Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 27 dicembre 2017-3 gennaio 2018 (reg. ric. n. 3 del 2018), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 5 e 6 Cost. e all’art. 99 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dell’art. 1 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 31 ottobre 2017, n. 8 (Istituzione del nuovo Comune di Sèn Jan di Fassa - Sèn Jan mediante la fusione dei comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich).
1.1.– Deduce il ricorrente che, con la normativa impugnata, la Regione autonoma ha istituito il Comune di Sèn Jan di Fassa-Sèn Jan mediante la fusione dei Comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich, in virtù della potestà legislativa prevista dall’art. 7 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, omettendo, tuttavia, di rispettare il disposto dell’art. 99 dello stesso statuto, il quale impone l’uso della lingua italiana e non solo – come nella specie – della lingua ladina. Violati sarebbero pure gli artt. 5 e 6 Cost., in quanto la garanzia delle minoranze linguistiche e l’unità e indivisibilità della Repubblica ostano all’utilizzo di denominazioni toponomastiche espresse solo mediante l’uso dell’idioma locale.
È ben vero – soggiunge il ricorrente – che l’art. 102 dello statuto speciale tutela le popolazioni ladine della Regione autonoma, ma il rispetto della toponomastica di tali popolazioni non può risolversi nell’eliminazione della toponomastica italiana. La tutela si realizzerebbe, dunque, a traverso la compresenza della denominazione ladina e italiana del toponimo, e non si potrebbe risolvere in un rapporto di alternatività linguistica, che realizzerebbe un’illegittima discriminazione a danno della «maggioranza (linguistica) italiana». Ciò sarebbe tanto vero che, per la Provincia autonoma di Bolzano, l’art. 101 del medesimo statuto prevede l’uso congiunto, nella toponomastica, della lingua italiana e tedesca. Si aggiunge, a tal proposito, che, in coerenza con le previsioni statutarie, l’art. 5 del decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige concernenti disposizioni di tutela delle popolazioni ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento), individua i vari Comuni ladini, espressi tutti nella forma bilingue. Si conclude rilevando che, se nella Provincia autonoma di Bolzano vige la regola del bilinguismo perfetto ed è obbligatoria la toponomastica italiana, a più forte ragione nella Provincia autonoma di Trento – in assenza di bilinguismo perfetto – la tutela delle minoranze linguistiche non può avvenire facendo a meno dell’utilizzo della lingua ufficiale nazionale.
1.2.– L’analisi delle disposizioni statali emanate in attuazione dell’art. 6 Cost. confermerebbe la dedotta illegittimità costituzionale della disciplina impugnata. Nella legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), applicabile, sino all’adozione di specifiche norme di attuazione, anche alle Regioni ad autonomia speciale, si afferma, infatti, che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano (art. 1) e si prevede che, in aggiunta ai toponimi ufficiali, può essere disposta l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali (art. 10). Dunque, il toponimo locale non potrebbe eliminare quello ufficiale.
A sua volta, la legge della Provincia autonoma di Trento 27 agosto 1987, n. 16 (Disciplina della toponomastica), pur non occupandosi – perché materia di competenza regionale, ai sensi dell’art. 7 dello statuto – della toponomastica dei Comuni, stabilisce che alle denominazioni ufficiali di frazioni, strade, piazze ed edifici pubblici possono essere affiancati i toponimi tradizionalmente usati in sede locale (art. 10).
Ancor più di recente, l’art. 19, comma 6, della legge della Provincia autonoma di Trento 19 giugno 2008, n. 6 (Norme di tutela e promozione delle minoranze linguistiche locali), stabilisce che «[f]atte salve le denominazioni dei comuni, le indicazioni e le segnalazioni relative a località e toponimi di minoranza sono di regola espresse nella sola denominazione ladina, mòchena o cimbra». Ne deriverebbe, dunque, che, a differenza delle denominazioni di località e toponimi di minoranza, quelle dei Comuni devono essere espresse anche in lingua italiana, tant’è che la stessa legge, nell’individuare i Comuni territorialmente interessati, ne indica le denominazioni in forma bilingue.
1.3.– La circostanza che la lingua italiana non possa essere sostituita – ma solo affiancata – da altre lingue locali sarebbe desumibile, poi, pure dalla sentenza n. 42 del 2017 di questa Corte, la quale, ancorché riferita a diversa fattispecie, ha ribadito, in relazione al principio di tutela delle minoranze linguistiche, come l’uso di altre lingue non possa essere inteso come alternativo alla lingua italiana, o tale da porre quest’ultima «in posizione marginale».
1.4.– In conclusione, il ricorrente osserva che – indicando nella sola lingua ladina la denominazione del nuovo Comune di Sèn Jan di Fassa-Sèn Jan, quando era peraltro storicamente presente in quei luoghi anche quella italiana di San Giovanni – la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol avrebbe esercitato «in modo costituzionalmente non corretto la competenza legislativa alla stessa spettante in materia di denominazione dei comuni di nuova istituzione», con ciò violando i parametri costituzionali evocati.
2.– Con atto depositato l’8 febbraio 2018, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol si è costituita chiedendo dichiararsi inammissibili o, comunque sia, infondate le questioni di legittimità costituzionale proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri.
2.1.– La Regione resistente svolge un’articolata premessa in fatto, nella quale sottolinea in particolare la circostanza che, il 12 e il 17 agosto 2016, i Comuni di Pozza di Fassa-Poza e di Vigo di Fassa-Vich avevano trasmesso alla Provincia autonoma di Trento le delibere consiliari dell’11 agosto 2016, con le quali avevano deciso di attribuire al nuovo Comune la denominazione di «Comun de Sèn Jan» nella versione ladina e di «Comune di Sèn Jan di Fassa» nella versione italiana, mantenendo, in entrambe le versioni, il nome “Sèn Jan” «in ragione del profondo significato storico-identitario dell’intera comunità legato alla “Pief de Sèn Jan”, il luogo in cui si riuniva fin dalle origini l’assemblea di tutti i vicini della Comunità di Fassa».
2.2.– La Regione autonoma pone in evidenza, poi, che il Commissario del Governo per la Provincia autonoma di Trento, benché fosse a conoscenza dei fatti sin dal 23 settembre 2016 – data nella quale la Giunta regionale lo aveva informato della procedura di fusione dei Comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich, della denominazione dell’istituendo Comune e dell’oggetto del relativo quesito referendario, ove tale denominazione era stata ripetuta – non abbia «manifestato tempestivamente alcun dubbio di costituzionalità sul punto in occasione del rilascio dell’intesa [per l’individuazione della data in cui tenere la consultazione referendaria], né abbia impugnato la deliberazione della Giunta regionale del 10 ottobre 2016».
In conseguenza di ciò, la Regione resistente deduce la tardività del ricorso, in quanto proposto a legge approvata, malgrado il relativo procedimento contemplasse espressamente l’intervento del Commissario del Governo in vista della consultazione referendaria, la cui delibera di indizione da parte della Giunta regionale recava anche la denominazione dell’istituendo Comune.
Si richiama, al riguardo, la sentenza n. 2 del 2018 della Corte costituzionale, nella quale si è affermato che i vizi degli atti del procedimento referendario, fatti valere tempestivamente davanti al giudice amministrativo, si trasferiscono sulla legge regionale e possono essere oggetto di sindacato nel giudizio di legittimità costituzionale di quest’ultima. Se ne dovrebbe dedurre che, in mancanza di tempestiva impugnazione, i vizi non possano essere fatti valere per la prima volta in sede di giudizio costituzionale, quali vizi propri della legge. Nella richiamata pronuncia, infatti, si è ribadito che gli atti del procedimento referendario sono sottoposti al sindacato del giudice amministrativo in modo da evitare che le controversie concernenti la legittimità della procedura referendaria vengano in rilievo quando ormai la variazione circoscrizionale è già stata disposta con la legge.
Ove così non fosse – sottolinea, concludendo sul punto, la Regione – le conseguenze sarebbero gravi, in quanto la modifica della denominazione del Comune, già operativa dal 1° gennaio 2018, dovrebbe comportare un rinnovo, sia pure parziale, della procedura referendaria, non avendo il Consiglio regionale il potere di modificare a posteriori una denominazione sulla quale si sono già espressi i Consigli comunali proponenti, la popolazione interessata nonché la Giunta provinciale, sia in sede di parere che in sede di formulazione dei quesiti referendari.
2.3.– La Regione autonoma deduce, poi, l’inconferenza e l’errata interpretazione dei parametri invocati.
2.3.1.– A proposito, infatti, del richiamo all’art. 99 dello statuto speciale, la difesa regionale rileva che, in materia di toponomastica, il medesimo statuto prevede l’obbligo del bilinguismo soltanto nel territorio della Provincia autonoma di Bolzano (art. 8, primo comma, numero 2), riservando alla competenza legislativa regionale l’istituzione e denominazione di nuovi Comuni nonché la modifica delle loro circoscrizioni (art. 7, primo comma).
Errata sarebbe anche l’interpretazione dell’art. 19, comma 6, della legge prov. Trento n. 6 del 2008, in quanto l’espressione «fatte salve le denominazioni dei comuni» intenderebbe solo sottolineare che in tale ambito la Provincia autonoma non ha competenza legislativa.
2.3.2.– Impropria si rivelerebbe, poi, l’evocazione degli artt. 5 e 6 Cost., in quanto sarebbe paradossale che le disposizioni tese a salvaguardare le minoranze linguistiche vengano invocate a tutela di una pretesa «purezza» della lingua italiana, senza considerare che, nella specie, si tratterebbe di scelte già avallate dalla comunità linguistica italiana, tutelata nella fase preparatoria del procedimento (si richiama la legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 21 ottobre 1963, n. 29, recante «Ordinamento dei Comuni» e il decreto del Presidente della Regione 1° febbraio 2005, n. 3/L, recante «Approvazione del testo unico delle leggi regionali sull’ordinamento dei comuni della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige»).
