Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato in data 22 settembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e a nome del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di cassazione, sezioni unite civili, in relazione alla sentenza 28 giugno 2013, n. 16305, con la quale è stato respinto il ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione, proposto dallo stesso Presidente del Consiglio avverso la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quarta, 18 novembre 2011, n. 6083.
Espone il ricorrente che l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (d’ora in avanti «UAAR»), associazione non riconosciuta, costituita con atto notarile nel 1991, aveva proposto ricorso avanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio chiedendo l’annullamento della delibera del Consiglio dei ministri del 27 novembre 2003, la quale, recependo il parere dell’Avvocatura generale dello Stato, decideva di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, ritenendo che la professione di ateismo non potesse essere assimilata ad una confessione religiosa.
Con sentenza 31 dicembre 2008, n. 12539, il TAR Lazio, sezione prima, dichiarava inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso proposto dall’UAAR avverso la deliberazione del Consiglio dei ministri, ritenendo che la determinazione impugnata abbia natura di atto politico «non giustiziabile» (ai sensi dell’art. 31 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, recante «Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato», ora art. 7, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, denominato «Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo»).
Il Consiglio di Stato, sezione quarta, con sentenza n. 6083 del 2011, riformando la decisione di primo grado, affermava, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo che la scelta relativa all’avvio delle trattative non abbia natura politica, ma presenti i tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi: da un lato, quello dell’associazione istante ad addivenire all’intesa, dall’altro, l’interesse pubblico alla selezione dei soggetti con cui avviare le trattative. Secondo il Consiglio di Stato, l’accertamento circa la riconduzione dell’organizzazione richiedente alla categoria delle “confessioni religiose” non sarebbe insindacabile, e quanto meno l’avvio delle trattative sarebbe obbligatorio qualora si pervenisse ad un giudizio di qualificabilità del soggetto istante come confessione religiosa, salva restando la facoltà del Governo di non stipulare l’intesa all’esito delle trattative ovvero di non tradurre in legge l’intesa medesima. Le parti venivano quindi rimesse avanti al primo giudice.
Avverso tale decisione, il Presidente del Consiglio dei ministri proponeva ricorso ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, della Costituzione, alle sezioni unite della Corte di cassazione, sostenendo che il rifiuto di avviare le trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. debba qualificarsi “atto politico”, come tale insindacabile.
Le sezioni unite della Corte di cassazione, con la ricordata sentenza n. 16305 del 2013 – che ha dato origine al presente conflitto – respingevano il ricorso, affermando che l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa costituisca esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione, come tale sindacabile in sede giurisdizionale.
Ponendo in relazione il primo comma dell’art. 8 Cost., che garantisce l’eguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge, con il successivo terzo comma, che assegna all’intesa la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni diverse da quella cattolica, la Corte di cassazione riteneva che la stipulazione dell’intesa sia volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose. Per tale ragione, assumeva che l’attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non possa essere rimessa all’assoluta discrezionalità del potere esecutivo, pena – appunto – il sacrificio dell’eguale libertà tra confessioni religiose. Pur non ritenendolo un argomento decisivo, la Corte di cassazione osservava, tra l’altro, che le intese «si stanno atteggiando, nel tempo, in guisa di normative “per adesione”, innaturalmente uniformandosi a modelli standardizzati». Ne conseguirebbe che il Governo avrebbe l’obbligo giuridico di avviare le trattative ex art. 8 Cost. per il solo fatto che una qualsiasi associazione lo richieda, e a prescindere dalle evenienze che si possano verificare nel prosieguo dell’iter legislativo.
Successivamente a tale pronuncia, il TAR Lazio, sezione prima, con sentenza 3 luglio 2014, n. 7068, respingeva nel merito il ricorso dell’UAAR, escludendo che la valutazione compiuta dal Governo in ordine al carattere non confessionale dell’Associazione ricorrente sia «manifestamente inattendibile o implausibile, risultando viceversa coerente con il significato che, nell’accezione comune, ha la religione».
Cionondimeno, il Presidente del Consiglio dei ministri, non condividendo i principi affermati dalle sezioni unite della Corte di cassazione e ritenendo che il rifiuto di avviare le trattative finalizzate alla stipulazione dell’intesa sia un atto politico, espressione della funzione di indirizzo politico che la Costituzione assegna al Governo in materia religiosa e, come tale, sottratto al sindacato giurisdizionale, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri nei confronti della Corte di cassazione.
In ordine all’ammissibilità del conflitto, il ricorrente sostiene che sarebbe pacifica la legittimazione soggettiva del Presidente del Consiglio dei ministri a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, ai sensi dell’art. 92, primo comma, Cost. Nel caso di specie, poiché il rifiuto all’avvio delle trattative sarebbe stato opposto dal Consiglio dei ministri, al quale – ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera l), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) – sono riservate le determinazioni sulle intese, ne conseguirebbe la qualificazione di potere dello Stato in capo al Consiglio dei ministri e al suo Presidente.
In ordine alla legittimazione passiva, le sezioni unite della Corte di cassazione sarebbero competenti a dichiarare la definitiva volontà del potere giudiziario, in considerazione dell’efficacia vincolante per tutti i giudici comuni, anche in altri processi, delle decisioni da essa assunte in ordine alla giurisdizione a seguito di ricorso ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, Cost.
Quanto al profilo oggettivo, il ricorrente osserva come la Corte di cassazione, con la sentenza n. 16305 del 2013, avrebbe illegittimamente esercitato il suo potere giurisdizionale, menomando la funzione di indirizzo politico che la Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma, 92 e 95 Cost.), funzione «assolutamente libera nel fine» e quindi «insuscettibile di controllo da parte dei giudici comuni».
Nel merito, il ricorrente osserva come non possa essere condivisa la conclusione delle sezioni unite in ordine alla doverosità dell’avvio delle trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost.
Tale ultima disposizione, infatti, costituirebbe norma sulle fonti, dal momento che le intese integrerebbero il presupposto per l’avvio del procedimento legislativo finalizzato all’approvazione della legge che regola i rapporti tra Stato e confessione religiosa, e pertanto parteciperebbero della stessa natura, di atto politico libero, delle successive fasi dell’iter legis. La dottrina avrebbe, altresì, chiarito che le intese, in quanto dirette all’approvazione di una legge, coinvolgerebbero la responsabilità politica del Governo, ma non la responsabilità dell’amministrazione.
In sostanza – sostiene il ricorrente – poiché l’omesso esercizio della facoltà di iniziativa legislativa in materia religiosa rientra tra le determinazioni politiche sottratte al controllo dei giudici comuni, così come il Governo è libero di non dare seguito alla stipulazione dell’intesa omettendo di esercitare l’iniziativa per l’approvazione della legge prevista dall’art. 8, terzo comma, Cost., a maggior ragione dovrebbe essere libero, nell’esercizio delle sue valutazioni politiche, di non avviare alcuna trattativa. Ancora, si osserva che se il Governo può recedere dalle trattative o comunque è libero, pur dopo aver stipulato l’intesa, di non esercitare l’iniziativa legislativa per il recepimento dell’intesa con legge, ciò significa che il preteso “diritto” all’apertura delle trattative è, in realtà, un «interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione giuridica».
Tale conclusione troverebbe conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 2002, ove si afferma che il Governo non è vincolato a norme specifiche per quanto riguarda l’obbligo di negoziare e stipulare l’intesa. È menzionata anche la sentenza di questa Corte n. 81 del 2012, che avrebbe riconosciuto l’esistenza di spazi riservati alla scelta politica.
Infine, il ricorrente afferma che il rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative per la conclusione dell’intesa sarebbe espressione della fondamentale funzione di direzione ed indirizzo politico del Governo. «[A]bnorme», pertanto, sarebbe la sentenza del giudice amministrativo che annullasse il diniego di avvio delle trattative, imponendo al Governo di riesaminare la questione o di concludere l’intesa con un determinato soggetto.
Conseguentemente, è chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare che non spetta alla Corte di cassazione, sezioni unite civili, affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.
2.– Il conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 40 del 2015.
3.– È intervenuta in giudizio, in data 14 aprile 2015, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR), chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.
L’UAAR premette di essere legittimata ad intervenire, poiché l’esito del giudizio costituzionale potrebbe compromettere definitivamente l’azione proposta innanzi al giudice amministrativo. L’interveniente – parte del giudizio definito con la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione – è ora ricorrente di fronte al Consiglio di stato, presso il quale ha appellato la sentenza del TAR Lazio n. 7068 del 2014.
L’interveniente, anzitutto, eccepisce l’inammissibilità del ricorso, poiché diretto a far valere un mero error in iudicando da parte del giudice ordinario. La Corte di cassazione avrebbe, infatti, risolto una questione di giurisdizione, e tale competenza sarebbe fatta espressamente salva dall’art. 37, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), secondo il quale «[r]estano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione». Il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe quindi volto a trasformare il conflitto tra poteri in un mezzo di gravame atipico avverso le pronunce giudiziarie (viene ricordato quanto deciso da questa Corte, in un caso asseritamente analogo, con sentenza n. 81 del 2012).
Nel merito, a sostegno dell’infondatezza del ricorso, l’UAAR osserva che i parametri costituzionali indicati dal ricorrente (artt. 7, 8, 92 e 95 Cost.) non fonderebbero alcuna competenza costituzionale del Governo attinente alla decisione di stipulare l’intesa: l’art. 7 Cost. riguarderebbe i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica; l’art. 8 Cost. non assegnerebbe al Governo la prerogativa di stipulare l’intesa, in quanto è solo la legge ordinaria – in particolare l’art. 2, comma 3, lettera l), della legge n. 400 del 1988 – ad attribuire tale competenza al Consiglio dei ministri (è ricordato, peraltro, che, in precedenza, essa spettava al Ministro dell’interno); l’art. 92 Cost. regolerebbe solo il procedimento di formazione del Governo; l’art. 95 Cost., infine, sancirebbe il principio di responsabilità del Presidente e del Consiglio dei ministri, responsabilità che è anche di tipo giuridico.
L’UAAR ritiene, piuttosto, che «il problema della impugnabilità degli atti relativi alle trattative per l’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. vada riguardato muovendo dalla verifica della sussistenza − naturalmente in chiave di mera prospettazione − di una situazione giuridica soggettiva in capo alla confessione istante». L’art. 8, terzo comma, Cost. non avrebbe soltanto il significato di negare allo Stato la possibilità di introdurre una disciplina unilaterale, ma avrebbe anche la funzione di dare riconoscimento alla pretesa di una confessione di minoranza di concludere con lo Stato un’intesa, o almeno di avviare le trattative, allo scopo di conseguire una condizione di “eguale libertà” con le altre confessioni di analoga natura. Ricordando che il principio di laicità dello Stato ha, quali corollari, l’equidistanza e l’imparzialità verso tutte le confessioni, l’UAAR assume che da ciò derivi, logicamente, che gli organi statali sono tenuti a prendere in considerazione le richieste di intesa provenienti da soggetti legittimati, e a non discriminare le confessioni nell’accesso ai benefici connessi con la stipulazione di un’intesa.
La qualificazione della pretesa di una confessione religiosa di negoziare un’intesa con lo Stato in termini di posizione soggettiva protetta sarebbe inoltre confermata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, in più occasioni, avrebbe riconosciuto come interesse tutelato dagli artt. 9, 11 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, l’aspirazione della confessione religiosa a concludere accordi con lo Stato per accedere ad uno status più favorevole, ed avrebbe chiarito come la garanzia di un’equa opportunità nell’accesso al regime privilegiato da parte di confessioni di minoranza rappresenti una condizione necessaria per la legittimità convenzionale di regimi paraconcordatari analoghi a quello italiano.
Una volta riconosciuto che la confessione religiosa è titolare della pretesa di addivenire all’intesa, tale pretesa deve essere inderogabilmente assicurata in sede giurisdizionale ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., e degli artt. 6 e 13 della CEDU.
La difesa dell’UAAR aggiunge che appare dubbia la stessa sussistenza, nell’attuale ordinamento costituzionale, di atti dell’esecutivo del tutto immuni da ogni sindacato giurisdizionale, mentre, invece, possono esservi spazi di discrezionalità riservati al potere politico e come tali non sindacabili (viene ricordata, sul punto, la sentenza di questa Corte n. 81 del 2012). Seguendo questa impostazione, la questione dovrebbe consistere nel verificare se le censure svolte nel ricorso dell’UAAR innanzi al giudice amministrativo avessero denunciato la violazione di norme giuridiche ovvero avessero preteso di sindacare una discrezionalità politica. Ma tale valutazione, riguardando un problema di mera interpretazione di parametri di legittimità, non dovrebbe essere sindacabile in un conflitto tra poteri.
In ogni caso, di fronte al giudice amministrativo sarebbero stati dedotti solo profili di legittimità, tra i quali – per quanto qui in particolare rileva – la valutazione preliminare compiuta dal Consiglio dei ministri in ordine all’idoneità dell’UAAR ad essere qualificata come “confessione religiosa” ai sensi dell’art. 8 Cost., valutazione che sarebbe priva di qualsiasi politicità, trattandosi di un giudizio che sia l’amministrazione, sia i giudici, sono chiamati ad operare ai più diversi fini.
Né, infine, gli atti impugnati dall’UAAR in sede giurisdizionale potrebbero essere qualificati “atti politici” ai sensi dell’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 104 del 2010, difettando sia il requisito soggettivo, poiché la competenza ad assumere la decisione non è attribuita al Governo dalla Costituzione, ma dalla legge ordinaria; sia il requisito oggettivo, in quanto la determinazione del Consiglio dei ministri non avrebbe attinenza con la direzione suprema e generale dello Stato, ma con la sola «cura concreta dell’interesse religioso delle minoranze confessionali, tramite la conclusione di negozi di diritto pubblico».
Contesta, infine, la difesa dell’UAAR che la decisione di non avviare le trattative partecipi della natura di atto politico proprio della legge di approvazione dell’intesa: l’intesa rimane esterna al procedimento legislativo, in quanto precede la relativa iniziativa, e in quanto sopravvive al procedimento legislativo e alla stessa legislatura. Per questa ragione la giurisdizione comune dovrebbe arrestarsi a partire dall’iniziativa legislativa, ma non prima.
Né sarebbe convincente osservare che il Governo può comunque astenersi dall’esercitare l’iniziativa legislativa, poiché quest’ultima non è “riservata” a tale organo, come dimostrano alcuni progetti di legge di iniziativa parlamentare, avviati sulla base di intese.
4.– In data 12 maggio 2015 la difesa dell’UAAR ha depositato ulteriore memoria, ove ribadisce le conclusioni già formulate.
In particolare, essa contesta l’argomento – addotto dal ricorrente – secondo cui vi sarebbe la necessità di preservare la libertà della «politica ecclesiastica» del Governo: tale nozione sembrerebbe fondarsi sull’idea che il Governo sia libero di favorire questo o quel culto secondo contingenti ed insindacabili ragioni di opportunità politica, mentre – come già argomentato nella prima memoria – il sistema dei rapporti tra Stato e confessioni religiose si fonda sull’imperativo di laicità dello Stato, da cui deriva la necessaria equidistanza e imparzialità dello stesso verso tutte le religioni. Né basterebbe che dei criteri di selezione degli interlocutori il Governo risponda sul piano della responsabilità politica, poiché qui vengono in gioco i diritti delle minoranze confessionali, «rispetto alle quali i meccanismi della rappresentanza e della responsabilità politica, connotati dalla logica maggioritaria, non costituiscono, per definizione, uno strumento di tutela effettivo».
In secondo luogo, la difesa dell’UAAR insiste nell’escludere che l’intesa con le confessioni religiose, atto presupposto del procedimento legislativo che segue, assorba da quest’ultimo una dimensione politica che non le spetta. Afferma di non condividere l’argomento secondo cui, se il Governo è libero di non concludere l’intesa e di non esercitare l’iniziativa legislativa, non potrebbe neppure esservi una pretesa giustiziabile in capo alla confessione istante ad ottenere l’avvio delle trattative. I due piani – a suo avviso – andrebbero tenuti distinti: non sarebbe, cioè, corretto estendere il trattamento tipico della legge (e dell’iniziativa legislativa) ad un atto che si colloca a monte dell’iniziativa legislativa stessa e che rimane imputabile all’esecutivo.
5.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, in data 31 dicembre 2015, la difesa dell’UAAR ha ancora depositato memoria, insistendo per il rigetto del conflitto.
Dopo aver ribadito l’eccezione di inammissibilità del conflitto, in quanto volto a lamentare un error in iudicando delle sezioni unite della Corte di cassazione, l’interveniente sottolinea che l’UAAR ha contestato di fronte al giudice amministrativo la mancata qualificazione della richiedente come confessione religiosa, e che tale potere del Governo non può essere ricondotto all’esercizio di una funzione di indirizzo politico.
La difesa dell’UAAR ricorda come l’art. 7 del d.lgs. n. 104 del 2010, interpretato alla luce dell’art. 113 Cost., sottragga al controllo giurisdizionale non atti, ma «i soli profili specificamente politici contenuti in atti che rimangono comunque impugnabili». Una contraria lettura di tale disposizione sarebbe lesiva degli artt. 24 e 113 Cost., oltre che dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6 e 13 della CEDU. La tesi che sostiene l’insindacabilità degli atti politici si porrebbe dunque in frontale contrasto con le acquisizioni del diritto costituzionale europeo e del particolare contributo dato ad esso dalla Costituzione italiana e dalla stessa Corte costituzionale (è ricordata, sul punto, la sentenza di questa Corte n. 238 del 2014).
L’interveniente aggiunge che una valutazione politica sull’intesa spetterebbe semmai alle Camere, in sede di approvazione della legge ex art. 8, comma terzo, Cost., e non al Governo.
Infine, oltre a ribadire che l’intesa sta fuori dal procedimento legislativo e non può partecipare della natura “politica” della legge, la difesa dell’UAAR conclude osservando che, in linea generale, lo stesso esercizio della funzione legislativa, come non esclude la permanenza di situazioni soggettive, così non esclude l’azionabilità di una loro tutela giurisdizionale.
6.– In data 5 gennaio 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, insistendo per l’accoglimento del ricorso e svolgendo osservazioni in ordine alle argomentazioni dell’interveniente UAAR.
Il ricorrente osserva, anzitutto, che non vi sarebbero problemi di ammissibilità del conflitto, in quanto il ricorso – pur rivolto avverso una pronuncia giudiziaria – è preordinato a contestare la sussistenza in radice del potere giurisdizionale. Il Governo, inoltre, prima di ricorrere alla Corte costituzionale, ha esaurito i rimedi giurisdizionali comuni.
Nel merito, esso ribadisce che il rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. rientrerebbe nel novero degli atti politici, in quanto espressione della fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico, assegnata al Governo ai sensi degli artt. 7, secondo comma, 8, terzo comma, 94, primo comma, e 95, primo comma, Cost. Inoltre, poiché le trattative per la stipulazione delle intese non sono normativamente disciplinate, non vi sarebbe un parametro o vincolo legislativo idoneo a circoscrivere e/o limitare le valutazioni in materia dell’esecutivo. Tale assunto sarebbe confermato da quanto stabilito da questa Corte nella sentenza n. 346 del 2002.
In secondo luogo, il ricorrente osserva che, posto che la legge di approvazione delle intese dovrebbe avere «identità di contenuti» con queste ultime, il procedimento finalizzato alla stipulazione dell’intesa non potrebbe che partecipare della natura di «atto politico libero» propria della legge.
D’altro canto – osserva il ricorrente – la legge sulle intese è annoverata, non a caso, nella categoria delle cosiddette leggi rinforzate, e ciò ulteriormente confermerebbe che il sub-procedimento di intesa (nel quale sono incluse anche le trattative) costituisce parte integrante dell’iter formativo della legge, alla cui approvazione esso è preordinato. Tale conclusione sarebbe ulteriormente rafforzata dalla circostanza che le intese possono dare vita a normative «differenziate», per le quali si impongono «valutazioni di opportunità politica».
In terzo luogo, argomenta la difesa del ricorrente come dall’art. 8 Cost. non possa dedursi un “diritto” delle confessioni religiose all’avvio delle trattative, né un corrispondente diritto potrebbe venire ricavato dalla CEDU, le cui disposizioni avrebbero «il rango di legge ordinaria» e dovrebbero perciò recedere davanti alle previsioni costituzionali (le sole, in base alle quali risolvere il conflitto).
Infine, sarebbe irrilevante, ai fini della risoluzione del conflitto, una questione di legittimità costituzionale – asseritamente prospettata dall’interveniente – vertente sull’art. 7, comma 1, ultimo periodo, del d.lgs. n. 104 del 2010, posto che l’insindacabilità della decisione del Governo discenderebbe dalle più volte ricordate disposizioni costituzionali, di cui il citato art. 7 sarebbe mera attuazione.
Considerato in diritto
1.– Il ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato è proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, in proprio e a nome del Consiglio dei ministri, contro la Corte di cassazione, sezioni unite civili, in relazione alla sentenza 28 giugno 2013, n. 16305, con la quale è stato respinto il ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione proposto dallo stesso Presidente del Consiglio avverso la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quarta, 18 novembre 2011, n. 6083.
Nel ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione, il Presidente del Consiglio aveva lamentato il difetto assoluto di giurisdizione e la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), in relazione alla delibera attraverso la quale il Consiglio dei ministri, in data 27 novembre 2003, decideva di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, con l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (d’ora in avanti «UAAR»), ritenendo che la professione di ateismo, affermata dall’associazione in questione, non consenta la sua assimilazione ad una confessione religiosa.
La Corte di cassazione, rigettando il ricorso, affermava che l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa costituisce esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione, come tale sindacabile in sede giurisdizionale. Ponendo in relazione il primo comma dell’art. 8 Cost., che garantisce l’eguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge, con il successivo terzo comma, che assegna all’intesa la regolazione dei rapporti tra Stato e confessioni diverse da quella cattolica, la Corte di cassazione riteneva che la stipulazione dell’intesa sia volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose. Per tale ragione, assumeva che l’attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non possa essere rimessa all’assoluta discrezionalità del potere esecutivo, pena – appunto – il sacrificio dell’eguale libertà tra confessioni religiose. Pur non ritenendolo un argomento decisivo, la Corte di cassazione osservava, tra l’altro, che le intese «si stanno atteggiando, nel tempo, in guisa di normative “per adesione”, innaturalmente uniformandosi a modelli standardizzati». Ne conseguirebbe che il Governo avrebbe l’obbligo giuridico di avviare le trattative ex art. 8 Cost. per il solo fatto che un’associazione lo richieda, e a prescindere dalle evenienze che si possano verificare nel prosieguo dell’iter legislativo.
Il ricorrente, nell’articolare le proprie censure nei confronti della pronuncia del giudice di legittimità, sostiene che essa avrebbe menomato la funzione d’indirizzo politico, che la Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma, 92 e 95 Cost.), funzione «assolutamente libera nel fine» e quindi «insuscettibile di controllo da parte dei giudici comuni».
Rileva, in particolare, come non possa in alcun modo sostenersi la tesi della doverosità dell’avvio delle trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. Tale ultima disposizione, infatti, costituirebbe norma sulle fonti, dal momento che le intese integrerebbero il presupposto per l’avvio del procedimento legislativo finalizzato all’approvazione della legge che regola i rapporti tra Stato e confessione religiosa, e pertanto parteciperebbero della stessa natura, di atto politico libero, delle successive fasi dell’iter legis. Le intese, in quanto dirette all’approvazione di una legge, coinvolgerebbero la responsabilità politica del Governo, ma non la responsabilità dell’amministrazione.
