Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 novembre 2016, il Tribunale ordinario di Chieti, sezione distaccata di Ortona, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 671 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede, in caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere del [giudice dell’esecuzione] di rideterminare una pena unica, in applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e di assumere le determinazioni conseguenti in tema di concessione o revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, dell’istanza proposta dal difensore di una persona nei cui confronti erano state emesse dal Tribunale ordinario di Chieti tre sentenze definitive di condanna per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, aggravata dall’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori (art. 570, secondo comma, del codice penale): la prima del 17 maggio 2012, divenuta esecutiva il 28 giugno 2016, recante condanna alla pena di sei mesi di reclusione ed euro 300 di multa per fatti commessi da marzo a settembre 2008; la seconda del 21 giugno 2012, divenuta esecutiva il 12 maggio 2015, recante condanna alla pena di sei mesi di reclusione ed euro 300 di multa per fatti commessi da ottobre 2008 a marzo 2009; la terza del 10 aprile 2014, divenuta esecutiva il 28 giugno 2016, recante condanna alla pena di sei mesi di reclusione per fatti commessi da agosto 2009 a marzo 2010.
Con l’istanza in questione, il difensore aveva chiesto, in via principale, che – riconosciuto che le tre condanne si riferivano a un unico reato di natura permanente e, dunque, al medesimo fatto – fosse ordinata, ai sensi degli artt. 649 e 669 cod. proc. pen., l’esecuzione della sola sentenza di condanna emessa per prima (quella del 17 maggio 2012); in via subordinata, che venisse applicata, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., la disciplina del reato continuato, con conseguente rideterminazione della pena complessiva da espiare.
1.2.– Ad avviso del rimettente, l’istanza si fonderebbe su un presupposto corretto – l’unicità del reato permanente per il quale è stata riportata una pluralità di condanne – e risponderebbe, altresì, all’innegabile interesse del condannato a evitare il cumulo delle pene irrogate dalle singole sentenze.
Ciò nondimeno, né la richiesta principale, né quella subordinata, potrebbero essere accolte.
Quanto alla prima – prescindendo dal rilievo che l’ipotetico riconoscimento dell’esistenza di una pluralità di condanne per il medesimo fatto determinerebbe, ai sensi dell’art. 669, comma 1, cod. proc. pen., l’eseguibilità, non già della sentenza più remota, ma di quella con cui è stata pronunciata la condanna meno grave (e, cioè, di quella emessa il 10 aprile 2014, che, a parità delle pene detentive, non ha applicato, sia pure erroneamente, alcuna pena pecuniaria) – l’accoglimento della richiesta principale rimarrebbe precluso, in ogni caso, dal consolidato indirizzo giurisprudenziale che limita l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 649 e 669 cod. proc. pen., in tema di divieto di un secondo giudizio e di pluralità di sentenze per il medesimo fatto, ai soli casi di identità del fatto storico oggetto dell’imputazione: identità non ravvisabile nella fattispecie in esame. Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, nell’ipotesi del reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda esclusivamente la condotta delineata nell’imputazione e accertata dalla sentenza definitiva, e non anche la prosecuzione della stessa condotta o la sua ripresa in epoca successiva, che si traduce in un «fatto storico» diverso, non coperto da giudicato, per il quale non vi è alcun impedimento a procedere.
Se, dunque, nel caso in esame sono stati legittimamente instaurati e definiti due ulteriori giudizi relativi alle condotte di violazione degli obblighi di assistenza familiare successive a quelle oggetto del primo giudizio, ne deriverebbe che non si tratta di condanne «per il medesimo fatto», come richiede l’art. 669 cod. proc. pen., ma solo di condanne per il medesimo reato, in relazione a condotte frazionate e distinte tra loro.
Sarebbe evidente, d’altra parte, che la commisurazione della pena operata da ciascuna delle tre sentenze di condanna ha tenuto conto solo delle condotte accertate nei singoli giudizi, mentre l’offesa complessivamente arrecata dal delitto deriva dall’effetto congiunto di tutte le condotte. Conseguentemente, il problema prospettato dal ricorrente non potrebbe essere risolto dichiarando eseguibile la sola condanna meno grave, proprio perché la stessa non ha considerato le condotte esaminate negli altri giudizi, che, aggravando l’offesa penalmente rilevante, renderebbero necessario rideterminare la sanzione secondo tutti i parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., e in particolare di quello della gravità del reato desumibile dal tempo e da ogni modalità dell’azione.
1.3.– Neppure, peraltro, potrebbe essere accolta l’istanza subordinata di rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., in applicazione dell’istituto della continuazione. La disposizione richiamata non sarebbe, infatti, applicabile alla fattispecie in esame né in via diretta, né in via analogica.
Quanto all’applicazione diretta, nessuna interruzione della permanenza si sarebbe verificata nel corso delle condotte incriminate nei tre giudizi. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di cui all’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen., è reato permanente, che non può essere scomposto in una pluralità di reati omogenei, essendo unico e identico il bene leso nel corso della durata dell’omissione, salvo il caso di cessazione della permanenza, che si verifica con l’adempimento dell’obbligo eluso o, in difetto, con la pronuncia della sentenza di primo grado.
