie di familiari, non avrebbe, infatti, addotto alcuno specifico argomento diretto a illustrare l’irragionevolezza della diversa disciplina che questa norma riserva agli affini rispetto ai parenti. Né sarebbe stata effettuata alcuna analisi in ordine agli interessi tutelati, tanto dalla disposizione denunciata quanto dalle disposizioni dalle quali sarebbe, in tesi, deducibile la necessità della parità di trattamento tra i parenti e gli affini.
4.2.– Nel merito, poi, l’Avvocatura generale ritiene insussistente la denunciata violazione dell’art. 3 Cost., dovendo escludersi che la categoria degli affini sia omogenea, e tanto meno identica, a quella dei parenti.
Il vincolo di affinità lega, infatti, il coniuge ai parenti dell’altro coniuge, sicché sarebbe meno «solido e stabile» di quello di parentela, che lega invece soggetti discendenti dalla stessa persona. Del resto, aggiunge la difesa statale, il legislatore ha previsto una disciplina differenziata finanche nell’ambito della stessa parentela, dal momento che nella materia successoria «i parenti più prossimi escludono quelli di grado più lontano».
Anche le numerose fattispecie indicate nell’ordinanza di rimessione sarebbero del tutto eterogenee, sia tra loro stesse, sia rispetto alla norma censurata.
Dovrebbe quindi escludersi che la discrezionalità di cui gode il legislatore si sia tradotta, nella specie, in una scelta irragionevole.
4.2.1.– La disposizione denunciata non contrasterebbe, sempre a parere dell’Avvocatura generale, nemmeno con l’art. 29 Cost.
Da un lato, infatti, nell’ordinamento sarebbero ravvisabili due nozioni di famiglia: quella «allargata», che comprende i parenti e gli affini, e quella «nucleare», alla quale appartengono soltanto i coniugi e i figli. Dall’altro, la scelta di tutelare in modo più o meno ampio l’uno o l’altro tipo di famiglia nonché i soggetti che ne fanno parte sarebbe rimessa alla discrezionalità del legislatore, particolarmente ampia nella materia tributaria e, segnatamente, in quella delle agevolazioni e dei benefici tributari.
Conclude nel senso che «il concetto di famiglia» non potrebbe essere ricondotto, contrariamente a quanto sostenuto dalla CTR, «all’interno di un perimetro prestabilito».
Considerato in diritto
1.– La Commissione tributaria regionale (CTR) del Molise dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, e 31 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge 18 ottobre 2001, n. 383 (Primi interventi per il rilancio dell’economia), nella parte in cui non include gli affini nel novero dei soggetti per i quali è escluso il pagamento dell’imposta da esso disciplinata.
La disposizione censurata, applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevede che: a) «[i] trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al quarto grado, sono soggetti alle imposte sui trasferimenti ordinariamente applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se il valore della quota spettante a ciascun beneficiario è superiore all’importo di 350 milioni di lire» (primo periodo); b) «[i]n questa ipotesi si applicano, sulla parte di valore della quota che supera l’importo di 350 milioni di lire, le aliquote previste per il corrispondente atto di trasferimento a titolo oneroso» (secondo periodo).
Ad avviso del Collegio rimettente, la disposizione censurata lederebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., in relazione al principio di eguaglianza, dal momento che la disciplina da essa dettata per gli affini sarebbe ingiustificatamente diversa da quella riservata ai parenti.
Risulterebbero, inoltre, violati gli artt. 29 e 31 Cost., «posti in relazione» all’art. 2 Cost.
2.– Occorre qui incidentalmente rilevare che il notevole intervallo temporale tra la data di deliberazione dell’ordinanza di rimessione (21 settembre 2015) e quella della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (4 settembre 2019) è dovuto al rilevante ritardo nel deposito dell’ordinanza nella segreteria della CTR (avvenuto l’11 marzo 2019), pervenuta a questa Corte il 27 giugno 2019 e, quindi, trasmessa il giorno successivo per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità delle questioni sollevate per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. La CTR molisana avrebbe difatti omesso qualsiasi argomentazione in merito alle ragioni del contrasto tra la norma denunciata e gli artt. 2, 29 e 31 Cost.
