Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso spedito per la notificazione il 29 maggio 2015, ricevuto il 3 giugno 2015 e depositato nello stesso giorno (reg. ric. n. 60 del 2015), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014).
L’art. 32, comma 2, prevede che «Considerata la condizione di beni appartenenti al patrimonio indisponibile comunale degli agri marmiferi di cui alle concessioni livellarie già rilasciate dai Comuni di Massa e Carrara e dalle soppresse “vicinanze” di Carrara, già disciplinate ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge regionale 5 dicembre 1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi dei Comuni di Massa e Carrara), nonché dei beni estimati, di cui all’editto della duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina del 1 febbraio 1751, entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, i Comuni di Massa e Carrara provvedono alla ricognizione dei tali beni, danno comunicazione dell’accertamento ai titolari delle concessioni e delle autorizzazioni alla coltivazione dei beni medesimi e provvedono ai conseguenti adempimenti ai sensi del presente capo».
2.– Secondo il ricorrente, tale disposizione sarebbe innovativa rispetto a quanto previsto dal combinato disposto dei commi l e 2 dell’art. l della legge della Regione Toscana 5 dicembre 1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara), secondo cui gli agri marmiferi appartengono al patrimonio indisponibile comunale se di essi il Comune risulti proprietario ai sensi delle normative in atto all’entrata in vigore della medesima legge regionale.
Ritiene la difesa statale che tale norma non contempli espressamente i «beni estimati» e che il rinvio alle normative in atto all’entrata in vigore della legge regionale n. 104 del 1995 presenti margini di ambiguità.
Dopo aver richiamato la sentenza di questa Corte n. 488 del 1995, l’Avvocatura generale dello Stato osserva come il regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno), nel delegare ai Comuni di Carrara e di Massa l’emanazione di un regolamento «per disciplinare le concessioni dei rispettivi agri marmiferi», non contenesse alcun espresso riferimento ai «beni estimati».
2.1.– Ad avviso del ricorrente, inoltre, la natura giuridica dei «beni estimati» sarebbe oggetto di dibattito tra gli studiosi. Secondo un primo orientamento, su tali beni sussisterebbe un vero e proprio diritto di proprietà; essi sarebbero oggetto di atti di compravendita, nonché di acquisti all’asta nell’ambito di procedure esecutive, senza che si sia mai resa necessaria alcuna autorizzazione comunale.
Vengono citate, a questo riguardo, una autorevole dottrina e una pronuncia giudiziale che ha distinto «due tipologie di terreni marmiferi, alcuni terreni cosiddetti agri marmiferi, risultano di proprietà del Comune di Carrara e detenuti dalle società in regime di concessione, altri invece di proprietà delle società medesime c.d. beni estimati» (Commissione tributaria provinciale della Toscana, Massa Carrara, sez. II, sent. 31 gennaio 2011, n. 14).
Secondo un opposto orientamento, fondato soltanto su pareri di studiosi di chiara fama, i «beni estimati» non avrebbero mai costituito oggetto di piena proprietà; l’editto del 1° febbraio 1751, infatti, si sarebbe limitato ad attribuire a soggetti privati diritti di godimento su beni che rientravano nella proprietà delle cosiddette «vicinanze».
Tuttavia, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il r.d. n. 1443 del 1927 avrebbe abrogato la legislazione preunitaria precedente, così che sussisterebbero dubbi circa la perdurante validità della testé indicata qualificazione giuridica.
2.2.– La disposizione regionale impugnata, nell’includere i «beni estimati» nell’ambito del patrimonio indisponibile comunale, nonostante consistenti elementi facciano ritenere che tali beni siano oggetto di proprietà privata, colmerebbe una lacuna nell’ordinamento civile italiano.
Essa, pertanto, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto una simile operazione spetterebbe alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile».
3.– Con atto depositato il 7 luglio 2015, si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato.
3.1.– La difesa regionale eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso per insufficiente, erronea e incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
Ad avviso della Regione, infatti, lo Stato avrebbe sollevato la questione di legittimità costituzionale muovendo dall’erroneo presupposto che la legislazione estense sia stata abrogata dal r.d. n. 1443 del 1927.
Tale affermazione, tuttavia, sarebbe smentita dalla sentenza di questa Corte n. 488 del 1995, ai sensi della quale l’art. 64 del richiamato r.d. «ha mantenuto in vigore la legislazione preunitaria solo in via transitoria, fino al giorno dell’entrata in vigore dei detti regolamenti»; si tratta dei regolamenti previsti dall’art. 64, comma 3, del richiamato r.d., con i quali i Comuni di Massa e Carrara sono chiamati a disciplinare i propri agri marmiferi.
Osserva la resistente che il Regolamento del Comune di Carrara sugli agri marmiferi è stato approvato con delibera consiliare n. 61 del 2005 ed è esso, dunque, ad aver determinato il superamento della legislazione estense, sino a quel momento rimasta vigente. Pertanto, il riferimento legislativo richiamato dallo Stato sarebbe errato o incompleto.
3.2– In ogni caso, secondo la Regione, le censure statali sarebbero formulate in termini generici, non essendo state evidenziate le ragioni per le quali le norme regionali comportino la violazione del parametro evocato.
3.3.– Nel merito, ad avviso della difesa regionale, non sussisterebbe alcuna lacuna nell’ordinamento. Con la norma in esame, infatti, la Regione si sarebbe limitata a prendere atto della natura giuridica pubblica dei «beni estimati», così come risultante dalla normativa statale di riferimento.
3.3.1.– In particolare, osserva la resistente, la proprietà pubblica, e precisamente del Comune di Carrara, dei «beni estimati» discenderebbe dalla legislazione estense. L’editto teresiano, infatti, avrebbe innanzitutto ribadito la proprietà degli agri marmiferi in capo alle vicinanze, nonché il carattere inalienabile ed imprescrittibile della stessa, secondo quanto già previsto dallo Statuto della Città di Carrara del 1574 di Alberico Malaspina; tale editto avrebbe poi riconosciuto, in via generale, alle stesse vicinanze il diritto allo sfruttamento del sottosuolo agrario, che veniva ad essere “coltivato” dai “vicini”, in base ad una concessione livellaria rilasciata dalla vicinanza; infine, intervenendo a dirimere una vertenza proposta dalla vicinanza di Torano, che lamentava occupazioni illegittime dei suoi agri da parte dei vicini e di estranei, si sarebbe limitato, in via eccezionale, a esonerare in perpetuo i possessori dei beni iscritti negli estimi da oltre un ventennio dal versamento di qualsiasi corrispettivo pecuniario alle vicinanze, come controprestazione dell’utilizzo degli agri, in forza di un diritto feudale di regalia.
Il richiamato editto, dunque, avrebbe confermato il diritto dei privati all’escavazione, ma non avrebbe trasferito la proprietà dei beni, anche perché al regnante su delega dell’imperatore non spettava disporre dei diritti di proprietà, ma era riservato esclusivamente il diritto allo sfruttamento dei giacimenti minerari ricompresi negli agri vicinali stessi.
Pertanto, nell’esercizio del suo potere regalistico sui marmi carraresi, la duchessa non avrebbe potuto disporre di ciò di cui non era titolare, dovendo invece necessariamente limitarsi a disporre in ordine allo sfruttamento del sottosuolo minerario.
In definitiva, secondo la Regione, per le cave insistenti negli agri vicinali non iscritte all’estimo, ovvero iscritte a nome di un privato da meno di venti anni, l’editto avrebbe previsto che le vicinanze concedessero lo sfruttamento della cava dietro pagamento di un canone; invece, per le cave iscritte all’estimo, a nome di un privato, da oltre vent’anni, la duchessa – in sanatoria ed in via del tutto eccezionale – avrebbe deciso di inibire azioni di recupero da parte delle vicinanze rispetto al diritto allo sfruttamento delle cave, concedendo ai loro possessori il diritto di godimento in perpetuo delle stesse e sottraendoli alla regola dell’onerosità delle concessioni, in forza del diritto feudale di regalia sui marmi.
L’editto teresiano, pertanto, avrebbe sancito la regola del regime concessorio per lo sfruttamento di tutte le cave di marmo del Comune di Carrara proprio in ragione della proprietà pubblica delle stesse; la differenza tra le cave con iscrizione ultraventennale all’estimo e le altre consisterebbe unicamente – ad avviso della Regione – nella fonte del provvedimento concessorio, dal momento che per i beni estimati la concessione era stata rilasciata direttamente dal sovrano con l’editto del 1751, mentre per tutte le altre cave, pur insistenti negli agri marmiferi, la concessione veniva rilasciata dalle vicinanze prima e, in seguito alla loro soppressione, dal Comune.
Secondo la disciplina contenuta nella legislazione estense, dunque, entrambe le concessioni riguarderebbero comunque beni di proprietà vicinale, oggi comunale, in regime di indisponibilità, costituendo i «beni estimati» una species della più generale categoria degli agri marmiferi.
3.3.2.– La Regione, inoltre, sottolinea che da un punto di vista “fisico”, gli agri marmiferi di Carrara, in assoluta prevalenza, sono cave miste con presenza “indistinta” di agri intestati al catasto in capo al Comune e agri cosiddetti estimati. Pertanto, ove si ritenesse di dover sottrarre i beni estimati al regime concessorio, si determinerebbe l’impossibilità di procedere con gara anche per i restanti agri marmiferi.
3.3.3.– Peraltro, ad avviso della difesa regionale, la proprietà pubblica delle cave di marmo del comprensorio apuano sarebbe stata ulteriormente ribadita dal r.d. n. 1443 del 1927, che all’art. 64, ultimo comma, ha attribuito ai Comuni di Massa e Carrara il potere regolamentare in ordine ai propri agri marmiferi, sancendo in via definitiva la specialità delle cave apuane di marmo rispetto a tutte le altre cave del territorio nazionale.
Ciò troverebbe conferma nella sentenza della Corte di cassazione 24 maggio 1954, n. 1679, secondo la quale gli agri marmiferi «hanno un regime analogo a quello delle altre cave quando siano sottratte al proprietario del suolo per essere concesse a terzi, divenendo beni patrimoniali indisponibili».
Alla luce di queste risultanze, sarebbe evidente come i «beni estimati», già secondo la disciplina estense, rientrino nel patrimonio indisponibile comunale al pari di tutte le altre cave insistenti sugli agri marmiferi di Carrara, con conseguente legittimo assoggettamento alle norme dei regolamenti comunali.
3.3.4.– La legge regionale di cui si tratta, inoltre, avrebbe dettato la disciplina in una materia pacificamente attribuita alla competenza delle Regioni, sia prima, sia dopo la riforma del Titolo V del 2001.
Con l’impugnato art. 32, comma 2, infatti, la Regione avrebbe preso atto della natura pubblica della proprietà dei «beni estimati», limitandosi a introdurre una norma meramente ricognitiva di disposizioni già presenti nella disciplina statale di riferimento in tema di agri marmiferi del Comune di Carrara.
D’altra parte, secondo la difesa regionale, questa Corte, con la richiamata sentenza n. 488 del 1995, avrebbe riconosciuto la legittimità costituzionale di leggi regionali che, in applicazione del regime concessorio, intervengano a modificare i rapporti in corso, costituiti come perpetui e gratuiti nel sistema estense, in coerenza con i principi della onerosità e temporaneità delle concessioni, già sanciti dal r.d. n. 1443 del 1927.
4.– Sono intervenute le società Omya , Guglielmo Vennai , Caro e Colombi , Società Escavazione Marmi SEM , Successori Adolfo Corsi Carrara srl e Marbo srl, affermando il proprio interesse ad agire e la propria legittimazione e chiedendo che la Corte, ritenuta l’ammissibilità degli interventi, accolga le richieste della parte ricorrente.
Ciascuna delle parti in prossimità dell’udienza ha depositato memorie in cui ha ribadito le conclusioni già rassegnate.
5.– Nell’ambito di un giudizio civile promosso contro il Comune di Carrara da alcune società private proprietarie di agri marmiferi – cosiddetti «beni estimati» – ubicati nel territorio comunale, per l’accertamento del diritto di proprietà di tali beni in capo alle stesse, il Tribunale ordinario di Massa, con ordinanza del 17 marzo 2016 (r.o. n. 96 del 2016), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione Toscana n. 35 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 102, 111, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost.
5.1.– Riferisce il Tribunale che, ad avviso delle società attrici, la norma censurata, ricomprendendo nel patrimonio indisponibile comunale i «beni estimati» di cui all’editto di Maria Teresa Cybo Malaspina del 1751, nonostante essi risultino, allo stato, oggetto di proprietà privata, sarebbe sostanzialmente volta a realizzare un’espropriazione di tali beni.
Secondo il giudice a quo, la norma sarebbe volta a realizzare una «ricognizione» di quei beni, cui i Comuni di Massa e Carrara dovrebbero provvedere entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge. Tuttavia, essa non avrebbe portata ricognitiva, ma innovativa, posto che intende disciplinare per il futuro il regime di tali beni, assegnando loro un assetto diverso da quello attuale, in contrasto con gli atti che ne hanno determinato l’odierna situazione.
5.1.1.– Nel ricostruire il contesto normativo di riferimento, il Tribunale rimettente osserva che i «beni estimati» sono pervenuti agli attuali proprietari sia a seguito di atti di compravendita tra privati, sia a seguito di atti di fusione tra società, sia a seguito di decisioni giurisdizionali; e che fin dall’emanazione dell’editto teresiano sono stati considerati beni di natura privata.
Ai sensi del richiamato editto, infatti, «Se l’allibrazione delle medesime è seguita venti anni prima della presente Nostra ordinazione, niun diritto pretendere mai più possa sopra di esse, o sopra i loro Possessori, la vicinanza ne’ di cui agri sono situate non altrimenti che se a favore dei possessori medesimi militasse l’immemorabile, o la centennaria o concorresse a prò loro un titolo il più legittimo che immaginare si possa».
Il rimettente, peraltro, osserva come l’editto del 1751 sia venuto a regolamentare una situazione che già vedeva molti «beni estimati», quelli cioè iscritti negli estimi dei particolari da almeno venti anni, come beni di proprietà privata, di derivazione allodiale, oggetto di attività estrattiva.
5.1.2.– A conferma della natura privata di tali beni, vengono altresì richiamati l’art. 11 dell’editto di Maria Teresa Cybo Malaspina del 21 dicembre 1771, l’art. 7 del decreto n. 246 sulle miniere del 9 agosto 1808, i punti VII e VIII della notificazione governatoriale (Petrozzani) del 24 settembre 1823 e l’art. 2, comma 13, lettera h), della notificazione governatoriale del 14 luglio 1846.
Più di recente, ad avviso del giudice a quo, anche altre fonti normative presupporrebbero una distinzione tra agri marmiferi di proprietà comunale e agri marmiferi di proprietà privata. A riguardo, vengono citati l’art. l della legge della Regione Toscana 5 dicembre 1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara), la legge della Regione Toscana 3 novembre 1998, n. 78 (Testo Unico in materia di cave, torbiere, miniere, recupero di aree escavate e riutilizzo di residui recuperabili) ed il regolamento per la concessione degli agri marmiferi comunali del Comune di Carrara, approvato con delibera n. 61 del 21 luglio 2005 (modificativo del primo regolamento comunale adottato il 29 dicembre 1994).
Secondo il rimettente, la stessa legge regionale n. 35 del 2015 presupporrebbe implicitamente tale doppio regime, allorché prevede la stipula con il privato «di una convenzione per l’utilizzo del bene quale patrimonio indisponibile comunale» (art. 38, comma 6).
Anche la relazione della Commissione di esperti incaricata dal Comune di Carrara di predisporre una relazione sulla condizione giuridica degli agri marmiferi comunali, avrebbe espressamente riconosciuto il diritto di proprietà privata sui «beni estimati».
A riprova della libera circolazione tra privati, che avrebbe da sempre caratterizzato tali beni, vengono altresì richiamate una serie di decisioni giurisdizionali in tal senso.
5.2.– Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva come la domanda abbia ad oggetto l’accertamento dell’esistenza del diritto di proprietà in capo alle società attrici rispetto ai «beni estimati», mentre la norma impugnata ne assume la titolarità in capo all’ente pubblico convenuto.
Ad avviso del giudice a quo, non sarebbe neppure possibile una interpretazione costituzionalmente orientata che consenta di non ritenere la norma in contrasto con i parametri costituzionali.
Infatti, sia la ricostruzione storica dei trasferimenti a seguito dei quali le società attrici si affermano proprietarie dei «beni estimati», sia l’esistenza delle decisioni giurisdizionali richiamate, evidenzierebbero come tali beni siano stati da sempre ritenuti suscettibili di libera circolazione tra privati secondo le ordinarie regole della proprietà privata, a differenza degli agri marmiferi comunali.
Osserva il rimettente come il regime differenziato riservato agli agri marmiferi comunali, da una parte, ed ai «beni estimati», dall’altra, venga confermato anche dalla diversa regolamentazione operata per gli uni e per gli altri dallo stesso Comune di Carrara.
In proposito, secondo il giudice a quo, l’assunto del Comune secondo cui la legge regionale n. 35 del 2015 si sarebbe «limitata a esternare (dichiarare) la natura che detti beni posseggono ex se e cioè in ragione della loro provenienza [...]», sarebbe incompatibile con la ricostruzione storica delle vicende dei «beni estimati»; essa, al contrario, confermerebbe la tesi delle società attrici circa il plurisecolare riconoscimento di un diritto di piena proprietà a favore dei privati sui beni in questione.
Piuttosto, ad avviso del rimettente, il significato della norma avrebbe una portata ben più ampia di quella ricollegabile all’espressione utilizzata, proprio in virtù dell’attuale assetto dei beni, incompatibile con una mera attività di «ricognizione».
Nonostante la sua formulazione testuale, la norma impugnata sarebbe diretta ad operare un vero e proprio trasferimento al patrimonio indisponibile comunale della proprietà di tali beni dai soggetti privati che li hanno a vario titolo acquistati; ciò comporterebbe, secondo il rimettente, la rilevanza della questione ai fini dell’accoglimento o del rigetto della domanda.
5.3.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo deduce in primo luogo il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto la regolamentazione della proprietà privata apparterrebbe indiscutibilmente alla potestà legislativa dello Stato in materia di «ordinamento civile».
Peraltro, secondo il rimettente, una disciplina come quella posta in essere dalla Regione con la norma impugnata non sarebbe stata consentita neppure al legislatore statale, posto che lo Stato potrebbe incidere in via diretta sulla proprietà privata solo nelle forme e con i limiti della legislazione sull’espropriazione per pubblica utilità.
5.3.1.– Viene poi denunciato il contrasto con l’art. 117, comma 3, Cost., perché nella materia del «governo del territorio», in cui sarebbe ricompresa la disciplina degli agri marmiferi, l’espropriazione verrebbe in rilievo solo in quanto attività strumentale all’acquisizione di suoli per la realizzazione di opere pubbliche, mentre nel caso in esame il trasferimento dei «beni estimati» al patrimonio indisponibile comunale sarebbe finalizzato al mero incremento patrimoniale in favore dell’ente pubblico.
5.3.2.– La norma censurata violerebbe, altresì, gli artt. 42, secondo e terzo comma, e 97 Cost., in quanto realizzerebbe il trasferimento coattivo di quelle proprietà dai privati al patrimonio indisponibile comunale e dunque determinerebbe una sorta di espropriazione di quei beni in un caso non previsto dalla legge, senza indennizzo e senza l’indicazione di un motivo d’interesse generale che la giustifichi; essa, inoltre, realizzerebbe tale effetto espropriativo in difetto di un regolare procedimento amministrativo governato dai principi di buon andamento e imparzialità.
5.3.3.– Sarebbe, inoltre, violato l’art. 3 Cost., sia perché la norma impugnata sottrarrebbe i «beni estimati» privati, costituiti dagli agri marmiferi, solo ai proprietari di tali beni ubicati nei comuni di Massa e di Carrara; sia perché realizzerebbe l’espropriazione dei soli «beni estimati» costituiti da cave, e non dei «beni estimati» costituiti da terreni agricoli o da beni destinati ad usi diversi.
5.3.4.– Viene altresì denunciato il contrasto con l’art. 117, comma l, Cost., in relazione all’art. l del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la norma impugnata esproprierebbe di fatto i «beni estimati», senza indicare le ragioni di utilità sociale ad essa sottese e senza prevedere alcun indennizzo.
5.3.5.– La norma impugnata, infine, violerebbe gli artt. 24, 42, 102 e 111 Cost., perché, nel caso in cui si volesse riconoscere ad essa una funzione regolatrice del conflitto tra ente pubblico e privati titolari del diritto di proprietà sui «beni estimati», il legislatore regionale si sarebbe indebitamente sostituito al giudice ordinario nella pretesa di risolvere, al di fuori di un processo regolato dalla legge, il conflitto esistente tra soggetti dell’ordinamento.
Peraltro, ad avviso del giudice a quo, sarebbe fuorviante il richiamo effettuato nei lavori preparatori della legge regionale censurata alla sentenza n. 488 del 1995, della quale la legge regionale n. 35 del 2015 sarebbe attuazione. Quella decisione, infatti, riguarderebbe i soli rapporti concessori relativi agli agri marmiferi di proprietà dei Comuni, senza alcun riferimento agli agri marmiferi di proprietà privata. Il fatto che la pronuncia non si occupi degli agri marmiferi costituenti «beni estimati» confermerebbe, secondo il rimettente, la distinzione esistente tra agri marmiferi di proprietà dei Comuni e agri marmiferi di proprietà privata.
5.4.– In conclusione, secondo il giudice a quo, non sarebbe possibile ritenere che la norma non incida su beni attualmente di proprietà privata, sul presupposto che solo «alcuni cavatori» riterrebbero sussistente il diritto di proprietà in capo a soggetti privati, poiché il riconoscimento in capo ai privati del diritto di proprietà sui «beni estimati» sarebbe stato oggetto di numerosi provvedimenti giurisdizionali, oltre che di rogiti notarili di trasferimento.
Neppure sarebbe possibile ricondurre la questione nell’ambito dei rapporti di concessione, posto che per i «beni estimati» non risulta che il Comune abbia mai chiesto, né imposto, il pagamento di canoni.
6.– Con atto depositato il 6 giugno 2016, è intervenuto il Presidente della Regione Toscana deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della questione.
6.1.– La Regione eccepisce, in primo luogo, l’irrilevanza della questione, in quanto il rimettente muoverebbe dall’erroneo presupposto interpretativo che il censurato art. 32, comma 2, sia una norma innovativa, la quale, prevedendo per la prima volta la titolarità pubblica dei «beni estimati», ne determinerebbe la sostanziale espropriazione, al di fuori delle garanzie procedimentali previste dall’ordinamento per gli espropri.
Al contrario, secondo la difesa regionale, la norma impugnata non avrebbe introdotto alcuna innovazione in materia di ordinamento civile, ma avrebbe solo preso atto della natura già pubblica della proprietà dei «beni estimati», limitandosi a prevedere, nell’ambito della generale disciplina delle cave, una norma meramente ricognitiva di disposizioni già presenti nella disciplina statale di riferimento in tema di agri marmiferi del Comune di Carrara.
Di conseguenza, secondo la Regione, la lamentata lesione del diritto di proprietà privata dei «beni estimati», non deriverebbe dalla norma regionale, ma dalla disciplina statale di riferimento, che fin dai tempi dell’ordinamento preunitario affermerebbe l’appartenenza al demanio comunale di tali beni.
6.2.– Nel merito, la Regione deduce l’infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., svolgendo i medesimi argomenti già illustrati nell’atto di costituzione nel giudizio in via principale.
6.2.1.– Quanto alla censura relativa alla violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., il richiamo a tale parametro sarebbe del tutto inconferente, in quanto l’oggetto della disciplina recata dalla norma impugnata non afferirebbe alla materia del «governo del territorio», ma per l’appunto a quella delle «cave», di competenza residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
6.2.2.– Del pari non fondata sarebbe la questione sollevata in riferimento agli artt. 42, secondo e terzo comma, Cost., nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. l del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la norma impugnata non avrebbe inciso in alcun modo sulla proprietà privata dei «beni estimati», trattandosi di beni di proprietà pubblica che costituirebbero una species della più generale categoria degli agri marmiferi.
6.2.3.– Neppure sarebbe violato l’art. 97 Cost., perché la norma impugnata non avrebbe realizzato alcun effetto espropriativo, avendo ad oggetto la regolamentazione del rapporto concessorio di beni pubblici, in conformità ai principi statali e comunitari vigenti.
6.2.4.– Ugualmente priva di pregio sarebbe la censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma impugnata non avrebbe determinato alcuna sottrazione dalla titolarità dei privati dei «beni estimati», rientrando questi nel patrimonio del Comune al pari degli agri marmiferi; d’altra parte, secondo la Regione, la circostanza che i «beni estimati» siano un unicum presente solo nel Comune di Carrara, giustificherebbe il loro espresso richiamo ad opera della disposizione censurata e determinerebbe la non identità delle situazioni messe a confronto dal rimettente.
6.2.5.– Infine, ad avviso della Regione, neanche la censura relativa alla violazione degli artt. 42, secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU [recte: agli artt. 24, 42, 102 e 111 Cost.], sarebbe fondata, in quanto il censurato art. 32, comma 2, si limiterebbe a prendere atto della proprietà pubblica dei «beni estimati», senza operare alcuna indebita sostituzione rispetto all’autorità giudiziaria.
Che poi il Comune non abbia mai chiesto il pagamento di canoni in relazione a tali beni dimostrerebbe, ad avviso della Regione, l’indebito arricchimento, senza titolo, da parte delle società che operano nel comprensorio lapideo apuano, e giustificherebbe, pertanto, l’intervento del legislatore regionale a tutela del corretto utilizzo del patrimonio pubblico.
6.3.– Con una memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Toscana ha insistito affinché la questione sia dichiarata irrilevante o comunque infondata.
7.– Con atto depositato il 7 giugno 2016, si sono costituite le società Omya e Cave Statuario srl, chiedendo l’accoglimento della questione.
7.1.– Osservano le parti private come i diritti di proprietà sugli agri marmiferi costituenti «beni estimati», di cui esse risultano titolari, abbiano circolato da secoli secondo il regime dei beni oggetto di proprietà privata. Esse hanno acquistato tali diritti a titolo derivativo in forza di atti negoziali o di atti giurisdizionali, oppure a titolo originario, per usucapione accertata in sede giurisdizionale.
Ad avviso delle parti private, gli atti di trasferimento indicati nell’ordinanza di rimessione testimonierebbero come la norma impugnata costituisca un elemento di rottura rispetto al diritto vivente, al di fuori di ogni potere attribuito alle Regioni e con grave pregiudizio di diritti fondamentali, quali il diritto di proprietà.
7.1.1.– Secondo le parti private, l’editto teresiano del 1751 avrebbe risolto una controversia tra una vicinanza ed alcuni soggetti privati che avevano iscritto le loro cave agli estimi dei particolari, senza tuttavia pagare la «colletta».
La vicinanza avrebbe rivendicato i propri diritti sulle cave e, quindi, anche la facoltà di aprirle. L’editto non si sarebbe limitato a risolvere la controversia, accogliendo le ragioni dei «particolari», ma avrebbe dettato la disciplina per il futuro.
Sarebbe evidente la volontà del sovrano, laddove nega alle vicinanze qualsiasi pretesa non solo verso i possessori, ma anche sopra le cave («sopra di esse»), se iscritte agli estimi («allibrazione») da vent’anni; d’altra parte, il riferimento così ampio all’immemorabile o alla centennaria, nonché ad ogni altro titolo, «il più legittimo che immaginare si possa», confermerebbe il riconoscimento dell’esistenza di un diritto di piena proprietà, in ragione del quale i «beni estimati» sarebbero sempre stati considerati di proprietà privata.
7.1.2.– Inoltre, anche nel periodo antecedente all’editto del 1751, vi erano proprietà di cave trasferite o comunque soggette a vicende traslative, tra le quali vi erano proprietà allodiali e beni riconducibili direttamente alla definizione di «beni estimati», iscritti negli estimi come beni intestati a privati; tutti i beni sarebbero poi confluiti nella categoria più ampia dei «beni estimati», all’interno dei quali sarebbe oggi impossibile distinguere le proprietà allodiali dagli originari «beni estimati».
7.1.3.– La difesa delle parti private elenca, altresì, una serie di atti normativi posteriori all’editto del 1751 che fanno riferimento direttamente, o indirettamente, a cave di proprietà di privati, evidenziando come anche le fonti normative successive abbiano sempre considerato i «beni estimati» di proprietà privata.
7.1.4.– Nel periodo post-unitario, inoltre, la dottrina sarebbe stata pacifica nell’ammettere la proprietà privata dei «beni estimati»; e anche la Commissione istituita dal Comune di Carrara per redigere il primo regolamento degli agri marmiferi, non avrebbe dubitato del fatto che i «beni estimati» siano pacificamente da considerarsi beni di proprietà privata.
7.1.5.– Le parti private riportano, altresì, una serie di pronunce giurisdizionali dalle quali la natura privata di tali beni risulterebbe pacifica; evidenziano, inoltre, che in favore del regime proprietario di tali beni deporrebbero sia la precedente legislazione regionale (art. 1 della legge regionale n. 104 del 1995), sia il regolamento degli agri marmiferi del Comune di Carrara, il quale non avrebbe mai richiesto il pagamento del canone concessorio sui «beni estimati».
7.2.– Pertanto, secondo le parti private, sia la legislazione preesistente alla legge regionale n. 35 del 2015, sia il diritto vivente, sia la prassi amministrativa, avrebbero da sempre considerato i «beni estimati» come beni di proprietà privata, riconoscendo che essi non appartengono al patrimonio indisponibile comunale. Esse, dunque, aderiscono in toto alle conclusioni rassegnate dal Tribunale ordinario di Massa, concludendo per l’accoglimento della questione.
7.3.– Le parti private, inoltre, hanno rivolto istanza di trattazione congiunta e riunione del presente giudizio con quello di cui al ricorso n. 60 del 2015, in ragione della comunanza delle norme impugnate e delle questioni sollevate.
7.4.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, le parti private, deducendo l’erroneità della ricostruzione del Comune di Carrara e della Regione Toscana, insistono nelle conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.
8.– Con atto depositato il 7 giugno 2016, si è costituito il Comune di Carrara deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della questione.
8.1.– La difesa comunale eccepisce, in primo luogo, l’irrilevanza della questione per l’erroneo presupposto interpretativo da cui avrebbe mosso il rimettente. L’impugnato art. 32, comma 2, infatti, non avrebbe carattere innovativo, ma meramente ricognitivo di pregresse disposizioni già vigenti nell’ordinamento giuridico in tema di agri marmiferi comunali.
8.1.1.– Anche laddove si ritenesse che la questione inerente la natura dei «beni estimati» sia opinabile, ciò renderebbe comunque inammissibile la prospettata questione di illegittimità costituzionale. La difesa comunale, infatti, osserva che le società attrici hanno proposto un’azione di accertamento del proprio diritto di proprietà con riferimento a certi beni; a fronte di tale domanda, il Comune ne ha rivendicato la piena proprietà, non perché tale proprietà sia stata dichiarata da una legge regionale, ma perché tale è la natura propria dei «beni estimati», in virtù delle caratteristiche che essi posseggono.
La questione sollevata risulterebbe, al più, condizionata alla eventualità che la ricostruzione “pubblicistica” della natura dei «beni estimati» sia errata, il che renderebbe assolutamente evidente il difetto di attuale rilevanza della questione.
Ad avviso del Comune, l’assunto del giudice a quo sulla natura privata dei beni estimati sarebbe del tutto apodittico; il thema decidendum sarebbe quello dell’accertamento della natura di tali beni, che prescinderebbe dal contenuto della legge regionale n. 35 del 2015 e al quale il rimettente si sarebbe sottratto.
8.2.– Nel merito, il Comune deduce l’infondatezza di tutte le questioni con motivazioni analoghe a quelle addotte dalla difesa regionale.
8.3.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Comune di Carrara ha insistito affinché la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata irrilevante e comunque infondata.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014).
Ad avviso della difesa statale, tale disposizione, nell’includere i beni estimati nel patrimonio indisponibile comunale, nonostante consistenti elementi facciano ritenere che essi siano oggetto di proprietà privata, colmerebbe una lacuna nell’ordinamento civile italiano, violando la competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile».
Il richiamato art. 32, comma 2, viene altresì censurato dal Tribunale ordinario di Massa, con ordinanza del 17 marzo 2016, in riferimento allo stesso art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., nonché agli artt. 3, 24, 42, 97, 102, 111, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), e 117, terzo comma, Cost.
2.– I due giudizi hanno ad oggetto la medesima disposizione e pongono questioni in gran parte analoghe, sicché possono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.
3.– In via preliminare va ribadita l’inammissibilità, nel giudizio promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, dell’intervento delle società Omya , Guglielmo Vennai , Caro e Colombi , Società Escavazione Marmi SEM , Successori Adolfo Corsi Carrara srl e Marbo srl.
Deve essere pertanto confermata l’ordinanza, pronunciata nel corso dell’udienza pubblica e allegata alla presente sentenza, adottata in conformità della costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, promosso in via d’azione, si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa e non ammette l’intervento di soggetti che ne siano privi, fermi restando per costoro, ove ne ricorrano i presupposti, gli altri mezzi di tutela giurisdizionale eventualmente esperibili (ex plurimis, sentenze n. 118 e n. 31 del 2015, n. 210 del 2014, n. 285, n. 220 e n. 118 del 2013, n. 245, n. 114 e n. 105 del 2012, n. 69 e n. 33 del 2011, n. 278 del 2010).
D’altra parte, non risultano neppure pertinenti i precedenti citati dalla difesa delle parti private (sentenze n. 344 del 2005 e n. 353 del 2001), i quali, ancorché relativi a giudizi in via principale, riguardano pur sempre interventi spiegati da soggetti titolari di potestà legislativa; né è pertinente l’ulteriore giurisprudenza costituzionale richiamata, che non riguarda l’intervento nei giudizi in via principale.
4.– Ancora in via preliminare devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate dalle parti.
4.1.– Nel giudizio in via principale la Regione ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso per insufficiente ricostruzione del quadro normativo, in quanto lo Stato avrebbe sollevato la questione muovendo dall’erroneo presupposto che la legislazione estense sia stata abrogata dalla legge mineraria del 1927.
È bensì vero che questa Corte ha smentito una simile interpretazione, chiarendo come l’art. 64 del r.d. n. 1443 del 1927 abbia «mantenuto in vigore la legislazione preunitaria solo in via transitoria, fino al giorno dell’entrata in vigore dei detti regolamenti» (sentenza n. 488 del 1995), e che, dunque, l’effetto abrogativo della legislazione estense debba essere ricondotto al regolamento comunale, non alla legge del 1927; nondimeno, l’erroneità del presupposto interpretativo dal quale muove il ricorrente sarebbe eventualmente motivo di non fondatezza, non di inammissibilità della questione (sentenza n. 117 del 2015).
L’eccezione, pertanto, non può essere accolta.
4.2.– Non merita accoglimento neppure l’ulteriore eccezione sollevata dalla Regione, secondo la quale il ricorso sarebbe inammissibile per genericità delle censure.
Il ricorrente, infatti, non si è limitato a richiamare genericamente l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., ma ha evidenziato come la natura giuridica dei beni estimati fosse controversa, dando conto degli opposti orientamenti dottrinali formulati a riguardo; ed ha altresì specificato la ragione per cui l’inclusione dei beni estimati nel patrimonio indisponibile dei Comuni di Massa e Carrara violerebbe il parametro costituzionale, individuandola nell’aver il legislatore regionale indebitamente colmato una lacuna dell’ordinamento in materia civilistica.
A ben vedere, dunque, «Il ricorso – ancorché conciso – rende […] ben identificabili i termini delle questioni proposte, individuando le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale» (sentenza n. 241 del 2012).
4.3.– Nel giudizio in via incidentale, poi, sia la Regione, sia il Comune di Carrara, hanno eccepito l’irrilevanza della questione, deducendo che si tratterebbe di una norma meramente ricognitiva, che non avrebbe introdotto nell’ordinamento una regola precettiva autonoma.
Neppure questa eccezione è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte «[i]l giudizio di rilevanza […] è riservato al giudice rimettente, sì che l’intervento della Corte deve limitarsi ad accertare l’esistenza di una motivazione sufficiente, non palesemente erronea o contraddittoria, senza spingersi fino ad un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice a quo a determinate conclusioni. In altre parole, nel giudizio di costituzionalità, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che il rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento (ex plurimis, sentenze n. 91 del 2013, n. 41 del 2011 e n. 270 del 2010)» (sentenza n. 71 del 2015).
Un simile presupposto non si verifica nel caso di specie, in quanto il rimettente ha motivato in maniera non implausibile circa la portata innovativa della norma impugnata, soprattutto rispetto ad un assetto normativo e giurisprudenziale che, fino a quel momento, avrebbe a suo avviso consolidato l’opposta configurazione dei beni estimati come beni privati.
5.– Nel merito, la questione relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., è fondata.
5.1.– Con la legge regionale n. 35 del 2015 la Regione Toscana ha dettato un’organica disciplina dell’attività estrattiva nell’ottica di salvaguardare, come risulta dallo stesso preambolo della legge, le «particolarità storiche, giuridiche ed economiche che caratterizzano i beni compresi nel suo territorio», tra i quali rientrano anche i cosiddetti beni estimati, di cui all’editto della duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina del 1° febbraio 1751.
I beni estimati sono cave di limitate dimensioni territoriali, le quali, in ragione delle peculiari caratteristiche morfologiche che le contraddistinguono, non sono ormai coltivabili singolarmente e risultano in parte incorporate all’interno di una stessa unità produttiva insieme a cave pubbliche, soggette a concessioni comunali.
Davanti alle moderne tecnologie che rendono sempre più opportuna, ai fini dell’efficienza dell’attività estrattiva, la gestione comune di cave contigue, anche se assoggettate a regimi giuridici diversi; davanti alle disfunzioni dovute a tale diversità di regime ed insite nell’esperimento della procedura di gara per una soltanto di esse; e davanti infine alle sempre più avvertite esigenze ambientali che richiedono rigorose regole di tutela, comuni per tutte le cave, il legislatore regionale ha ritenuto di poterle sottoporre ad un medesimo regime concessorio, sulla premessa che i beni estimati appartengano al patrimonio indisponibile del Comune.
5.2.– È ben possibile che tale premessa sia la più conforme all’intento e alla ratio dell’editto teresiano del 1751, che venne adottato dalla sovrana nella non modificata cornice dello statuto dato a Carrara dal suo predecessore Alberico nel 1574.
In base allo statuto tutti gli agri marmiferi erano di proprietà delle antiche vicinanze, da chiunque fossero detenuti e utilizzati, e i detentori erano perciò tenuti al pagamento alle vicinanze dell’annuale livello.
L’editto di Maria Teresa si limitava a cancellare l’obbligo del livello per le cave per le quali esso non fosse stato pagato da più di venti anni. Le cave così identificate vennero definite «beni estimati».
Quali fossero tali beni e quale dovesse essere il loro effettivo regime giuridico fu materia di controversia negli anni successivi.
Dopo venti anni, un nuovo editto – la cosiddetta legge delle usurpazioni del 1771 – affidò ad un’apposita commissione il compito di effettuare una ricognizione dei beni vicinali e di recuperare quelli indebitamente occupati, ma questo lavoro non ebbe alcun seguito.
Una nuova commissione fu istituita dalla notificazione governatoriale Petrozzani del 1823 per verificare la legittimità del possesso di tutte le cave, ma anche questa si concluse senza esito. Né la situazione mutò con il nuovo catasto terreni del 1905. Il Comune distinse le cave in tre diverse tipologie – cave in concessione, concordate e contestate – ma non si attivò presso i possessori affinché chiedessero il rilascio delle concessioni, né avviò le procedure per regolarizzare i mappali contestati.
Nel 1928 una nuova ordinanza del Podestà fissò un termine di trenta giorni per la presentazione delle domande di rilascio delle concessioni. Le domande furono raccolte e catalogate, ma ancora una volta, come nei precedenti tentativi di riordino, non si arrivò ad un risultato utile.
Nel 1955 la commissione di esperti incaricata dal Comune di predisporre il regolamento per la concessione degli agri marmiferi comunali, ai sensi dell’art. 64, comma 3, del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno), qualificò i beni estimati come beni di proprietà privata; nondimeno il Comune, fino al 1994, non adottò alcun regolamento.
Le vicende successive all’editto del 1751, dunque, sono segnate da una sequenza di plurisecolari inefficienze dell’amministrazione, che hanno impedito le verifiche e gli accertamenti necessari a porre ordine alla materia.
5.3.– Tuttavia, è un dato storicamente incontrovertibile che nel diritto vivente venutosi a consolidare nei secoli diciannovesimo e ventesimo, i beni estimati non sono trattati come beni appartenenti al patrimonio indisponibile del Comune, al quale dal 1812 erano stati trasferiti i beni delle vicinanze allora abolite.
È un fatto che il Comune di Carrara non ha mai incluso i beni estimati tra quelli appartenenti al proprio patrimonio indisponibile; e che, quando, nel 1994, ha adottato il suo primo regolamento che, ai sensi della legge mineraria del 1927, poneva fine alla vigente legislazione estense, quei beni non sono stati trattati.
La stessa legge regionale 5 dicembre 1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi dei Comuni di Massa e Carrara), con cui la Regione ha per la prima volta disciplinato la materia – istituendo, fra l’altro, un nuovo sistema concessorio di matrice regionale, con il quale viene reciso ogni legame con il livello estense – qualifica gli agri marmiferi di Massa e Carrara come beni del patrimonio indisponibile comunale «se di essi il Comune risulti proprietario ai sensi delle normative in atto all’entrata in vigore della presente» (art. 1, commi 1 e 2).
Di conseguenza, la riconduzione dei beni estimati ai beni del patrimonio indisponibile del Comune operata dall’impugnato art. 32, comma 2, si configura alla stregua di un’interpretazione autentica dell’editto di Maria Teresa, effettuata con legge della Regione, in palese contrasto con tutta la prassi precedente. Ciò, in base alla giurisprudenza di questa Corte, esula, nella materia, dalle competenze della Regione.
Infatti, «come precisato da questa Corte con la sentenza n. 232 del 2006, la potestà di interpretazione autentica spetta a chi sia titolare della funzione legislativa nella materia cui la norma è riconducibile» (sentenza n. 290 del 2009). Ed è innegabile che l’individuazione della natura pubblica o privata dei beni appartiene all’«ordinamento civile».
Pertanto, la Regione ha ecceduto i limiti della propria competenza legislativa, violando l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Il che è accaduto non in ragione degli interessi pubblici che il legislatore regionale ha inteso tutelare, ma perché a tale tutela la Regione deve, se lo ritiene, provvedere con le competenze che possiede, non con competenze che costituzionalmente non le spettano.
6.– Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura.