Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 24-29 agosto 2016 e depositato in cancelleria il 30 agosto 2016 (registro ricorsi n. 52 del 2016), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 55, 65, 66, commi 1 e 2, 68, comma 1, 69, comma 2, e 71 della legge della Regione Veneto 27 giugno 2016, n. 18 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa in materia di politiche economiche, del turismo, della cultura, del lavoro, dell’agricoltura, della pesca, della caccia e dello sport), per violazione degli artt. 3, 23, 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione.
2.– Le norme impugnate modificano o aggiungono nuove disposizioni alle leggi regionali 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto), e 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio).
3.– L’art. 55 aggiunge il comma 1-ter all’art. 9 della legge regionale n. 19 del 1998 e dispone che la Regione può istituire, nelle acque non oggetto di concessione, «eventuali oneri ulteriori per i non residenti in Veneto mediante provvedimento della Giunta regionale».
Secondo il ricorrente, poiché la norma non specifica la natura degli eventuali oneri, rimette la determinazione degli stessi interamente ad un provvedimento amministrativo della Giunta regionale, in carenza di principi direttivi sufficientemente specifici e dettagliati, in violazione dell’art. 23 Cost.
Nell’ipotesi che detti oneri dovessero riguardare una tassa di concessione avente natura tributaria, si determinerebbe anche una violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., poiché la norma censurata attribuirebbe alla Giunta regionale il potere di imporre con proprio provvedimento amministrativo un tributo a carico dei soli cittadini «non residenti in Veneto», in contrasto con il carattere di generalità dell’imposizione fiscale.
4.– L’impugnato art. 65, che inserisce i commi 1-bis, 1-ter e 1-quinquies all’art. 14 della legge regionale n. 50 del 1993, consente a chi abbia optato per la forma di caccia da appostamento fisso di disporre di quindici giornate di caccia in forma vagante e viceversa, senza ulteriori obblighi se non quello di segnalare sul tesserino venatorio la giornata utilizzata.
Il ricorrente osserva che l’art. 12, comma 5, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), dispone che l’esercizio venatorio può essere praticato esclusivamente in una delle forme indicate dalla disposizione stessa, esprimendo un requisito minimo di salvaguardia ambientale, cui la legislazione regionale deve attenersi.
4.1.– L’impugnato art. 65 introduce anche il comma 1-quater all’art. 14 della legge regionale n. 50 del 1993, consentendo a chi abbia optato per l’insieme delle forme di attività venatoria definite dalla disposizione regionale la facoltà di esercitare la caccia nei confronti della fauna migratoria, per trenta giorni, in tutti gli ambiti territoriali.
Osserva il ricorrente che l’art. 14, commi 1 e 5, della legge n. 157 del 1992, invece, prevede che i cacciatori hanno diritto ad accedere agli altri ambiti territoriali di caccia della Regione in cui risiedono, previa domanda all’amministrazione competente.
La difformità rispetto alla legge statale si riflette, secondo il ricorrente, anche sulla disciplina delle sanzioni amministrative per chi esercita la caccia in forma diversa da quella prescelta, ai sensi dell’art. 31, comma 1, lettera a) e dell’art. 32, comma 4, della legge n. 157 del 1992.
5.– L’impugnato art. 66, commi l e 2, modifica l’art. 18 della legge regionale n. 50 del 1993 e dispone che le Province istituiscono le zone destinate all’allenamento e all’addestramento dei cani da caccia anche su fauna selvatica naturale o con l’abbattimento di fauna d’allevamento, appartenente alle specie cacciabili (comma 1). Dette attività possono svolgersi in tutto l’anno (1-bis).
Per il ricorrente, l’art. 10 della legge n. 157 del 1992, che detta uno standard inderogabile attinente alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, prevede l’obbligo delle Regioni di regolamentare il prelievo venatorio con i piani faunistico-venatori e non con legge-provvedimento, rispettando altresì gli indirizzi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), riguardo alla disciplina dei periodi di esercizio dell’attività venatoria.
L’impugnato art. 66 inciderebbe, inoltre, sulla normativa sanzionatoria di cui agli artt. 30, comma 1, lettera a), e 31, comma 1, lettera a), della legge n. 157 del 1992, per chi esercita la caccia in periodo di divieto generale.
Per il ricorrente la disposizione impugnata si pone in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 18, commi 1, 1-bis e 2, della legge n. 157 del 1992, che, in attuazione dell’art. 7 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici (versione codificata), 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE, definisce l’arco temporale in cui è consentito il prelievo venatorio.
6.– L’art. 68, comma 1, modifica il comma 5 dell’art. 24 della legge regionale n. 50 del 1993, che disciplina i comprensori alpini, quali associazioni senza fini di lucro aventi scopi di programmazione dell’esercizio venatorio e di gestione della fauna selvatica, estendendo ad essi i commi 5, 5-bis, 5-ter, 8, 9, 11 e 12 dell’art. 21, sugli organi degli ambiti territoriali di caccia. Il comitato direttivo dei comprensori alpini, a seguito della modifica introdotta dalla disposizione impugnata, è composto anche da «tre rappresentanti designati dalle strutture locali delle associazioni venatorie riconosciute a livello nazionale o regionale».
Il ricorrente rileva che, in base all’art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992, negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia deve essere assicurata la presenza paritaria delle associazioni venatorie con riferimento a quelle riconosciute a livello nazionale. La disposizione interposta esprimerebbe un requisito minimo di salvaguardia a tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).
7.– L’art. 69, comma 2, introduce il comma 3-bis nell’art. 20 della legge regionale n. 50 del 1993, ammettendo, tra l’altro, l’uso della barca a motore quale mezzo di trasporto per il recupero della fauna selvatica ferita o abbattuta. «Il recupero è consentito anche con l’ausilio del cane e del fucile, entro un raggio non superiore ai duecento metri dall’appostamento».
Secondo il ricorrente, tale norma si pone in contrasto con l’art. 12, commi 2 e 3, della legge n. 157 del 1992 che definisce esercizio venatorio ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l’impiego del fucile. Sarebbe violato altresì l’art. 21, comma 1, della medesima legge che vieta di cacciare «sparando da veicoli a motore o da natanti o da aeromobili».
La modifica introdotta dal legislatore regionale violerebbe anche l’art. 30, comma 1, lettera i), della legge n. 157 del 1992, che sanziona chi esercita la caccia sparando da autoveicoli, da natanti o da aeromobili.
8.– Infine, l’impugnato art. 71, che dispone misure per il contenimento del cormorano (Phalacrocorax carbo), si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 9 della richiamata direttiva 2009/147/CE, che definisce le condizioni per accedere alle deroghe previste per l’abbattimento di specie non cacciabili, secondo quanto stabilito anche dal parere motivato della Commissione europea sulla procedura di infrazione n. 2006/2131 (punto 32).
L’aver previsto piani di abbattimento del cormorano con legge-provvedimento, anziché con atto amministrativo, integrerebbe per il ricorrente altresì una lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in base all’art. 19-bis, comma 2, della legge n. 157 del 1992.
L’art. 71, inoltre, prevedendo ulteriori soggetti autorizzati al prelievo della fauna protetta, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, che contiene un elenco tassativo dei soggetti abilitati all’abbattimento.
9.– Si è costituita in giudizio la Regione Veneto, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.
Con riferimento all’art. 55, la Regione afferma che il principio della riserva di legge è rispettato anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione. Essi sarebbero ricavabili dalla lettera della legge e dal contesto normativo.
L’intervento del legislatore regionale si colloca all’interno di una complessiva regolamentazione dell’attività di pesca, offrendo il titolo al regolatore di introdurre specifici oneri in considerazione delle peculiarità di alcune specie o territori o corsi d’acqua, equiparando i residenti e i non residenti.
Riguardo alla violazione dell’art. 3 Cost., la censura sarebbe inammissibile, in quanto ipotetica, rappresentando uno «scenario presupposto indimostrato», ovvero che gli oneri di cui al comma l-ter dell’art. 9 della legge regionale n. 19 del 1998 abbiano natura tributaria.
Nel merito, tale motivo di ricorso sarebbe infondato, in quanto il principio di eguaglianza non impone in ambito tributario che tutti siano trattati in maniera indifferenziata. La ratio della norma, a parere della difesa regionale, è volta ad addossare a soggetti non radicati nel territorio un onere, onde riequilibrare gli effetti derivanti dall’attività posta in essere su di un territorio ad essi «estraneo», mediante un’attività che va a detrimento dei residenti.
