Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 28 febbraio 2018 la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 714, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), in riferimento agli artt. 81 e 97 della Costituzione, autonomamente e in combinato disposto con gli artt. 1, 2, 3 e 41 Cost., e agli artt. 24 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la stessa legge n. 848 del 1955.
L’art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge n. 232 del 2016, prevede che, «[f]ermi restando i tempi di pagamento dei creditori, gli enti locali che hanno presentato il piano di riequilibrio finanziario pluriennale o ne hanno conseguito l’approvazione ai sensi dell’articolo 243-bis del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, prima dell’approvazione del rendiconto per l’esercizio 2014, se alla data della presentazione o dell’approvazione del medesimo piano di riequilibrio finanziario pluriennale non avevano ancora provveduto ad effettuare il riaccertamento straordinario dei residui attivi e passivi di cui all’articolo 3, comma 7, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, possono rimodulare o riformulare il predetto piano, entro il 31 maggio 2017, scorporando la quota di disavanzo risultante dalla revisione straordinaria dei residui di cui all’articolo 243-bis, comma 8, lettera e), limitatamente ai residui antecedenti al 1º gennaio 2015, e ripianando tale quota secondo le modalità previste dal decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 2 aprile 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 89 del 17 aprile 2015 […]».
Il rimettente riferisce che, con deliberazione della commissione straordinaria del 19 febbraio 2013, n. 40, il Comune di Pagani aveva fatto ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (PRFP) prevista dall’art. 243-bis del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), per gli enti in cosiddetto predissesto, adottando un piano decennale per il recupero del disavanzo.
Tale piano era stato approvato dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, con delibera 14 marzo 2016, n. 53/2016/PRSP.
Successivamente, il Comune di Pagani, in applicazione della disposizione censurata, con deliberazione del Consiglio comunale del 30 maggio 2017, n. 31, aveva proceduto alla rimodulazione del predetto piano, avvalendosi della facoltà di ripiano trentennale del disavanzo residuo e di quello frattanto accertato dalla Corte dei conti a seguito del monitoraggio previsto dall’art. 243-quater, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000 – che potrebbe condurre, in caso di accertamento negativo, alla deliberazione del dissesto – per passività non contabilizzate (essenzialmente costituite da debiti fuori bilancio).
In tal modo, al netto della quota di disavanzo frutto del riaccertamento straordinario dei residui ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), la quota annuale di disavanzo da ripianare veniva a essere, in ragione della più diluita ripartizione, inferiore alla precedente, determinando il recupero di un margine di spesa corrente per l’ente.
Tanto rilevato in sede di monitoraggio ai sensi dell’art. 243-quater, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, dopo aver sollecitato il contraddittorio del Comune di Pagani, la Corte dei conti, prima di pronunciarsi sul rispetto degli adempimenti da parte dell’ente in predissesto, ha sollevato la descritta questione di legittimità costituzionale.
1.1.– Anzitutto, il rimettente assume di essere legittimato a sollevare l’incidente di costituzionalità, come già riconosciuto da questa Corte, nell’ambito del controllo di legittimità sui bilanci degli enti locali.
Come in tali casi, infatti, non si tratterebbe di un controllo collaborativo – che si estrinseca in un referto sconfinante nel merito amministrativo e funzionale alla promozione di comportamenti auto-correttivi delle amministrazioni controllate – ma di un controllo di legittimità-regolarità (al pari di quelli in relazione ai quali la legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale è stata ammessa), la cui genesi troverebbe spiegazione nel rafforzamento, in Costituzione, del precetto dell’equilibrio di bilancio e il cui esito comporterebbe conseguenze giuridiche specifiche, ossia, nella fattispecie, il passaggio dal regime del piano di riequilibrio finanziario a quello del dissesto.
Detto controllo sarebbe esercitato da un “giudice”, tale per composizione, terzietà e imparzialità rispetto al sistema delle autonomie, al servizio del principio di legalità e a presidio del bilancio quale “bene pubblico”, nell’ambito di un procedimento connotato da un alto tasso di contraddittorio e dalla pubblica adunanza – in applicazione analogica delle norme dettate per il controllo preventivo – destinato a confluire in una decisione suscettibile di acquisire stabilità giuridica e condizionante in modo definitivo la possibilità di rimanere nell’ambito della procedura di predissesto, evitando quella di dissesto.
Diversamente, qualora si negasse la legittimazione del rimettente a sollevare questione di legittimità costituzionale, la norma applicata, soprattutto ove conducesse a un giudizio positivo in merito alla PRFP, si collocherebbe in una zona d’ombra, sottratta allo scrutinio di costituzionalità, risultando difficile, se non impossibile, identificare un soggetto diverso dall’ente locale titolare di una situazione giuridica soggettiva di segno opposto e giustiziabile.
1.2.– Il rimettente evidenzia come l’art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge n. 232 del 2016, consenta all’ente locale, che alla data di presentazione o approvazione del piano di riequilibrio non abbia ancora provveduto a effettuare il riaccertamento straordinario dei residui attivi e passivi ai sensi dell’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 118 del 2011, di modificare il piano sotto il profilo temporale e quantitativo, scorporando la quota di disavanzo risultante dalla revisione straordinaria dei residui di cui all’art. 243-bis, comma 8, lettera e), del d.lgs. n. 267 del 2000 e ripianando la stessa nell’arco di trenta anni.
Tale regime di ripiano del disavanzo eccederebbe gli ordinari argini temporali del ciclo di bilancio così come quelli, più ampi, previsti per il suo riequilibrio in caso di crisi strutturale della finanza degli enti locali, senza che il lasso trentennale sia collegato al mutamento del paradigma contabile – quale quello risultante dal d.lgs. n. 118 del 2011, che determinerebbe la potenziale crescita esponenziale di disavanzi in ragione dei nuovi standard di prudenza e trasparenza, da fronteggiare senza pregiudizio per altri valori costituzionalmente rilevanti e, segnatamente, per l’erogazione delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. – trattandosi di squilibri determinati dall’emersione di crediti suscettibili di essere considerati inesigibili già in virtù della precedente disciplina e non in correlazione alla nuova.
Pertanto, la disposizione censurata, insuscettibile di interpretazione costituzionalmente orientata in ragione dell’incontrovertibile dato testuale, violerebbe gli artt. 81 e 97 Cost., autonomamente e «in combinato disposto» con gli artt. 1, 2, 3 e 41 Cost., in quanto, in assenza di una valida ragione giustificatrice, prevederebbe una misura di salvaguardia dell’equilibrio di bilancio destinata a dipanarsi in un arco temporale dilatato ben oltre il ciclo triennale di bilancio, così ampliando la capacità di spesa dell’ente in condizioni di conclamato squilibrio. In tal modo, inoltre, la disciplina in questione: a) sottrarrebbe gli amministratori locali al vaglio della loro responsabilità politica nei confronti dell’elettorato; b) non assolverebbe il dovere di solidarietà nei confronti delle generazioni future, su cui lo squilibrio non tempestivamente risanato sarebbe destinato a riverberarsi in ragione del principio di continuità dei bilanci; c) non consentirebbe di supportare con risorse effettive le politiche volte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini; d) pregiudicherebbe il tempestivo adempimento degli impegni assunti nei confronti delle imprese, potenzialmente determinandone la crisi.
La norma, inoltre, contrasterebbe con gli artt. 24 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, nonché all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la prevista facoltà di modifica del piano di riequilibrio, inserita in un contesto di instabilità della disciplina legislativa del ripiano, estremamente mutevole nel tempo, aggravata dall’interpretazione giurisprudenziale, determinerebbe una situazione di incertezza giuridica e di mancanza di affidamento in grado di pregiudicare sia il diritto dell’ente a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice imparziale, che accerti la sussistenza o meno delle condizioni per riequilibrare il bilancio, sia la realizzazione del presupposto per la soddisfazione effettiva delle ragioni dei creditori, sacrificata dall’indeterminatezza dei tempi di conclusione delle procedure di risanamento finanziario.
1.3.– Secondo il rimettente, le questioni sollevate sarebbero rilevanti in quanto la modifica del piano, in ragione della ripartizione del disavanzo su un orizzonte temporale più ampio, inciderebbe in riduzione sul quantum degli obiettivi intermedi e finali del riequilibrio, che costituirebbero il canone concreto (a titolo esemplificativo, possibilità di disporre per trenta anni del mancato accantonamento derivante dalla norma impugnata per ripianare il disavanzo, implementando in pari misura la spesa corrente durante detto periodo, in cui permane il disavanzo stesso; accertamento dell’adempimento delle obbligazioni nei confronti dei debitori; pregiudizio per la conservazione delle risorse per adempiere tempestivamente le obbligazioni passive; pregiudizio per la conservazione delle risorse destinate alla restituzione della sorte e degli interessi dei prestiti contratti) di controllo della Corte dei conti per tutta la durata della procedura, su cui svolgere la valutazione di gravità e reiterazione dell’inadempimento ai sensi dell’art. 243-quater, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, valutazione condizionata dalla questione di legittimità costituzionale sollevata.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale, rimettendosi alla valutazione di questa Corte in ordine alla legittimazione del rimettente a promuovere l’incidente di costituzionalità, ha concluso nel senso della non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.
A suo avviso, il riaccertamento straordinario dei residui di cui all’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 118 del 2011 e la revisione straordinaria degli stessi prevista dall’art. 243-bis, comma 8, lettera e), del d.lgs. n. 267 del 2000 costituirebbero attività di accertamento della reale situazione finanziaria dell’ente locale sostanzialmente coincidenti.
Dunque, sarebbe ragionevole che la norma censurata, fermi restando i tempi di pagamento dei creditori, permetta agli enti locali di rimodulare o riformulare il piano di riequilibrio, scorporando e consentendo di ripianare in trenta anni la quota di disavanzo risultante dalla revisione straordinaria dei residui antecedenti al 1° gennaio 2015, stessa data a cui è circoscritto il riaccertamento straordinario, a riprova della sostanziale coincidenza delle due operazioni.
In sostanza, l’art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, come consentiva, nella precedente versione, la riformulazione e la rimodulazione del piano di riequilibrio su base trentennale in ragione del riaccertamento straordinario dei residui, così, a seguito della sostituzione operata dalla norma censurata, altrettanto consentirebbe, in ragione delle risultanze della revisione straordinaria dei residui, a quegli enti che non avessero ancora provveduto al riaccertamento straordinario, trattandosi dello stesso disavanzo: in entrambi i casi sarebbe ravvisabile la medesima giustificazione sul piano costituzionale, onde la non fondatezza delle questioni sollevate.
Considerato in diritto
1.− Con ordinanza del 28 febbraio 2018 la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 714, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), in riferimento agli artt. 81 e 97 della Costituzione, autonomamente e in combinato disposto con gli artt. 1, 2, 3 e 41 Cost., e agli artt. 24 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con la stessa legge n. 848 del 1955.
La disposizione censurata, sostituita dall’art. 1, comma 434, della legge n. 232 del 2016, disciplina la riformulazione o rimodulazione dei piani di riequilibrio finanziario pluriennale degli enti locali in predissesto e la restituzione delle anticipazioni di liquidità a essi erogate.
Secondo il rimettente, la disposizione, insuscettibile di interpretazione costituzionalmente orientata in ragione dell’incontrovertibile dato testuale, consentirebbe all’ente locale, che alla data di presentazione o approvazione del piano di riequilibrio non abbia ancora provveduto a effettuare il riaccertamento straordinario dei residui attivi e passivi ai sensi dell’art. 3, comma 7, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), di modificare il piano sotto il profilo temporale e quantitativo, scorporando la quota di disavanzo risultante dalla revisione straordinaria dei residui di cui all’art. 243-bis, comma 8, lettera e), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e ripianando la stessa nell’arco di trenta anni.
La norma, pertanto, violerebbe gli artt. 81 e 97 Cost., autonomamente e «in combinato disposto» con gli artt. 1, 2, 3 e 41 Cost., in quanto prevederebbe una misura di salvaguardia dell’equilibrio di bilancio destinata a dipanarsi in un arco temporale dilatato ben oltre il ciclo triennale di bilancio e ad ampliare la capacità di spesa dell’ente in condizioni di conclamato squilibrio. In tal modo, inoltre, la disciplina dettata dalla norma: a) sottrarrebbe gli amministratori locali al vaglio della loro responsabilità politica nei confronti dell’elettorato; b) non assolverebbe il dovere di solidarietà nei confronti delle generazioni future, facendo gravare su di esse debiti e disavanzi in modo sproporzionato poiché lo squilibrio non tempestivamente risanato sarebbe destinato a riverberarsi in ragione del principio di continuità dei bilanci; c) non consentirebbe di supportare con risorse effettive le politiche volte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini; d) pregiudicherebbe il tempestivo adempimento degli impegni assunti nei confronti delle imprese, potenzialmente determinandone la crisi.
La disposizione censurata allungherebbe, in modo assolutamente anomalo, i tempi di rientro, ledendo una serie di principi consustanziali alla sana gestione finanziaria. Così, l’equilibrio del bilancio sarebbe alterato per l’intero trentennio, durante il quale sarebbero consentite spese correnti oltre la dimensione delle risorse di parte corrente; sarebbero violate le regole inerenti all’indebitamento che, per finanziare la permanenza in deficit trentennale, graverebbero in modo ingiusto e illogico sulle generazioni future; sarebbe leso in modo irreparabile il principio di rappresentanza democratica, perché la responsabilità degli amministratori che hanno provocato il deficit sarebbe stemperata per un lunghissimo arco generazionale, in modo da determinare una sorta di oblio e di immunità a favore dei responsabili.
Risulterebbero altresì violati gli artt. 24 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, nonché all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la prevista facoltà di modifica del piano di riequilibrio, inserita in un contesto di instabilità della disciplina legislativa del ripiano, estremamente mutevole nel tempo e aggravata dall’interpretazione giurisprudenziale, determinerebbe una situazione di incertezza giuridica e di mancanza di affidamento in grado di pregiudicare sia il diritto dell’ente a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice imparziale, che accerti la sussistenza delle condizioni per riequilibrare il bilancio, sia la realizzazione del presupposto per la soddisfazione delle ragioni dei creditori, sacrificata dall’indeterminatezza dei tempi di conclusione delle procedure di risanamento finanziario.
2.– Per quanto riguarda la legittimazione dell’organo rimettente e la rilevanza della questione, occorre un’attenta ricognizione delle modalità di svolgimento della funzione attribuita dalla legge alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti con riguardo all’attuazione e al rispetto del piano di riequilibrio finanziario pluriennale, che costituisce il fulcro della procedura di predissesto.
Dopo l’approvazione del piano, alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti spetta il compito di vigilare sull’esecuzione dello stesso, adottando − in sede di controllo, con le modalità dell’art. 243-bis, comma 6, lettera a), del d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U. enti locali) − apposita pronuncia ai sensi dell’art. 243-quater, commi 3, 5 e 7, del medesimo decreto: «[i]n caso di approvazione del piano, la Corte dei Conti vigila sull’esecuzione dello stesso, adottando in sede di controllo, effettuato ai sensi dell’articolo 243-bis, comma 6, lettera a), apposita pronuncia. […L]a delibera di approvazione o di diniego del piano può essere impugnata entro 30 giorni, nelle forme del giudizio ad istanza di parte, innanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione che si pronunciano, nell’esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica, ai sensi dell’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, entro 30 giorni dal deposito del ricorso. Fino alla scadenza del termine per impugnare e, nel caso di presentazione del ricorso, sino alla relativa decisione, le procedure esecutive intraprese nei confronti dell’ente sono sospese. […L]’accertamento da parte della competente Sezione regionale della Corte dei conti di grave e reiterato mancato rispetto degli obiettivi intermedi fissati dal piano, ovvero il mancato raggiungimento del riequilibrio finanziario dell’ente al termine del periodo di durata del piano stesso, comportano l’applicazione dell’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 149 del 2011, con l’assegnazione al Consiglio dell’ente, da parte del Prefetto, del termine non superiore a venti giorni per la deliberazione del dissesto».
L’art. 243-bis, comma 6, lettera a), del T.U. enti locali, richiamato dalla menzionata disposizione, prevede che il piano di riequilibrio finanziario pluriennale deve tener conto di tutte le misure necessarie a superare le condizioni di squilibrio rilevate e deve, comunque, contenere le eventuali misure correttive adottate dall’ente locale in considerazione dei comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria e del mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno accertati dalla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Quest’ultima, dunque, vigila sull’adozione e sull’esecuzione delle misure necessarie a superare le condizioni di squilibrio.
Tale funzione di vigilanza-ingerenza della Corte dei conti, che presenta una cadenza semestrale (art. 243-quater, comma 6, del T.U. enti locali), è stata già inquadrata da questa Corte nella categoria del controllo di legittimità-regolarità: «[i] controlli di legittimità sui bilanci degli enti locali […] sono strumentali al rispetto degli “obblighi che lo Stato ha assunto nei confronti dell’Unione europea in ordine alle politiche di bilancio. In questa prospettiva, funzionale ai principi di coordinamento e di armonizzazione dei conti pubblici”, detti controlli “si giustificano in ragione dei caratteri di neutralità e indipendenza del controllo di legittimità della Corte dei conti” (sentenza n. 39 del 2014). [… A]ppare evidente che i controlli […] del titolo VIII del TUEL […] consistono appunto in controlli di legittimità-regolarità se non addirittura in attribuzioni di natura giurisdizionale. Appartengono alla prima categoria: a) la determinazione di misure correttive per gli enti in predissesto (art. 243-bis, comma 6, lettera a, del TUEL); b) l’approvazione o il diniego del piano di riequilibrio (art. 243-quater, comma 3, del TUEL); c) gli accertamenti propedeutici alla dichiarazione di dissesto (art. 243-quater, comma 7, del TUEL). Riguardano funzioni di natura giurisdizionale: a) la giurisdizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione avverso le delibere della sezione regionale di controllo (art. 243-quater, comma 5, del TUEL); b) l’attività requirente della Procura regionale sulle cause del dissesto (art. 246, comma 2, del TUEL); c) l’accertamento delle responsabilità degli amministratori e dei revisori dei conti ai fini dell’applicazione delle ulteriori sanzioni amministrative (art. 248, commi 5 e 5-bis, del TUEL). […] Si tratta di funzioni – siano esse relative al controllo che alla giurisdizione – in cui l’attività della Corte dei conti risulta rigorosamente ancorata a parametri legali, tanto che la stessa attività di controllo è sottoponibile al sindacato giurisdizionale delle Sezioni riunite in speciale composizione, in conformità ai principi contenuti nella sentenza n. 39 del 2014 di questa Corte» (sentenza n. 228 del 2017).
La funzione di controllo, nel cui esercizio è stata adottata l’ordinanza di rimessione, risponde all’esigenza di un intervento rapido e tempestivo, prima che “la deviazione dal percorso fissato” dal piano di risanamento diventi irreversibile e conduca al dissesto dell’ente. Per questo motivo, a ogni scadenza semestrale la Corte dei conti è tenuta ad assumere formale pronuncia di verifica sull’andamento del percorso di risanamento seguito dall’ente in predissesto. Quando lo scostamento non è più recuperabile, la Corte accerta la situazione di incapacità finanziaria che impone all’ente locale la dichiarazione di dissesto.
In tale segmento della procedura di predissesto si colloca l’incidente di costituzionalità in esame, originato dal dubbio della Corte rimettente circa la legittimità costituzionale della norma che dovrebbe applicare. Quest’ultima allungherebbe e stravolgerebbe fino a precluderlo, il percorso di rientro dal deficit.
3.– Alla luce del contesto normativo da cui prende le mosse l’ordinanza di rimessione, al problema pregiudiziale della legittimazione della sezione di controllo della Corte dei conti a sollevare questioni di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte Costituzionale), e dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve darsi risposta affermativa, in coerenza con i criteri individuati da questa Corte e in particolare con quelli contenuti nella sentenza n. 226 del 1976, che ha individuato i requisiti necessari e sufficienti affinché le questioni sollevate dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità sugli atti – cui il controllo in considerazione va assimilato – possano considerarsi promanare da un «giudice» nel corso di un «giudizio» (art. 1 della legge cost. n. 1 del 1948). Detti criteri sono stati di recente ribaditi a proposito degli incidenti di costituzionalità sollevati nell’ambito dei giudizi di parificazione dinanzi alla Corte dei conti (sentenze n. 196 del 2018 e n. 188 del 2015).
È stato peraltro ricordato, anche dopo la pronuncia del 1976, che «[t]ale legittimazione è stata riconosciuta (sent. n. 226 del 1976) alla Corte dei conti in ragione della sua particolare posizione istituzionale e della natura delle sue attribuzioni di controllo. Sotto il primo aspetto, viene posta in rilievo la sua composizione di “magistrati, dotati delle più ampie garanzie di indipendenza (art. 100, comma 2, Cost.)” e la sua natura di “unico organo di controllo che goda di una diretta garanzia in sede costituzionale”. Sotto il secondo aspetto, viene in evidenza il peculiare carattere del giudizio portato dalla Corte dei conti sugli atti sottoposti a controllo, che si risolve nel valutarne “la conformità (…) alle norme del diritto oggettivo, ad esclusione di qualsiasi apprezzamento che non sia di ordine strettamente giuridico”. Una funzione cioè di garanzia dell’ordinamento, di “controllo esterno, rigorosamente neutrale e disinteressato (…) preordinato a tutela del diritto oggettivo”» (sentenza n. 384 del 1991).
Detti caratteri costituiscono indubbio fondamento della legittimazione della Corte dei conti a sollevare questioni di costituzionalità, atteso che il riconoscimento di tale legittimazione, legata alla specificità dei suoi compiti nel quadro della finanza pubblica, «si giustifica anche con l’esigenza di ammettere al sindacato costituzionale leggi che, come nella fattispecie in esame, più difficilmente verrebbero per altra via, ad essa sottoposte» (sentenza n. 226 del 1976).
È proprio in relazione a siffatte ipotesi che questa Corte ha auspicato (sentenza n. 406 del 1989) che, quando l’accesso al suo sindacato sia reso poco agevole, come accade in relazione ai profili attinenti all’osservanza di norme poste a tutela della sana gestione finanziaria e degli equilibri di bilancio, i meccanismi di accesso debbano essere arricchiti. La Corte dei conti è la sede più adatta a far valere quei profili, e ciò in ragione della peculiare natura dei suoi compiti, essenzialmente finalizzati alla verifica della gestione secundum legem delle risorse finanziarie.
Quanto detto vale, a maggior ragione, per il controllo sui bilanci e sugli equilibri finanziari degli enti locali, così come disciplinati dal decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, e dal d.lgs. n. 267 del 2000, ai sensi dei quali viene esercitato il sindacato da cui prende le mosse la questione di legittimità costituzionale all’esame.
Sull’ascrivibilità del sindacato sui bilanci degli enti territoriali alla categoria del controllo di legittimità, l’orientamento di questa Corte è costante (ex plurimis, sentenze n. 40 e n. 39 del 2014 e n. 60 del 2013) fin dalle riforme introdotte dal citato d.l. n. 174 del 2012.
Come evidenziato nelle richiamate pronunce, la sua disciplina risponde all’esigenza di renderlo funzionale al rispetto dei vincoli nazionali ed europei e di ricondurlo al vaglio unitario di una magistratura specializzata, in modo da affrancarlo da ogni possibile contaminazione di interessi che privilegiano, non di rado, la sopravvivenza di situazioni patologiche rispetto al trasparente ripristino degli equilibri di bilancio e della sana gestione finanziaria, elementi questi ultimi che la nuova formulazione dell’art. 97, primo comma, Cost. collega alla garanzia di legalità, imparzialità ed efficienza dell’azione amministrativa.
La forma della sentenza (articolata in motivazione in diritto e dispositivo) con cui si configurano le delibere di controllo sulla legittimità dei bilanci e delle gestioni finanziarie a rischio di dissesto – e la sottoposizione di tali delibere alla giurisdizione esclusiva delle sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione – determinano un’integrazione della funzione giurisdizionale e di quella di controllo, geneticamente riconducibile al dettato costituzionale (artt. 100 e 103 Cost.) in materia di contabilità pubblica, ove sono custoditi interessi costituzionalmente rilevanti, sia adespoti (e quindi di difficile giustiziabilità), sia inerenti alle specifiche situazioni soggettive la cui tutela è affidata, ratione materiae, alla giurisdizione a istanza di parte della magistratura contabile (artt. 11, comma 6, lettere a ed e, e 172 e seguenti del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante «Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124»).
Tale assunto è condiviso dalla Corte di cassazione, secondo cui l’art. 243-quater, comma 5, del T.U. enti locali (introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera r, del d.l. n. 174 del 2012) «assegna alle sezioni riunite della stessa Corte dei conti la giurisdizione esclusiva in tema d’impugnazione avverso la delibera di approvazione o di diniego del piano, nelle forme del giudizio ad istanza di parte, espressamente richiamando a tal proposito l’articolo 103, secondo comma, della Costituzione, con un’ulteriore analoga previsione di giurisdizione esclusiva anche sui ricorsi avverso i provvedimenti di ammissione al Fondo di rotazione di cui al precedente articolo 243-ter; da tali disposizioni chiaramente si evince l’intento del legislatore di collegare strettamente, in questa materia, la funzione di controllo della Corte dei conti a quella giurisdizionale ad essa attribuita dal citato art. 103, terzo comma, Cost.» (Corte di cassazione, sezioni unite, ordinanza 13 marzo 2014 n. 5805).
Peraltro, il controllo di legittimità-regolarità sui bilanci presenta – rispetto al controllo sugli atti – un ulteriore carattere che lo avvicina ancor più al sindacato giurisdizionale.
Infatti, mentre le pronunce di controllo di legittimità sugli atti possono essere in qualche modo disattese dal Governo, ricorrendo alla registrazione con riserva, e dagli stessi giudici delle altre magistrature, nei confronti sia degli atti che hanno ottenuto la registrazione, sia delle situazioni generate dal diniego di visto, l’accertamento effettuato nell’esercizio di questo sindacato di legittimità sui bilanci “fa stato” nei confronti delle parti, una volta decorsi i termini di impugnazione del provvedimento davanti alla Corte dei conti, sezioni riunite in speciale composizione. Quello così instaurato è – come detto – un giudizio a istanza di parte, riservato alla giurisdizione esclusiva della magistratura contabile, caratterizzato dalla presenza del procuratore generale della Corte dei conti in rappresentanza degli interessi adespoti di natura finanziaria, che costituisce l’unica sede in cui possono essere fatti valere gli interessi dell’amministrazione sottoposta al controllo e degli altri soggetti che si ritengano direttamente incisi dalla pronuncia della sezione regionale di controllo.
Dunque, in aggiunta ai caratteri che furono ritenuti sufficienti dalla sentenza n. 226 del 1976 di questa Corte per sollevare l’incidente di costituzionalità nell’esercizio del controllo di legittimità sugli atti di Governo, il controllo che viene all’esame in questa sede è munito di una definitività che non è reversibile se non a opera della stessa magistratura dalla quale il provvedimento promana.
In sostanza, il sistema giustiziale inerente al controllo di legittimità sui bilanci si connota di norme sostanziali, procedurali e processuali che, attraverso reciproche interconnessioni, mirano, da un lato, a supportare gli enti locali impossibilitati a riequilibrare i propri bilanci attraverso le procedure ordinarie, offrendo un’alternativa alla dichiarazione di dissesto e, dall’altro, ad assicurare la necessaria vigilanza-ingerenza, tanto nella fase di approvazione, quanto in quella attuativa.
4.– Anche sotto il profilo della rilevanza le questioni di legittimità costituzionale superano il vaglio di ammissibilità.
Il giudice rimettente sottolinea che il controllo che la sezione regionale della Corte dei conti deve svolgere per verificare l’attuazione del piano di riequilibrio si fonda – come prescrivono le norme del Titolo VIII del T.U. enti locali – sul sindacato concomitante dell’andamento dei conti dell’ente in predissesto, attività che deve essere formalizzata in una pronuncia con cadenza semestrale.
Espone il rimettente che, dopo l’approvazione del piano di riequilibrio, il Comune di Pagani ha, da un lato, ridotto in via unilaterale la dimensione degli accantonamenti finalizzati al rientro del deficit e, dall’altro, è stato assoggettato a un nuovo accertamento di debiti fuori bilancio (delibera della Corte dei conti, sezione di controllo per la Campania n. 3/2017/PRSP, non impugnata dal Comune interessato).
L’effetto congiunto dei due fenomeni contabili sarebbe quello di allargare, anziché ridurre, il disavanzo e di rendere praticamente impossibile l’attuazione del piano senza una manovra correttiva idonea a riportare in simmetria le risorse di parte corrente e la correlata spesa. La norma censurata consentirebbe tuttavia al suddetto ente locale di evitare tale manovra correttiva.
L’ordinanza ricorda come il regime ordinario inerente alla copertura del disavanzo di gestione preveda (art. 188 del T.U. enti locali) che esso sia immediatamente applicato all’esercizio in corso di gestione contestualmente alla delibera di approvazione del rendiconto o, comunque, nell’arco del triennio successivo e – in caso di scadenza del mandato elettorale – entro la data di quest’ultimo.
Già la disciplina del predissesto consentirebbe una rilevante deroga temporale per completare il rientro dal deficit, consentendo di fruire di anticipazioni e prolungare gli accantonamenti fino al limite di dieci anni. Quella censurata consentirebbe in modo irragionevole e contraddittorio di mantenere inalterato il piano di pagamento dei creditori e di fruire di un allargamento della spesa corrente fino al limite temporale dei trenta anni, in misura pari al minore accantonamento conseguente alla dilazione trentennale.
La verifica della legittimità della modifica della procedura di riequilibrio finanziario pluriennale – a prescindere dalla forma della rimodulazione o della riformulazione (categorie tassonomiche peraltro connotate da tenui tratti distintivi non rilevanti ai fini della risoluzione delle questioni in esame) – sarebbe logicamente preliminare al controllo sulla corretta attuazione del piano in quanto modifica gli «obbiettivi intermedi» e quelli «finali», ridimensionandoli e venendo a eliminare i concreti punti di riferimento della valutazione finanziario-contabile. Punti di riferimento che costituirebbero, per espressa dizione normativa, il canone concreto di controllo della Corte dei conti per tutta la durata del piano di riequilibrio e non soltanto nella contingenza dell’esercizio in corso.
Ove la norma fosse applicata, la verifica dell’eventuale «grave e reiterato inadempimento» sarebbe pregiudicata, e anzi impossibile, per la scomparsa dei criteri di riferimento contenuti nel piano di riequilibrio. Sarebbe così preclusa la funzione di vigilanza-ingerenza non solo per gli effetti ricadenti sull’esercizio in corso ma anche per gli esercizi a venire.
Alla luce di quanto precede, le motivazioni addotte dal rimettente – in uno con quelle afferenti all’impossibilità di dare della disposizione censurata un’interpretazione conforme a Costituzione, preclusa dall’incontrovertibile dato testuale – risultano sufficienti, congrue e coerenti nel dimostrare il rapporto di pregiudizialità tra le questioni proposte e la decisione da assumere al termine del semestre di riferimento.
5.– Nel merito la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge n. 232 del 2016, è fondata in riferimento agli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., sia sotto il profilo della lesione dell’equilibrio e della sana gestione finanziaria del bilancio, sia per contrasto con gli interdipendenti principi di copertura pluriennale della spesa e di responsabilità nell’esercizio del mandato elettivo.
È utile sottolineare come i profili di censura meritevoli di accoglimento in relazione agli artt. 81 e 97, primo comma, Cost. operino in modo strettamente integrato nel contesto di fondamentali principi del diritto del bilancio che, pur presidiando interessi di rilievo costituzionale tra loro distinti, risultano coincidenti sotto l’aspetto della garanzia della sana ed equilibrata gestione finanziaria.
Il principio dell’equilibrio di bilancio non corrisponde ad un formale pareggio contabile, essendo intrinsecamente collegato alla continua ricerca di una stabilità economica di media e lunga durata, nell’ambito della quale la responsabilità politica del mandato elettorale si esercita, non solo attraverso il rendiconto del realizzato, ma anche in relazione al consumo delle risorse impiegate. È evidente che la norma censurata si discosta radicalmente da tali parametri, consentendo di destinare, per un trentennio, in ciascun esercizio relativo a tale periodo, alla spesa di parte corrente somme necessarie al rientro dal disavanzo.
Se i precetti espressi negli artt. 81 e 97, primo comma, Cost. hanno i caratteri di principi generali, nondimeno essi sono anche inverati dalle specifiche disposizioni normative che disciplinano – a regime – la gestione dei disavanzi degli enti territoriali: l’art. 9, comma 2, della legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione); l’art. 42 del d.lgs. n. 118 del 2011; l’art. 188 del d.lgs. n. 267 del 2000; l’allegato 1, numero 8), del d.lgs. n. 118 del 2011.
La prima disposizione, contenuta in una cosiddetta legge rinforzata, prevede che «[q]ualora, in sede di rendiconto di gestione, un ente […] registri un valore negativo del saldo, il predetto ente adotta misure di correzione tali da assicurarne il recupero entro il triennio successivo, in quote costanti».
La seconda stabilisce, ai commi 12 e 13, che «12. L’eventuale disavanzo di amministrazione accertato […] a seguito dell’approvazione del rendiconto, al netto del debito autorizzato e non contratto di cui all’art. 40, comma 1, è applicato al primo esercizio del bilancio di previsione dell’esercizio in corso di gestione. La mancata variazione di bilancio che, in corso di gestione, applica il disavanzo al bilancio è equiparata a tutti gli effetti alla mancata approvazione del rendiconto di gestione. Il disavanzo di amministrazione può anche essere ripianato negli esercizi considerati nel bilancio di previsione, in ogni caso non oltre la durata della legislatura regionale, contestualmente all’adozione di una delibera consiliare avente ad oggetto il piano di rientro dal disavanzo nel quale siano individuati i provvedimenti necessari a ripristinare il pareggio. […] 13. La deliberazione di cui al comma 12 contiene l’impegno formale di evitare la formazione di ogni ulteriore potenziale disavanzo, ed è allegata al bilancio di previsione e al rendiconto, costituendone parte integrante».
L’art. 188 del d.lgs. n. 267 del 2000 prescrive che «[l]’eventuale disavanzo di amministrazione […] è immediatamente applicato all’esercizio in corso di gestione contestualmente alla delibera di approvazione del rendiconto. La mancata adozione della delibera che applica il disavanzo al bilancio in corso di gestione è equiparata a tutti gli effetti alla mancata approvazione del rendiconto di gestione. Il disavanzo di amministrazione può anche essere ripianato negli esercizi successivi considerati nel bilancio di previsione, in ogni caso non oltre la durata della consiliatura, contestualmente all’adozione di una delibera consiliare avente ad oggetto il piano di rientro dal disavanzo nel quale siano individuati i provvedimenti necessari a ripristinare il pareggio».
Infine, l’allegato 1, numero 8), del d.lgs. n. 118 del 2011, di carattere complementare rispetto alle norme precedenti, statuisce che «[l]a congruità delle entrate e delle spese deve essere valutata in relazione agli obiettivi programmati, agli andamenti storici ed al riflesso nel periodo degli impegni pluriennali che sono coerentemente rappresentati nel sistema di bilancio nelle fasi di previsione e programmazione, di gestione e rendicontazione».
È evidente che l’ordinamento finanziario-contabile prevede, in via gradata: a) l’immediata copertura del deficit entro l’anno successivo al suo formarsi; b) il rientro entro il triennio successivo (in chiaro collegamento con la programmazione triennale) all’esercizio in cui il disavanzo viene alla luce; c) il rientro in un tempo comunque anteriore alla scadenza del mandato elettorale nel corso del quale tale disavanzo si è verificato.
In sostanza, la fattispecie legale di base stabilisce che: a) al deficit si deve porre rimedio subito per evitare che eventuali squilibri strutturali finiscano per sommarsi nel tempo producendo l’inevitabile dissesto; b) la sua rimozione non può comunque superare il tempo della programmazione triennale e quello della scadenza del mandato elettorale, affinché gli amministratori possano presentarsi in modo trasparente al giudizio dell’elettorato al termine del loro mandato, senza lasciare “eredità” finanziariamente onerose e indefinite ai loro successori e ai futuri amministrati; c) l’istruttoria relativa alle ipotesi di risanamento deve essere congrua e coerente sotto il profilo storico, economico e giuridico.
Nell’ambito di tale tessuto normativo inerente alla disciplina dei disavanzi sono state apportate le seguenti deroghe: a) l’art. 3, comma 16, del d.lgs. n. 118 del 2011 prevede che: «[n]elle more dell’emanazione del decreto [del Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministero dell’interno], l’eventuale maggiore disavanzo di amministrazione al 1° gennaio 2015, determinato dal riaccertamento straordinario dei residui […] e dal primo accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità è ripianato in non più di 30 esercizi a quote costanti l’anno»; b) l’art. 243-bis (Procedura di riequilibrio finanziario pluriennale) del T.U. enti locali, nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) stabilisce che: «1. I comuni e le province per i quali […] sussistano squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario […] possono ricorrere, con deliberazione consiliare alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale. […] 5. Il consiglio dell’ente locale […] delibera un piano di riequilibrio finanziario pluriennale della durata massima di dieci anni, compreso quello in corso, corredato del parere dell’organo di revisione economico-finanziario». Nella versione attualmente in vigore, che peraltro non è rilevante nel giudizio a quo, stabilisce che il «piano di riequilibrio finanziario pluriennale [può avere] durata compresa tra quattro e venti anni, compreso quello in corso».
5.1.– La fattispecie normativa del riaccertamento straordinario non è equiparabile a quella dettata dalla norma censurata. Non è condivisibile l’assunto del Presidente del Consiglio dei ministri secondo cui la revisione straordinaria cui si correlano la rimodulazione e la riformulazione del piano di riequilibrio e il riaccertamento straordinario dei residui sarebbero “facce della stessa medaglia” in quanto attività di accertamento della reale situazione finanziaria dell’ente locale.
Seppur in un lasso temporale anomalo – solo in parte mitigato dal fatto che lo scaglionamento del deficit costituiva il limite massimo, ben potendosi prevedere tempi di rientro più brevi –, la dilazione trentennale del deficit emergente dal riaccertamento straordinario dei residui veniva giustificata con l’unicità ed eccezionalità della situazione finanziaria di alcuni enti territoriali che, da un lato, transitavano in un diverso sistema di contabilità e, dall’altro, scontavano l’esistenza di deficit sommersi originati dall’effetto congiunto della scorretta prassi di sovrastima dei crediti e di sottovalutazione dei debiti.
L’eccezionale ipotesi legislativa era sorretta dal convincimento che in sede di riaccertamento straordinario sarebbero emersi, una volta per tutte, i consistenti disavanzi reali, cui si sarebbe posto rimedio, in via definitiva, con un rientro pluriennale.
Al contrario, la norma censurata consente di aggirare il principio di intangibilità della procedura di prevenzione del dissesto, consistente nella preclusione – per plurime ragioni – di stravolgimenti del percorso di risanamento in fase di attuazione (in tal senso Corte dei conti, sezione autonomie, deliberazione n. 5/SEZAUT/2018). Tra i motivi di intangibilità è necessario, innanzitutto, menzionare la sospensione ex lege delle procedure esecutive intraprese nei confronti dell’ente a far data dall’esecutività della deliberazione di ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale fino alla data di approvazione o di diniego di approvazione del piano di cui all’articolo 243-quater, commi 1 e 3, del T.U. enti locali da parte della sezione regionale di controllo della Corte dei conti territorialmente competente.
Neppure è consentito, come ritiene la difesa erariale, sostenere che tra l’ordinario regime dei disavanzi, come precedentemente illustrato, e norme eccentriche come quelle in esame possa correre un semplice rapporto di specialità: secondo il costante orientamento di questa Corte, nel sindacato di costituzionalità, copertura finanziaria ed equilibrio di bilancio integrano una clausola generale in grado di operare ogniqualvolta l’antinomia di norme asistematiche (come quella censurata) rispetto a tali principi risulti palese e incontrovertibile. Infatti, «“la forza espansiva dell’art. 81, quarto [oggi terzo] comma, Cost., presidio degli equilibri di finanza pubblica, si sostanzia in una vera e propria clausola generale in grado di colpire tutti gli enunciati normativi causa di effetti perturbanti la sana gestione finanziaria e contabile” (sentenza n. 192 del 2012)» (sentenza n. 184 del 2016).
5.2.– Per quel che concerne la lesione al principio della copertura pluriennale è da sottolineare che la lunghissima dilazione temporale finisce per confliggere anche con elementari principi di equità intergenerazionale, atteso che sugli amministrati futuri verranno a gravare sia risalenti e importanti quote di deficit, sia la restituzione dei prestiti autorizzati nel corso della procedura di rientro dalla norma impugnata. Ciò senza contare gli ulteriori disavanzi che potrebbero maturare negli esercizi intermedi, i quali sarebbero difficilmente separabili e imputabili ai sopravvenuti responsabili.
Deve essere in proposito condivisa l’opinione del giudice rimettente secondo cui tale scenario mina alla radice la certezza del diritto e la veridicità dei conti, nonché il principio di chiarezza e univocità delle risultanze di amministrazione più volte enunciato da questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 274 del 2017).
L’originario ordito normativo, sulla base del quale era stato approvato dalla Corte dei conti e dalla commissione per la finanza e gli organici degli enti locali (art. 155 del T.U. enti locali) il piano di rientro per prevenire il dissesto, presentava adeguati caratteri strutturali. Il piano si basava, infatti, sulla verifica ex art. 243-quater del T.U. enti locali ed era articolato su un arco di tempo decennale, più vasto di quello ordinario, ma comunque inferiore di due terzi rispetto alla previsione della norma censurata. Inoltre, era asseverato da analisi indipendenti dei due organi sopra citati in termini di sostenibilità e adeguatezza temporale delle condizioni finalizzate a superare le situazioni di squilibrio evitando così il dissesto.
Al contrario, il censurato art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge n. 232 del 2016, traccia uno scenario incognito e imprevedibile che – senza le garanzie contemplate nel piano – consente di perpetuare proprio quella situazione di disavanzo che l’ordinamento nazionale e quello europeo percepiscono come intollerabile.
Come rileva esattamente il giudice rimettente, rimangono assolutamente non coordinati due segmenti dell’originaria e della nuova procedura: da un lato, un piano di pagamento dei creditori supportato da accordi di dilazione infradecennale, ma non aggiornato alle sopravvenienze del nuovo arco temporale di riferimento; dall’altro, un trentennio caratterizzato (a differenza del passato) dal libero accesso alle anticipazioni di liquidità e dalla libera disponibilità, per le spese correnti, della quota risultante dalla riduzione degli accantonamenti.
5.3.– Infine, il contrasto della norma censurata con gli artt. 81 e 97 Cost., sotto il profilo dell’elusione del principio di responsabilità nell’esercizio della rappresentanza democratica, risiede innanzitutto nel consentire agli enti locali coinvolti nella procedura di predissesto, e che non sono in grado o non intendono rispettare i termini e le modalità del piano di rientro: a) di non ottemperare alle prescrizioni della magistratura vigilante e di evitare comunque la dichiarazione di dissesto; b) di scaglionare in un trentennio gli accantonamenti inerenti al rientro del disavanzo; c) di confermare il programma antecedente di pagamento dei creditori, lucrando così la disponibilità – in termini di spesa corrente per l’intero trentennio – derivante dal minore accantonamento finanziario delle somme necessarie per l’intero periodo di rientro e dall’impiego contra legem delle anticipazioni di liquidità; d) di aggirare le complesse procedure di verifica di congruità e sostenibilità del piano attraverso una rimodulazione autonoma in termini esclusivamente numerici, così sottraendo alla Corte dei conti quello che la sezione rimettente denomina correttamente «canone concreto di controllo».
In pratica, nessuno degli amministratori eletti o eligendi sarà nelle condizioni di presentarsi al giudizio degli elettori separando i risultati direttamente raggiunti dalle conseguenze imputabili alle gestioni pregresse. Lo stesso principio di rendicontazione, presupposto fondamentale del circuito democratico rappresentativo, ne risulta quindi gravemente compromesso.
È stato affermato da questa Corte che «[i]l carattere funzionale del bilancio preventivo e di quello successivo, alla cui mancata approvazione, non a caso, l’ordinamento collega il venir meno del consenso della rappresentanza democratica, [risiede essenzialmente nell’assicurare] ai membri della collettività la cognizione delle modalità [di impiego delle risorse e i risultati conseguiti da chi è titolare del mandato elettorale]» (sentenza n. 184 del 2016).
Significativamente, le norme che disciplinano a regime la gestione del disavanzo equiparano, a tutti gli effetti, la mancata applicazione di esso all’esercizio in corso alla mancata approvazione del rendiconto. Un così grave evento è esattamente quanto consentito dalla disposizione oggetto del presente giudizio.
Ciò la pone, tra l’altro, in contrasto con «un’esigenza sistemica unitaria dell’ordinamento, secondo cui sia la mancata approvazione dei bilanci, sia l’incuria del loro squilibrio strutturale interrompono – in virtù di una presunzione assoluta – il legame fiduciario che caratterizza il mandato elettorale e la rappresentanza democratica degli eletti» (sentenza n. 228 del 2017).
6.– L’incremento del deficit strutturale e dell’indebitamento per la spesa corrente ha già indotto questa Corte a formulare chiari ammonimenti circa l’impraticabilità di soluzioni che trasformino il rientro dal deficit e dal debito in una deroga permanente e progressiva al principio dell’equilibrio del bilancio: «[f]erma restando la discrezionalità del legislatore nello scegliere i criteri e le modalità per porre riparo a situazioni di emergenza finanziaria come quelle afferenti ai disavanzi sommersi, non può non essere sottolineata la problematicità di soluzioni normative, mutevoli e variegate come quelle precedentemente descritte, le quali prescrivono il riassorbimento dei disavanzi in archi temporali lunghi e differenziati, ben oltre il ciclo di bilancio ordinario, con possibili ricadute negative anche in termini di equità intergenerazionale (in senso conforme, sentenza n. 107 del 2016)» (sentenza n. 6 del 2017).
La tendenza a perpetuare il deficit strutturale nel tempo, attraverso uno stillicidio normativo di rinvii, finisce per paralizzare qualsiasi ragionevole progetto di risanamento, in tal modo entrando in collisione sia con il principio di equità intragenerazionale che intergenerazionale.
Quanto al primo, è stata già sottolineata da questa Corte la pericolosità dell’impatto macroeconomico di misure che determinano uno squilibrio nei conti della finanza pubblica allargata e la conseguente necessità di manovre finanziarie restrittive che possono gravare più pesantemente sulle fasce deboli della popolazione (sentenza n. 10 del 2015). Ciò senza contare che il succedersi di norme che diluiscono nel tempo obbligazioni passive e risanamento sospingono inevitabilmente le scelte degli amministratori verso politiche di “corto respiro”, del tutto subordinate alle contingenti disponibilità di cassa.
L’equità intergenerazionale comporta, altresì, la necessità di non gravare in modo sproporzionato sulle opportunità di crescita delle generazioni future, garantendo loro risorse sufficienti per un equilibrato sviluppo. È evidente che, nel caso della norma in esame, l’indebitamento e il deficit strutturale operano simbioticamente a favore di un pernicioso allargamento della spesa corrente. E, d’altronde, la regola aurea contenuta nell’art. 119, sesto comma, Cost. dimostra come l’indebitamento debba essere finalizzato e riservato unicamente agli investimenti in modo da determinare un tendenziale equilibrio tra la dimensione dei suoi costi e i benefici recati nel tempo alle collettività amministrate.
Di fronte all’impossibilità di risanare strutturalmente l’ente in disavanzo, la procedura del predissesto non può essere procrastinata in modo irragionevole, dovendosi necessariamente porre una cesura con il passato così da consentire ai nuovi amministratori di svolgere il loro mandato senza gravose “eredità”. Diverse soluzioni possono essere adottate per assicurare tale discontinuità, e siffatte scelte spettano, ovviamente, al legislatore.
Tuttavia, il perpetuarsi di sanatorie e situazioni interlocutorie, oltre che entrare in contrasto con i precetti finanziari della Costituzione, disincentiva il buon andamento dei servizi e non incoraggia le buone pratiche di quelle amministrazioni che si ispirano a un’oculata e proficua spendita delle risorse della collettività.
7.– In definitiva, l’art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, come sostituito dall’art. 1, comma 434, della legge n. 232 del 2016, ponendosi in contrasto con gli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
Restano assorbite le ulteriori censure.