ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella sua interezza, e dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), con riferimento a:
– primo comma, limitatamente alle parole «previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile»;
– quarto comma, limitatamente alle parole «per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili,» e alle parole «, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto»;
– quinto comma, nella sua interezza;
– sesto comma, limitatamente alla parola «quinto» e alle parole «, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi» e alle parole «, quinto o settimo»;
– settimo comma, limitatamente alle parole «che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» e alle parole «; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo»;
– ottavo comma, limitatamente alle parole «in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento», alle parole «quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di» e alle parole «, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti», giudizio iscritto al n. 169 del registro referendum.
Viste l’ordinanza del 9 dicembre 2016, con la quale l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ha dichiarato conforme a legge la richiesta, e la successiva ordinanza di correzione di errori materiali del 14 dicembre 2016;
udito nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2017 il Giudice relatore Silvana Sciarra, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Amos Andreoni per Camusso Susanna Lina Giulia e Baseotto Giovanni Marco Mauro nella qualità di componenti del Comitato promotore del referendum, e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 dicembre 2016, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa da quattordici cittadini italiani (con annuncio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 69, serie generale, dell’anno 2016), sul seguente quesito:
«Volete voi l’abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza e dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” comma l, limitatamente alle parole “previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile”; comma 4, limitatamente alle parole: “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili,” e alle parole “, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”; comma 5 nella sua interezza; comma 6, limitatamente alla parola “quinto” e alle parole “, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi” e alle parole “, quinto o settimo”; comma 7, limitatamente alle parole “che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e alle parole “; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”; comma 8, limitatamente alle parole “in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento”, alle parole “quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di” e alle parole “, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti”».
2.– L’Ufficio centrale ha integrato il quesito, essendo stato omesso il punto interrogativo alla fine.
Il medesimo Ufficio centrale ha altresì attribuito al quesito la seguente denominazione: «abrogazione disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi».
3.– Il Presidente di questa Corte, ricevuta comunicazione dell’ordinanza, ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio dell’11 gennaio 2017, dandone comunicazione ai sensi dell’art. 33 della legge n. 352 del 1970.
4.– Nell’imminenza della camera di consiglio, i promotori della richiesta referendaria hanno depositato una memoria nella quale chiedono che questa Corte la dichiari ammissibile.
La richiesta sarebbe chiara, omogenea e saldamente ancorata a una «matrice razionalmente unitaria». Il sì al quesito lascerebbe in vigore (quale normativa di risulta) una disciplina precisa e rigorosamente unitaria, incentrata sulla tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro per la generalità dei licenziamenti illegittimi, in tutti i casi in cui il datore di lavoro occupi alle sue dipendenze più di cinque lavoratori.
In vista di questa finalità il quesito implica anzitutto l’abrogazione dell’intero decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), il quale per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore ha ulteriormente modificato il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo, rispetto a quanto già era stato fatto con le modificazioni apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento» (Statuto dei lavoratori), limitando le ipotesi di reintegrazione e prevedendo negli altri casi una tutela solo obbligatoria. Sotto questo aspetto l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua interezza si salderebbe perfettamente con l’abrogazione parziale di talune disposizioni dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 che limitano i casi di licenziamento illegittimo in cui è prevista la tutela reale.
Nella medesima prospettiva, secondo la difesa dei promotori, si giustificherebbe la richiesta di abrogazione parziale delle disposizioni dell’ottavo comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, volta a rendere applicabile nei confronti di tutti i datori di lavoro con più di cinque dipendenti il regime di tutela reale nel caso di licenziamento illegittimo. Questa richiesta infatti, senza creare alcuna norma nuova o estranea alla trama del testo attuale dell’ottavo comma dell’art. 18, mirerebbe all’abrogazione della clausola generale che, per l’applicazione del regime della reintegrazione, identifica la soglia dimensionale generale di «più di quindici dipendenti», e lascerebbe in vigore, quale unica soglia dimensionale quella di «più di cinque dipendenti», prevista per l’impresa agricola.
In altri termini con l’abrogazione parziale richiesta si rimuoverebbero limiti connessi per legge a una clausola considerata speciale solo per essere riferita a un novero più circoscritto di imprese (quelle agricole), ma dotata della medesima funzione di limite alla reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati, nel caso di organizzazioni imprenditoriali di minori dimensioni.
