Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 29 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di Torino, sezione sesta penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis del codice penale (Oltraggio a pubblico ufficiale), introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui punisce con la reclusione fino a tre anni la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni.
1.1– Premette il rimettente di essere chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza di un’imputata del delitto di cui all’art. 341-bis cod. pen. per aver rivolto frasi ingiuriose («vi dovete vergognare siete delle bestie») all’indirizzo di agenti di polizia in servizio di vigilanza dinanzi al Palazzo di giustizia di Torino, alla presenza di più persone (gli altri manifestanti e i passanti).
Su istanza formulata dalla difesa dell’imputata in esito al dibattimento, il giudice a quo ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis cod. pen. nei termini indicati.
1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente osserva che, in caso di condanna, «l’unica pena che potrebbe essere irrogata è quella prevista dall’art. 341-bis c.p. che, anche nel caso di un fatto di minima gravità, dovrebbe essere equivalente a quindici giorni di reclusione», così che l’eventuale accoglimento delle questioni costituzionali prospettate potrebbe certamente influire sul processo celebrato dinanzi al giudice a quo; e ciò tanto più che l’imputata, pur se allo stato incensurata, avrebbe dichiarato di essere sottoposta ad altri procedimenti penali, il che potrebbe impedirle di beneficiare, in futuro, della sospensione condizionale della pena.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente non contesta la meritevolezza di tutela penale dei beni giuridici protetti dall’art. 341-bis cod. pen., la cui ratio dovrebbe essere identificata «nella esigenza, squisitamente pubblicistica, di garantire il regolare svolgimento dei compiti del pubblico ufficiale, senza che le offese dirette alla sua persona possano turbarne l’operato»; e non nega, conseguentemente, l’«importanza della permanenza all’interno del codice penale […] di una norma che vieti e sanzioni comportamenti oltraggiosi nei confronti del pubblico ufficiale». Il giudice a quo assume, tuttavia, l’esistenza di una «iniqua sproporzione» tra il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie in esame e quello previsto dall’art. 342 cod. pen. per l’oltraggio a un Corpo amministrativo, politico o giudiziario, per il quale è prevista una mera pena pecuniaria.
Tale disparità di trattamento sanzionatorio darebbe luogo, ad avviso del rimettente, a una violazione dell’art. 3 Cost.
Entrambi i reati sarebbero infatti lesivi dell’onore e del prestigio di soggetti che rivestono la qualifica di pubblici ufficiali, e tutelerebbero interessi «sostanzialmente identici», dovendo l’offesa essere rivolta, nel caso dell’art. 341-bis cod. pen., contro un singolo pubblico ufficiale, e contro «due o più pubblici ufficiali che operano in sinergia tra di loro» nel caso dell’art. 342 cod. pen., valendo poi per entrambe le fattispecie la condizione che l’offesa venga proferita in presenza dei soggetti passivi del reato.
D’altra parte, ad avviso del rimettente i lavori parlamentari relativi all’art. 1 della legge n. 94 del 2009, con cui è stata reintrodotta la fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale, dopo la sua abrogazione avvenuta per opera della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega del Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), non fornirebbero alcun ausilio alla comprensione dei motivi per cui tale fattispecie sia punita «in modo così differente (e più grave) rispetto alla fattispecie, sostanzialmente uguale, […] dell’oltraggio a Corpo politico amministrativo o giudiziario».
1.4.– Secondo il giudice a quo, la norma censurata sarebbe inoltre contraria all’art. 27, terzo comma, Cost., «nella parte in cui prevede una pena detentiva con un massimo edittale di tre anni di reclusione».
Risulterebbe infatti evidente il contrasto con la finalità rieducativa della pena di «una sanzione inadeguata nella specie e nella quantità, non in armonia con l’attuale contesto storico […], nel quale risulta già da tempo avviato un processo volto a depenalizzare gli illeciti meno gravi». Da tale disarmonia deriverebbe «un senso di generale sfiducia nella Giustizia e nelle Istituzioni», capace di «incidere negativamente sul percorso rieducativo del reo».
Il principio di proporzionalità delle pene sarebbe stato, d’altra parte, recentemente valorizzato da questa Corte attraverso una serie di decisioni ispirate ai principi che delineano il «volto costituzionale del sistema penale», principi rintracciabili non solo nelle disposizioni costituzionali, ma anche nel principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, terzo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nonché dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che avrebbe più volte ritenuto «contraria al principio di proporzionalità l’applicazione o anche solo la previsione di pene detentive per reati commessi attraverso la manifestazione del pensiero» (è citata la sentenza 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia).
1.5.– Richiamando le sentenze n. 179 del 2017 e n. 236 del 2016, il giudice a quo evidenzia infine come questa Corte abbia ritenuto possibile porre rimedio ai vizi di legittimità costituzionale relativi alle cornici sanzionatorie in materia penale attraverso il ricorso a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento, che nella specie sarebbero fornite dal trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di cui all’art. 342 cod. pen.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto delle questioni.
Sarebbe anzitutto errato l’assunto del giudice a quo, secondo cui gli artt. 341-bis e 342 cod. pen. tutelerebbero lo stesso bene giuridico, posto che, mentre per questa seconda fattispecie «viene esclusivamente in rilievo l’esigenza di tutela del prestigio della funzione esercitata dall’organo pubblico collegiale, la ratio dell’incriminazione ex art. 341 bis c.p. è quella di apprestare tutela non solo al prestigio del ruolo pubblico e del buon andamento della Pubblica Amministrazione ma anche all’onore ed al decoro della persona che riveste la qualità di pubblico ufficiale».
In ogni caso, anche ove si ammettesse l’identità del bene giuridico tutelato, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la scelta della sanzione applicabile a un illecito penale rientri nella sfera di esclusiva discrezionalità del legislatore, costituendo il «risultato di una serie di elementi, ulteriori rispetto a quello costituito dal bene giuridico tutelato (grado di offesa al bene giuridico, struttura del reato sotto il profilo della condotta offensiva o dell’intensità dell’elemento oggettivo)».
3. – L’imputata non si è costituita in giudizio.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Torino, sezione sesta penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 341-bis del codice penale (Oltraggio a pubblico ufficiale), introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui punisce con la reclusione fino a tre anni la condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni.
Il rimettente si duole, in particolare, della disparità di trattamento, a suo avviso non giustificabile al metro dell’art. 3 Cost., tra il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale di cui al censurato art. 341-bis cod. pen., punito con la reclusione fino a tre anni (e dunque con la pena minima di quindici giorni di reclusione, giusta il disposto dell’art. 23 cod. pen.), e il delitto di «oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario» di cui all’art. 342 cod. pen.: fattispecie, quest’ultima, assunta a tertium comparationis, e punita con una mera pena pecuniaria (la multa da 1.000 a 5.000 euro).
La pena massima edittale di tre anni di reclusione prevista dall’art. 341-bis cod. pen. si porrebbe inoltre in contrasto con il principio di proporzionalità della pena, sancito ad avviso del rimettente dall’art. 27, terzo comma, Cost., da leggersi anche attraverso il prisma dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
A tali vizi di legittimità costituzionale questa Corte potrebbe porre rimedio, secondo il rimettente, attraverso la sostituzione della cornice edittale prevista per il delitto di cui all’art. 341-bis cod. pen. con quella stabilita per il delitto di cui all’art. 342 cod. pen., cornice quest’ultima che costituirebbe una «grandezza già rinvenibil[e] nell’ordinamento» cui attingere per colmare la lacuna che si creerebbe in seguito alla sollecitata pronuncia di illegittimità costituzionale.
2.– Ai fini della valutazione della fondatezza delle questioni prospettate, appare preliminarmente opportuna una sintetica ricostruzione del quadro normativo in cui le questioni stesse si iscrivono.
2.1.– Nel disegno originario del codice Rocco, l’oltraggio a pubblico ufficiale era previsto dall’art. 341, primo comma, cod. pen. come il fatto di «chiunque offende l’onore o il prestigio di un pubblico ufficiale, in presenza di lui e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni». La pena prevista per la fattispecie base era quella della reclusione da sei mesi a due anni.
Il delitto di «oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario» era invece – ed è tuttora – previsto dall’art. 342, primo comma, cod. pen. come il fatto di «chiunque offende l’onore o il prestigio di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di una rappresentanza di esso, o di una pubblica Autorità costituita in collegio, al cospetto del Corpo, della rappresentanza o del collegio»; condotta cui il secondo comma equipara quella commessa mediante comunicazione telegrafica ovvero scritti o disegni diretti ai medesimi destinatari. La pena originariamente prevista per le fattispecie base di cui al primo e al secondo comma era la reclusione da sei mesi a tre anni: ed era dunque più elevata, nel massimo, rispetto a quella stabilita per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, da ciò desumendosi la maggiore gravità – nella valutazione dei compilatori – del delitto di cui all’art. 342 cod. pen.
2.2.– Con sentenza n. 341 del 1994 questa Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 341, primo comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva la pena minima di sei mesi di reclusione, in ragione del contrasto di tale previsione con il principio di proporzionalità della pena, desunto dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., anche in rapporto all’assai più favorevole minimo edittale previsto per il delitto di ingiuria (art. 594 cod. pen.). Per effetto di tale pronuncia, il minimo edittale applicabile al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale divenne quello di quindici giorni di reclusione, stabilito in via generale dall’art. 23 cod. pen. con disposizione destinata ad applicarsi in difetto di determinazione di una pena minima da parte delle singole disposizioni incriminatrici.
La di poco successiva sentenza n. 313 del 1995 rigettò, invece, un’analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il minimo di sei mesi di reclusione stabilito per il delitto di cui all’art. 342 cod. pen., rilevando come l’oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario non potesse «affatto ricondursi, sul piano della lesività, ad una mera ipotesi di oltraggio “plurimo”, giacché nella fattispecie descritta dall’art. 342 del codice penale è la specifica qualità dell’organo e delle attribuzioni che esso esprime a rappresentare la connotazione tipizzante e, dunque, un valore da tutelare adeguatamente anche sotto il profilo dell’onore e del prestigio, per i naturali riverberi negativi che l’offesa può in sé determinare sul corretto e sereno svolgimento delle funzioni che il corpo o il collegio è chiamato a esercitare».
2.3.– La legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega del Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario) abrogò poi il delitto di oltraggio di cui all’art. 341 cod. pen., e modificò la cornice edittale dell’art. 342 cod. pen., prevedendo per tale figura criminosa – rimasta inalterata nei suoi elementi costitutivi – la pena della reclusione «fino a tre anni», con conseguente abbassamento del minimo edittale alla soglia generale di quindici giorni di cui all’art. 23 cod. pen.
2.4.– Il trattamento sanzionatorio del delitto di oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario di cui all’art. 342 cod. pen. fu poi oggetto di un ulteriore intervento ad opera della legge 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione), che sostituì alla pena detentiva la pena pecuniaria attualmente in vigore (multa da 1.000 a 5.000 euro).
2.5.– Tre anni più tardi, la legge n. 94 del 2009 ripristinò il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, collocandolo però in un nuovo art. 341-bis cod. pen. e modificandone in maniera non marginale gli elementi costitutivi rispetto all’originaria formulazione dell’abrogato art. 341 cod. pen.
Il nuovo art. 341-bis, primo comma, cod. pen. incrimina infatti «chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni». Rispetto alla formulazione previgente, debbono dunque ricorrere – accanto a un fatto offensivo dell’onore «e» del prestigio (in luogo dell’onore «o» del prestigio, come richiesto dalla vecchia formulazione) occasionato dall’esercizio delle funzioni da parte del pubblico ufficiale – gli ulteriori requisiti, assenti nell’abrogato art. 341 cod. pen.: a) della commissione del fatto in luogo pubblico o aperto al pubblico, b) in presenza di più persone, c) «mentre» il pubblico ufficiale compie un atto del suo ufficio, escludendosi dunque la rilevanza del fatto a titolo di oltraggio allorché l’offesa sia proferita in ragione di un precedente atto d’ufficio del pubblico ufficiale, in diverso contesto spaziale e temporale.
La cornice edittale prevista dal legislatore del 2009 per la fattispecie base del “nuovo” delitto di oltraggio di cui all’art. 341-bis cod. pen., la cui legittimità costituzionale costituisce oggetto del presente giudizio, è quella della reclusione «fino a tre anni», e dunque con un minimo edittale di quindici giorni ai sensi del più volte menzionato art. 23 cod. pen.
2.6.– La cornice edittale dell’art. 341-bis cod. pen. è stata, peraltro, nel frattempo nuovamente modificata, per effetto del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2019, n. 77, che ha reintrodotto per la fattispecie base l’originario minimo di sei mesi di reclusione, mantenendo il massimo di tre anni.
Tale modifica normativa, sopravvenuta all’ordinanza di rimessione, non è tuttavia idonea a spiegare alcuna incidenza nel giudizio a quo, stante il suo carattere deteriore per l’imputato rispetto alla disciplina vigente al momento del fatto, e la sua conseguente inapplicabilità al caso concreto, giusta il disposto dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.
3.– Tutto ciò premesso, la censura formulata dal rimettente in relazione all’art. 3 Cost. non è fondata.
3.1– Il giudice a quo assume, anzitutto, la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra la cornice edittale (reclusione da quindici giorni a tre anni) prevista per il delitto di cui all’art. 341-bis, primo comma, cod. pen., riferita al momento della commissione del fatto oggetto del giudizio principale, e quella (multa da 1.000 a 5.000 euro) stabilita per il delitto di cui all’art. 342 cod. pen., assunto quale tertium comparationis.
L’argomento si basa sull’asserita similitudine di disvalore tra le due fattispecie assunte a raffronto, che sarebbe attestata dalla sostanziale identità dei beni giuridici tutelati; similitudine che renderebbe irragionevole la disparità nel trattamento sanzionatorio previsto per ciascuna di esse.
3.2.– In effetti, nel disegno originario del codice Rocco la fattispecie di oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario era connotata da maggior gravità rispetto all’oltraggio al singolo pubblico ufficiale, come era reso evidente dalla previsione – a parità di minimo – di un più elevato massimo edittale (tre anni di reclusione per il delitto di cui all’art. 342 cod. pen. contro i due stabiliti dall’art. 341 cod. pen.).
La valutazione del più elevato disvalore dell’oltraggio al corpo politico, amministrativo o giudiziario costituì, del resto, la ratio decidendi della menzionata sentenza n. 313 del 1995 (supra, punto 2.2.), con la quale questa Corte rifiutò di estendere all’art. 342 cod. pen. la declaratoria di illegittimità costituzionale del minimo edittale di sei mesi di reclusione che l’anno precedente aveva colpito l’art. 341 cod. pen.
Tale rapporto di gravità scalare tra i due delitti qui in considerazione fu poi confermato dalle novelle legislative del 1999 e del 2006 poc’anzi rammentate, con le quali si procedette dapprima all’abrogazione dell’art. 341 cod. pen. – mantenendosi però l’incriminazione di cui all’art. 342 cod. pen., in ragione evidentemente della sua ritenuta maggiore gravità –; e poi alla sostituzione della pena detentiva originariamente prevista da quest’ultima norma con una pena meramente pecuniaria, la quale assicurava però il contestuale inquadramento come delitto della fattispecie ivi prevista, a fronte dell’avvenuta depenalizzazione dell’oltraggio “individuale”.
3.3.– Il rapporto tra i rispettivi quadri edittali previsti per i due delitti si inverte soltanto in seguito alla scelta del legislatore del 2009 di criminalizzare nuovamente l’oltraggio “individuale”, attraverso l’introduzione dell’art. 341-bis cod. pen. oggetto delle odierne censure di illegittimità costituzionale. Ferma la punibilità con la mera sanzione della multa dell’oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario in seguito alla riforma del 2006, l’oltraggio a pubblico ufficiale viene a questo punto sanzionato con la reclusione fino a tre anni (e dunque, con la pena minima di quindici giorni di reclusione); il che determina per l’appunto la disparità di trattamento sanzionatorio di cui si duole il rimettente.
3.4.– Ritiene tuttavia questa Corte che tale disparità di trattamento sia sorretta da sufficienti ragioni giustificative, e non violi pertanto l’art. 3 Cost., in ragione delle modifiche strutturali subite dalla “rinata” fattispecie di oltraggio di cui all’art. 341-bis cod. pen. rispetto al paradigma disegnato dall’abrogato art. 341 cod. pen.
Tra tali modifiche, poc’anzi ricapitolate (supra, punto 2.5.), merita di essere qui segnalata l’introduzione di un requisito di stretta contestualità tra la condotta del reo e il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale, espresso dalla locuzione «mentre compie un atto d’ufficio» – il medesimo che compare anche nella fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 cod. pen. Il requisito in parola da un lato restringe l’ambito applicativo della nuova fattispecie rispetto a quella previgente; e dall’altro ne arricchisce la dimensione offensiva, affiancando alla duplice lesione dell’onore individuale del pubblico ufficiale che subisce l’offesa, nonché del prestigio dell’amministrazione d’appartenenza – beni, l’uno e l’altro, già tutelati dalla norma incriminatrice abrogata –, una nuova dimensione di pericolo per la concreta attuazione dello specifico atto d’ufficio che la condotta del reo mira evidentemente ad ostacolare, e dunque per il regolare esercizio della pubblica funzione svolta in concreto dal pubblico ufficiale. Esercizio che, vale la pena rammentarlo, deve essere legittimo e non arbitrario, configurandosi altrimenti in favore del privato la scriminante di cui all’art. 393-bis cod. pen.
Conforta questa ricostruzione anche la mancata riproposizione, da parte del legislatore del 2009, della circostanza aggravante dell’essere stato il fatto commesso con violenza o minaccia, prevista dal quarto comma dell’abrogato art. 341 cod. pen.: previsione che si giustificava proprio in relazione alla possibilità che la commissione del fatto non fosse in concreto connessa allo svolgimento attuale di uno specifico atto d’ufficio da parte del pubblico ufficiale. Avendo ora il legislatore richiesto, invece, un rapporto di stretta contestualità tra la condotta e il compimento dell’atto d’ufficio da parte del pubblico ufficiale, l’uso di violenza o minaccia da parte dell’agente sarà normalmente funzionale ad ostacolare il compimento dell’atto d’ufficio, con conseguente configurabilità della più grave ipotesi delittuosa di cui all’art. 337 cod. pen.
Nella nuova fisionomia risultante dalla riforma del 2009, l’oltraggio si configura dunque come delitto offensivo anche del buon andamento della pubblica amministrazione, sub specie di concreto svolgimento della (legittima) attività del pubblico ufficiale, non diversamente da quanto accade – per l’appunto – per il delitto di cui all’art. 337 cod. pen.: delitto, quest’ultimo, che viene così a collocarsi in rapporto di possibile progressione criminosa rispetto all’oltraggio, in relazione al non remoto pericolo che la reazione verbale contro il pubblico ufficiale possa trasmodare in un’aggressione minacciosa o addirittura violenta nei suoi confronti, ad opera dello stesso autore del reato o dei terzi che, secondo la nuova formulazione, debbono necessariamente essere presenti al momento del fatto. Pericolo particolarmente acuto nelle ipotesi in cui il fatto sia commesso in occasione di manifestazioni pubbliche, come è accaduto proprio nel caso oggetto del processo a quo.
Tale specifica dimensione offensiva non è invece presente – se non in termini del tutto sfumati ed eventuali – nel delitto di oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario, che si limita a richiedere che l’espressione offensiva sia profferita «al cospetto» del corpo, della sua rappresentanza o del collegio, ovvero addirittura mediante comunicazione offensiva “a distanza” diretta ai destinatari, senza esigere alcun nesso con il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte dell’istituzione offesa.
A fronte di tale arricchita dimensione offensiva – e a fronte della riduzione, rispetto al passato, dell’ambito applicativo della fattispecie – non può ritenersi irragionevole la scelta del legislatore di stabilire per l’oltraggio “individuale” un quadro edittale più severo di quello previsto per il delitto di oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario.
4.– Nemmeno può ritenersi fondata la censura formulata con riferimento al principio di proporzionalità della pena: principio la cui base giuridica è individuata dal rimettente nel solo art. 27, terzo comma, Cost., ma che la giurisprudenza di questa Corte ritiene fondato sul combinato disposto di tale norma e dell’art. 3 Cost. (ex multis, tra le più recenti, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, nonché la stessa sentenza n. 341 del 1994, più volte citata), in un orizzonte normativo che tiene conto anche delle corrispondenti garanzie riconosciute dalla CDFUE (art. 49, paragrafo 3) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, par. 99; sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito, par. 102) relativa all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
4.1.– Non erra, in verità, il giudice a quo nel sottolineare che la giurisprudenza costituzionale più recente ha gradatamente affrancato il sindacato di conformità al principio di proporzione della pena edittale dalle strettoie segnate dalla necessità di individuare un preciso tertium comparationis da cui mutuare la cornice sanzionatoria destinata a sostituirsi a quella dichiarata incostituzionale; e ha spesso privilegiato (almeno a partire dalla sentenza n. 343 del 1993) un modello di sindacato sulla proporzionalità “intrinseca” della pena, che – ferma restando l’ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nella determinazione delle cornici edittali (ex multis, sentenze n. 233 e n. 222 del 2018, n. 179 del 2017, n. 148 del 2016) – valuta direttamente se la pena comminata debba considerarsi manifestamente eccessiva rispetto al fatto sanzionato, ricercando poi nel sistema punti di riferimento già esistenti per ricostruire in via interinale un nuovo quadro sanzionatorio in luogo di quello colpito dalla declaratoria di incostituzionalità, nelle more di un sempre possibile intervento legislativo volto a rideterminare la misura della pena, nel rispetto dei principi costituzionali (per una recente giustapposizione tra i due modelli di sindacato, sentenza n. 112 del 2019, Considerato in diritto, rispettivamente punti 8.1.2. e 8.1.3.).
Il rimettente incentra però apparentemente la propria censura sull’asserita sproporzione del massimo edittale di tre anni di reclusione previsto per il delitto di oltraggio.
Ora, tutte le questioni sinora accolte da questa Corte con le quali si sollecitava un sindacato sulla proporzionalità “intrinseca” della pena hanno avuto a oggetto il minimo edittale (così le citate sentenze n. 40 del 2019 e n. 236 del 2016), ovvero il divieto di prevalenza o equivalenza di circostanze attenuanti rispetto alle circostanze aggravanti (sentenze n. 207 del 2017, n. 106 e n. 105 del 2014, n. 251 del 2012), o ancora pene fisse nel loro ammontare, e pertanto foriere di risultati sanzionatori manifestamente eccessivi in relazione a taluni almeno dei fatti abbracciati dalla norma incriminatrice (sentenza n. 222 del 2018, nonché – mutatis mutandis – sentenza n. 112 del 2019, in materia di sanzioni amministrative). In tutti questi casi sono venuti dunque in esame altrettanti limiti normativi alla discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, che lo vincolavano a infliggere pene ritenute manifestamente eccessive rispetto a classi di ipotesi situate ai gradini più bassi della scala di disvalore idealmente tracciabile all’interno del perimetro disegnato dalla fattispecie astratta.
Una doglianza di manifesta sproporzione della pena appare, invece, già in astratto poco plausibile in rapporto al massimo edittale, essendo normalmente possibile per il giudice utilizzare i propri poteri discrezionali ex art. 133 cod. pen. per commisurare – all’interno della cornice edittale – una pena inferiore, proporzionata al disvalore del fatto concreto.
Laddove, dunque, il giudice a quo avesse effettivamente inteso dolersi del massimo edittale di tre anni di reclusione previsto dalla disposizione in esame, la sua censura sarebbe risultata inammissibile per irrilevanza, in difetto di ogni motivazione sul perché egli abbia ritenuto di non poter infliggere all’imputata una pena più contenuta e in concreto proporzionata al disvalore del fatto, purché non inferiore al minimo legale di quindici giorni di reclusione, e tale comunque da poter essere – come di solito accade in questi casi – condizionalmente sospesa, ovvero convertita in pena pecuniaria ai sensi dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
È plausibile tuttavia ritenere che il rimettente abbia invece inteso denunciare – mediante il riferimento testuale alla previsione di una «pena detentiva con massimo edittale di tre anni» – il difetto di proporzionalità “intrinseca” del complessivo quadro edittale previsto dalla disposizione in esame, e dunque anche del minimo legale di quindici giorni di reclusione.
Una tale censura non può comunque trovare accoglimento, dal momento che la sostituzione automatica dell’originaria pena minima di sei mesi di reclusione con quella – risultante dall’art. 23 cod. pen. – di quindici giorni di reclusione per il delitto di oltraggio è già stata implicitamente ritenuta compatibile con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. dalla sentenza n. 341 del 1994, in relazione a una fattispecie astratta caratterizzata, come si è poc’anzi sottolineato, da minor pregnanza offensiva rispetto a quella che ora caratterizza il delitto di cui all’art. 341-bis cod. pen.
4.2.– Tale conclusione non muta nemmeno al cospetto dei parametri sovranazionali, richiamati dal rimettente come criteri interpretativi delle norme costituzionali interne, ma rispetto ai quali non vengono fornite indicazioni giurisprudenziali da cui desumere il carattere sproporzionato del ricorso a sanzioni detentive nei confronti dell’autore di un oltraggio.
Al di là del generico richiamo al principio di proporzionalità della pena di cui all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, affatto inconferenti appaiono, in particolare, i richiami del giudice a quo alla sentenza della Corte EDU, 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia, che concerne la tematica dei limiti di liceità del ricorso alla sanzione penale, soprattutto se di natura detentiva, per sanzionare fatti lesivi dell’onore individuale commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica – attività cui la Corte europea riconosce il cruciale ruolo di “cane da guardia” della democrazia (ex multis, Corte EDU, sentenze 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre contro Romania, paragrafo 93, e 27 marzo 1993, Goodwin contro Regno Unito, paragrafo 39) – in relazione alle esigenze di tutela della libertà di espressione di cui all’art. 10 CEDU: tematica che, all’evidenza, nulla ha a che vedere con la questione se sia legittimo comminare sanzioni detentive a chi pubblicamente insulti un pubblico ufficiale mentre compie uno specifico e legittimo atto del proprio ufficio.