9.1.– Con riferimento all’art. 65, la previsione di cumulare le forme di esercizio venatorio non introdurrebbe un regime di deroga indiscriminato e irragionevole, ma rappresenterebbe un’integrazione della disciplina statale, diluendo sul territorio le concentrazioni di cacciatori.
Con riferimento alla violazione dell’art. 31, comma l, lettera a), della legge n. 157 del 1992, che definisce le sanzioni amministrative per le violazioni delle disposizioni della legge in parola, non si ravviserebbe un’illegittima intrusione in un ambito sanzionatorio di competenza statale, bensì un’integrazione del precetto ammessa dal legislatore statale.
La violazione da parte del comma l-quater dell’art. 14 del principio della caccia programmata di cui all’art. 14, commi l e 5, della legge n. 157 del 1992, è per la resistente insussistente in quanto la norma si limita a disciplinare una forma di mobilità venatoria prevista dall’art. 14, comma 5, della legge n. 157 del 1992.
9.2.– L’addestramento e l’allenamento dei cani da caccia di cui all’art. 66, commi l e 2, non costituiscono attività venatoria e, dunque, ad essi non si possono applicare i limiti temporali relativi all’attività di caccia, ma occorre invece tenere conto delle sue peculiari modalità di svolgimento. Non si ravviserebbe, inoltre, nessun contrasto rispetto alla programmazione faunistico-venatoria e non sarebbe esautorata l’ISPRA nella sua attività di indirizzo.
Rispetto all’art. 18, commi l, l-bis e 2, della legge n. 157 del 1992, attuativo dell’art. 7 della direttiva n. 2009/147/CE, la censura sarebbe inammissibile, dal momento che la normativa statale fissa i limiti temporali unicamente per l’attività venatoria che non può essere identificata con l’attività di addestramento dei cani da caccia. Infondato appare, poi, il motivo di illegittimità per interferenza rispetto alla normativa sanzionatoria contenuta negli artt. 30, comma l, lettera a), e 31, comma l, lettera a), della legge n. 157 del 1992, poiché le fattispecie sanzionatorie fanno espresso riferimento all’esercizio della caccia che è cosa diversa dall’attività di addestramento alla caccia nell’ambito delle aree consentite e con le modalità prescritte dalla pianificazione faunistico-venatoria.
9.3.– La censura di cui all’art. 68, comma l, sarebbe manifestamente inammissibile per l’erronea individuazione della norma interposta, rappresentata dal comma 10 dell’art. 14 della legge n. 157 del 1992, che fa riferimento alle modalità di costituzione del comitato direttivo dei soli ambiti territoriali di caccia e non a quello dei comprensori alpini. Tuttavia, in assenza di una espressa disciplina statale che regoli le modalità di formazione degli organi dei comprensori alpini, nell’esercizio della discrezionalità legislativa riconosciuta alle Regioni in materia di caccia, la previsione che estende anche alle associazioni venatorie riconosciute a livello regionale la possibilità di essere rappresentate nei comitati direttivi dei comprensori alpini appare in armonia con l’art. 14, comma 10, della legge n. 157.
9.4.– La censura di cui all’art. 69, comma 2, appare alla resistente manifestamente inammissibile, in quanto oscura. Non sarebbe possibile equiparare la fattispecie dello sparare da veicoli a motore, natanti o aeromobili, all’uso di tali mezzi per raggiungere e ritornare dagli appostamenti di caccia.
9.5.– Infine, secondo la Regione, l’art. 71, non rappresenta una norma di legge-provvedimento diretta a introdurre una deroga ai sensi dell’art. 9 della direttiva 2009/147/CE, ma è una disposizione che organizza l’esercizio del potere di deroga in parola, nel rispetto della disciplina statale e dell’Unione europea.
Con riguardo all’estensione dell’elenco dei soggetti abilitati all’abbattimento dei cormorani, in violazione dell’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, il contrasto con la disciplina statale sarebbe superabile in quanto la legge regionale consente il prelievo ai soggetti indicati, solo ove autorizzati dalle Province e dalla Città metropolitana di Venezia.
10.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Governo ha depositato una memoria per insistere nel chiedere l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 55, 65, 66, commi 1 e 2, 68, comma 1, 69, comma 2, e 71 della legge della Regione Veneto 27 giugno 2016, n. 18 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa in materia di politiche economiche, del turismo, della cultura, del lavoro, dell’agricoltura, della pesca, della caccia e dello sport), per violazione degli artt. 3, 23, 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione.
2.– Le norme impugnate, ad eccezione dell’art. 71, modificano alcune disposizioni delle leggi regionali 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto), e 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio).
L’impugnato art. 55 deve ritenersi censurato esclusivamente con riferimento al comma 1, che aggiunge il comma 1-ter all’art. 9 della legge regionale n. 19 del 1998 e dispone che la Regione può stabilire, nelle acque non oggetto di concessione, «eventuali oneri ulteriori per i non residenti in Veneto mediante provvedimento della Giunta regionale».
Secondo il ricorrente, tale disposizione violerebbe: l’art. 23 Cost., poiché non specifica la natura di tali oneri e rimette la determinazione degli stessi ad un provvedimento amministrativo della Giunta regionale; l’art. 3 Cost., poiché, qualora detti oneri costituiscano una tassa di concessione, avente natura tributaria, sarebbe attribuito alla Giunta regionale il potere di imporre con provvedimento amministrativo un tributo a carico dei soli cittadini «non residenti in Veneto», in contrasto con il carattere di generalità dell’imposizione fiscale.
3.– Per economia di giudizio deve essere esaminata anzitutto la censura riferita all’art. 23 Cost., spettando a questa Corte di stabilire l’ordine delle questioni, eventualmente dichiarando assorbite le altre (ex multis, sentenza n. 107 del 2017).
3.1.– Con riferimento alla censura relativa all’art. 23 Cost., la questione è fondata.
3.2.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il carattere relativo della riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. permette di ritenere che spetta all’autorità amministrativa un ampio margine nella delimitazione della fattispecie impositiva e, tuttavia, resta ferma la necessità della fonte primaria, che non può essere relegata «sullo sfondo», né essere formulata quale prescrizione normativa «in bianco» (sentenza n. 83 del 2015; nello stesso senso, sentenza n. 69 del 2017). La norma primaria deve dunque stabilire, anche se non in dettaglio, i contenuti e i modi «dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini» (sentenze n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011).
La riserva di legge dell’art. 23 Cost. esige che la norma rechi la fissazione di «sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (sentenza n. 350 del 2007 e, nello stesso senso, sentenza n. 105 del 2003) e definisca chiaramente «la concreta entità della prestazione imposta» (ex plurimis, le richiamate sentenze n. 69 del 2017, n. 83 del 2015, n. 115 del 2011).
Tali principi non sono rispettati dalla disposizione regionale in esame, che contiene la sola previsione del potere attribuito alla Giunta regionale di stabilire, con proprio provvedimento, ulteriori oneri per i non residenti in Veneto. È dunque chiara l’indeterminatezza del contenuto della prestazione, ancora più in considerazione dell’impossibilità di desumere, anche implicitamente, i criteri direttivi che dovrebbero orientare la discrezionalità della Giunta regionale nell’attuazione della disposizione impugnata. Tale indeterminatezza, anche alla luce dei lavori preparatori, porta a ritenere che si tratti di una fattispecie impositiva. Da qui discende il contrasto della norma in esame con la riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost.
4.– Resta assorbita la censura riferita all’art. 3 Cost.
5.– Le altre disposizioni impugnate modificano o integrano la legge regionale n. 50 del 1993, in materia di caccia.
6.– Il censurato art. 65 inserisce i commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies all’art. 14 della legge regionale n. 50 del 1993. Il combinato disposto dei commi 1-bis, 1-ter e l-quinquies del richiamato art. 14 consente, a determinate condizioni indicate dalla disposizione stessa, che la caccia sia esercitata in altra forma rispetto a quella per cui si è previamente optato. Per questa ragione, secondo il ricorrente, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 12, comma 5, della legge 11 febbraio del 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), che non consente di cumulare le diverse forme di esercizio venatorio, nonché con la disciplina sanzionatoria disposta dagli artt. 31, comma 1, lettera a), e 32, comma 4.
6.1.– La questione è fondata.
La materia della caccia, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, rientra nella potestà legislativa residuale delle Regioni, tenute nondimeno a rispettare i criteri fissati dalla legge n. 157 del 1992, a salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema. Tale legge stabilisce il punto di equilibrio tra «il primario obiettivo dell’adeguata salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale» e «l’interesse […] all’esercizio dell’attività venatoria» (sentenza n. 4 del 2000); conseguentemente, i livelli di tutela da questa fissati non sono derogabili in peius dalla legislazione regionale (da ultimo, sentenze n. 139 e n. 74 del 2017).
L’art. 12 della legge n. 157 del 1992 dispone che la caccia può essere praticata in via esclusiva in una delle forme dalla stessa previste, al fine di preservare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili. In considerazione di tale ratio della norma statale, la legge regionale può intervenire su detto profilo della disciplina esclusivamente innalzando il livello della tutela (sentenze n. 139 del 2017 e n. 278 del 2012).
La disposizione impugnata, permettendo, sia pure limitatamente, una forma di attività venatoria diversa da quella per cui si è optato in via generale, viola dunque la norma interposta ed è costituzionalmente illegittima.
6.2.– L’impugnato art. 65 introduce anche il comma 1-quater nell’art. 14 della legge regionale n. 50 del 1993, che consente ai cacciatori, in presenza di dati requisiti, la facoltà di esercitare l’attività venatoria nei confronti della fauna migratoria, per trenta giorni, in tutti gli ambiti territoriali di caccia.
Secondo il ricorrente, la disposizione violerebbe l’art. 14, commi 1 e 5, della legge n. 157 del 1992, in virtù del quale ogni cacciatore, previa domanda all’amministrazione competente, può accedere ad un ambito territoriale di caccia o ad un comprensorio alpino della Regione in cui risiede; egli può, inoltre, accedere ad ambiti diversi soltanto previo consenso degli organi di gestione.
6.3.– La questione è fondata.
Questa Corte ha più volte affermato che, con l’art. 14 della legge n. 157 del 1992, il legislatore statale ha inteso circoscrivere il territorio di caccia, determinando, allo stesso tempo, «uno stretto vincolo tra il cacciatore ed il territorio» nel quale è autorizzato l’esercizio dell’attività venatoria. Tale norma statale mira, inoltre, a valorizzare il ruolo della comunità insediata in quel territorio, chiamata, attraverso gli organi direttivi degli ambiti, «a gestire le risorse faunistiche» (sentenze n. 142 del 2013 e n. 4 del 2000).
La ripartizione in ambiti territoriali di caccia di dimensione ridotta, desumibile dal complessivo quadro normativo, è necessaria al fine di permettere un’attività di controllo da parte dell’amministrazione competente che, ai sensi del richiamato art. 14, comma 3, verifica periodicamente l’adeguatezza del rapporto tra i cacciatori autorizzati e la porzione di territorio interessata. È in questo contesto che si colloca la norma statale, evocata a parametro interposto, che contempla una richiesta per accedere agli ambiti territoriali di caccia della Regione nei quali il cacciatore non è autorizzato ad esercitare l’attività venatoria.
Nella specie, la disposizione impugnata, stabilendo che l’attività venatoria nei confronti della fauna migratoria può essere svolta in ambiti di caccia diversi da quelli nei quali il soggetto è autorizzato ad accedere, senza prescrivere una richiesta preventiva all’amministrazione competente, non consente agli organi di gestione di avere contezza dei soggetti che effettivamente esercitano l’attività venatoria in quella porzione di territorio e, quindi, si pone in contrasto con la richiamata norma interposta, violando l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
7.– Il censurato art. 66, commi l e 2, modifica l’art. 18 della legge regionale n. 50 del 1993, sostituendo il comma l e introducendo il comma 1-bis. I nuovi commi dispongono che le Province istituiscono le zone destinate all’allenamento e all’addestramento dei cani da caccia anche su fauna selvatica naturale o con l’abbattimento di fauna d’allevamento appartenente alle specie cacciabili (comma 1) e che dette attività possono svolgersi durante tutto l’anno (comma 1-bis).
Secondo il ricorrente la disposizione violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 18, commi 1, 1-bis e 2, della legge n. 157 del 1992, che definisce i periodi in cui è consentito il prelievo venatorio, in attuazione dell’art. 7 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici (versione codificata) del 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE.
La disposizione impugnata violerebbe, altresì, l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.: in riferimento all’art. 10, comma 1, della legge n. 157 del 1992, che prevede l’obbligo delle Regioni di regolamentare il prelievo venatorio mediante i piani faunistico-venatori e non con atto legislativo; in riferimento al parere dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), che indica il periodo utile all’addestramento dei cani da caccia, sulla base dell’art. 7 della legge n. 157 del 1992, nell’ambito della sua funzione di indirizzo in materia (parere del 22 agosto 2012); in riferimento, infine, all’art. 30, comma 1, lettera a), e all’art. 31, comma 1, lettera a), della legge n. 157 del 1992, incidendo anche sulla normativa sanzionatoria per chi esercita la caccia nei periodi vietati.
7.1.– La questione avente ad oggetto la denunciata lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., da esaminare in linea preliminare, è fondata.
Questa Corte, nello scrutinare norme di leggi regionali che prevedevano l’arco temporale durante il quale svolgere l’addestramento e l’allenamento dei cani da caccia, ha costantemente affermato che gli artt. 10 e 18 della legge n. 157 del 1992 rimettono la definizione di tale arco temporale al piano faunistico-venatorio. Tali norme statali assicurano, così, le «garanzie procedimentali per un giusto equilibrio tra i vari interessi in gioco, da soddisfare anche attraverso l’acquisizione di pareri tecnici», con conseguente divieto per la Regione di ricorrere ad una legge-provvedimento (sentenza n. 139 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 193 del 2013).
La disciplina statale fissa una regola di tutela ambientale, violata dalla disposizione regionale impugnata che è, quindi, costituzionalmente illegittima.
7.2.– Restano assorbite le ulteriori censure.
8.– L’impugnato art. 68, comma 1, stabilisce: «[a]l comma 5 dell’articolo 24 della legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 le parole: “di cui ai commi 8, 9, 11 e 12 dell’articolo 21” sono sostituite con le parole: “di cui ai commi 5, 5-bis, 5-ter, 8, 9, 11 e 12 dell’articolo 21”».
L’art. 21 della legge regionale n. 50 del 1993 regola gli ambiti territoriali di caccia, quali strutture associative senza fini di lucro, aventi scopi di programmazione dell’esercizio venatorio e di gestione della fauna selvatica su un territorio delimitato dal piano faunistico-venatorio regionale. Con la disposizione censurata sono state estese all’art. 24 della legge regionale n. 50 del 1993 anche le norme relative alla composizione dei comitati di gestione, di cui ai commi 5, 5-bis e 5-ter, dell’art. 21.
8.1.– Ad avviso del ricorrente, la norma censurata, stabilendo che l’art. 21, comma 5, della legge regionale n. 50 del 1993 si applica anche ai comprensori alpini, comporta che il comitato direttivo degli stessi è nominato dalla Provincia, scegliendo i componenti «tra le tre associazioni riconosciute le più rappresentative a livello nazionale o regionale»; esso è composto da tre rappresentanti designati dalle strutture locali delle associazioni venatorie «riconosciute a livello nazionale o regionale», che vanno ad affiancarsi a tre rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole rappresentative a livello nazionale, e da due rappresentanti delle associazioni di protezione ambientale riconosciute a livello nazionale.
Secondo il ricorrente, detta disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in riferimento all’art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992, il quale stabilisce che negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia deve essere assicurata la presenza delle associazioni venatorie riconosciute a livello nazionale, recando un principio rappresentativo che si imporrebbe alla Regione.
8.2.– La preliminare eccezione di inammissibilità proposta dalla Regione Veneto, per erronea individuazione della norma interposta, non è fondata.
La disposizione regionale impugnata estende, infatti, la disciplina sulla rappresentanza nei comitati direttivi degli ambiti territoriali di caccia ai comprensori alpini. È dunque palese che la norma statale interposta è proprio l’art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992, che disciplina la rappresentanza dei comitati direttivi degli ambiti territoriali di caccia.
8.3.– Nel merito, la questione non è fondata.
La competenza legislativa residuale spettante alle Regioni in materia di caccia deve essere esercitata rispettando i livelli di tutela garantiti dalla legislazione statale fissati dalla legge n. 157 del 1992 (ex plurimis, sentenze n. 2 del 2015, n. 142 del 2013). Inoltre, questa Corte ha anche affermato che l’art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992 stabilisce uno standard inderogabile di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, con riferimento alla composizione degli organi direttivi (sentenze n. 124 del 2016, n. 268 del 2010 e n. 165 del 2009). Secondo tale disposizione, «negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia deve essere assicurata la presenza paritaria, in misura pari complessivamente al 60 per cento dei componenti, dei rappresentanti di strutture locali delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e delle associazioni venatorie nazionali riconosciute, ove presenti in forma organizzata sul territorio. Il 20 per cento dei componenti è costituito da rappresentanti di associazioni di protezione ambientale presenti nel Consiglio nazionale per l’ambiente e il 20 per cento da rappresentanti degli enti locali».
La disposizione statale mira a preservare la rappresentanza democratica delle categorie, espressione dei diversi interessi sottesi all’attività venatoria.
Il confronto della norma impugnata con quella interposta non evidenzia, tuttavia, il contrasto denunciato dal ricorrente. La prima di esse, nello stabilire i criteri di composizione del comitato direttivo dei comprensori alpini, ha infatti preservato la rappresentanza delle associazioni agricole, ambientaliste e venatorie, introducendo, quale unico elemento innovativo, la presenza negli stessi anche dei rappresentanti di associazioni venatorie riconosciute a livello regionale, mantenendo i medesimi requisiti richiesti dalla norma interposta quanto a profili organizzativi e istituzionali (art. 21, comma 5-bis, della legge n. 50 del 1993).
Detta previsione riposa, non irragionevolmente, sulla valorizzazione della particolarità dei comprensori alpini, a cui la stessa legge statale riserva peculiari forme di autonomia. L’art. 11 della legge n. 157 del 1992, nel disciplinare il regime venatorio nella zona delle Alpi, stabilisce infatti che le Regioni interessate, nel rispetto di tale legge, emanano «norme particolari al fine di proteggere la caratteristica fauna e disciplinare l’attività venatoria, tenute presenti le consuetudini e le tradizioni locali». Il legislatore statale ha dunque stabilito, in riferimento alla zona delle Alpi, una disciplina che permette di tenere conto delle peculiari caratteristiche del territorio e della specificità delle realtà locali e di valorizzare la prossimità dei cacciatori e delle associazioni rappresentative con il territorio.
Pertanto, la previsione della partecipazione ai comitati direttivi dei comprensori alpini di rappresentanti delle associazioni regionali, da un canto, costituisce attuazione del principio generale fissato dalla legge statale, il quale consente appunto che gli stessi siano oggetto di una regolamentazione specifica. Dall’altro, valorizza la necessità di una conoscenza specifica di tali territori e delle tradizioni e consuetudini locali, in quanto strumentali rispetto allo scopo di proteggere la fauna e di disciplinare l’attività venatoria, ferma ovviamente la verifica, nella fase applicativa, dell’idoneità delle associazioni regionali ad esprimere democraticamente l’indirizzo dei cacciatori iscritti alle medesime.
9.– Il censurato art. 69, comma 2, inserisce il comma 3-bis nell’art. 20 della legge regionale n. 50 del 1993, e dispone che è ammesso «l’uso della barca a motore quale mezzo di trasporto per raggiungere e ritornare dagli appostamenti di caccia. È altresì ammesso l’uso della barca per il recupero della fauna selvatica ferita o abbattuta. Il recupero è consentito anche con l’ausilio del cane e del fucile, entro un raggio non superiore ai duecento metri dall’appostamento».
Secondo il ricorrente, la disposizione viola l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 12, commi 2 e 3, della legge n. 157 del 1992, in virtù del quale costituisce esercizio venatorio ogni atto diretto all’abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l’impiego dei mezzi di cui al successivo art. 13. La disciplina statale prevede dunque che il recupero dei capi feriti con l’uso delle armi è considerato esercizio venatorio e ad esso sono applicabili i divieti e le garanzie proprie di tale attività; sarebbero quindi applicabili l’art. 21, comma 1, lettera i), della legge n. 157 del 1992, che vieta a chiunque di cacciare sparando da natanti, e l’art. 30, comma 1, lettera i), della legge richiamata, che prevede le relative misure sanzionatorie.
9.1.– La questione è fondata.
9.2.– Preliminarmente, va sottolineato che non è corretta la tesi della resistente, secondo cui non sarebbe possibile equiparare le fattispecie costituite, l’una, dallo sparare da veicoli a motore, natanti o aeromobili; l’altra, dall’uso di tali mezzi per raggiungere e ritornare dagli appostamenti di caccia.
Le sentenze di questa Corte n. 139 del 2017 e n. 2 del 2015 hanno, infatti, affermato che l’attività di recupero della fauna selvatica con l’utilizzo delle armi costituisce esercizio venatorio ed è perciò soggetta ai limiti e alle garanzie previste dalla legge statale n. 157 del 1992, la quale stabilisce un livello uniforme di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema
9.3.– La norma regionale in esame, permettendo il recupero della fauna abbattuta o ferita, utilizzando una barca e con l’ausilio del fucile, legittima l’esercizio venatorio mediante l’utilizzo di un natante. Pertanto, anche alla luce delle sentenze da ultimo richiamate, detta norma, limitatamente alla parte in cui stabilisce che «il recupero è consentito anche con l’ausilio […] del fucile», si pone in contrasto con lo standard di tutela fissato dall’art. 21, comma 1, lettera i), della legge n. 157 del 1992, il quale prescrive il divieto di cacciare servendosi di natanti, ed è dunque costituzionalmente illegittima.
10.– L’impugnato art. 71, infine, introduce misure per il contenimento del cormorano (Phalacrocorax carbo) indicando, altresì, i soggetti abilitati ad attuare i piani di abbattimento.
Secondo il ricorrente, detta disposizione violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 9 della direttiva 2009/147/CE, il quale prevede che le deroghe alla medesima direttiva devono menzionare «le condizioni di rischio e le circostanze di tempo e di luogo in cui esse possono essere applicate».
Infine, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 19-bis, comma 2, della legge n. 157 del 1992, secondo cui le deroghe possono essere disposte con atto amministrativo e non con atto legislativo delle Regioni e soltanto in assenza di altre soluzioni soddisfacenti, in via eccezionale e per periodi limitati.
10.1.– La questione, in riferimento alla denunciata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., da esaminare in linea preliminare, è fondata.
Questa Corte, nello scrutinare disposizioni di leggi regionali che prevedevano deroghe al divieto di cacciare specie protette, con legge-provvedimento anziché con atto amministrativo, le ha ritenute in contrasto con l’art. 19-bis della legge n. 157 del 1992 (sentenza n. 250 del 2008). In particolare, è stato sottolineato che l’autorizzazione ad abbattere specie protette in deroga, con legge regionale anziché con atto amministrativo, impedisce al Presidente del Consiglio dei ministri di esercitare il potere di annullamento di tali provvedimenti, adottati dalle Regioni, attribuitogli dalla norma statale. Detto potere, per costante giurisprudenza di questa Corte, è finalizzato a «garantire una uniforme e adeguata protezione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 250 del 2008).
Di qui la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
11.– Il citato art. 71, comma 4, è stato impugnato altresì nella parte in cui amplia l’elenco dei soggetti che possono attuare i piani di abbattimento.
Il vulnus all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ad avviso del ricorrente, si riscontra in riferimento all’art. 19, comma 2, della legge n. 157 del 1992, che contiene l’elenco dei soggetti che devono attuare il contenimento delle specie protette.
11.1.– La questione è fondata.
Questa Corte ha costantemente ritenuto che l’elenco contenuto nella disposizione statale, che identifica i soggetti abilitati all’attività di contenimento delle specie protette, ha carattere tassativo: una sua integrazione, da parte del legislatore regionale, riduce «il livello minimo e uniforme di tutela dell’ambiente» (sentenza n. 139 del 2017; nello stesso senso, ex multis, sentenza n. 107 del 2014).
Da ciò discende l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata.
12.– Restano assorbite le ulteriori censure.