L’ordinanza di rimessione sarebbe, d’altra parte, affetta da analoga carenza anche per quanto concerne la denunciata lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., non avendo il Collegio rimettente addotto argomenti sufficienti per illustrare l’irragionevolezza del differente trattamento riservato dalla disposizione censurata agli affini rispetto ai parenti.
3.1.– L’eccezione sollevata in relazione alla questione afferente alla violazione dell’art. 3 Cost. non è fondata, giacché dalle deduzioni svolte dal giudice a quo emergono chiaramente le ragioni che lo inducono a dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001.
A parere della CTR del Molise, questa norma contrasterebbe, infatti, con il principio di eguaglianza, in quanto – nel prevedere che, oltre al coniuge, soltanto i parenti in linea retta e gli altri parenti fino al quarto grado non siano obbligati al pagamento dell’imposta da essa introdotta – determinerebbe una disparità di trattamento del tutto ingiustificata rispetto agli affini. Con la riserva a questi ultimi di un trattamento impositivo deteriore rispetto a quello previsto per i parenti, malgrado l’omogeneità delle due categorie di familiari, il legislatore avrebbe quindi operato una distinzione irragionevole. L’irragionevolezza di tale diversificazione emergerebbe anche alla luce della disciplina recata da una pluralità di norme che – riservando un trattamento identico, o comunque uniforme, ai suddetti familiari – esprimerebbero un principio di «necessaria parificazione» tra gli stessi.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, la questione supera il vaglio di ammissibilità, dal momento che il giudizio negativo espresso dal giudice rimettente circa la compatibilità tra il censurato art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001 e l’art. 3 Cost. è stato compiutamente motivato. Resta, ovviamente, impregiudicato il merito della questione.
3.2.– Risulta, invece, evidente l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento agli artt. 29 e 31 Cost., «posti in relazione» all’art. 2 Cost.
Il giudice a quo si limita, infatti, ad affermare che l’asserito vulnus sarebbe apprezzabile «in considerazione del favore espresso dalla Carta Costituzionale nei confronti della famiglia e dei rapporti che ivi si esplicano», aggiungendo poi che gli artt. 29 e 31 Cost. «apprestano alla famiglia una particolare e specifica tutela di rango costituzionale, nell’ambito della quale sono riconosciuti e tutelati i diritti propri della collettività familiare che non è, e non può essere considerata, come ristretta ai soli parenti, laddove in altri settori ordinamentali il concetto di famiglia viene esteso anche agli affini».
È palese il carattere generico e meramente assertivo della prospettazione della CTR, che non consente di comprendere le ragioni per cui l’omissione censurata si porrebbe in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
Il rimettente, infatti, richiama cumulativamente e genericamente gli artt. 2, 29 e 31 Cost., senza indicare alcuno specifico nesso tra questi parametri e la norma denunciata, omettendo anche di individuare quale precetto costituzionale sarebbe stato in concreto leso.
È, d’altro canto, inidoneo a colmare le evidenziate carenze il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, alla sentenza n. 203 del 2013, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui, al ricorrere di determinate condizioni, non includeva tra i soggetti legittimati a fruire del congedo da esso previsto, anche i parenti e gli affini entro il terzo grado conviventi con il familiare che versa in situazione di grave disabilità. Il giudice a quo non chiarisce, infatti, la connessione tra l’essenziale ruolo – valorizzato nella sentenza citata e garantito dalla fruizione del diritto al menzionato congedo – che la famiglia svolge al fine di assicurare «una tutela piena dei soggetti deboli» e la denunciata omissione.
Il descritto difetto motivazionale sulla non manifesta infondatezza comporta l’inammissibilità delle questioni in esame, in quanto prive «di un’adeguata ed autonoma illustrazione delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato […]» (ex plurimis, sentenza n. 33 del 2019).
4.– Nel merito, la questione inerente alla violazione dell’art. 3 Cost. non è fondata.
4.1.– Come dianzi chiarito, l’art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001 è censurato nella parte in cui non include gli affini nel novero dei soggetti che non sono obbligati al pagamento dell’imposta da esso prevista per i trasferimenti per donazione o altra liberalità tra vivi.
Tale disposizione violerebbe il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., dal momento che la disciplina dettata per gli affini sarebbe ingiustificatamente diversa da quella prevista per i parenti, esclusi dalla tassazione in relazione alla medesima fattispecie, nonostante l’omogeneità tra le due categorie di familiari. A supporto dell’asserita uniformità, il rimettente indica quali tertia comparationis una nutrita serie di previsioni normative – segnatamente contenute nell’art. 7, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), così come modificato dall’art. 69 della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale); negli artt. 87, quarto comma, 230-bis, terzo comma, 348, 417, 433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e 5), e 2399 del codice civile; nell’art. 51 del codice di procedura civile; nell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate); infine, nell’art. 74 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30) – dalle quali sarebbe deducibile un principio di «necessaria parificazione» tra i parenti e gli affini.
4.2.– Al fine di inquadrare correttamente la prospettata questione è opportuno premettere che la norma censurata si inserisce all’interno di un intervento normativo che ha costituito una isolata parentesi nell’ambito dello sviluppo dell’ordinamento tributario.
Il comma 1 dell’art. 13 della legge n. 383 del 2001 ha infatti disposto che l’imposta sulle successioni e donazioni di cui al d.lgs. n. 346 del 1990, così come modificata dall’art. 69 della legge n. 342 del 2000, «è soppressa» e il comma 2 del medesimo articolo 13 ha limitato l’imposizione ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altre liberalità tra vivi solo ove siano disposti a favore dei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado, degli affini e degli estranei.
Si è trattato di un cambiamento radicale rispetto al sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni: uno dei tributi patrimoniali (in senso lato) più antichi del nostro ordinamento tributario, fondato su ragioni redistributive e applicabile a carico di qualsiasi beneficiario.
Tale intervento normativo non si è però consolidato all’interno dell’ordinamento. Con l’art. 2, commi da 47 a 54, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), così come sostituito in sede di conversione dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, il legislatore, per un verso, ha abrogato il suddetto art. 13 e, per l’altro, ha sostanzialmente “reintrodotto” la soppressa imposta sulle successioni e donazioni, che è giustificata dall’arricchimento dell’erede o del beneficiario e quindi in ragione della capacità contributiva di questi ultimi, che risulta nuova e autonoma anche rispetto alle imposte a suo tempo versate dal dante causa.
4.3.– Va peraltro sottolineato che nel descritto sviluppo normativo l’imposizione è sempre risultata strutturata in modo graduato in rapporto alla prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario, senza che a ciò abbia fatto eccezione nemmeno la riforma del 2001: nell’imposta sulle successioni e donazioni attraverso aliquote differenziate; in quella del 2001 con la selezione dei soggetti passivi.
Infatti, il censurato comma 2 dell’art. 13 della legge n. 383 del 2001 ha individuato nei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado, negli affini e negli estranei i soggetti passivi rispetto ai quali i trasferimenti di beni e diritti per donazioni e altre liberalità tra vivi, eccedenti i 350 milioni di lire, devono considerarsi imponibili nella stessa misura stabilita per gli atti traslativi a titolo oneroso.
4.4.– È questa discriminazione soggettiva (segnatamente tra gli affini e i parenti esclusi dall’imposizione) a costituire oggetto dell’odierna questione di costituzionalità, poiché il rimettente assume che essa «non trova alcuna giustificazione se riguardata alla luce di alcuni elementi ordinamentali».
La norma è dunque indubbiata nella parte in cui non include gli affini, equiparandoli ai parenti, nel novero dei soggetti non tenuti al pagamento dell’imposta.
4.5.– Tanto premesso, la descritta selezione dei soggetti passivi, in quanto coerente con il presupposto, rientra nell’esercizio del potere discrezionale del legislatore tributario (su tale discrezionalità, ex multis, sentenze n. 288 del 2019 e n. 269 del 2017), che ha costantemente graduato, come si è visto, l’imposizione in ragione della prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario. La selezione dei soggetti passivi trova inoltre, nel caso di specie, una non irragionevole giustificazione anche nell’esigenza di limitare l’impatto finanziario della riforma del 2001, come risulta dai lavori preparatori.
Dagli stessi, infatti, emerge che tale riforma non nutriva – a differenza della prospettiva da cui sembra muovere il rimettente – alcuna ambizione di qualificarsi come attuativa della tutela costituzionale della famiglia: nessuno specifico riferimento a tale valore viene mai evocato; si rimarcano piuttosto altre e più generiche finalità, come quelle della semplificazione e del rilancio dell’economia.
Il che appare comprensibile, perché l’indistinta esclusione, senza alcun limite di importo, del coniuge, dei parenti in linea retta e degli altri parenti in linea collaterale fino al quarto grado, dall’imposizione delle donazioni e delle liberalità risulta difficilmente inquadrabile nella struttura dei principali precetti costituzionali (artt. da 29 a 31 Cost.) posti a tutela della famiglia e, in particolare, delle situazioni di potenziale fragilità in essa ravvisabili.
Non risulta, dunque, superato il confine della non manifesta irragionevolezza, nel cui àmbito soltanto può legittimamente esercitarsi la discrezionalità del legislatore: il fatto che la norma abbia inteso selezionare i soggetti passivi del prelievo in esame in ragione della prossimità dei vincoli familiari, individuando il grado e i limiti di tale prossimità e tenendo adeguatamente conto dell’impatto finanziario di tale selezione, esclude l’arbitrarietà della disciplina censurata (in generale sul confine della non manifesta irragionevolezza, sentenze n. 153 del 2017 e n. 111 del 2016).
4.6.– Quanto all’assunto del rimettente secondo cui diversi «elementi ordinamentali» dimostrerebbero l’omogeneità tra parenti e affini, è sufficiente qui rilevare che i tertia comparationis indicati nell’ordinanza non sono adeguati, essendo considerati in modo del tutto decontestualizzato dagli istituti regolati e dalle specifiche rationes a essi sottesi.
Proprio l’esame delle numerose disposizioni indicate a raffronto dal giudice a quo rende, anzi, evidente la mancanza di elementi che dimostrino la necessità sistematica di garantire una ricorrente e generalizzata omogeneità di trattamento tra parenti e affini dalla quale si possa dedurre la rottura della coerenza dell’ordinamento ad opera della norma censurata.
4.6.1.– In particolare, l’art. 87, quarto comma, cod. civ. non effettua quella piena assimilazione sostenuta dal rimettente, ma attua, al contrario, una differenziazione normativa in ragione sia della linea che del grado: basti considerare che mentre per gli affini in linea collaterale in secondo grado il divieto di contrarre matrimonio può essere rimosso dal tribunale, non altrettanto è previsto per i parenti in linea collaterale nel medesimo grado, essendo ciò consentito soltanto per quelli in linea collaterale in terzo grado.
Anche l’art. 230-bis cod. civ. − parimenti richiamato dal rimettente −, pur considerando, con riguardo all’impresa familiare, ambedue le categorie di parenti e affini, comunque le distingue nel grado, confermando ulteriormente la loro eterogeneità.
L’evocato art. 74 del d.lgs. n. 276 del 2003 è poi relativo ad aspetti privatistici e previdenziali che riguardano le prestazioni di lavoro accessorio, senza che la norma possa estendersi ad «ogni rilievo lavoristico» (sentenza n. 50 del 2005): il che denota un elevato grado di settorialità della disciplina in parola e consente di escludere che essa possa essere assunta a elemento ordinamentale da cui desumere un principio generale.
Anche gli evocati artt. 348, 417 e 433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e 5), cod. civ., non solo non rafforzano, ma indeboliscono l’assunto del rimettente, giacché confermano la scelta legislativa di un trattamento non del tutto equiparato dei parenti e degli affini. Gli istituti della tutela, dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’obbligo alimentare oggetto di tali norme rispondono, infatti, a uno scopo ben specifico e unitariamente riconducibile a un sistema efficiente di tutela di soggetti “deboli”: essi nulla hanno a che vedere con gli interessi sottesi alla norma ambita in via di addizione, sicché nemmeno dalle disposizioni in discorso è inferibile il principio di necessaria parità assunto dal giudice a quo a fondamento della dedotta violazione dell’art. 3 Cost.
Analogamente, l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, se disciplina in modo effettivamente uniforme i parenti e gli affini, nondimeno riguarda l’assistenza alle persone disabili ed è, pertanto, riconducibile alla predetta ratio di protezione di persone che versano in un particolare stato di fragilità: tanto dimostra che il legislatore ha parificato i parenti e gli affini non in forza di un principio ordinamentale di necessaria equiparazione degli stessi, ma in considerazione dei peculiari interessi da tutelare, presidiati a livello costituzionale e non ravvisabili invece nella disposizione oggetto dell’odierno scrutinio.
Nella medesima direzione conducono le argomentazioni poste a fondamento della sentenza di questa Corte n. 203 del 2013, espressamente menzionata invece dal rimettente a sostegno della non manifesta infondatezza delle censure. Con tale pronuncia è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui, al ricorrere di determinate condizioni, non includeva, nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo straordinario per la cura e l’assistenza di persona in situazione di disabilità grave, il parente o l’affine entro il terzo grado convivente. Anche l’addizione operata in siffatta occasione da questa Corte, risponde, infatti, come dianzi chiarito, alla stringente e specifica esigenza di tutela sottesa all’istituto del congedo, la cui automatica applicazione ad altri ambiti ordinamentali non pare dunque né necessitata né, di per sé, ragionevole.
Nemmeno pertinenti, infine, risultano gli artt. 2399 cod. civ. e l’art. 51 cod. proc. civ., richiamati dalla CTR. In particolare, la prima disposizione individua alcune categorie di soggetti, tra i quali i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società (o delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo), che non possono ricoprire la carica di sindaco, al fine di preservare tale delicato incarico da potenziali condizionamenti da parte di familiari più stretti che rivestono la carica di amministratore. La seconda mira a garantire il pieno rispetto del canone di imparzialità del giudice per assicurare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale.
Si tratta, dunque, anche in questo caso, di previsioni in cui la scelta legislativa di equiparazione del parente e dell’affine non discende dall’applicazione di un principio generale di assoluta e necessaria parificazione, in ogni ipotesi, del trattamento giuridico di parenti e affini, ma dalla concreta valutazione dell’interesse sotteso alla specifica disciplina e dal conseguente obiettivo di impedire lo sviamento dal corretto esercizio di determinate funzioni.
4.6.2.– Del resto, neppure nella legislazione tributaria è rinvenibile una nozione predeterminata e generale di famiglia (si pensi, tra le moltissime ipotesi, alle diverse norme sui carichi fiscali di famiglia in tema di imposte dirette; sul trattamento fiscale dell’impresa familiare; sulla nozione di nucleo familiare in tema di determinazione sintetica del reddito o in tema di abitazione principale nei tributi locali; sulle agevolazioni in tema di piccola proprietà contadina), poiché gli interventi del legislatore risultano modulati in modo differenziato, a seconda dei casi presi in considerazione e dei singoli interessi di volta in volta perseguiti.
4.6.3.– È appena il caso, infine, di rilevare che il tertium comparationis indicato dal rimettente nell’art. 7, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 346 del 1990, come modificato dall’art. 69, comma 1, lettera c), della legge n. 342 del 2000, relativo alle aliquote dell’imposta sulle successioni e donazioni differenziate in ragione del grado di parentela e di affinità, non costituisce idoneo termine di raffronto, trattandosi di norma già «soppressa», in quel momento, dalla stessa legge n. 383 del 2001. Ciò assorbe ogni altra, pur possibile, considerazione.
4.7.– In conclusione, non è ravvisabile, in relazione all’art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001, una lesione del principio di eguaglianza: le situazioni e le rationes delle normative poste in comparazione risultano, infatti, eterogenee, sia intrinsecamente, sia in rapporto con la fattispecie del giudizio principale (ex plurimis, sulla necessaria omogeneità dei termini da porre a raffronto, sentenza n. 236 del 2017).