In pratica, con il referendum, precisano i promotori, «quella che si è configurata come clausola generale (“più di quindici lavoratori”) viene come tale ad essere abrogata, e dunque a non essere più applicabile; mentre, di contro e peraltro con un’abrogazione “parziale” che solo rimuove limiti ad essa connessi per legge (per rapporto all’agricoltura) e che è solo espansiva della sua operatività, quella che era clausola speciale (“più di cinque dipendenti”) rimane l’unica clausola sulla “soglia” dimensionale, come tale di generale applicazione. Non c’è pertanto, anche per questo aspetto, alcuna innovazione estranea alla legislazione previgente, tale da tramutare il referendum in uno strumento che trapassi gli effetti di un’abrogazione “parziale” delle disposizioni dettate dal legislatore politico-parlamentare».
Questa Corte, «già con la sent. n. 41/2003, [avrebbe] del resto ammesso il quesito su plurime disposizioni di legge, talune delle quali da abrogare solo “parzialmente”, in quanto tendente ad allargare la platea dei beneficiari della tutela reale».
La difesa dei promotori aggiunge che l’obiettivo perseguito con l’abrogazione dell’intero decreto legislativo n. 23 del 2015 non è diverso da quello perseguito con la parziale abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in ragione della univocità e unitarietà del risultato, costituito dalla reductio ad unum della disciplina sanzionatoria per i licenziamenti illegittimi, da applicare al «datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di cinque dipendenti» (formula risultante in seguito alle abrogazioni oggetto della richiesta referendaria).
5.– Anche l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria per la Presidenza del Consiglio dei ministri e ha chiesto che la Corte dichiari inammissibile la richiesta referendaria.
In via preliminare la difesa statale richiama la giurisprudenza costituzionale che ha escluso la possibilità di scindere il quesito e impone che esso venga scrutinato ed eventualmente poi sottoposto al voto popolare nella sua interezza, così come formulato dai promotori e approvato dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione. Pertanto il difetto di «confezionamento», ancorché di parte di esso, comporterebbe inevitabilmente l’inammissibilità dell’intero quesito.
Il quesito sarebbe inammissibile in quanto il referendum oggetto del giudizio non si proporrebbe semplicemente di abrogare, in tutto o in parte, l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, ma, in virtù di un intervento manipolativo, avrebbe l’effetto di delineare una disciplina del licenziamento illegittimo completamente nuova e diversa anche rispetto a quella esistente prima degli interventi modificativi del 2012 e del 2015, «estranea al contesto normativo di riferimento; disciplina che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo, né direttamente costruire». Si tratterebbe, in altri termini, di un referendum con carattere surrettiziamente propositivo e manipolativo, e questo rilievo varrebbe in modo particolare per la richiesta di abrogazione di parte dell’ottavo comma dell’art. 18, volta ad estendere la garanzia della reintegrazione nel posto di lavoro ad ambiti precedentemente esclusi (vale a dire ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, con meno di quindici dipendenti) mediante l’applicazione estensiva di una regola contenuta nella stessa disposizione ma riferita al settore agricolo.
La richiesta referendaria in esame sarebbe inoltre priva di univocità. In un unico quesito sarebbero «contenute, in realtà, richieste differenti»; così sarebbe preclusa «all’elettore l’opportunità di modulare la propria risposta sulla diversità dei valori legislativi sottesi alle singole disposizioni oggetto di referendum».
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato si possono «individuare almeno quattro distinti quesiti che si celano nella formulazione, formalmente unitaria, ed in particolare: quello relativo all’abrogazione totale del D.Lgs. n. 23/2015; quello relativo all’abrogazione di parte dell’art. 18 della L. n. 300/1970 per gli assunti dal marzo 2015; quello relativo agli assunti prima del marzo 2015, riguardante l’abrogazione delle modifiche dell’articolo 18 contenute nella legge Fornero del 2012; infine, un quarto, con cui si chiede l’applicazione del “nuovo” articolo 18 (come riformulato a seguito dell’operazione di “ritaglio” effettuata dai confezionatori del quesito) a tutti i datori di lavoro che abbiano almeno sei dipendenti».
Il quesito sarebbe inoltre privo di chiarezza, considerato che dalla lettura dello stesso non si potrebbe comprendere quale sarebbe il risultato dell’abrogazione proposta, con l’effetto di non consentire all’elettore la libera e consapevole espressione del voto.
6.– Nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2017, la difesa dei promotori ha insistito per una pronuncia di ammissibilità della richiesta di referendum popolare e, pur non opponendosi alla replica orale dell’Avvocatura generale dello Stato, ha affermato di non ritenerne rituale l’intervento. Ciò in ragione del fatto (rimesso alla valutazione in sentenza, di questa Corte) che tale intervento risulterebbe richiesto con atto sottoscritto (e che si assume, quindi, proveniente) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri e non dal Presidente del Consiglio stesso.
Considerato in diritto
1.– Preliminarmente, va esclusa l’irritualità dell’intervento, in questo giudizio, dell’Avvocatura generale dello Stato: irritualità che i promotori del referendum hanno prospettato per il profilo della provenienza della correlativa richiesta dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri e non dal Presidente di detto Consiglio, come sarebbe invece prescritto dalla legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
È vero, infatti, che – come dedotto dalla difesa dei promotori –, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lettera f), della richiamata legge n. 400 del 1988, «le attribuzioni di cui alla legge 11 marzo 1953, n. 87», relative alla partecipazione nei giudizi di legittimità costituzionale, sono direttamente assegnate al Presidente del Consiglio dei ministri, che le esercita a nome del Governo. Questa disposizione però non rileva nel presente giudizio, sia perché l’intervento dell’Avvocatura erariale è in questo caso richiesto con delibera del Consiglio dei ministri adottata ai sensi (non già del citato art. 5 della legge n. 400 del 1988, ma) dell’art. 33 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), in materia, quindi, ricompresa nella delega generale di firma al Sottosegretario (perché non rientrante tra le ipotesi di correlativa esclusione), sia perché l’atto sottoscritto dal Sottosegretario, del quale qui si discute, non altro è che la mera comunicazione all’Avvocatura (che al Sottosegretario comunque compete) del contenuto della delibera del Consiglio dei ministri «favorevole alla presentazione di memoria in merito alla inammissibilità del referendum abrogativo» in questione.
2.– La richiesta di referendum abrogativo, su cui questa Corte deve pronunciarsi in base all’art. 75, secondo comma, della Costituzione, riguarda il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella sua interezza, e, integralmente o per parti, i commi primo, quarto, quinto, sesto, settimo e ottavo dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento» (Statuto dei lavoratori), nel testo introdotto dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
Quest’ultima normativa ha modificato il regime di garanzia del lavoratore in caso di licenziamento individuale illegittimo, restringendo le ipotesi di tutela reale, conseguita tramite la reintegrazione nel posto di lavoro, ed espandendo invece i casi di tutela obbligatoria, affidata alla sola indennità risarcitoria (sulla cui misura la novella è altresì intervenuta).
In seguito, e con riferimento ai lavoratori assunti a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, il d.lgs. n. 23 del 2015 ha ulteriormente circoscritto le fattispecie di tutela reale, con la correlativa espansione della tutela obbligatoria.
È rimasto invece fermo che la prima si applica solo se il datore di lavoro occupa in ciascuna unità produttiva o in ciascun Comune più di quindici dipendenti, ovvero più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, e in ogni caso se occupa più di sessanta dipendenti nel complesso.
Il quesito referendario, per mezzo dell’abrogazione integrale del d.lgs. n. 23 del 2015 e parziale dell’art. 18, con riferimento ai commi primo, quarto, quinto, sesto, settimo e ottavo, della legge n. 300 del 1970, nel testo introdotto dalla legge n. 92 del 2012, si propone, per un verso, di eliminare queste novità normative e, per l’altro, di estendere la tutela reale oltre la dimensione occupazionale del datore di lavoro appena ricordata. Difatti, incidendo con la tecnica del ritaglio sull’ottavo comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, si otterrebbe l’effetto, in caso di esito favorevole del referendum, di applicare la tutela reale a qualunque datore di lavoro che occupa, complessivamente, più di cinque dipendenti, introducendo un limite minimo che non ha mai operato nel nostro ordinamento a tal fine, se non con riferimento al caso peculiare dell’imprenditore agricolo.
3.– Le norme oggetto del quesito referendario sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, secondo comma, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo.
4.– Occorre altresì verificare se il quesito si conforma agli ulteriori limiti di ammissibilità del referendum abrogativo che la giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, ha costantemente ricavato dalla Costituzione, e l’esito della verifica, come si vedrà, è negativo.
5.– Il quesito è inammissibile anzitutto a causa del suo carattere propositivo, che lo rende estraneo alla funzione meramente abrogativa assegnata all’istituto di democrazia diretta previsto dall’art. 75 Cost.
Come si è visto, il quesito manipola il testo vigente dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 attraverso la tecnica del ritaglio, ovvero chiedendo l’abrogazione, quanto ai commi primo, quarto, sesto, settimo e ottavo, di frammenti lessicali, così da ottenere, per effetto della saldatura dei brani linguistici che permangono, un insieme di precetti normativi aventi altro contenuto rispetto a quello originario.
Questa tecnica, risolvendosi anch’essa in una abrogazione parziale della legge, non è di per sé causa di inammissibilità del quesito (ex plurimis, sentenza n. 28 del 2011), e anzi si rende a volte necessaria per consentire la riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nuce nel tessuto normativo, ma compressa per effetto dell’applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 34 e n. 33 del 2000, n. 13 del 1999).
Altra cosa invece è la manipolazione della struttura linguistica della disposizione, ove a seguito di essa prenda vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo. Ne discende che tale assetto, trovando un mero pretesto nel modo con cui certe norme sono state formulate sul piano lessicale, sarebbe da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale. In questo caso si realizzerebbe uno stravolgimento della natura e della funzione propria del referendum abrogativo.
Fin dalla sentenza n. 36 del 1997, infatti, è stato dichiarato inammissibile «il quesito referendario [che] si risolve sostanzialmente in una proposta all’elettore, attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, di introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento, ma anzi del tutto estranea al contesto normativo» (nello stesso senso, sentenze n. 46 del 2003, n. 50 e n. 38 del 2000).
6.– L’odierno quesito referendario si vale della tecnica del ritaglio, operando in particolare, ma non solo, sull’ottavo comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Nel testo vigente questa disposizione subordina il ricorso alla tutela reale a una dimensione occupazionale che il legislatore ha determinato in più di quindici dipendenti per unità produttiva o per Comune, ovvero in più di sessanta dipendenti nel complesso. Per la sola impresa agricola, il limite relativo all’unità produttiva e all’ambito territoriale è abbassato a più di cinque lavoratori.
Attraverso la soppressione di alcune parole si otterrebbe una norma del seguente tenore: «le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di cinque dipendenti».
L’espressione numerica «cinque», contenuta nel testo vigente della norma, concretizza un apprezzamento che, in relazione all’unità produttiva o al medesimo Comune, il legislatore ha riservato all’impresa agricola, in virtù delle peculiarità in fatto e in diritto riconosciute a questa figura. Esso non esprime pertanto una scelta legislativa potenzialmente idonea a regolare il limite minimo di applicazione della tutela reale relativo al datore di lavoro, qualora il legislatore non avesse optato per l’altro di quindici. Costituisce, infatti, un dato normativo previsto con tutt’altra finalità, che si giustifica nell’ordito legislativo esclusivamente in ragione delle peculiarità cui si è innanzi accennato.
Ne consegue che la manipolazione richiesta non è diretta a sottrarre dall’ordinamento un certo contenuto normativo, affinché venga sostituito con ciò che residua in seguito all’abrogazione e che, in difetto di quel contenuto, il legislatore ha predisposto perché abbia applicazione al fine di regolare la fattispecie. Essa invece, del tutto arbitrariamente, rinviene nell’espressione linguistica una cifra destinata a rispondere ad altre esigenze, e se ne serve per renderla il cardine di un regime giuridico connotato non più dalla specificità dell’impresa agricola, ma dalla vocazione a disciplinare in termini generali il limite occupazionale cui è subordinata la tutela reale.
In questo senso la nuova statuizione davvero può dirsi «estranea al contesto normativo» (sentenza n. 36 del 1997), perché non segna l’espansione di una scelta legislativa dettata per regolare la fattispecie come conseguenza connaturata all’abrogazione, ma, rinvenendo nella disposizione un numero, il «cinque», legato alla figura dell’imprenditore agricolo, lo converte nell’oggetto di una proposta al corpo elettorale di un nuovo e diverso assetto dimensionale della tutela reale.
Al contrario, la decisione su quale debba essere il livello numerico cui subordinare questo effetto esige una valutazione di interessi contrapposti, che il legislatore formula con riguardo alla disciplina generale dell’istituto, e che un referendum di natura esclusivamente abrogativa non può invece determinare di per sé, grazie alla fortuita compresenza nella disposizione di indicazioni numeriche sfruttabili mediante il ritaglio. Altro sarebbe stato se il quesito referendario avesse chiesto la integrale abrogazione del limite occupazionale, perché in questo caso si sarebbe mirato al superamento della scelta stessa del legislatore di subordinare la tutela reale ad un bilanciamento con valori altri, nell’ambito di un’operazione meramente demolitoria di una certa opzione legislativa (sentenza n. 41 del 2003). Laddove non intenda abrogare quella opzione di base, ma esclusivamente articolarla in modo differente, il quesito assume invece un tratto propositivo, che ne determina l’inammissibilità.
7.– Il quesito è inammissibile anche a causa del difetto di univocità e di omogeneità.
Questa Corte, fin dalla sentenza n. 16 del 1978, ha ritenuto inammissibili «le richieste così formulate, che ciascun quesito da sottoporre al corpo elettorale contenga una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotto alla logica dell’art. 75 Cost.». In seguito, si è precisato che l’elettore non deve trovarsi nella condizione di «esprimere un voto bloccato su una pluralità di atti e di disposizioni diverse, con conseguente compressione della propria libertà di scelta», come può accadere specie quando il quesito raggiunge «interi testi legislativi complessi, o ampie porzioni di essi, comprendenti una pluralità di proposizioni normative eterogenee» (sentenza n. 12 del 2014; inoltre, ex plurimis, sentenze n. 6 del 2015, n. 25 del 2004, n. 47 del 1991, n. 65 e n. 64 del 1990, n. 28 del 1987 e n. 27 del 1981).
Va da sé che l’omogeneità del quesito non può dipendere esclusivamente dalla compresenza nel medesimo testo normativo, e persino nella medesima disposizione, di più norme. Quando esse abbiano un oggetto differente, l’elettore, infatti, potrebbe volere l’abrogazione di una soltanto di tali norme, ma non dell’altra, sicché chiamarlo a votare unitariamente su entrambe ne coarterebbe la libertà di voto.
Naturalmente non è sempre di immediata evidenza quando le norme prefigurino davvero ipotesi differenti, o quando esse piuttosto contribuiscano a definire una fattispecie razionalmente unitaria. In caso di dubbio indizi probanti possono trarsi dall’evoluzione normativa di un certo istituto, per verificare se le parti di cui esso si compone siano indissolubilmente legate da una comune volontà legislativa, o se, invece, esse rispondano a opzioni politiche non necessariamente unitarie, e anzi agevolmente distinguibili le une dalle altre. In quest’ultimo caso, del resto, il corpo elettorale non sarebbe investito della funzione, propria del referendum abrogativo, di rigettare un assetto di interessi voluto dal legislatore, ma si troverebbe piuttosto a ricombinarne di plurimi per dare vita a una nuova disciplina ispirata a scelte alternative, e dunque di carattere propositivo. Il requisito della omogeneità del quesito e l’inammissibilità di operazioni manipolative-propositive, in altri termini, sono aspetti di un’unica figura, determinata dalla funzione meramente abrogativa riservata dall’art. 75 Cost. al referendum.
8.– Come si è detto, il quesito referendario in questione unisce l’abrogazione integrale del d.lgs. n. 23 del 2015 all’abrogazione parziale dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. La prima normativa, a decorrere dalla sua entrata in vigore, regola i licenziamenti illegittimi con una disciplina che, rispetto a quella dell’art. 18, limita la tutela reale e ridimensiona quella indennitaria «soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio non elevata».
I promotori del referendum aggiungono che «si è di fronte al tentativo di ripristinare la facoltà datoriale di adottare il licenziamento ad nutum di codicistica memoria, scelta che il nostro ordinamento aveva definitivamente escluso sin dall’introduzione della legge 604 del 1966 e che avrà il solo inconveniente, per il datore di lavoro, di imporgli un minimo esborso aggiuntivo».
I due corpi normativi, oggetto dell’unico quesito referendario, anche se riguardano entrambi i licenziamenti individuali illegittimi, sono all’evidenza differenti, sia per i rapporti di lavoro ai quali si riferiscono (iniziati prima o dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015), sia per il regime sanzionatorio previsto. Le richieste abrogative che li riguardano sono perciò disomogenee e suscettibili di risposte diverse. L’elettore infatti ben potrebbe volere l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015, rifiutando le innovazioni, rispetto all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, contenute in tale decreto, senza però volere allo stesso tempo anche la radicale modificazione dell’art. 18, oggetto della richiesta abrogativa.
Del resto non è senza significato il fatto che gran parte dell’animato dibattito politico sul cosiddetto Jobs Act e sul d.lgs. n. 23 del 2015 è stato incentrato proprio sulla modificazione che veniva apportata alla disciplina dell’art. 18, senza mettere in questione anche il contenuto di questa disposizione.
9.– Sotto un altro aspetto deve rilevarsi che il quesito referendario accomuna l’effetto di estendere i casi di tutela reale, avuto riguardo alle forme di licenziamento illegittimo previste dall’ordinamento, con quello di ampliare l’ambito di operatività della tutela, perché la soggezione al meccanismo di reintegrazione dovrebbe riguardare qualunque datore di lavoro che occupi più di cinque dipendenti, anziché più di quindici, nell’unità produttiva o nel Comune, oppure complessivamente più di sessanta.
Appare chiaro che in tal modo vengono accorpate in un unico quesito determinazioni, proprie della discrezionalità legislativa, che possono rispondere ad apprezzamenti diversi. Un conto infatti è stabilire in quali ipotesi di licenziamento illegittimo e attraverso quali meccanismi può essere in linea astratta tutelato il lavoratore; altro conto è decidere a quale realtà, imprenditoriale o non imprenditoriale, essi vadano riservati. In questo senso è ben possibile forgiare strumenti di garanzia estremamente rigorosi, ma al contempo scegliere di renderli residuali attraverso un’applicazione circoscritta a talune categorie di datori di lavoro; oppure, al contrario, accordare la tutela reale a casi del tutto limitati quanto alle cause che la giustificano, ma che siano invece di applicazione generale.
Difatti gli interventi legislativi che il quesito referendario vorrebbe abrogare, tanto con riguardo alla legge n. 92 del 2012, che ha modificato l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, quanto con riferimento al d.lgs. n. 23 del 2015, se hanno indubbiamente manifestato uno sfavore crescente del legislatore nei confronti della tutela reale, riducendone i casi oggettivi di applicazione, non hanno però inciso restrittivamente sui requisiti soggettivi di carattere dimensionale previsti fin dal testo originario dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, e poi ulteriormente arricchiti dalla legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali). Segno questo che tale materia è stata reputata estranea alla ratio che ha sorretto invece le modifiche apportate all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, riguardo ai casi di reintegrazione, e ha conservato, nel disegno legislativo che il quesito referendario intende contrastare, una sua autonomia. Perciò, una volontà abrogativa avente ad oggetto le modifiche di cui si è detto non necessariamente collima con una parallela volontà relativa ai limiti dimensionali di applicazione della tutela reale.
Alla vicenda normativa appena ricordata, nella quale interventi finalizzati a contenere le ipotesi di tutela reale coesistono con la conferma dei requisiti soggettivi dimensionali del datore di lavoro, fanno eco le tornate referendarie degli anni 2000 e 2003, in occasione delle quali vennero distintamente sottoposti all’elettorato due diversi quesiti: quello ammesso dalla sentenza di questa Corte n. 46 del 2000, che si riproponeva di abrogare la tutela reale, e quello ammesso con la sentenza n. 41 del 2003, che invece intendeva abolire ogni limite numerico ai fini dell’applicazione di detta tutela.
Considerata la diversità dei quesiti, l’elettore in definitiva potrebbe desiderare che la reintegrazione torni a essere invocabile quale regola generale a fronte di un licenziamento illegittimo, ma resti confinata ai soli datori di lavoro che occupano più di quindici dipendenti in ciascuna unità produttiva o Comune, o ne impiegano complessivamente più di sessanta. Oppure potrebbe volere che quest’ultimo limite sia ridotto, ma che, anche per tale ragione, resti invece limitato l’impiego della tutela reale, da mantenere nei casi in cui è attualmente prevista.
Il fatto che invece il quesito referendario lo obblighi ad un voto bloccato su tematiche non sovrapponibili, proponendo l’abrogazione parziale anche dell’ottavo comma, e non soltanto dei commi primo, quarto, quinto, sesto e settimo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, comporta un’ulteriore ragione di inammissibilità.