Non pertinente si rivelerebbe, inoltre, il richiamo alla citata sentenza n. 42 del 2017, stante l’evidente diversità della fattispecie oggetto del giudizio. D’altra parte, l’interpretazione propugnata dal ricorrente dovrebbe indurre a ritenere illegittime tutte le vigenti denominazioni espresse in lingua diversa dall’italiano e senza l’indicazione del corrispondente toponimo italiano, come accade per varie località della Valle d’Aosta e del Piemonte. Si rievoca, al riguardo, il noto processo di «“italianizzazione” forzata» dei toponimi in epoca fascista, che portò alla creazione di denominazioni italiane del tutto estranee alle tradizioni locali, poi ripristinate, già prima dell’entrata in vigore della Costituzione, per mezzo di diverse disposizioni normative.
2.3.3.– Risulterebbe anche non correttamente interpretato l’art. 10 della legge n. 482 del 1999, dal momento che il toponimo ufficiale non dovrebbe essere necessariamente espresso in lingua italiana. Comunque sia – sottolinea la difesa regionale – le norme contenute nella legge n. 482 del 1999 potrebbero trovare applicazione anche alla Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol solo ove assicurino una tutela più elevata rispetto alle leggi regionali, in virtù della clausola di maggior favore (art. 18 della legge n. 482 del 1999 e art. 5-bis del d.lgs. n. 592 del 1993).
2.4.– Risulterebbe errata, ad ogni modo, anche la considerazione secondo la quale, nella specie, sarebbe stata omessa la denominazione in lingua italiana.
Si osserva, infatti, che «la tradizione culturale della comunità italiana locale trova riscontro nella denominazione “di Fassa”, che fa riferimento alla identificazione della Valle di Fassa, secondo l’originaria proposta dei Comuni». La denominazione ufficiale del nuovo Comune – elemento che identificherebbe il soggetto giuridico, ma che potrebbe essere espresso linguisticamente secondo l’uso della comunità locale – sarebbe quindi formulata nelle due versioni linguistiche “Sèn Jan di Fassa – Sèn Jan”, in linea con il rispetto della toponomastica delle popolazioni ladine richiesto dall’art. 102 dello statuto speciale, ancorché non rechi la traduzione letterale in lingua italiana di “San Giovanni”. D’altra parte, l’art. 5 del d.lgs. n. 592 del 1993, nell’individuare le comunità ladine con doppia denominazione, per due casi (Moena-Moena e Soraga-Soraga) reca la medesima denominazione sia nella versione italiana che in quella ladina.
3.– In data 3 settembre 2018, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol ha depositato una memoria con la quale insiste affinché sia dichiarata l’inammissibilità o, comunque sia, l’infondatezza delle proposte questioni di legittimità costituzionale.
3.1.– La difesa della resistente, nel ribadire l’inammissibilità del ricorso per tardività, ha prodotto un documento che attesterebbe come nulla potesse eccepire il Commissario del Governo in relazione alla denominazione del nuovo Comune.
La Regione autonoma ha depositato, infatti, una nota del 10 gennaio 2018 a firma del Sottosegretario per gli affari regionali – i cui destinatari sono il Presidente della stessa Regione e il Commissario straordinario del Comune di Sèn Jan di Fassa-Sèn Jan – nella quale si afferma che, ove la Regione avesse approvato una nuova legge modificando la denominazione del nuovo Comune in «Sèn Jan di Fassa», sarebbe stata valutata l’ipotesi di proporre al Consiglio dei ministri la rinuncia al ricorso. La difesa regionale osserva che la denominazione in tal modo proposta «fornisce piena e ampia soddisfazione» alle proprie tesi difensive, al punto da far dubitare che vi sia ancora materia del contendere. Inoltre, dopo aver ripercorso le censure che il Presidente del Consiglio dei ministri ha speso nel ricorso, reputate incoerenti con quanto affermato nella richiamata nota, si osserva che l’impugnazione della legge regionale dovrebbe considerarsi quale «tentativo surrettizio di trasferire sul piano costituzionale una questione che appare piuttosto solo il frutto di una contrapposizione partitica».
3.2.– La Regione autonoma insiste, poi, sull’inconferenza del riferimento alla sentenza n. 42 del 2017, dalla quale, sebbene in essa si ribadisca il primato della lingua italiana, non potrebbe discendere un «obbligo di italianizzazione delle denominazioni di tutti i comuni».
Pertinente, al contrario, sarebbe richiamare le sentenze n. 170 del 2010 e n. 88 del 2011 della Corte costituzionale. Con la prima, infatti, la Corte avrebbe riconosciuto che le Regioni possono valorizzare il dato storico delle antiche denominazioni dei Comuni anche in base alle parlate in uso nelle relative comunità, misure che non sarebbero riconducibili esclusivamente alla tutela delle minoranze linguistiche di cui all’art. 6 Cost. Con la seconda, si sarebbe escluso che la speciale legislazione di tutela delle minoranze linguistiche storiche di cui alla legge n. 482 del 1999 esaurisce ogni forma di riconoscimento e sostegno del pluralismo linguistico, perché a esse si affiancano lingue regionali e idiomi locali, che troverebbero tutela non solo nell’art. 6 Cost., ma anche nel principio pluralistico e nel principio d’eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost.
D’altra parte, aggiunge la difesa regionale, è lo stesso legislatore che, nella legge costituzionale 4 dicembre 2017, n. 1 (Modifiche allo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige/Südtirol in materia di tutela della minoranza linguistica ladina), utilizza una denominazione – quella di “Comun General de Fascia” di cui al novellato art. 102 dello statuto – esclusivamente in ladino.
3.3.– La difesa regionale, in conclusione della memoria, rileva come la proposta di denominazione di cui alla richiamata nota governativa del 10 gennaio 2018 colga nel segno, non traducendo il nominativo ladino «Sèn Jan» in «San Giovanni»: la denominazione «Sèn Jan di Fassa», infatti, sarebbe costituita dal nome storico della località in cui ha sede il nuovo comune, da secoli centro di riferimento delle comunità ladine della Val di Fassa, e dall’indicazione in italiano dell’àmbito geografico (la Val di Fassa, appunto). D’altro canto, nel Dizionario toponomastico trentino – disciplinato dalla legge provinciale n. 16 del 1987 – esisterebbe il toponimo «Sèn Jan» e non anche quello di «San Giovanni».
Infine, la resistente osserva che l’eventuale sussistenza dell’obbligo di bilinguismo non potrebbe implicare «la mera italianizzazione del nominativo, ma piuttosto la rispondenza della denominazione alle tradizioni storiche della comunità interessata» poiché – si richiamano le parole del Presidente Terracini in Assemblea costituente, in sede di discussione dello statuto speciale della Regione autonoma Valle d’Aosta – «i nomi delle località o i nomi propri non [fanno] parte dell’altra lingua, ma sono ciò che sono».
4.– In data 4 settembre 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria con la quale, nell’insistere per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale proposte, replica alle difese svolte dalla Regione resistente nell’atto di costituzione.
4.1.– L’Avvocatura generale dello Stato reputa palesemente destituita di fondamento l’eccezione di inammissibilità, per tardività, dell’impugnazione.
L’intervento del Commissario del Governo nell’ambito del procedimento referendario, infatti, sarebbe stato circoscritto e limitato – ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 7 novembre 1950, n. 16 (Sull’esercizio del referendum applicato alla costituzione di nuovi Comuni, a mutamenti delle circoscrizioni comunali, della denominazione o del capoluogo dei Comuni) – alla sola espressione dell’intesa sulla data di convocazione del referendum consultivo concernente la fusione dei Comuni: da tale circostanza non potrebbe farsi derivare alcuna «acquiescenza preclusiva della successiva impugnazione, ex art. 127 Cost., della legge regionale istitutiva del nuovo Comune».
Per altro verso, il potere del Governo di dedurre vizi di legittimità costituzionale della legge non potrebbe considerarsi condizionato dalla necessità di impugnare previamente, davanti alla giurisdizione amministrativa, gli atti amministrativi del procedimento referendario. Il Governo, infatti, non avrebbe interesse né legittimazione ad impugnare tali atti, i quali «di per sé non ledono in via diretta, immediata ed attuale, né le competenze statali né, più in generale, situazioni giuridiche soggettive attive (poteri o diritti) facenti capo allo Stato».
La difesa del ricorrente ricorda, inoltre, che nella sentenza n. 2 del 2018 la Corte costituzionale ha affermato che le leggi regionali ex art. 133 Cost. «non sono paragonabili alle leggi che si limitano ad approvare un atto amministrativo, perché non ratificano l’esito del referendum consultivo, ma esprimono una scelta politica del Consiglio regionale»: conseguentemente, il controllo su tali leggi non può che spettare esclusivamente al giudice costituzionale ed è solo una volta che dette leggi siano state approvate e promulgate che, eventualmente, può dedursi «quella “eccedenza” rispetto alle prerogative e alle competenze regionali che radica il potere statale di ricorso ex art. 127 Cost.». In quella medesima pronuncia, la Corte costituzionale avrebbe altresì affermato che i vizi degli atti del procedimento referendario si convertono in vizi del procedimento di formazione della legge, dal che ne deriverebbe la possibilità per il Governo, nel termine decadenziale di cui all’art. 127 Cost., di sottoporli al sindacato del giudice costituzionale, senza che la previa impugnazione degli atti amministrativi «si ponga quale condizione di proponibilità del successivo giudizio di legittimità costituzionale in via principale».
4.2.– Il ricorrente, poi, reputa priva di pregio la contestazione della resistente circa la pertinenza dei parametri costituzionali evocati.
4.2.1.– Sarebbe stato frainteso, innanzitutto, il senso del richiamo all’art. 99 dello statuto speciale, il quale stabilisce chiaramente che quella italiana «è la lingua ufficiale dello Stato».
L’Avvocatura generale dello Stato osserva che «le norme statutarie di riferimento» sono rappresentate dall’art. 2, il quale riconosce parità di diritti a tutti i cittadini, indipendentemente dal gruppo linguistico di appartenenza, e dall’art. 102, il quale riconosce alle popolazioni ladine, mochene e cimbre il rispetto della loro toponomastica e delle loro tradizioni. Il quadro normativo di riferimento sarebbe poi completato dal d.lgs. n. 592 del 1993 nonché, come già posto in evidenza nel ricorso, dagli artt. 7, 8 e 10 della legge prov. Trento n. 16 del 1987 e dall’art. 19 della legge prov. Trento n. 6 del 2008.
Alla stregua di tali disposizioni, in ambito di toponomastica la tutela della minoranza linguistica ladina si realizzerebbe «su un piano di concorrenza, e non di alternatività». L’obbligo della bilinguità, infatti, vigerebbe, ai sensi dell’art. 8, n. 2, oltre che degli art. 100 e 101, dello statuto speciale, nel solo territorio della Provincia autonoma di Bolzano, ove i toponimi devono essere indicati in italiano e in tedesco. Nella Provincia autonoma di Trento, invece, la bilinguità, attesa l’ufficialità della sola lingua italiana ai sensi dell’art. 99 dello statuto speciale, sarebbe solo facoltativa, in linea con quanto previsto, del resto, dall’art. 10 della legge n. 482 del 1999, il quale consente, nei Comuni ove sono presenti minoranze linguistiche storiche, di aggiungere al toponimo ufficiale, necessariamente in italiano, il toponimo locale.
Infine, non sarebbe erroneo né fuorviante neppure il richiamo, effettuato nel ricorso, all’art. 19, comma 6, della legge prov. Trento n. 6 del 2018, il quale, facendo salve le denominazioni dei Comuni, per un verso conferma, pleonasticamente, la potestà legislativa della Regione in tale ambito, stabilita dall’art. 7 del proprio statuto e, per un altro e soprattutto, esclude che le denominazioni dei Comuni, a differenza di quelle delle località e dei toponimi di minoranza, possano essere espressi nella sola lingua locale.
4.2.2.– Del pari priva di fondamento sarebbe, altresì, l’obiezione circa la conferenza, quali parametri costituzionali, degli artt. 5 e 6 Cost. Tali norme costituzionali infatti – garantendo l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, che si realizzano anche attraverso l’unità linguistica, e la tutela delle minoranze linguistiche – osterebbero «a previsioni discriminatorie della maggioranza linguistica italiana». In questa prospettiva di difesa dell’ufficialità della lingua italiana quale lingua nazionale, il riferimento alla sentenza n. 42 del 2017, lungi dall’essere incomprensibile, troverebbe ragion d’essere nelle affermazioni di principio ivi compiute dalla Corte costituzionale.
4.3.– L’Avvocatura generale dello Stato rileva, inoltre, che proverebbe troppo l’argomento della difesa regionale, secondo cui l’accoglimento delle tesi del Governo dovrebbe condurre a ritenere costituzionalmente illegittime le denominazioni ufficiali, in lingua diversa dall’italiana, di Comuni nelle Regioni Valle d’Aosta e Piemonte. Ciò perché la denominazione monolingue francese sarebbe stata resa possibile, in via eccezionale, da legge dello Stato, mentre non esisterebbe alcuna norma statale che consenta l’utilizzo esclusivo del solo toponimo ladino. Né potrebbe dirsi che l’art. 10 della legge prov. Trento n. 16 del 1987, nel far ferma la denominazione ufficiale, non necessariamente si riferisce a un toponimo in lingua italiana: essendo solo questa la lingua ufficiale, soltanto in italiano potrebbe essere espresso il toponimo ufficiale.
Non sarebbe comprensibile, poi, il richiamo fatto dalla difesa regionale alla cosiddetta clausola di maggior favore, di cui all’art. 18 della legge n. 482 del 1999, in forza del quale le norme di tale legge si applicherebbero alla Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol solo se garantiscono una maggior tutela rispetto a quella prevista dalle leggi regionali: in considerazione dell’esposto quadro normativo in tema di toponomastica comunale, non vi sarebbe, nell’ordinamento regionale, alcuna disposizione normativa di maggior tutela.
4.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, infine, contesta l’esattezza anche di quella che reputa l’«estrema» difesa della resistente, ovverosia che, anche a riconoscere la necessità della doppia denominazione, l’obbligo della denominazione in lingua italiana sarebbe rispettato dalla prima parte del toponimo (Sèn Jan di Fassa).
Tale denominazione, infatti, è composita e bilingue, poiché le parole “Sèn Jan” sono di lingua ladina e la locuzione “di Fassa” sarebbe priva di «un’effettiva valenza identificativa del comune di nuova istituzione». In senso contrario, non varrebbe obiettare che l’art. 5 del d.lgs. n. 592 del 1993 individua due Comuni che presentano la medesima denominazione sia in italiano che in ladino: si tratterebbe di una mera coincidenza, che non escluderebbe la necessità dell’espressione in entrambe le lingue, «con prevalenza, in ogni caso, della denominazione italiana», soprattutto allorché, come nella specie accade con quella di “San Giovanni”, essa già esista e sia di diffuso utilizzo.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 31 ottobre 2017, n. 8 (Istituzione del nuovo Comune di Sèn Jan di Fassa - Sèn Jan mediante la fusione dei comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich). Il ricorrente lamenta che la denominazione del Comune di nuova istituzione sia espressa soltanto in lingua ladina, anziché congiuntamente in lingua italiana e in lingua ladina: ciò renderebbe la disposizione impugnata in contrasto con l’art. 99 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), in base al quale la lingua ufficiale dello Stato è quella italiana, nonché con gli artt. 5 e 6 della Costituzione, i quali osterebbero «a previsioni discriminatorie della maggioranza linguistica italiana» e, quindi, all’utilizzo di denominazioni toponomastiche espresse unicamente nell’idioma locale.
2.– La Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol ha eccepito la tardività del ricorso, in ragione del fatto che il Commissario del Governo della Provincia autonoma di Trento, benché fosse a conoscenza della scelta della denominazione del nuovo Comune, non abbia al riguardo «manifestato tempestivamente alcun dubbio di costituzionalità».
L’eccezione non è fondata.
Come ha correttamente posto in evidenza l’Avvocatura generale dello Stato nella memoria difensiva, il Commissario del Governo – secondo quanto previsto dall’art. 2, comma 1, della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 7 novembre 1950, n. 16 (Sull’esercizio del referendum applicato alla costituzione di nuovi Comuni, a mutamenti delle circoscrizioni comunali, della denominazione o del capoluogo dei Comuni), ancora vigente a quel momento – è stato chiamato a esprimersi soltanto sulla data di convocazione del referendum per l’istituzione del nuovo Comune, la quale data, in base alla richiamata norma regionale, deve essere stabilita d’intesa con la Giunta regionale. L’aver raggiunto tale intesa, normativamente richiesta, non può considerarsi quale tacito assenso alla denominazione del nuovo Comune: e ciò, a prescindere da ogni considerazione sulla effettiva possibilità, per il Commissario del Governo, di muovere rilievi alla predetta denominazione o di impugnare i relativi atti amministrativi.
Né, a sostegno dell’eccezione, può ritenersi utilmente evocata la sentenza n. 2 del 2018 di questa Corte, la quale, secondo la lettura proposta dalla difesa regionale, avrebbe affermato che i vizi del procedimento referendario, in quanto sindacabili dinanzi al giudice amministrativo, non possono essere fatti valere per la prima volta in sede di giudizio costituzionale.
In tale pronuncia questa Corte – se ha riconosciuto che il sindacato del giudice amministrativo sugli atti del procedimento referendario ex art. 133 Cost. «deve risultare pieno e tempestivo», al fine di ridurre la possibilità che le controversie relative alla legittimità della procedura referendaria emergano successivamente all’approvazione della legge – non ha certo escluso, in caso di mancata impugnazione dei predetti atti, la sindacabilità dell’atto legislativo. Tutt’al contrario, ha affermato che gli eventuali vizi della procedura referendaria si traducono in vizio formale della legge, osservando come, in tal modo, «senza ledere la giurisdizione del giudice amministrativo, [venga preservata] la posizione di questa Corte, alla quale l’art. 134 Cost. affida in via esclusiva il compito di garantire la legittimità costituzionale della legislazione anche regionale» (sentenza n. 2 del 2018).
Deve d’altra parte osservarsi che – a seguire la prospettiva della Regione resistente – verrebbe a configurarsi una condizione di procedibilità per l’impugnazione, da parte dello Stato, delle leggi regionali adottate ex art. 133 Cost., la cui mancata soddisfazione finirebbe per determinare la decadenza dall’esercizio di un potere costituzionalmente sancito dall’art. 127 Cost.: il che non potrebbe che formare oggetto di espressa previsione, anch’essa di rango costituzionale. L’impugnazione del Governo non può che considerarsi, dunque, tempestiva, tanto più che, nella specie, non viene neppure in discorso la regolarità della procedura referendaria.
3.– La resistente ha eccepito, inoltre, l’insussistenza della materia del contendere. Essa sarebbe venuta meno in ragione della nota del 10 gennaio 2018 del Sottosegretario per gli affari regionali – trasmessa al Presidente della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e al Commissario straordinario del neoistituito Comune – nella quale si affermava che, in caso di approvazione di una legge regionale che avesse modificato la censurata denominazione del Comune in quella di «Sèn Jan di Fassa», eliminando la ulteriore dizione «Sèn Jan», sarebbe stata proposta al Consiglio dei ministri la rinuncia all’odierna impugnativa. Denominazione, quella ora richiamata, che fornirebbe «piena e ampia soddisfazione» alla resistente.
Anche tale eccezione non è fondata.
L’attività del Sottosegretario per gli affari regionali – che è svolta su un piano prettamente politico-istituzionale – non può impegnare il Consiglio dei ministri, unico organo legittimato a disporre del ricorso, né tantomeno condizionare lo scrutinio di legittimità costituzionale condotto da questa Corte. L’interesse alla coltivazione del ricorso da parte del Governo, d’altra parte, è testimoniato dal deposito, ad opera dell’Avvocatura generale dello Stato, della memoria in prossimità dell’udienza pubblica, con la quale si è insistito per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione impugnata.
4.– Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale proposta in riferimento all’art. 5 Cost.
La doglianza è, infatti, apodittica, essendosi limitato il Presidente del Consiglio dei ministri a rilevare che il principio di unità e indivisibilità della Repubblica «osterebbe all’utilizzo di denominazioni toponomastiche espresse unicamente in idioma locale». A sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale non può proporsi, come nella specie, una motivazione meramente assertiva, ma devono essere specificamente e congruamente indicate le ragioni per le quali la norma impugnata si pone in contrasto con i parametri evocati (ex plurimis, sentenze n. 152 del 2018, n. 32 del 2017, n. 37 del 2016 e n. 251 del 2015).
5.– Nel merito, la questione proposta in riferimento all’art. 99 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige è fondata.
5.1.– La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo riconosciuto che la lingua italiana è l’«unica lingua ufficiale» del sistema costituzionale (sentenza n. 28 del 1982) e che tale qualificazione «non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso delle lingue minoritarie, evitando che esse possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica» (sentenza n. 159 del 2009). Il primato della lingua italiana – si è anche detto ancor più di recente – «non solo è costituzionalmente indefettibile [ma è] decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé» (sentenza n. 42 del 2017).
Allo stesso tempo, la lingua non può non essere un «elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare» (sentenze n. 88 del 2011 e n. 15 del 1996), in quanto è «mezzo primario di trasmissione» (sentenza n. 62 del 1992) dei valori culturali che essa esprime. È in quest’ottica che la tutela delle minoranze linguistiche deve essere considerata «uno dei principi fondamentali» dell’ordinamento costituzionale, espressione di «un rovesciamento di grande portata politica e culturale, rispetto all’atteggiamento nazionalistico manifestato dal fascismo» (sentenza n. 15 del 1996) e diretto «alla consapevole custodia e valorizzazione di patrimoni di sensibilità collettiva vivi e vitali nell’esperienza dei parlanti, per quanto riuniti solo in comunità diffuse e numericamente “minori”» (sentenza n. 170 del 2010).
5.2.– L’incrocio dei due valori costituzionali – primazia della lingua italiana e tutela delle lingue minoritarie – si pone con particolare accento nell’ambito della toponomastica, dove viene in rilievo non solo una funzione pratica, volta ad assicurare la formale individuazione dei nomi di luogo, ma anche una funzione comunicativa e simbolica, tesa a valorizzare nelle denominazioni le tradizioni storiche del territorio e della comunità che in quei luoghi vive, garantendone la continuità del patrimonio culturale e linguistico.
È in questa prospettiva che, a livello internazionale, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, adottata dal Consiglio d’Europa il 5 novembre 1992, prevede che le Parti si impegnano a permettere o incoraggiare «l’uso o l’adozione, se del caso congiuntamente con l’adozione della denominazione nella(e) lingua(e) ufficiale(i), di forme tradizionali e corrette della toponomastica nelle lingue regionali o minoritarie» (art. 10, comma 2, lettera g). Nello stesso senso si muove, poi, la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata dal Consiglio d’Europa il 1° febbraio 1995, ratificata ed eseguita in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 302 (Ratifica ed esecuzione della convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1º febbraio 1995), il cui art. 11, comma 3, prevede che «[n]elle regioni tradizionalmente abitate da un numero rilevante di persone appartenenti ad una minoranza nazionale, le Parti, nel quadro del loro sistema legislativo, non esclusi, se del caso, accordi con altri Stati, si sforzeranno, tenendo conto delle loro condizioni specifiche, di presentare le denominazioni tradizionali locali, i nomi delle strade ed altre indicazioni topografiche destinate al pubblico, anche nella lingua minoritaria, allorché vi sia una sufficiente domanda per tali indicazioni».
Il medesimo indirizzo, pur in assenza di un’organica normativa in materia di toponomastica, è seguito nel nostro ordinamento. La legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), infatti, per un verso ribadisce che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano (art. 1, comma 1); per un altro, espressamente stabilisce – secondo un «equilibrato procedimento» (sentenza n. 159 del 2009) che valorizza le lingue e le culture minoritarie, contestualmente preservando il patrimonio linguistico e culturale dell’italiano – che, nei Comuni in cui si applica il regime di tutela da essa previsto, «in aggiunta ai toponimi ufficiali, i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali» (art. 10).
5.3.– L’art. 99 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige espressamente ribadisce che la lingua italiana «è la lingua ufficiale dello Stato», cui nella Regione è parificata la lingua tedesca, e che essa «fa testo negli atti aventi carattere legislativo e nei casi nei quali [dal medesimo] statuto è prevista la redazione bilingue».
Lo statuto speciale reca altresì disposizioni in tema di toponomastica le quali, dettando una disciplina che è profondamente influenzata dalle vicende storiche che hanno interessato la Regione nel corso della prima metà del secolo scorso, non apportano, tuttavia, alcuna deroga all’ufficialità della lingua italiana – la quale, dunque, deve essere necessariamente adoperata anche in tale ambito – ma si limitano a imporre, nei vari casi, l’utilizzo di denominazioni anche in lingua tedesca, ladina, mochena o cimbra: l’art. 7, primo comma, dello statuto, riprendendo quasi testualmente l’art. 133 Cost., stabilisce che «Con leggi della regione, sentite le popolazioni interessate, possono essere istituiti nuovi comuni e modificate le loro circoscrizioni e denominazioni»; l’art. 8, n. 2, attribuisce alle Province autonome di Trento e di Bolzano la potestà legislativa nella toponomastica cosiddetta minore, «fermo restando l’obbligo della bilinguità nel territorio della provincia di Bolzano»; l’art. 101 prevede che «Nella Provincia di Bolzano le amministrazioni pubbliche devono usare, nei riguardi dei cittadini di lingua tedesca, anche la toponomastica tedesca, se la legge provinciale ne abbia accertata l’esistenza ed approvata la dizione»; l’art. 102, infine, stabilisce che le popolazioni ladine, mochene e cimbre hanno «diritto […] al rispetto della toponomastica e delle tradizioni delle popolazioni stesse».
Per quel che concerne specificamente la lingua ladina, il suo impiego nella toponomastica, ma unitamente a quella italiana, è ribadito da disposizioni di attuazione dello statuto speciale: l’art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1951, n. 574 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), prevede espressamente che «nelle valli ladine […] può essere usato nella toponomastica locale, oltre che la lingua italiana e la lingua tedesca, anche il ladino»; a conferma, l’art. 5 del decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma Trentino Alto-Adige concernenti disposizioni di tutela della popolazione ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento) individua, con il toponimo bilingue, sette località ladine, tra le quali i Comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich, la cui fusione ha originato il nuovo Comune di cui alla legge regionale impugnata.
Dal richiamato quadro normativo emerge, pertanto, che nella Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol – oggi individuata con toponimo bilingue dall’art. 116 Cost., quale sostituito dall’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – devono essere utilizzati, per un verso, toponimi anche in lingua tedesca nella Provincia autonoma di Bolzano e, per un altro, al fine di rispettarne le tradizioni, toponimi anche in lingua – secondo i casi – ladina, cimbra o mochena, nei territori ove sono presenti le rispettive popolazioni. Prescrivendo la compresenza della lingua italiana e, a volta a volta, delle lingue minoritarie, viene apprestata una tutela alle minoranze linguistiche e al loro patrimonio culturale in tema di toponomastica, senza tuttavia far venire meno, neppure in tale ambito, la primazia della lingua ufficiale della Repubblica, espressamente riconosciuta dall’art. 99 dello statuto speciale.
5.4.– Il legislatore regionale, con la disposizione censurata, ha bensì adoperato, per il Comune di nuova istituzione, un toponimo bilingue – così mostrando di essere consapevole di dover utilizzare, nell’individuazione del nomen del nuovo ente locale, tanto la lingua italiana quanto quella ladina – ma ha fatto ricorso, nella prima parte di tale toponimo (Sèn Jan di Fassa), a una denominazione mistilingue che non può dirsi espressa in lingua italiana sol perché, come invece sostenuto dalla difesa della resistente, fa riferimento alla Valle di Fassa. La normativa statutaria, nel prescrivere il bilinguismo anche nella toponomastica, impone, al contrario, che il toponimo sia espresso, per una parte, interamente nella lingua italiana e, per un’altra, anche nella lingua minoritaria.
Né può ritenersi che l’utilizzo, nella denominazione del nuovo Comune, delle parole italiane «San Giovanni» avrebbe determinato, come adombrato dalla difesa regionale, una forzosa italianizzazione di un toponimo storicamente e tradizionalmente radicato sul territorio. Va osservato, in primis, che il toponimo «Sèn Jan di Fassa-Sèn Jan» – espressione d’una «scelta politica» (sentenza n. 2 del 2018) che, sentite le popolazioni interessate, il Consiglio regionale ha compiuto con la legge impugnata – adopera il nome di un santo, ovviamente non sconosciuto alla lingua italiana, di modo che l’uso della locuzione «San Giovanni» non sarebbe stato il frutto di una traduzione coatta di un toponimo in verità intraducibile. Deve rilevarsi, inoltre, che «San Giovanni» è toponimo che, come pianamente emerge dai lavori preparatori della legge regionale censurata, era già diffusamente presente nei territori ove sorge il nuovo Comune, tanto che era utilizzato per denominare una frazione del preesistente Comune di Vigo di Fassa-Vich.
5.5.– Deve, dunque, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1, 2 e 4, della legge reg. Trentino-Alto Adige n. 8 del 2017, nella parte in cui utilizza la denominazione «Sèn Jan di Fassa-Sèn Jan» anziché quella di «San Giovanni di Fassa-Sèn Jan».
6.– La questione sollevata in riferimento all’art. 6 Cost. resta assorbita.
7.– La dichiarazione d’illegittimità costituzionale deve essere estesa in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alle ulteriori disposizioni della legge reg. Trentino-Alto Adige n. 8 del 2017 (artt. 2, comma 1; 3, comma 1; 6, comma 1; 9, commi 2 e 3; 10, comma 1; 12; 13 e 14) che, al pari di quella censurata, utilizzano la denominazione «Sèn Jan di Fassa-Sèn Jan» anziché quella di «San Giovanni di Fassa-Sèn Jan». Va da sé che dovrà essere coerentemente corretto anche il titolo della legge.