Nella specie, la prima sentenza di primo grado, emessa il 17 maggio 2012, è posteriore all’ultima delle condotte contestate nei tre giudizi e, dunque, inidonea a determinare il fenomeno interruttivo.
Né sarebbe prospettabile l’ipotesi dell’adempimento intermedio dell’obbligo eluso, avuto riguardo all’esistenza di uno iato temporale tra condotte oggetto delle prime due condanne e quelle oggetto della terza, stante l’omessa incriminazione delle condotte nel periodo da aprile a luglio 2009 (ipotesi che renderebbe, peraltro, reato autonomo le sole condotte oggetto della condanna del 10 aprile 2014, commesse da agosto 2009 a marzo 2010, lasciando impregiudicata la questione dell’unificazione delle altre due condanne, relative a periodi privi di soluzioni di continuità). Detta ipotesi andrebbe, comunque sia, scartata alla luce dell’accertamento compiuto dal giudice della cognizione in tale ultima sentenza, vincolante per il giudice dell’esecuzione. Nella motivazione della pronuncia – basata, in assenza di qualsiasi prospettazione alternativa della difesa, sulla sola testimonianza della persona offesa – si afferma, infatti, che quest’ultima aveva riferito di non aver ricevuto nulla dall’imputato «a seguito del decreto del Presidente del Tribunale di Napoli del 6.03.2008, il quale aveva previsto l’obbligo, a carico del medesimo, di corresponsione mensile, a titolo di mantenimento, della somma di € 600, escluse le spese di natura straordinaria».
In mancanza di interruzioni della permanenza nei tre periodi incriminati, sarebbe dunque impossibile configurare come delitto autonomo le condotte oggetto dei giudizi successivi al primo, presupposto imprescindibile per la valutazione unitaria del trattamento penale attraverso l’istituto della continuazione, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.
Tale valutazione unitaria non sarebbe praticabile neppure attraverso l’applicazione analogica in bonam partem della disposizione ora citata. Il cumulo giuridico delle pene, previsto nel caso della continuazione, non collimerebbe, infatti, con la necessità di riparametrare la pena secondo lo schema del reato unico, sia pure diversamente valutato per effetto della diversa (cioè protratta e più grave) configurazione del fatto storico che deriva dall’esame complessivo di tutte le sentenze di condanna: operazione che imporrebbe un nuovo ricorso ai parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. da parte del giudice dell’esecuzione, sostitutivo di quello effettuato dai giudici della cognizione sui distinti frammenti della condotta oggetto dei rispettivi giudizi.
Una simile attività non sarebbe, peraltro, preclusa dal vincolo di intangibilità del giudicato, né esorbiterebbe dai poteri del giudice dell’esecuzione, come dimostrerebbe l’analogo principio affermato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione nella sentenza 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107, con riguardo alla dichiarazione di illegittimità costituzionale che modifichi il trattamento sanzionatorio della fattispecie penale.
1.4.– In simile situazione, verrebbe quindi a configurarsi, rispetto all’istanza difensiva, un vuoto di tutela giurisdizionale di dubbia compatibilità con gli artt. 3 e 24 Cost.
Il reo avrebbe, infatti, diritto a una valutazione unitaria delle condotte oggetto delle plurime sentenze di condanna, la quale, da un lato, eviti il cumulo delle pene irrogate in relazione a singole frazioni di un unico reato permanente e, dall’altro, commisuri la sanzione all’effettiva e complessiva offesa arrecata con tutte le condotte oggetto dei singoli giudizi. La pronuncia di plurime sentenze di condanna in relazione a un unico reato deriverebbe, in effetti, da circostanze occasionali e indipendenti dalle scelte del reo, riconducibili essenzialmente alle modalità e ai tempi con i quali sono stati esercitati il diritto di querela e l’azione penale per le singole frazioni della condotta contestata, nonché alla mancata riunione dei procedimenti penali instaurati. Il cumulo delle pene inflitte con dette sentenze, quindi, non solo non troverebbe alcuna giustificazione razionale, ma implicherebbe un trattamento deteriore dell’ipotesi considerata anche rispetto ai casi, disciplinati dall’art. 671 cod. proc. pen., della pluralità di reati avvinti dal concorso formale o dall’esecuzione del medesimo disegno criminoso: casi che non potrebbero essere ritenuti meno gravi.
Il dubbio di legittimità costituzionale risulterebbe inoltre acuito nell’ipotesi – estranea alla vicenda oggetto del giudizio a quo, nella quale nessun beneficio è stato concesso all’interessato in ragione dei suoi precedenti penali, ma, comunque sia, configurabile – in cui siano state emesse, per il medesimo reato permanente, in relazione a condotte distinte, più condanne a pene condizionalmente sospese. In tal caso, infatti, in assenza del potere di unificazione delle condanne da parte del giudice dell’esecuzione, l’interessato si troverebbe esposto non solo al cumulo delle pene, ma anche alla revoca delle sospensioni condizionali già concesse, senza la possibilità di beneficiare di una rivalutazione analoga a quella prevista dall’art. 671, comma 3, cod. proc. pen.
1.5.– Alla luce di ciò, il rimettente ritiene necessario sollecitare l’intervento della Corte costituzionale, affinché verifichi la legittimità dell’art. 671 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede, in caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere del G.E. di rideterminare una pena unica, in applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e di assumere le determinazioni conseguenti in tema di concessione o revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.».
La disposizione censurata – pur non potendo essere attualmente utilizzata allo scopo – sarebbe, a ogni modo, quella più rispondente, «per analogia del fondamento che la sostiene», alla realizzazione dell’interesse del reo alla rivalutazione in sede esecutiva del trattamento sanzionatorio complessivo nell’ipotesi considerata.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il giudice rimettente si sarebbe limitato ad affermare l’astratta inadeguatezza della disciplina codicistica vigente a regolare la fattispecie sottoposta al suo vaglio, senza illustrare i fatti concreti oggetto del procedimento a quo e la consequenziale soluzione da adottare in esso, impedendo così il necessario controllo sulla rilevanza delle questioni.
La rilevanza andrebbe, in ogni caso, certamente esclusa con riferimento alla censura riguardante la necessità che il giudice dell’esecuzione assuma determinazioni in ordine alla concessione o alla revoca della sospensione condizionale della pena, posto che, per affermazione dello stesso rimettente, nella specie non è stato concesso alcun beneficio in ragione dei precedenti penali dell’istante.
Il giudice a quo si sarebbe, inoltre, limitato ad evocare i principi costituzionali che assume violati dalla norma censurata, senza fornire alcuna motivazione al riguardo.
Sotto diverso profilo, l’individuazione della norma censurata risulterebbe «del tutto errata», posto che, secondo la stessa prospettazione del giudice a quo, l’art. 671 cod. proc. pen. regola una ipotesi – l’applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale e del reato continuato – affatto diversa da quella di cui si discute nel procedimento principale.
Da ultimo, il rimettente avrebbe invocato una pronuncia additiva che implica una soluzione non costituzionalmente obbligata. Le questioni sollevate mirano, infatti, ad introdurre una disciplina del reato permanente nella fase esecutiva: materia che rientrerebbe nella discrezionalità esclusiva del legislatore, con la conseguenza che l’intervento auspicato eccederebbe i poteri della Corte costituzionale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Chieti, sezione distaccata di Ortona, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 671 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede, in caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere del [giudice dell’esecuzione] di rideterminare una pena unica, in applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e di assumere le determinazioni conseguenti in tema di concessione o revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.».
Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione, lasciando privo di tutela giurisdizionale l’interesse del reo ad una valutazione unitaria delle condotte oggetto delle plurime sentenze di condanna, la quale, da un lato, eviti il cumulo delle pene irrogate in relazione a un unico reato e, dall’altro, commisuri la sanzione all’effettiva e complessiva offesa arrecata con tutte le condotte oggetto dei singoli giudizi.
La pluralità di condanne per distinte frazioni del medesimo reato permanente – suscettibile di determinare anche la revoca della sospensione condizionale della pena eventualmente concessa con le prime di esse – deriverebbe, infatti, da circostanze occasionali e indipendenti dalle scelte del reo. In assenza del potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare unitariamente la pena e di rivalutare la sussistenza dei presupposti per la fruizione della sospensione condizionale, il condannato si troverebbe quindi sottoposto ad un trattamento sanzionatorio irrazionale, deteriore anche rispetto a quello previsto dallo stesso art. 671 cod. proc. pen. per le ipotesi – non meno gravi – del soggetto giudicato in modo separato per plurimi reati avvinti dal concorso formale o dalla continuazione.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili. Nessuna delle eccezioni è, tuttavia, fondata.
Contrariamente a quanto assume l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice a quo ha descritto in modo adeguato la vicenda concreta sottoposta al suo esame, riferendo che il soggetto istante nel giudizio principale ha riportato tre sentenze definitive di condanna per fatti suscettibili di essere configurati come porzioni di un unico reato permanente: donde la rilevanza della invocata declaratoria di illegittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in secondo luogo, il difetto di rilevanza delle questioni, nella parte in cui mirano ad attribuire al giudice dell’esecuzione il potere di assumere determinazioni in ordine alla concessione o alla revoca della sospensione condizionale della pena, posto che, nel caso di specie – per affermazione dello stesso rimettente – il condannato istante non ha fruito di alcun beneficio, in quanto gravato da precedenti penali ostativi. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, va tuttavia osservato che, se il giudice dell’esecuzione venisse abilitato da questa Corte a rideterminare la pena del reato permanente, in conformità a quanto richiesto anzitutto dal rimettente, il potere di provvedere sulla sospensione condizionale discenderebbe automaticamente dall’innesto della pronuncia additiva sul tessuto dell’art. 671 cod. proc. pen., che al comma 3 prevede tale potere: prospettiva nella quale la porzione del petitum considerata si presenta, non già inammissibile per difetto di rilevanza nel caso concreto, quanto piuttosto superflua, perché volta ad esplicitare un effetto comunque sia conseguente all’accoglimento della richiesta primaria del giudice a quo.
Insussistente si rivela, altresì, l’eccepito difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il rimettente ha denunciato, in effetti, cumulativamente la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., senza svolgere argomentazioni distinte a sostegno della denuncia in rapporto a ciascuno dei due parametri. Peraltro, dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione risultano agevolmente ricavabili le ragioni dei vulnera costituzionali ventilati. Quanto all’art. 3 Cost., il rimettente ha posto in evidenza, per un verso, come il (presunto) cumulo delle pene conseguente alle plurime condanne per il medesimo reato permanente, dipendente da fattori puramente causali, porrebbe il condannato in posizione irragionevolmente deteriore rispetto a quella dell’autore di un identico fatto giudicato unitariamente; per altro verso, come il trattamento riservato alla fattispecie in esame risulti meno favorevole anche rispetto a quello dell’autore di più reati avvinti dal concorso formale o dalla continuazione, il quale può fruire, comunque sia, di un cumulo giuridico (anziché materiale) delle pene, in forza della norma denunciata. Quanto all’art. 24 Cost., la sua violazione risulta collegata dal giudice a quo al «vuoto di tutela giurisdizionale» dell’interesse del condannato ad ottenere una valutazione unitaria delle condotte oggetto delle plurime sentenze di condanna.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, ancora, l’errata individuazione della norma censurata (aberratio ictus), posto che – secondo la stessa prospettazione del giudice a quo – l’art. 671 cod. proc. pen. regola ipotesi (il concorso formale di reati e la continuazione) diverse da quella oggetto del giudizio principale. Il rimettente giustifica, tuttavia, la “scelta” della norma attinta con il rilievo che – pur trattandosi, a suo avviso, di disposizione non applicabile al caso in questione – essa risponde «alla medesima ratio della pronuncia additiva invocata». E, in effetti, la disciplina recata dall’art. 671 cod. proc. pen. è certamente la “più prossima”, per obiettivi e struttura, a quella che il rimettente reputa costituzionalmente necessario introdurre rispetto al reato permanente, mirando anch’essa ad una rideterminazione unitaria della pena allorché contingenti vicende processuali abbiano impedito di applicare gli istituti del concorso formale e del reato continuato in sede cognitiva: il che giustifica la sua sottoposizione a scrutinio sotto il profilo considerato (per analoga fattispecie, sentenza n. 113 del 2011). Non si vede, d’altro canto – né la stessa Avvocatura generale dello Stato la indica – quale altra disposizione il rimettente avrebbe dovuto censurare.
Neppure, infine, può ritenersi che il rimettente abbia invocato una pronuncia additiva in assenza di soluzione costituzionalmente obbligata. Proprio la presenza di una disposizione quale quella dell’art. 671 cod. proc. pen. fa sì che, laddove si riconosca l’esigenza costituzionale di ricomporre l’unità del reato permanente frantumata in sede cognitiva, la rideterminazione unitaria della pena da parte del giudice dell’esecuzione si presenti come l’unica soluzione coerente in una cornice di sistema. L’automatica estensione alla fattispecie considerata, nei limiti della compatibilità, delle previsioni relative all’applicazione in sede esecutiva degli istituti del concorso formale e della continuazione varrebbe, altresì, ad evitare ogni possibile vuoto di disciplina conseguente all’accoglimento del petitum del rimettente (e ciò anche per quel che concerne l’individuazione dei limiti dell’introducendo potere discrezionale del giudice dell’esecuzione, in rapporto alle statuizioni adottate in sede cognitiva: limiti che risulterebbero desumibili dal disposto dell’art. 671, comma 2, cod. proc. pen. e dell’art. 187 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, recante «Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale»).
3.– Nel merito, le questioni non sono, tuttavia, fondate.
Il quesito di costituzionalità sottoposto a questa Corte evoca una tematica complessa e spigolosa: la difficoltà, cioè, di coniugare la configurazione teorica del reato permanente, come reato unico a consumazione prolungata nel tempo, con una realtà giudiziaria che conosce ampiamente – e spesso “esige” – giudizi di cognizione frazionati su singoli segmenti temporali della condotta illecita.
Per communis opinio, il reato permanente – figura richiamata a determinati effetti, ma non definita, tanto dal codice penale (art. 158), quanto dal codice di procedura penale (artt. 8 e 382, comma 2) – si caratterizza come illecito di durata, nel quale l’offesa al bene protetto, diversamente che nella figura antitetica del reato istantaneo, non si esaurisce nel momento stesso in cui viene prodotta, ma si protrae nel tempo per effetto del perdurare della condotta volontaria del reo, esaurendosi, sul piano della rilevanza penale, soltanto con la cessazione di quest’ultima.
La giurisprudenza – salvo sporadiche eccezioni – ha sempre riconosciuto al reato permanente natura unitaria, scartando l’opposta teoria pluralistica. La prosecuzione nel tempo della condotta, oltre il momento iniziale nel quale sono stati posti in essere tutti gli elementi costitutivi del singolo reato, non dà luogo a tante offese – e, dunque, a tanti reati – quanti sono i “momenti” di cui si compone la permanenza: unica è la condotta, unica e medesima l’offesa, unico dunque il reato. Unica dovrebbe essere, pertanto, anche la pena inflitta per l’illecito globalmente considerato. Concezione, questa, che appare riflessa nella previsione dell’art. 158 cod. pen., in forza della quale la prescrizione decorre, per il reato permanente, solo dal momento in cui è cessata la permanenza.
Di fatto, tuttavia, può accadere che il reato permanente venga giudicato in modo frazionato, con riferimento a distinti segmenti temporali della condotta antigiuridica, dando così luogo ad una pluralità di giudicati di condanna. Si tratta di una evenienza che può dipendere – e di consueto dipende – da fattori in sé del tutto “fisiologici”.
Per un verso, infatti, è ovvio che – essendo il reato permanente già perfetto con la realizzazione di tutti gli elementi tipici della fattispecie – l’azione penale può essere promossa anche se la permanenza è ancora in corso (diversamente, la protrazione della condotta antigiuridica sottrarrebbe il reo alla punizione). Ma in una simile ipotesi la condanna può riguardare, comunque sia – altrettanto ovviamente – solo la condotta ad essa anteriore, non essendo concepibile una condanna per il futuro. Di conseguenza, ove il reo persista nell’illecito anche dopo la condanna, potrà essere necessario instaurare un ulteriore procedimento penale al fine di reprimere la condotta successiva. Si tratta di ipotesi non infrequente nei procedimenti per reati di tipo associativo (e, in particolare, di associazione mafiosa), nei quali l’azione penale viene spesso esercitata quando il sodalizio criminoso è ancora in attività, mentre la protrazione della condotta tipica non è preclusa – per consolidata giurisprudenza – nemmeno dallo stato di detenzione dell’associato. Anche l’autore di un reato permanente a carattere omissivo (quale quello di cui si discute nel giudizio a quo) può, d’altronde, persistere nella sua inazione antidoverosa, malgrado il processo già instaurato nei suoi confronti.
Per altro verso, può anche accadere che il pubblico ministero acquisisca in modo graduale la prova della commissione del reato permanente da parte del soggetto: dapprima, cioè, in relazione ad un certo periodo di tempo – limitatamente al quale viene, quindi, inizialmente promossa l’azione penale – e poi in relazione ad altri periodi, anteriori o successivi, per i quali vengono instaurati ulteriori giudizi.
Proprio a questa seconda fenomenologia appare, nella sostanza, ascrivibile la vicenda oggetto del giudizio a quo. La figura criminosa che viene in rilievo nella specie è quella della violazione degli obblighi di assistenza familiare, nella sottofattispecie dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, prevista dall’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen. Tale ipotesi delittuosa si connota, in base a un consolidato indirizzo giurisprudenziale, come reato di natura permanente, la cui consumazione si protrae per tutto il tempo dell’inadempimento volontario dell’obbligo, cessando – laddove non intervenga il fenomeno della cosiddetta interruzione giudiziale della permanenza, sul quale si porterà l’attenzione più avanti – solo nel momento in cui l’obbligo stesso viene assolto (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 22-28 luglio 2015, n. 33220; sezione sesta penale, sentenza 4-19 dicembre 2013, n. 51499). In accordo con i postulati della teoria unitaria, il delitto in questione non può essere, quindi, in linea di principio, scomposto in una pluralità di reati omogenei, corrispondenti alle singole violazioni (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 20 ottobre-13 novembre 2015, n. 45462).
Nel caso di specie, tuttavia – secondo quanto si evince dall’ordinanza di rimessione – è avvenuto che, a seguito della presentazione di plurime denunce-querele da parte del coniuge separato, un soggetto rimasto continuativamente inadempiente agli obblighi di assistenza familiare sia stato sottoposto a tre distinti procedimenti penali in rapporto a singole frazioni del periodo di inadempienza: procedimenti conclusisi con altrettante sentenze di condanna, divenute definitive.
4.– Ciò premesso, il rimettente pone a fondamento delle questioni sollevate un duplice presupposto interpretativo: e, cioè, che nel caso considerato – e negli altri consimili – non troverebbe applicazione né la disciplina degli artt. 649 e 669 cod. proc. pen., in tema di divieto di un secondo giudizio e di pluralità di condanne per un medesimo fatto, né quella dell’art. 671 cod. proc. pen., in tema di riconoscimento della continuazione in executivis. Con la conseguenza – reputata costituzionalmente inaccettabile – che l’interessato si troverebbe esposto al cumulo materiale delle pene inflittegli (cumulo che, nel caso di specie, porterebbe anche al superamento della pena edittale massima prevista dall’art. 570, secondo comma, cod. pen.).
Quanto al primo dei due presupposti, il citato art. 649 cod. proc. pen. enuncia il noto principio del ne bis in idem, stabilendo che «[l]’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze». Ove, ciò nonostante, venga di nuovo iniziato il procedimento penale, il giudice deve farlo prontamente cessare, pronunciando sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere in ogni stato e grado del giudizio.
L’art. 669 cod. proc. pen. si occupa, a sua volta, dell’ipotesi in cui il meccanismo non abbia in concreto funzionato, e siano state quindi pronunciate più sentenze di condanna divenute irrevocabili contro la stessa persona per il medesimo fatto. In tal caso, «il giudice ordina l’esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna più grave, revocando le altre» (salve le regole particolari stabilite dai commi 2 e seguenti per i casi in cui siano state inflitte pene diverse).
In qual modo il principio del ne bis in idem interagisca con i reati permanenti è uno degli interrogativi “storici” generati da tale categoria di reati. Al riguardo, la giurisprudenza ha respinto in modo compatto la tesi sostenuta da una parte della dottrina, secondo la quale, una volta riconosciuta la natura unitaria del reato permanente, il suddetto principio dovrebbe precludere un nuovo giudizio – e, dunque, la possibilità di applicare una ulteriore pena – per la condotta tipica posteriore a quella che ha già dato luogo a un giudicato di condanna, posto che la diversa connotazione temporale del fatto – e, in particolare, la sua dilatazione sul piano cronologico – non ne scalfirebbe l’identità agli effetti dell’art. 649 cod. proc. pen.
Come ricorda il rimettente, la giurisprudenza di legittimità appare salda nel ritenere, in senso contrario, che, con riguardo al reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda soltanto la condotta posta in essere nel periodo indicato nell’imputazione e accertata con la sentenza irrevocabile, e non anche la prosecuzione o la ripresa della stessa condotta in epoca successiva, la quale integra un “fatto storico” diverso, non coperto dal giudicato, per il quale non vi è alcun impedimento a procedere (tra le molte, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5 marzo-15 maggio 2015, n. 20315; sezione terza penale, sentenza 21 aprile-11 maggio 2015, n. 19354; sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre 2011, n. 33838). Ciò in quanto l’identità del fatto, rilevante ai fini dell’operatività del principio del ne bis in idem, sussiste – secondo un radicato principio giurisprudenziale – solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 giugno-28 settembre 2005, n. 34655; nel senso che l’art. 649 cod. proc. pen. “viva” nei termini ora indicati si è, del resto, già espressa più volte questa Corte: sentenze n. 200 del 2016 e n. 129 del 2008). Nel caso considerato, per contro, le condotte oggetto dei due giudizi successivi al primo sono chiaramente distinte sul piano “storico”.
In questa prospettiva, al fine di stabilire per quale porzione il reato permanente deve ritenersi coperto dal giudicato, e dunque non ulteriormente giudicabile (con conseguente operatività, in caso di inosservanza del divieto, del regime previsto dall’art. 669 cod. proc. pen.), occorre tenere conto delle modalità di formulazione dell’imputazione. Nei reati permanenti l’accusa può essere, infatti, contestata all’imputato in due modi: la cosiddetta contestazione “chiusa” e la cosiddetta contestazione “aperta”.
La contestazione si definisce “chiusa” allorché il capo di imputazione individui con precisione la durata della permanenza, specificando, in particolare, la data finale dell’attività criminosa contestata. In simile evenienza – sempre alla luce delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità – il giudice è chiamato a pronunciarsi esclusivamente sul periodo contestato, senza poter conoscere della eventuale protrazione della condotta criminosa oltre la data indicata nel capo di imputazione, a meno che tale ulteriore attività formi oggetto di una contestazione suppletiva del pubblico ministero ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen.
Si è invece al cospetto di una contestazione “aperta” quando nel capo di imputazione il pubblico ministero indichi esclusivamente la data iniziale della permanenza, o la data dell’accertamento, e non anche quella finale: ciò, sul presupposto che la permanenza sia ancora in corso al momento di esercizio dell’azione penale. In tale evenienza – secondo la giurisprudenza largamente prevalente – la protrazione della condotta nel corso del processo deve ritenersi compresa nella contestazione, con la conseguenza che il giudice può pronunciarsi su di essa senza necessità di contestazioni suppletive da parte del titolare dell’azione penale. La vis espansiva della contestazione alla condotta successiva incontra, peraltro, un limite ultimo, rappresentato dalla pronuncia della sentenza di primo grado. Tale sentenza cristallizza, infatti, in modo definitivo l’imputazione, la quale non può più essere modificata nei gradi di impugnazione, impedendo così che, in quel processo, possa formare oggetto di accertamento giudiziale e di sanzione una realtà fenomenica successiva (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 13 luglio-22 ottobre 1998, n. 11021; sezioni unite penali, sentenza 11-26 novembre 1994, n. 11930; nonché, più di recente, tra le altre, sezione seconda penale, sentenza 20 aprile-19 maggio 2016, n. 20798).
Da ciò deriva, per quanto qui interessa, che lo sbarramento del ne bis in idem opera, nel caso di contestazione di tipo “chiuso”, con riguardo alla condotta posta in essere nel periodo indicato nel capo di imputazione (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 20 aprile-19 maggio 2016, n. 20798; sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479), salvo, s’intende, che sia intervenuta una contestazione suppletiva; nel caso di contestazione di tipo “aperto”, in rapporto alla condotta realizzata dalla data iniziale indicata nel capo di imputazione a quella della pronuncia della sentenza di primo grado (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 22 marzo-14 giugno 2012, n. 23695; sezione sesta penale, sentenza 4 ottobre-29 novembre 2000, n. 12302).
Le conclusioni giurisprudenziali ora ricordate rispondono ad esigenze pratiche evidenti e difficilmente eludibili. Per quanto attiene alla ritenuta possibilità di procedere per la condotta successiva alla sentenza di primo grado, è palese che, se così non fosse, detta sentenza si tradurrebbe in un inaccettabile “salvacondotto” per chi intenda continuare a violare la legge penale. E ciò quantunque si discuta di condotta che non avrebbe potuto in nessun caso essere giudicata nel processo già definito.
Quanto, poi, alla possibilità di procedere per la condotta successiva alla data finale della contestazione “chiusa”, ancorché anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado (condotta che pure, in linea teorica, avrebbe potuto essere giudicata con tale sentenza, ove il pubblico ministero avesse proceduto a una contestazione suppletiva), si reputa egualmente illogico che il reo possa godere di una “franchigia penale” riguardo alla perdurante condotta illecita per il mero fatto che l’accertamento giudiziario abbia riguardato solo un segmento temporale del reato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479). Come già accennato, la frammentazione delle iniziative giudiziali nell’ipotesi considerata può dipendere – e solitamente dipende – dal fatto che il pubblico ministero ha acquisito in tempi diversi la prova della responsabilità dell’agente con riguardo ai singoli segmenti temporali.
Alla luce di quanto esposto, si deve quindi concludere che il primo presupposto ermeneutico del rimettente – ossia l’impossibilità di ravvisare nella vicenda oggetto del giudizio a quo l’ipotesi della pluralità di sentenze di condanna per il medesimo fatto – è corretto, perché conforme al “diritto vivente” di matrice giurisprudenziale. Nella specie, infatti, tutte e tre le sentenze di condanna per violazione degli obblighi di assistenza familiare sono state pronunciate in relazione a contestazioni di tipo “chiuso”, attinenti a periodi di tempo diversi e non sovrapposti tra loro (rispettivamente, da marzo a settembre 2008, da ottobre 2008 a marzo 2009 e da agosto 2009 a marzo 2010). Dunque, in base ai ricordati orientamenti della giurisprudenza di legittimità, non sussisteva alcuna preclusione al promovimento dei giudizi successivi al primo, ancorché relativi a segmenti della condotta cronologicamente antecedenti alla prima sentenza di condanna di primo grado, poi divenuta definitiva (sentenza pronunciata solo il 17 maggio 2012).
5.– Il discorso è diverso quanto al secondo presupposto interpretativo, relativo alla pretesa inapplicabilità, nella fattispecie considerata, dell’art. 671 cod. proc. pen.: disposizione in forza della quale, quando siano state pronunciate più sentenze o decreti penali irrevocabili in procedimenti distinti contro la stessa persona, il giudice dell’esecuzione può applicare, su istanza del condannato o del pubblico ministero – laddove ne sussistano i presupposti – la disciplina del reato continuato (oltre a quella del concorso formale di reati), sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione.
Al riguardo, il rimettente osserva che l’istituto della continuazione postula che l’agente abbia commesso una pluralità di reati distinti, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Nella specie, si sarebbe invece al cospetto di un unico reato permanente, giudicato “per tranche” in sede cognitiva.
Il giudice a quo si mostra consapevole dell’esigenza di confrontarsi, a questo proposito, con il fenomeno della cosiddetta interruzione giudiziale della permanenza: ossia con l’indirizzo giurisprudenziale, ampiamente consolidato, secondo il quale la permanenza può cessare, oltre che per cause “naturalistiche” – l’esaurirsi della condotta tipica – anche per cause giudiziarie, connesse alle modalità di accertamento dell’illecito, che frantumano l’unità del reato permanente, facendo sì che la protrazione successiva della condotta integri un reato distinto e autonomo, pur se omologo.
Il Tribunale teatino non pone in discussione la validità di tale risalente costruzione giurisprudenziale. Nega, tuttavia, che il fenomeno si sia verificato nella fattispecie sottoposta al suo esame. Rileva, infatti, che per costante giurisprudenza l’interruzione giudiziale della permanenza si verifica solo per effetto – e al momento – della sentenza di primo grado. Nel caso di specie – come già ricordato poc’anzi – la prima sentenza di primo grado è posteriore all’ultima delle condotte giudicate nei tre processi. Di conseguenza, l’unitarietà del reato permanente non sarebbe stata spezzata.
Il giudice a quo aggiunge che l’applicazione del regime del cumulo giuridico delle pene, nei termini delineati dall’art. 81 cod. pen., prevista nel caso del reato continuato, «non collim[erebbe]» neppure con l’esigenza, che emerge nella specie, «di riparametrare la pena secondo lo schema del reato unico», tenendo conto del complesso delle condotte separatamente giudicate in sede cognitiva.
Sul punto, va rilevato che è ben vero che in numerose pronunce la giurisprudenza di legittimità ha individuato in modo indistinto il fattore di interruzione giudiziale della permanenza nella sentenza di primo grado. In numerose altre ha precisato, però, che una simile affermazione va riferita al caso in cui la contestazione del reato sia stata formulata in forma “aperta”: ipotesi nella quale, come detto, il giudicato copre anche la protrazione della condotta fino al momento della pronuncia di detta sentenza (tra le molte, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 5 luglio-21 settembre 2017, n. 43173; sezione seconda penale, sentenza 1° marzo-6 giugno 2016, n. 23343; sezione sesta penale, sentenza 3 ottobre 2013-20 marzo 2014, n. 13085).
In ulteriori decisioni, la Corte di cassazione è, per converso, chiara nell’affermare che, in caso di contestazione “chiusa”, è la data finale indicata nel capo di imputazione a segnare – una volta che sul fatto sia intervenuto l’accertamento processuale definitivo – il momento nel quale si determina la frantumazione della condotta criminosa, che imprime alla condotta successiva i connotati di un distinto reato (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479; nonché sezione seconda penale, sentenza 20 aprile-19 maggio 2016, n. 20798).
Occorre, in effetti, considerare che l’istituto dell’interruzione giudiziale della permanenza è stato elaborato, sin da tempi remoti, dalla giurisprudenza in precipuo collegamento con la problematica cui si è fatto riferimento in precedenza: ossia proprio al fine di giustificare, sul piano teorico, la possibilità di giudicare in modo separato singoli segmenti temporali del reato permanente senza incorrere nella violazione del divieto di bis in idem, evitando effetti di “immunità penale”. In questa ottica, è del tutto logico che le meccaniche operative del fenomeno dell’interruzione giudiziale vadano di pari passo con quelle del ne bis in idem, rimanendo perciò collegate alle modalità di formulazione (“chiusa” o “aperta”) dell’accusa, nei termini dianzi ricordati. Sarebbe, del resto, singolare, se non anche contraddittorio, che – così come mostra, in sostanza, di ritenere il giudice a quo – un segmento del reato permanente debba essere considerato fatto diverso e autonomo, ai fini dell’esclusione dell’operatività del ne bis in idem, malgrado il principio di unitarietà di tale categoria di reati, e, al contrario, porzione del fatto già giudicato – in nome di quello stesso principio – quando si tratti di stabilire se si sia al cospetto di un reato unico o di una pluralità di reati. Se si riconosce alle modalità dell’accertamento giudiziario (fattore di tipo processuale) la capacità di frantumare l’unità sostanziale del reato permanente – in risposta alle esigenze pratiche cui si è fatto cenno, giudicate ineludibili – ciò non può non valere su entrambi i versanti.
In siffatto ordine d’idee, l’interruzione della permanenza deve ritenersi intervenuta anche nel caso oggetto del giudizio a quo: discutendosi di contestazioni “chiuse”, non rileva, in contrario, il fatto che la prima sentenza di primo grado sia successiva all’intiero periodo cui si riferiscono le tre condanne.
Superando iniziali esitazioni, la giurisprudenza di legittimità appare, d’altro canto, ormai costante nel ritenere che, nel caso di interruzione giudiziale della permanenza, è bene applicabile ai vari segmenti di condotta autonomamente giudicati la disciplina del reato continuato, anche in sede esecutiva (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre 2011, n. 33838; sezione prima penale, sentenza 19 maggio-25 ottobre 2011, n. 38486; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-8 aprile 2009, n. 15133; sezione prima penale, sentenza 17 novembre-20 dicembre 2005, n. 46576). L’identità del disegno criminoso, richiesta dall’art. 81, secondo comma, cod. pen. al fine di cementare i vari fatti di reato, è d’altronde facilmente riscontrabile nella determinazione volitiva che sorregge le singole porzioni temporali di una condotta antigiuridica omogenea, dipanatasi nel tempo senza soluzione di continuità, quale quella integrativa del reato permanente.
Al riguardo, la Corte di cassazione ha posto specificamente in risalto come l’operazione considerata – ossia l’applicazione in executivis della disciplina del reato continuato – consenta di ripristinare anche quella pena per tutto il periodo di perpetrazione del fatto di reato che sarebbe stata irrogata in modo unitario se i segmenti temporali del reato permanente fossero stati oggetto di un unico processo di cognizione (in questo senso, con particolare riguardo al caso di contestazione “chiusa”, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7 giugno-22 luglio 2013, n. 31479).
Tutto ciò porta a concludere che – contrariamente a quanto opina il giudice a quo – la previsione dell’art. 671 cod. proc. pen. risulta pianamente riferibile anche all’ipotesi in discussione.
6.– Alla luce di quanto precede, le questioni vanno dichiarate non fondate per erroneità del presupposto interpretativo concernente l’asserita inapplicabilità, nel caso considerato, della disciplina recata dall’art. 671 cod. proc. pen.: erroneità cui consegue il venir meno dei dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice a quo, legati all’asserita, indefettibile operatività del regime del cumulo materiale delle pene.