In sostanza – sostiene il ricorrente – poiché l’omesso esercizio della facoltà di iniziativa legislativa in materia religiosa rientra tra le determinazioni politiche sottratte al controllo dei giudici comuni, così come il Governo è libero di non dare seguito alla stipulazione dell’intesa, omettendo di esercitare l’iniziativa per l’approvazione della legge prevista dall’art. 8, terzo comma, Cost., a maggior ragione dovrebbe essere libero, nell’esercizio delle sue valutazioni politiche, di non avviare alcuna trattativa. Ancora, si osserva che se il Governo può recedere dalle trattative o comunque è libero, pur dopo aver stipulato l’intesa, di non esercitare l’iniziativa legislativa per il recepimento dell’intesa con legge, ciò significa che il preteso “diritto” all’apertura delle trattative è, in realtà, un «interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione giuridica».
Conseguentemente, è chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare che non spetta alla Corte di cassazione, sezioni unite civili, affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.
2.– In via preliminare, deve essere dichiarato ammissibile l’intervento, spiegato nel presente giudizio, dall’UAAR, parte resistente nel giudizio in cui è stata resa l’impugnata sentenza della Corte di cassazione.
Nei giudizi per conflitto di attribuzione non è, di norma, ammesso l’intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi. Tale regola, tuttavia, non opera quando la pronuncia resa nel giudizio costituzionale potrebbe precludere la tutela giudiziaria della situazione giuridica soggettiva vantata dall’interveniente, senza che gli sia data la possibilità di far valere le proprie ragioni (da ultimo, sentenze n. 144 del 2015, n. 222 e n. 221 del 2014, pronunciate in conflitti fra poteri dello Stato, e sentenze n. 107 del 2015, n. 279 del 2008, n. 195 del 2007 e n. 386 del 2005, rese in conflitti tra enti). Tale è la situazione dell’UAAR nel giudizio in esame, poiché l’accoglimento del ricorso impedirebbe all’interveniente di giovarsi di una pronuncia giudiziaria, al fine di ottenere l’apertura delle trattative preordinate alla stipulazione di un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.
3.– Va confermata, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 40 del 2015 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
3.1.– Con riguardo al profilo soggettivo, deve essere ribadita la legittimazione a proporre il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, sia in proprio, sia in rappresentanza del Consiglio dei ministri.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è l’organo competente a dichiarare la volontà del Governo: il potere esecutivo, infatti, non è un “potere diffuso”, ma si concentra nell’intero Governo, in nome dell’unità di indirizzo politico e amministrativo affermata dall’art. 95, primo comma, Cost. (sentenza n. 69 del 2009 e ordinanze n. 221 del 2004 e n. 123 del 1979). E le determinazioni concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 Cost. sono espressamente assegnate al Consiglio dei ministri dall’art. 2, comma 3, lettera l), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), ovvero proprio dalla legge che dà attuazione all’art. 95 Cost., definendo l’organizzazione e le attribuzioni del Governo.
Nel conflitto in esame, va riconosciuta la legittimazione attiva anche del Presidente del Consiglio dei ministri in proprio, poiché nel procedimento di stipulazione delle intese – e in particolare nella fase iniziale di cui qui si discute, quando cioè si tratta di individuare l’interlocutore e avviare le trattative – la Presidenza del Consiglio assume autonomo rilievo, come è stabilito nell’art. 2, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303 (Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), in cui si afferma che il Presidente del Consiglio si avvale della Presidenza del Consiglio nei rapporti tra il Governo e le confessioni religiose ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost., e come è confermato dalla prassi.
Non sussistono dubbi nemmeno sulla legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato, a fronte della costante giurisprudenza di questa Corte, che tale legittimazione riconosce ai singoli organi giurisdizionali in quanto competenti, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle relative funzioni, la volontà del potere cui appartengono (ex multis, con specifico riferimento alla legittimazione della Corte di cassazione, sentenze n. 29 e n. 24 del 2014, n. 320 del 2013 e n. 333 del 2011).
3.2.– L’ammissibilità del conflitto deve essere confermata anche sotto il profilo oggettivo, in quanto il ricorso, per quanto promosso avverso una decisione giudiziaria, non lamenta un error in iudicando (sentenza n. 81 del 2012), ma prospetta un conflitto «per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» (art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953). Infatti, il ricorrente non chiede a questa Corte di riesaminare la decisione con la quale la Corte di cassazione ha risolto un conflitto di giurisdizione attraverso l’interpretazione di fonti primarie. Se questa fosse la richiesta, ne conseguirebbe l’inammissibilità del conflitto, non potendo quest’ultimo istituto trasformarsi in un improprio mezzo d’impugnazione di decisioni giudiziarie (sentenza n. 259 del 2009 e ordinanza n. 117 del 2006). Il ricorrente contesta, invece, l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei propri confronti (sentenze n. 88 del 2012, n. 195 del 2007 e n. 276 del 2003) e, dunque, lamenta il superamento, per mezzo della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, dei limiti che tale potere incontra nell’ordinamento, a garanzia delle attribuzioni costituzionali del Governo.
Né rileva che oggetto del ricorso per conflitto sia una sentenza resa in un giudizio volto a dirimere una questione di giurisdizione ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, Cost., come eccepito dalla parte interveniente, ad avviso della quale le questioni di giurisdizione non potrebbero mai essere oggetto di un conflitto costituzionale. È ben vero che, nel disciplinare l’istituto del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, l’art. 37, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 precisa che «[r]estano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione»; ma la disposizione da ultimo citata è appunto preordinata soltanto ad assicurare la persistenza, nell’ordinamento, della competenza della Corte di cassazione a dirimere i conflitti di giurisdizione, non, invece, ad escludere che la Corte costituzionale possa essere chiamata a decidere un conflitto tra poteri, quando il vizio denunciato sia comunque destinato a ripercuotersi sulla corretta delimitazione di attribuzioni costituzionali. Del resto, regolamento di giurisdizione e ricorso per conflitto tra poteri sono due rimedi distinti, operanti su piani diversi. Da un lato, non si può escludere che essi siano attivati entrambi, di fronte ad una pronuncia giudiziaria alla quale siano contemporaneamente imputabili l’erronea applicazione delle norme sulla giurisdizione e l’invasività in sfere d’attribuzione costituzionale (sentenze n. 259 del 2009 e n. 150 del 1981); dall’altro, ben può accadere che oggetto del ricorso, come in questo caso, sia proprio una pronuncia della Corte di cassazione, resa in sede di regolamento di giurisdizione ex art. 111, ultimo comma, Cost.
Non è, pertanto, fondata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, prospettata dalla parte interveniente.
4.– Il ricorrente chiede che questa Corte, decidendo il conflitto, stabilisca che non spetta alla Corte di cassazione affermare la sindacabilità da parte dei giudici comuni del diniego, opposto dal Consiglio dei ministri, alla richiesta del soggetto interveniente di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.
Le opposte tesi che questa Corte è chiamata a valutare possono così riassumersi: da una parte, si ritiene che il diniego di avvio delle trattative, opposto dal Governo alla richiesta di un’associazione, non potrebbe essere oggetto di sindacato in sede giudiziaria, a pena della lesione della sfera di attribuzioni costituzionali dello stesso Governo, definite dagli artt. 8, terzo comma, e 95 Cost.; dall’altra, si ritiene invece che tale sindacabilità dovrebbe essere affermata, poiché l’azionabilità della pretesa giuridica all’avvio delle trattative stesse sarebbe corollario dell’eguale libertà di cui godono, ai sensi dell’art. 8, primo comma, Cost., tutte le confessioni religiose, e servirebbe a impedire che un’assoluta discrezionalità governativa in materia dia luogo ad arbitrarie discriminazioni.
Quanto all’esistenza di una situazione giuridica soggettiva, in ipotesi tutelata dall’ordinamento, consistente nella pretesa alla conclusione delle trattative o, addirittura, alla presentazione del disegno di legge sulla base dell’intesa stipulata, il ricorrente la contesta in radice; mentre l’interveniente ritiene che – con riferimento al procedimento per la stipulazione dell’intesa – la giurisdizione del giudice comune dovrebbe arrestarsi a partire dal momento in cui l’iniziativa legislativa sulla base dell’intesa sia esercitata, ma non prima: non escludendo, così, la configurabilità della pretesa soggettiva ora in questione, e di un sindacato del giudice su di essa. La sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, dalla quale origina il conflitto, afferma di non doversi pronunciare, nella risoluzione del regolamento di giurisdizione, sull’esistenza di un «diritto alla chiusura della trattativa», o all’esercizio dell’iniziativa legislativa successiva all’eventuale stipulazione dell’intesa.
Questa Corte ritiene, invece, che, per la soluzione del conflitto, pur delimitato nei termini anzidetti, non siano secondarie considerazioni in ordine all’effettiva configurabilità di una pretesa giustiziabile alla conclusione delle trattative, mentre restano estranee all’oggetto del conflitto valutazioni sugli adempimenti governativi successivi alla conclusione dell’intesa stessa, e sulle caratteristiche del procedimento che, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost., conduce all’approvazione della legge destinata, sulla base dell’intesa, a regolare i rapporti tra lo Stato e la confessione non cattolica.
5.– Il ricorso è fondato, nei sensi di seguito precisati.
5.1.– La soluzione del presente conflitto non può prescindere da considerazioni attinenti alla natura e al significato che, nel nostro ordinamento costituzionale, assume l’intesa per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.
Il significato della disposizione costituzionale consiste nell’estensione, alle confessioni non cattoliche, del “metodo della bilateralità”, in vista dell’elaborazione della disciplina di ambiti collegati ai caratteri peculiari delle singole confessioni religiose (sentenza n. 346 del 2002). Le intese sono perciò volte a riconoscere le esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del 1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa. Tale significato dell’intesa, cioè il suo essere finalizzata al riconoscimento di esigenze peculiari del gruppo religioso, deve restare fermo, a prescindere dal fatto che la prassi mostri una tendenza alla uniformità dei contenuti delle intese effettivamente stipulate, contenuti che continuano tuttavia a dipendere, in ultima analisi, dalla volontà delle parti.
Ciò che la Costituzione ha inteso evitare è l’introduzione unilaterale di una speciale e derogatoria regolazione dei rapporti tra lo Stato e la singola confessione religiosa, sul presupposto che la stessa unilateralità possa essere fonte di discriminazione: per questa fondamentale ragione, gli specifici rapporti tra lo Stato e ciascuna singola confessione devono essere retti da una legge «sulla base di intese».
È essenziale sottolineare, nel solco della giurisprudenza di questa Corte, che, nel sistema costituzionale, le intese non sono una condizione imposta dai pubblici poteri allo scopo di consentire alle confessioni religiose di usufruire della libertà di organizzazione e di azione, o di giovarsi dell’applicazione delle norme, loro destinate, nei diversi settori dell’ordinamento. A prescindere dalla stipulazione di intese, l’eguale libertà di organizzazione e di azione è garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell’art. 8 Cost. (sentenza n. 43 del 1988) e dall’art. 19 Cost, che tutela l’esercizio della libertà religiosa anche in forma associata. La giurisprudenza di questa Corte è anzi costante nell’affermare che il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Allo stato attuale del diritto positivo, non risultano perciò corretti alcuni assunti dai quali muovono sia la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione che ha dato origine al presente conflitto, sia il soggetto interveniente. Non può affermarsi, infatti, che la mancata stipulazione di un’intesa sia, di per sé, incompatibile con la garanzia di eguaglianza tra le confessioni religiose diverse da quella cattolica, tutelata dall’art. 8, primo comma, Cost.
Nel nostro ordinamento non esiste una legislazione generale e complessiva sul fenomeno religioso, alla cui applicazione possano aspirare solo le confessioni che stipulano un accordo con lo Stato. Peraltro, la necessità di una tale pervasiva disciplina legislativa non è affatto imposta dalla Costituzione, che tutela al massimo grado la libertà religiosa. E sicuramente la Costituzione impedisce che il legislatore, in vista dell’applicabilità di una determinata normativa attinente alla libertà di culto, discrimini tra associazioni religiose, a seconda che abbiano o meno stipulato un’intesa.
Con riferimento agli ordinamenti che, invece, subordinano l’accesso alla disciplina prevista per le associazioni religiose ad un riconoscimento pubblico, o a quelli ove si riscontra, comunque, un più dettagliato assetto normativo in tema di associazioni e confessioni religiose, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze 12 marzo 2009, Gütl contro Austria e Löffelmann contro Austria; sentenza 19 marzo 2009, Lang contro Austria; sentenza 9 dicembre 2010, Savez crkava “Riječ života” e altri contro Croazia; sentenza 25 settembre 2012 Jehovas Zeugen in Österreich contro Austria) ha potuto identificare casi nei quali un’applicazione discriminatoria della normativa comporta una violazione degli artt. 9 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Nel nostro ordinamento, invece, caratterizzato dal principio di laicità e, quindi, di imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione religiosa (sentenze n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997), non è in sé stessa la stipulazione dell’intesa a consentire la realizzazione dell’eguaglianza tra le confessioni: quest’ultima risulta invece complessivamente tutelata dagli artt. 3 e 8, primo e secondo comma, Cost., dall’art. 19 Cost., ove è garantito il diritto di tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, in forma individuale o associata, nonché dall’art. 20 Cost..
Per queste ragioni, non è corretto sostenere che l’art. 8, terzo comma, Cost. sia disposizione procedurale meramente servente dei – e perciò indissolubilmente legata ai – primi due commi, e quindi alla realizzazione dei principi di eguaglianza e pluralismo in materia religiosa in essi sanciti. Il terzo comma, invece, ha l’autonomo significato di permettere l’estensione del “metodo bilaterale” alla materia dei rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche, ove il riferimento a tale metodo evoca l’incontro della volontà delle due parti già sulla scelta di avviare le trattative.
Diversa potrebbe essere la conclusione, anche in ordine alla questione posta dal presente conflitto, se il legislatore decidesse, nella sua discrezionalità, di introdurre una compiuta regolazione del procedimento di stipulazione delle intese, recante anche parametri oggettivi, idonei a guidare il Governo nella scelta dell’interlocutore. Se ciò accadesse, il rispetto di tali vincoli costituirebbe un requisito di legittimità e di validità delle scelte governative, sindacabile nelle sedi appropriate (sentenza n. 81 del 2012).
5.2.– La decisione del presente conflitto richiede preliminarmente di stabilire se nel nostro ordinamento sia configurabile una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative – preordinate alla conclusione di un’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. – con conseguente sindacabilità, da parte dei giudici comuni, del diniego eventualmente opposto dal Governo, a fronte di una richiesta avanzata da un’associazione che alleghi il proprio carattere religioso.
Ritiene questa Corte che ragioni istituzionali e costituzionali ostino alla configurabilità di una siffatta pretesa.
Vi osta, innanzitutto, il riferimento al metodo della bilateralità, immanente alla ratio del terzo comma dell’art. 8 Cost., che – tanto più in assenza di una specifica disciplina procedimentale – pretende una concorde volontà delle parti, non solo nel condurre e nel concludere una trattativa, ma anche, prima ancora, nell’iniziarla. L’affermazione di una sindacabilità in sede giudiziaria del diniego di avvio delle trattative – con conseguente possibilità di esecuzione coattiva del riconosciuto “diritto”, e del correlativo obbligo del Governo, all’avvio di quelle – inserirebbe, invece, un elemento dissonante rispetto al metodo della bilateralità, ricavabile dalla norma costituzionale in esame.
In secondo luogo, un’autonoma pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative non è configurabile proprio alla luce della non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva di esse.
La sentenza impugnata afferma di non doversi pronunciare su tale ultimo aspetto; mentre l’interveniente – asserendo che la giurisdizione del giudice comune dovrebbe arrestarsi solo a partire dal momento in cui l’iniziativa legislativa sulla base dell’intesa, ormai conclusa, sia esercitata – sembra per vero intendere che una siffatta pretesa, sotto il controllo del giudice comune, sarebbe configurabile. Il ricorrente, per parte sua, sottolinea di poter recedere, in qualunque momento, dalle trattative, ricavandone che il preteso “diritto” all’apertura di esse sarebbe, in realtà, un «interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione giuridica».
Orbene – essendo caratteristica del procedimento il suo scopo unitario, in tal caso la stipulazione dell’intesa, ed essendo l’apertura del negoziato strutturalmente e funzionalmente collegata a tale atto finale – risulta contraddittorio negare l’azionabilità di un “diritto” all’intesa, quale risultato finale delle trattative, e al contempo affermare la giustiziabilità del diniego all’avvio delle stesse: giacché non si comprende a che scopo imporre l’illusoria apertura di trattative di cui non si assume garantita giudizialmente la conclusione.
Di converso, e conseguentemente, è proprio la non configurabilità di una pretesa alla conclusione positiva del negoziato e quindi alla stipulazione dell’intesa, a svuotare di significato l’affermazione di una pretesa soltanto al suo avvio. Non si vedrebbe, del resto, in quali forme giudiziali e con quali strumenti tale stipulazione potrebbe essere garantita all’associazione richiedente e imposta al Governo.
La non giustiziabilità della pretesa all’avvio delle trattative, inoltre, si fonda su ulteriori argomenti del massimo rilievo istituzionale e costituzionale.
Per il Governo, l’individuazione dei soggetti che possono essere ammessi alle trattative, e il successivo effettivo avvio di queste, sono determinazioni importanti, nelle quali sono già impegnate la sua discrezionalità politica, e la responsabilità che normalmente ne deriva in una forma di governo parlamentare.
Vi è qui, in particolare, la necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative.
A fronte di tale estrema varietà di situazioni, che per definizione non si presta a tipizzazioni, al Governo spetta una discrezionalità ampia, il cui unico limite è rintracciabile nei principi costituzionali, e che potrebbe indurlo a non concedere nemmeno quell’implicito effetto di “legittimazione” in fatto che l’associazione potrebbe ottenere dal solo avvio delle trattative. Scelte del genere, per le ragioni che le motivano, non possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice.
Questa Corte ha già affermato che, in una situazione normativa in cui la stipulazione delle intese è rimessa non solo alla iniziativa delle confessioni interessate, ma anche al consenso del Governo, quest’ultimo «non è vincolato oggi a norme specifiche per quanto riguarda l’obbligo, su richiesta della confessione, di negoziare e di stipulare l’intesa» (sentenza n. 346 del 2002). Ciò dev’essere in questa sede confermato, considerando altresì che lo schema procedurale, unicamente ricavabile dalla prassi fin qui seguita nella stipulazione d’intese, non può dare origine a vincoli giustiziabili.
Negando l’avvio alle trattative, il Governo non sfuggirebbe, tuttavia, ad ogni imputazione di responsabilità. L’art. 2, comma 3, lettera l), della legge n. 400 del 1988 sottopone alla deliberazione dell’intero Consiglio dei ministri «gli atti concernenti i rapporti previsti dall’articolo 8 della Costituzione». E poiché tra questi atti è sicuramente ricompresa la deliberazione di diniego di avvio delle trattative, è giocoforza riconoscere che anche di tale decisione il Governo risponde di fronte al Parlamento, con le modalità attraverso le quali la responsabilità politica dell’esecutivo è attivabile in una forma di governo parlamentare. La riserva di competenza a favore del Consiglio dei ministri, in ordine alla decisione di avviare o meno le trattative, ha l’effetto di rendere possibile, secondo i principi propri del governo parlamentare, l’effettività del controllo del Parlamento fin dalla fase preliminare all’apertura vera e propria delle trattative, controllo ben giustificato alla luce dei delicati interessi protetti dal terzo comma dell’art. 8 Cost.
In definitiva, un insieme complesso di ragioni, apprezzabili su piani diversi, inducono a giudicare non fondata la tesi esposta nella sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione e negli scritti difensivi dell’interveniente. Tutte queste ragioni, invece, convergono nel far ritenere che, alla luce di un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi protetti dagli artt. 8 e 95 Cost., non sia configurabile – in capo ad una associazione che ne faccia richiesta, allegando la propria natura di confessione religiosa – una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost.
Dal disconoscimento dell’esistenza di tale pretesa, discende l’accoglimento del ricorso per conflitto, nei termini che verranno di seguito precisati.
5.3.– Spetta, dunque, al Consiglio dei ministri valutare l’opportunità di avviare trattative con una determinata associazione, al fine di addivenire, in esito ad esse, alla elaborazione bilaterale di una speciale disciplina dei reciproci rapporti. Di tale decisione – e, in particolare, per quel che in questa sede interessa, della decisione di non avviare le trattative – il Governo può essere chiamato a rispondere politicamente di fronte al Parlamento, ma non in sede giudiziaria. Non spettava perciò alla Corte di cassazione, sezioni unite civili, affermare la sindacabilità di tale decisione ad opera dei giudici comuni.
Va, tuttavia, precisato che – così come la valutazione riservata al Governo è strettamente riferita e confinata all’oggetto di cui si controverte nel presente conflitto, cioè alla decisione se avviare le trattative in parola – allo stesso modo l’atto di diniego di cui si ragiona non può produrre, nell’ordinamento giuridico, effetti ulteriori rispetto a quelli cui è preordinato.
Tale atto – nella misura e per la parte in cui si fondi sul presupposto che l’interlocutore non sia una confessione religiosa, come avvenuto nel caso da cui origina il presente conflitto – non determina ulteriori conseguenze negative, diverse dal mancato avvio del negoziato, sulla sfera giuridica dell’associazione richiedente, in virtù dei principi espressi agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost.
Le confessioni religiose, a prescindere dalla circostanza che abbiano concluso un’intesa, sono destinatarie di una serie complessa di regole, in vari settori. E la giurisprudenza di questa Corte afferma che, in assenza di una legge che definisca la nozione di “confessione religiosa”, e non essendo sufficiente l’auto-qualificazione, «la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione», dai criteri che, nell’esperienza giuridica, vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali (sentenza n. 195 del 1993; in termini analoghi, sentenza n. 467 del 1992).
In questo contesto, l’atto governativo di diniego all’avvio delle trattative, nella parte in cui nega la qualifica di “confessione religiosa” all’associazione richiedente, non può avere efficacia esterna al procedimento di cui all’art. 8, terzo comma, Cost., e non può pregiudicare ad altri fini la sfera giuridica dell’associazione stessa.
Un eventuale atto lesivo, adottato in contesti ovviamente distinti rispetto a quello ora in questione, potrà essere oggetto di controllo giudiziario, nelle forme processuali consentite dall’ordinamento, allo scopo di sindacare la mancata qualificazione di confessione religiosa che pretendesse di fondarsi sull’atto governativo.
Nel delicato ambito del pluralismo religioso disegnato dalla Costituzione, non sono infatti configurabili “zone franche” dal sindacato del giudice, che è posto a presidio dell’uguaglianza di tutte le confessioni garantita dagli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost.
In definitiva, un conto è l’individuazione, in astratto, dei caratteri che fanno di un gruppo sociale con finalità religiose una confessione, rendendola, come tale, destinataria di tutte le norme predisposte dal diritto comune per questo genere di associazioni. Un altro conto è la valutazione del Governo circa l’avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost., nel cui ambito ricade anche l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore. Quest’ultima è scelta nella quale hanno peso decisivo delicati apprezzamenti di opportunità, che gli artt. 8, terzo comma, e 95 Cost. attribuiscono alla responsabilità del Governo.
In quest’ambito circoscritto, e solo in esso, appartiene dunque al Consiglio dei ministri discrezionalità politica, sotto il sempre possibile controllo del Parlamento, cui non può sovrapporsi il sindacato del giudice.
Va, pertanto, annullata l’impugnata sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili.