REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna, nel procedimento penale a carico di C.A. G. e altri, con ordinanza del 3 maggio 2017, iscritta al n. 162 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 gennaio 2019 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 3 maggio 2017, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), per violazione dell’art. 68, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede che il giudice chieda alla Camera, alla quale il parlamentare appartiene o apparteneva, l’autorizzazione anche all’utilizzo dei tabulati telefonici acquisiti a carico di terzi.
1.1.– Riferisce il rimettente che, nel corso del procedimento penale nei confronti, tra gli altri, del senatore C.A. G., il pubblico ministero ha chiesto la fissazione dell’udienza prevista dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, affinché il GIP, valutata la necessità, richieda al Senato della Repubblica l’autorizzazione, tra l’altro, all’utilizzo dei tabulati del traffico telefonico delle utenze in uso ad alcuni indagati, nei quali compaiono contatti con il senatore C.A. G.
Premette ancora il rimettente che il pubblico ministero ipotizza a carico del senatore C.A. G. i reati di cui agli artt. 338, 336 e 326 del codice penale, aggravati dall’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 1991, n. 203, che si assumono commessi in concorso con funzionari della Prefettura di Modena e di altre pubbliche amministrazioni, diversi soggetti privati, e A. B., imputato del reato di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. in altro procedimento.
Secondo l’accusa, il senatore C.A. G. si sarebbe avvalso della propria influenza politica e delle sue conoscenze all’interno della Prefettura di Modena, al fine di condizionare l’attività del Gruppo Interforze Ricostruzione Emilia Romagna (d’ora in avanti: GIRER), organo incaricato di svolgere l’istruttoria preordinata alla formulazione dell’elenco degli appaltatori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, per le opere di ricostruzione nelle zone colpite dal sisma del 20 e 29 maggio 2012 (cosiddetta white list). In particolare – sempre secondo l’accusa – egli avrebbe svolto illecite pressioni perché tale organo modificasse gli orientamenti negativi già espressi nei confronti della B. C. srl e della ditta individuale di A. B., pur conoscendo i rapporti di quest’ultimo con M. B., esponente di spicco di un’associazione criminale.
Riferisce ancora il rimettente che l’attività di indagine è stata condotta, tra l’altro, attraverso operazioni di intercettazione telefonica e di acquisizione dei dati del traffico telefonico di diversi soggetti, alcuni dei quali in servizio presso la Prefettura di Modena, in base all’ipotesi che questi ultimi operassero come trait d’union tra i B. e il GIRER, per tentare di condizionarne l’azione. Alcuni di tali soggetti sarebbero risultati in contatto con il senatore C.A. G.
Ritenendo di poter acquisire da questi riscontri documentali elementi di prova a sostegno dell’accusa, il pubblico ministero ha chiesto al GIP di valutarne la «necessità», ai fini della richiesta di autorizzazione all’utilizzo secondo quando disposto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003.
1.2.– Nell’argomentare in punto di rilevanza, ricorda il rimettente che la disposizione censurata prevede che il GIP chieda l’autorizzazione all’utilizzo di intercettazioni o tabulati nei confronti del parlamentare qualora lo «ritenga necessario»; che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 74 del 2013 e n. 188 del 2010), il criterio della «necessità» impone di indicare, «da un lato, le specifiche emergenze probatorie fino a quel momento disponibili e, dall’altro, la loro attitudine a fare sorgere la “necessità” di quanto si chiede di autorizzare»; che tale necessità deve essere «motivata in termini di non implausibilità», ossia di coerenza con l’impianto probatorio acquisito nel corso delle indagini.
Tanto premesso, ritiene il giudice a quo che le informazioni acquisite dall’esame dei tabulati dispieghino una indubbia coerenza funzionale rispetto all’ipotesi di accusa, secondo la quale il senatore C.A. G. avrebbe indebitamente speso la propria influenza per ottenere provvedimenti favorevoli all’impresa B. C. srl e all’impresa I., che della prima sarebbe mera replica, così turbando la regolare attività dell’organo collegiale. Poiché sulla base di tale indagine, sarebbero stati accertati plurimi rapporti tra A. B., il viceprefetto M. V. e il senatore C.A. G., il rimettente conclude di dover chiedere al Senato della Repubblica l’autorizzazione all’utilizzo dei dati contenuti nei tabulati acquisiti.
1.3.– Ritiene, tuttavia, il GIP del Tribunale di Bologna che l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 si ponga in contrasto con l’art. 68, terzo comma, Cost.
Quest’ultima disposizione – ricorda il rimettente – è volta a proteggere il parlamentare «da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo» al fine di garantire la piena autonomia decisionale dell’assemblea legislativa, non, invece, l’interesse del singolo parlamentare in ipotesi pregiudicato dal compimento dell’atto, interesse che potrà trovare tutela in altre disposizioni di rango costituzionale (sul punto, sono menzionate le sentenze n. 74 del 2013 e n. 390 del 2007).
Nel contempo, esso introduce un regime differenziato di acquisizione della prova in ragione dello status di parlamentare, così derogando al principio di parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, ossia a un principio che si colloca «alle origini della formazione dello Stato di diritto» (sentenza n. 24 del 2004). Ne dovrebbe logicamente conseguire – ad avviso del rimettente – che nella disciplina delle prerogative parlamentari il legislatore ordinario è «vincolato ad attuare il dettato costituzionale», restandogli invece «preclusa ogni eventuale integrazione o estensione» (sentenza n. 262 del 2009), dovendo l’art. 68 Cost. essere interpretato «nel senso più aderente al testo normativo» (così, ancora, sentenze n. 74 del 2013 e n. 390 del 2007). Ricorda ancora sul punto il giudice a quo che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 262 del 2009, ha specificamente affermato che «la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione de(ve) essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius».
L’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, invece, la cui applicazione è richiesta dal pubblico ministero, assoggetta al medesimo regime tanto l’utilizzabilità dei verbali e delle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, quanto quella dei tabulati di comunicazioni acquisiti nel corso del procedimento. Prevede, tra l’altro, analoga disciplina l’art. 4 della legge n. 140 del 2003, che regola l’acquisizione dei tabulati direttamente riferibili ad utenze del parlamentare («e, volendo trasferire a questo contesto la dicotomia, elaborata per le intercettazioni, tra tabulati ‘indiretti’ e tabulati ‘casuali’», anche dei primi).
Tuttavia – osserva il rimettente – nel testo dell’art. 68, terzo comma, Cost. non compare alcun riferimento ai tabulati.
1.4.– Il giudice a quo osserva, quindi, come sussista una differenza «ontologica e normativa» tra le intercettazioni telefoniche e i dati esterni di esse: le prime costituiscono «tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali si svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima» (sentenza n. 81 del 1993), i secondi, invece, forniscono la documentazione del dato «estrinseco» della conversazione, di cui riscontrano la durata, le utenze coinvolte, i ponti-radio collegati.
Rileva il rimettente come, proprio sulla scorta di tale differenza, la disciplina prevista dal codice di procedura penale per le intercettazioni non sia stata ritenuta estensibile ai tabulati (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del 1998). Tale irriducibile diversità non ha impedito di assicurare livelli minimi di garanzia in ordine all’acquisizione dei tabulati, trattandosi pur sempre di attività investigative afferenti a dati di non trascurabile capacità intrusiva soggetti alle garanzie prescritte dall’art. 15 Cost. Ma ciò costituisce – per il rimettente – «il limite di identità di disciplina e dell’estensione della garanzia predisposta dall’ordinamento».
1.5.– Sulla base di tali premesse, ritiene il giudice a quo che l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 (così come il precedente art. 4) estenda illegittimamente la disciplina dell’autorizzazione ad un mezzo di ricerca della prova diverso ed ulteriore rispetto a quelli indicati, con elencazione da ritenersi tassativa, dall’art. 68, terzo comma, Cost.
Osserva ancora il rimettente come l’estensione ai tabulati delle guarentigie previste per le intercettazioni non possa trovare altrove il proprio fondamento costituzionale: non nell’inciso, contenuto nell’art. 68 Cost., secondo cui l’autorizzazione è richiesta per l’intercettazione «in qualsiasi forma» delle conversazioni o comunicazioni, poiché tale espressione, come chiarito dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 390 del 2007, è stata utilizzata per scongiurare la possibilità che nuove forme di captazione del contenuto di conversazioni diverse da quelle telefoniche ed ambientali potessero essere sottratte al regime autorizzativo; né attraverso una inclusione dei tabulati nella nozione di «sequestro di corrispondenza», avendo quest’ultimo ad oggetto, diversamente da quanto accade per i tabulati del traffico telefonico, non solo il dato esteriore (mittente, destinatario, data), ma anche il contenuto della comunicazione.
Osserva, inoltre, il rimettente come il legislatore costituzionale avesse ben presente la distinzione ontologica, «scolpita dalla Corte già nel 1991», tra intercettazioni e tabulati, e come, dunque, il silenzio serbato sul punto non potrebbe essere interpretato come mera omissione ininfluente, ma al contrario sembrerebbe assumere ulteriore valenza corroboratrice di una intenzione selettiva dell’ambito di operatività delle guarentigie.
Il giudice a quo afferma, infine, come la tesi opposta non potrebbe essere desunta, a suo avviso, neppure dalle sentenze n. 57 del 2000 e n. 188 del 2010 e da una recente pronuncia della Corte di cassazione.
Nel primo caso, la Corte costituzionale, chiamata a decidere un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato a seguito della mancata autorizzazione all’utilizzo di tabulati, dichiarò inammissibile il conflitto poiché l’autorità giudiziaria, pur avendo argomentato in merito all’esclusione dei tabulati dal regime autorizzativo, aveva denunciato non già il cattivo esercizio del potere da parte del Parlamento, ma l’esistenza stessa di detto potere.
Nella seconda pronuncia, invece, parimenti resa in un conflitto di attribuzione fra poteri, la Corte avrebbe rimarcato la «notevole capacità intrusiva» dei tabulati, attratti nell’ambito di tutela offerto dall’art. 15 Cost., in quanto consentono sia di ricostruire i contatti telefonici, sia di localizzare il detentore dell’apparecchio, aggiungendo che tutto ciò, «in caso di utenze nella disponibilità di un parlamentare, può aprire squarci di conoscenza sui suoi rapporti, specialmente istituzionali, di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardanti altri soggetti (in specie, altri parlamentari) per i quali opera e deve operare la medesima tutela dell’indipendenza e della libertà della funzione».
Ad avviso del rimettente, tali affermazioni non sarebbero però dirimenti, poiché, ferme restando le considerazioni svolte sulla tassatività dell’elenco contenuto nell’art. 68, terzo comma Cost., esse atterrebbero semmai a profili incidenti sul diritto alla riservatezza del singolo parlamentare che trova protezione esclusivamente nell’art. 15 Cost.
D’altra parte – osserva il giudice a quo – a risultati non dissimili da quelli ottenuti con l’acquisizione di tabulati telefonici potrebbe giungersi qualora il parlamentare fosse oggetto di attività di osservazione, controllo e pedinamento e successiva documentazione, attività che non risulta soggetta ad autorizzazione né preventiva, né successiva.
Non sarebbe decisiva, infine, la sentenza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, 22 settembre 2016, n. 49538, con la quale è stata riconosciuta la materialità del reato di cui all’art. 323 cod. pen. nella condotta di acquisizione di tabulati di parlamentari in assenza di autorizzazione, in quanto – osserva il rimettente – il tema devoluto allo scrutinio del giudice della nomofilachia era diverso rispetto al profilo ora denunciato, vertendo esclusivamente sulla formula assolutoria adottata dal giudice di secondo grado.
2.– Con atto depositato il 5 dicembre 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata manifestamente infondata, poiché la norma censurata sarebbe pienamente conforme al parametro costituzionale evocato, realizzandone correttamente la ratio ispiratrice.
2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato, anzitutto, osserva come l’art. 68, terzo comma, Cost. miri a porre al riparo il parlamentare da «illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo» (sentenza n. 390 del 2007). Benché in modo più limitato rispetto alla formulazione antecedente alla riforma costituzionale del 1993, tale disposizione costituzionale, infatti, non configura «privilegi meramente personali a favore dei Parlamentari», ma garantisce «la funzionalità dell’organo, nonché l’indipendenza e l’autonomia decisionale dei suoi membri da indebite ingerenze da parte di altri soggetti».
Detta tutela – ad avviso dell’Avvocatura generale – «deve essere estesa a qualsiasi altro atto lato sensu di “intercettazione” che, al di là di una presunta limitazione che si assume essere intrinseca alla formulazione letterale della norma costituzionale, possa comportare una invasione o limitazione della libertà individuale e della libertà di comunicazione identica a quella che si realizza con gli atti indicati dall’art. 68 della Costituzione, e finisce quindi col riverberare sulle guarentigie dell’Organo costituzionale di appartenenza».
In particolare, se attraverso la previa autorizzazione ad acta si vuole impedire che l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendone fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare, ciò sarebbe «perfettamente vero anche per la documentazione dei dati estrinseci delle conversazioni», ossia per i tabulati telefonici.
Citando la sentenza della Corte costituzionale n. 188 del 2010, l’Avvocatura generale ricorda che «i tabulati consentono di apprendere e individuare non solo tutti i contatti con altre utenze e la loro collocazione temporale, ma – se si tratta di apparecchi mobili – anche il cosiddetto “tracciamento”, vale a dire le localizzazioni e gli spostamenti dei soggetti detentori dell’apparecchio». Nella medesima occasione la Corte aggiunse che ciò, «in caso di utenze nella disponibilità di un parlamentare, può aprire squarci di conoscenza sui suoi rapporti, specialmente istituzionali, di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardante altri soggetti per i quali opera e deve operare la medesima tutela dell’indipendenza e della libertà della funzione».
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, l’«ampiezza ben maggiore» alla quale la Corte costituzionale avrebbe fatto riferimento nella citata sentenza consentirebbe di individuare, al di là del diritto costituzionalmente tutelato dall’art. 15 Cost., la compresenza, nella fattispecie, «di quel fondamentale diritto all’autonomia, libertà e indipendenza» dell’organo costituzionale che l’art. 68 Cost. intende garantire. La «conoscenza dei rapporti istituzionali» afferirebbe infatti, nel senso più pieno, proprio allo svolgimento del mandato parlamentare.
2.2.– Alle medesime conclusioni l’Avvocatura generale ritiene di poter giungere anche attraverso un’analisi del testuale dettato costituzionale.
In primo luogo, l’art. 68, terzo comma, Cost., riferendosi alle intercettazioni «in qualsiasi forma», potrebbe ricomprendere ogni forma di intercettazione intesa come «intrusione nell’attività istituzionale del Parlamentare», inclusa quindi l’acquisizione di rilevanti dati estratti dai tabulati telefonici.
In secondo luogo, la disposizione costituzionale opererebbe un generico riferimento a «intercettazioni», «conversazioni» e «comunicazioni», al fine di comprendervi sia tutti i mezzi di comunicazione, sia «qualsiasi dato significativo dell’attività del Parlamentare» che possa essere captato e, dunque, non solo comunicazioni e notizie, ma anche «meri fatti» significativi.
2.3.– Ricorda, infine, l’Avvocatura generale dello Stato come l’art. 68, terzo comma, Cost. vieti di intercettare le comunicazioni del parlamentare, non le sue utenze (sentenza n. 390 del 2007), e come a tale conclusione sia giunta anche la Corte di cassazione, sezione sesta penale, nella sentenza 22 settembre 2016, n. 49538, osservando come acquisire e prendere visione dei tabulati relativi alle telefonate intercorse tra il parlamentare e altro soggetto equivalga proprio «ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare».
In tale ipotesi non vi sarebbe solo una violazione della riservatezza del parlamentare in quanto persona, già garantita a tutti i cittadini dall’art. 15 Cost., ma anche una compressione del libero esercizio della funzione pubblica tutelato dall’art. 68 Cost., al fine di scongiurare il pericolo che l’autorità giudiziaria possa incidere indebitamente nello svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione di tale funzione.
In conclusione, l’Avvocatura generale dello Stato chiede che la Corte costituzionale dichiari la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 manifestamente infondata, poiché la disposizione censurata sarebbe pienamente conforme tanto alla lettera, quanto alle finalità perseguite dall’art. 68, terzo comma, Cost.
Considerato in diritto
1.– Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna dubita, in riferimento all’art. 68, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui prevede che il giudice debba chiedere alla Camera, alla quale il parlamentare appartiene o apparteneva, l’autorizzazione ad utilizzare i tabulati di comunicazioni relativi ad utenze intestate a terzi, venute in contatto con il primo.
Espone il giudice a quo che la disposizione censurata equipara i tabulati telefonici ai verbali e alle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate, in qualsiasi forma, nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali abbiano preso parte membri del Parlamento, con la conseguenza che il giudice – quando ritenga necessario utilizzare i tabulati dai quali risultino contatti dei terzi col parlamentare – deve chiedere l’autorizzazione in parola.
Ritiene il giudice rimettente che tale equiparazione sia in contrasto con l’art. 68, terzo comma, Cost., poiché la disposizione costituzionale menziona le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni ma non anche i tabulati, sicché l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 avrebbe indebitamente esteso l’ambito di applicazione della prerogativa parlamentare costituzionalmente stabilita.
Sostiene, in particolare, che l’art. 68, terzo comma, Cost. sarebbe volto a tutelare il parlamentare «da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo», al fine di garantire la piena autonomia decisionale dell’assemblea legislativa, non, invece, l’interesse della persona fisica del parlamentare in ipotesi pregiudicato dal compimento dell’atto. Ne ricava che, derogando al principio di parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, tale disposizione costituzionale dovrebbe essere interpretata restrittivamente e che il legislatore ordinario non potrebbe integrarne o estenderne il testo.
Il giudice a quo osserva, inoltre, come sussista una differenza «ontologica e normativa» tra le intercettazioni telefoniche e i dati esterni di esse, poiché le prime costituirebbero «tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali si svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima» (è citata in proposito la sentenza n. 81 del 1993 di questa Corte), mentre i tabulati fornirebbero la documentazione del dato «estrinseco» della conversazione, di cui riscontrerebbero la durata, le utenze coinvolte, i ponti-radio collegati.
Evidenzia, infine, come, proprio sulla scorta di tale differenza, questa Corte non avrebbe ritenuto estensibile ai tabulati la disciplina che il codice di procedura penale prevede per le intercettazioni (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del 1998).
2.– La questione non è fondata.
2.1.– L’art. 68, terzo comma, Cost. – all’esito della revisione costituzionale compiuta con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell’articolo 68 della Costituzione), che ha sostituito l’originaria autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari con un sistema basato su specifiche autorizzazioni ad acta – stabilisce la necessità dell’autorizzazione della Camera d’appartenenza «per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza».
Alla previsione costituzionale è stata data attuazione attraverso gli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003.
L’art. 4 di tale legge dispone che, laddove occorra eseguire nei confronti di un membro del Parlamento intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, o acquisire tabulati di comunicazioni, l’autorità giudiziaria competente richiede direttamente l’autorizzazione alla Camera alla quale il soggetto appartiene.
Si tratta, in tal caso, di un’autorizzazione preventiva, che precede il compimento dell’atto d’indagine.
Questa Corte ha precisato che l’autorizzazione deve essere preventivamente richiesta non solo se l’atto d’indagine sia disposto direttamente nei confronti di utenze intestate al parlamentare o nella sua disponibilità (intercettazioni cosiddette “dirette”), ma anche tutte le volte in cui la captazione si riferisca a utenze di interlocutori abituali del parlamentare, o sia effettuata in luoghi presumibilmente da questo frequentati, al precipuo scopo di conoscere il contenuto delle conversazioni e delle comunicazioni del parlamentare stesso. Ai fini della richiesta preventiva dell’autorizzazione, ciò che conta, in altre parole, non è la titolarità dell’utenza o del luogo, ma la direzione dell’atto d’indagine (sentenza n. 390 del 2007).
Il successivo art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, invece, disciplina la richiesta alla Camera d’appartenenza dell’autorizzazione all’utilizzo in giudizio di un atto d’indagine già svolto: intervenendo «fuori dalle ipotesi previste dall’art. 4», esso si riferisce al caso in cui il GIP ritenga necessario utilizzare intercettazioni o tabulati già acquisiti, rispetto ai quali, proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare, l’autorità giudiziaria non avrebbe potuto, neanche volendo, munirsi preventivamente dell’autorizzazione della Camera d’appartenenza (sulla distinzione fra intercettazioni “mirate”, da una parte, e “casuali” o “fortuite”, dall’altra, sentenze n. 114 e n. 113 del 2010, n. 390 del 2007; ordinanza n. 263 del 2010).
Nel caso in esame, la questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione di questa Corte non riguarda il carattere “successivo” dell’autorizzazione relativa all’utilizzo dei verbali o delle registrazioni di un’intercettazione “casuale” o “fortuita”, ovvero di un tabulato già acquisito, dai quali emergano contatti con il parlamentare. Ma concerne l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, solo nella parte in cui tale autorizzazione è richiesta anche per l’utilizzo, nei confronti del parlamentare, di tabulati di comunicazioni, dai quali emergano contatti tra quest’ultimo e terzi indagati, in asserito contrasto con quanto testualmente disposto dall’art. 68, terzo comma, Cost., che si riferirebbe unicamente ai verbali o alle registrazioni delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.
2.2.– Sottolinea correttamente il giudice rimettente che le prerogative poste a tutela della funzione parlamentare comportano una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione – principio che è all’origine della formazione dello Stato di diritto (sentenze n. 262 del 2009 e n. 24 del 2004) – e devono perciò essere interpretate evitando improprie letture estensive.
Questa esigenza risulta, del resto, rafforzata nell’attuale sistema delle immunità e delle prerogative parlamentari, in seguito alla ricordata revisione dell’art. 68 Cost. Attualmente, non più il procedimento penale in sé, ma solo alcuni specifici atti di questo sono considerati idonei a incidere negativamente sulla libertà e sull’indipendenza della funzione parlamentare e in quanto tali sono soggetti alla necessaria autorizzazione della Camera d’appartenenza (sentenza n. 74 del 2013).
L’esigenza in parola riguarda non solo l’interpretazione e l’applicazione dei testi costituzionali e legislativi che contengono le prerogative in questione, ma, prima ancora, le modalità attraverso le quali il legislatore ordinario dà attuazione, quando necessario, al relativo dettato costituzionale. A tale legislatore è, infatti, preclusa ogni integrazione o estensione della fonte costituzionale, restandogli consentito provvedere alla sua attuazione nella sola misura in cui sia finalizzata a rendere la prerogativa immediatamente e direttamente operativa sul piano processuale, senza che ciò comporti alcun indebito allargamento delle garanzie apprestate dalla disposizione costituzionale (sentenze n. 262 del 2009 e n. 120 del 2004).
Se si attenga a questi principi il riferimento contenuto nella disposizione censurata ai tabulati di comunicazioni – in relazione al testo dell’art. 68, terzo comma, Cost., che pur non li menziona espressamente – è appunto l’oggetto della questione di legittimità costituzionale sottoposta a questa Corte.
2.3.– Non è qui in discussione la circostanza, messa opportunamente in evidenza dal giudice rimettente, che la disciplina processuale vigente preveda, per tutti i cittadini, rilevanti differenze quanto alle condizioni alle quali è consentito disporre l’intercettazione del contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da una parte, e l’acquisizione dei dati estrinseci di esse, dall’altra, con particolare riferimento all’autorità giudiziaria che può ordinare l’una o l’altra misura.
Solo il GIP, e solo in presenza di determinati reati (con limiti che sono stati resi via via più stringenti: artt. 266 e seguenti del codice di procedura penale), può autorizzare intercettazioni, mentre per l’acquisizione dei tabulati si è sempre ritenuta sufficiente la richiesta del pubblico ministero con decreto ex art. 256 cod. proc. pen. (relativo al dovere di esibizione all’autorità giudiziaria di documenti riservati o segreti), come ha in seguito confermato, anche se con una disciplina più dettagliata, l’art. 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, intitolato «Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento nazionale al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE».
Regole legislative non coincidenti, quindi, secondo una scelta che questa Corte non ha censurato (sentenze n. 281 del 1998 e n. 81 del 1993), considerando i diversi elementi di conoscenza alla cui acquisizione le due misure sono rispettivamente finalizzate e le differenti esigenze investigative che mirano a soddisfare. Anche se nell’appena citata sentenza n. 81 del 1993 si è rilevato che gli stessi dati “esterni” di una conversazione conoscibili attraverso l’acquisizione dei tabulati telefonici – i soggetti fra i quali la comunicazione intercorre, la data e l’ora in cui essa avviene, la sua durata – devono beneficiare della garanzia che alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione è assicurata dall’art. 15 Cost.
Quel che ai fini della presente decisione conta, in ogni caso, è che sono le norme legislative a dover essere osservate alla luce della Costituzione, e non già quest’ultima alla stregua di ciò che stabilisce la disciplina legislativa (nella specie, quella processuale). Per questa essenziale ragione, non è consentito trarre, a partire dalle norme processuali in materia di intercettazioni e acquisizione di tabulati, alcuna definitiva conclusione quanto alla specifica disciplina costituzionalmente sancita, nella stessa materia, per i parlamentari, anche perché la disciplina del codice potrebbe mutare in futuro, proprio sugli aspetti qui rilevanti, e anche in direzione di un più omogeneo trattamento di intercettazioni e acquisizione di tabulati.
In questa sede, va dunque verificato se l’art. 68, terzo comma, Cost. contenga una specifica disciplina in materia di comunicazioni del parlamentare, confrontandovi la pertinente legislazione ordinaria che a quella norma costituzionale ha esplicitamente inteso dare attuazione.
A questo scopo, non è possibile muovere, come invece fa il giudice rimettente (sempre alla luce della disciplina processuale vigente), dal presupposto che tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da un lato, e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, dall’altro, sussista una differenza «ontologica».
In primo luogo, dell’esistenza di questa differenza “ontologica” può dubitarsi, dal momento che questa Corte ha ricondotto sotto la tutela dell’art. 15 Cost., per tutti i soggetti dell’ordinamento, anche i dati “esterni” di una comunicazione ricavabili da un tabulato telefonico. Ma, soprattutto, con riferimento alla disciplina positivamente prevista per i parlamentari, si tratta piuttosto di verificare se davvero, come ancora asserisce il giudice rimettente, il testo dell’art. 68, terzo comma, Cost., nella parte in cui utilizza le espressioni «conversazioni» e «comunicazioni», escluda ogni riferimento a un documento, come il tabulato, che di quelle riveli, non già il contenuto ma dati ed elementi, certo “esterni”, che tuttavia, come si è detto, sono di indubbio significato comunicativo: data e ora in cui le conversazioni o le comunicazioni sono avvenute, loro durata, utenze coinvolte, consentendo altresì, in virtù dell’evoluzione tecnologica, il tracciamento di localizzazioni e spostamenti dei titolari di apparati mobili.
Secondo il giudice a quo la “naturale” diversità tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da un lato, e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, dall’altro, renderebbe costituzionalmente illegittima, in radice, la previsione censurata, che invece equipara i due elementi di prova, assoggettandoli entrambi alla necessità dell’autorizzazione, da parte della Camera d’appartenenza del parlamentare, al fine del loro utilizzo in giudizio.
Proprio sul piano testuale, tuttavia, tale assunto non è corretto.
Il duplice riferimento, nell’art. 68, terzo comma, Cost., a «conversazioni o comunicazioni», induce a ritenere che al contenuto di una conversazione o di una comunicazione, siano accostabili, e risultino perciò protetti dalla garanzia costituzionale, anche i dati puramente storici ed esteriori, in quanto essi stessi “fatti comunicativi”. Del resto, il termine «comunicazioni» ha, tra i suoi comuni significati, quello di «contatto», «rapporto», «collegamento», evocando proprio i dati e le notizie che un tabulato telefonico è in grado di rilevare e rivelare.
La stessa Corte di cassazione – pur in presenza di una costante giurisprudenza di legittimità che, con riferimento alla generale disciplina del codice di procedura penale, ha sempre distinto con nettezza le intercettazioni dall’acquisizione di tabulati – laddove si è occupata della specifica disciplina ora in questione, ha espressamente affermato che anche l’acquisizione di tabulati, come la captazione di conversazioni, è attività diretta ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 22 settembre 2016, n. 49538).
2.4.– Per quanto fin qui affermato, la previsione della necessaria autorizzazione all’utilizzo, quale mezzo di prova, del tabulato telefonico, in grado di rivelare elementi di non secondario rilievo inerenti alle comunicazioni di un membro del Parlamento, non costituisce inammissibile lesione del principio di uguale soggezione alla legge, ma attuazione del pertinente trattamento richiesto dalla garanzia costituzionale.
Del resto, la ratio della garanzia prevista all’art. 68, terzo comma, Cost. non mira a tutelare un diritto individuale, ma a proteggere la libertà della funzione che il soggetto esercita, in conformità alla natura stessa delle immunità parlamentari, volte primariamente alla protezione dell’autonomia e dell’indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad indebite invadenze di altri poteri, e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti a favore delle persone investite della funzione (sentenza n. 9 del 1970).
Per questa ragione, la garanzia in esame può estendersi ad un atto investigativo idoneo a incidere sulla libertà di comunicazione del parlamentare, quale è certamente l’utilizzo, in quanto mezzo di prova in giudizio, di un tabulato telefonico.
La giurisprudenza di questa Corte ha del resto già sottolineato «la notevole capacità intrusiva» (sentenza n. 188 del 2010) di un’attività investigativa che coinvolga i tabulati, confermando che, per ogni cittadino, il ricorso a tale strumento d’indagine deve necessariamente essere soggetto alle garanzie previste dall’art. 15 Cost.
Ha rimarcato, inoltre, che tale capacità intrusiva assume significati ulteriori laddove siano in questione le comunicazioni di un parlamentare. Non già perché la riservatezza del cittadino che è altresì parlamentare abbia un maggior valore, ma perché la pervasività del mezzo d’indagine in questione può tradursi in fonte di condizionamenti sul libero esercizio della funzione. Un tabulato telefonico può infatti aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali, «di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardanti altri soggetti (in specie, altri parlamentari) per i quali opera e deve operare la medesima tutela dell’indipendenza e della libertà della funzione» (sentenza n. 188 del 2010).
Non è pertanto in contrasto con l’art. 68, terzo comma, Cost. una legge ordinaria che subordini all’autorizzazione della Camera d’appartenenza, equiparandone il trattamento alla registrazione o al verbale di un’intercettazione, l’utilizzo in giudizio di un tabulato telefonico, contenente dati “esterni” relativi alle comunicazioni di un membro del Parlamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento all’art. 68, terzo comma, della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA