Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 marzo 2014 (r.o. n. 121 del 2014) il Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato.
Il rimettente riferisce che, nell’ambito del giudizio a quo, gli imputati erano stati ammessi al patrocinio a spese dell’Erario. Poiché tuttavia tale ammissione non risultava al momento dagli atti, il provvedimento di liquidazione dei compensi in favore di un perito psichiatra era stato adottato, in data 14 febbraio 2014, secondo le tariffe ordinarie, cioè senza tener conto della diminuzione stabilita dall’art. 106-bis del Testo unico in materia di spese di giustizia. Il giudice a quo ritiene, di conseguenza, che il provvedimento di liquidazione dovrebbe essere modificato, riducendo l’entità del compenso. Prima di procedere in tal senso, tuttavia, il rimettente solleva l’odierna questione, sul presupposto che l’obbligatoria riduzione sarebbe prescritta in violazione dell’art. 3 Cost., ed in particolare dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
Data la natura officiosa degli incarichi loro affidati, gli ausiliari del magistrato non si troverebbero in una posizione assimilabile a quella dei difensori, dei consulenti di parte o degli investigatori privati, essendo piuttosto in una condizione analoga a quella dei pubblici dipendenti che operano nel processo (magistrati, personale di cancelleria, agenti di polizia giudiziaria), la cui retribuzione non è certo condizionata, né razionalmente potrebbe esserlo, dall’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio.
Una violazione del principio di uguaglianza si riscontrerebbe anche riguardo al trattamento discriminatorio introdotto tra ausiliari chiamati ad identiche prestazioni, in base al dato del tutto estrinseco dell’intervenuta ammissione di una parte del processo al patrocinio a spese dello Stato.
Vi sarebbe anche un più generale connotato di irrazionalità della disciplina, poiché la riduzione de qua interviene su criteri di computo già comunemente ritenuti inadeguati, per difetto, all’impegno richiesto per le prestazioni di perizia o di interpretariato. Sarebbe dunque aggravata la difficoltà, già molto seria, di coinvolgere soggetti professionalmente affidabili, nell’interesse della giustizia, al fine di procurare le necessarie prestazioni di consulenza.
Il giudice a quo sostiene che la questione sarebbe rilevante, perché dall’esito del giudizio incidentale discenderebbe la necessità, o non, del prospettato decreto di riduzione della somma liquidata. Dato il tenore univoco della disposizione censurata, d’altra parte, non vi sarebbero margini per una interpretazione adeguatrice che eviti l’effetto lesivo denunciato.
2.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 5 agosto 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Lo Stato avrebbe valutato nella cifra di circa 10 milioni di euro il risparmio annuo determinato dalla norma censurata, la quale dunque sarebbe posta a tutela dell’equilibrio di bilancio, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 81, primo comma, e 117, terzo comma, Cost. Inoltre, l’indicata riduzione di spese implicherebbe l’ampliamento delle possibilità di accesso al patrocinio, assecondando il principio solidaristico fissato all’art. 2 Cost.
La Corte costituzionale avrebbe già ritenuto infondate questioni poste riguardo ad una «fattispecie sostanzialmente analoga per materia», concernente l’art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, con il quale è stata incisa la disciplina dei compensi liquidati ai difensori dall’autorità giudiziaria (ordinanza n. 261 del 2013).
D’altra parte – prosegue l’Avvocatura generale dello Stato – sarebbe impropria l’assimilazione, proposta dal rimettente, tra procedimenti nei quali vi sia stata ammissione al patrocinio a spese dello Stato e procedimenti diversi, come la giurisprudenza costituzionale avrebbe stabilito anche con specifico riferimento ai compensi professionali (sono citate le ordinanze n. 270 del 2012, n. 203 del 2010 e n. 195 del 2009).
3.– Con ordinanza del 21 maggio 2014 (r.o. n. 177 del 2014) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione collegiale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice.
In particolare è dedotta, in riferimento agli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., l’illegittimità dell’art. 4, comma 2, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria) – nella parte in cui determina in euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive – nonché dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 – come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013 – nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato.
3.1.– A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di due incarichi di traduzione, e afferma che, nella specie, andrebbero riconosciute al traduttore tre vacazioni per ognuno degli incarichi assegnatigli, per un importo complessivo di euro 61,96.
La somma indicata andrebbe ridotta di un terzo, e quindi fino ad euro 41,30, in applicazione del nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002. Assume infatti il Tribunale che tale norma si applichi anche ai traduttori ed interpreti, in quanto ausiliari del giudice, ed a prescindere dall’essere o non riferita la loro prestazione ad un giudizio nel quale sia stata accolta una domanda di patrocinio a spese dello Stato. Nonostante la sua collocazione, infatti, la norma de qua avrebbe portata generale, dovendosi altrimenti attribuire al legislatore la scelta, incongrua, di modulare il compenso per prestazioni identiche sulla base di un elemento del tutto estrinseco, appunto l’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio in favore del non abbiente.
3.2.– L’art. 4 della legge n. 319 del 1980 e l’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 contrasterebbero, come accennato, con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost.
3.2.1.– Il giudice a quo assume che, pur essendo il traduttore chiamato ad una prestazione obbligatoria di ufficio pubblico (art. 143, comma 4, del codice di procedura penale), riconducibile ai doveri di solidarietà sociale evocati dall’art. 2 Cost. ed alla nozione di prestazione personale che può essere imposta dalla legge (art. 23 Cost.), la disciplina censurata eccederebbe i limiti di ragionevolezza nella individuazione di prestazioni esigibili in nome dell’interesse comune.
3.2.2.– La disciplina censurata, in particolare, creando una «classe di operatori economici» assoggettati ad un sistematico sfruttamento economico (dannoso anche in quanto limita l’attività libero professionale) – per di più posto in essere da quello Stato che dovrebbe assicurare invece una generalizzata tutela dei diritti del lavoro – implicherebbe anzitutto il denunciato contrasto con l’art. 35 Cost.
I compensi previsti dalla legge, pur riscontrando la natura pubblicistica dell’incarico, dovrebbero comunque rapportarsi alle tariffe professionali, e sarebbero tanto più inadeguati in forza della prescritta riduzione di un terzo.
3.2.3.– Gli anzidetti fattori di squilibrio tra qualità della prestazione richiesta e relativo compenso sono richiamati dal Tribunale anche per denunciare la violazione dell’art. 36 Cost.
Il rimettente afferma di non ignorare come la Corte costituzionale, con ripetute pronunce (sentenze n. 41 del 1996 e n. 88 del 1970), abbia escluso il contrasto tra l’art. 4 della legge n. 319 del 1980 e la norma costituzionale citata, sul presupposto della differenza tra prestazione lavorativa ed adempimento dell’ufficio pubblico, che in genere è solo occasionalmente conferito, con la conseguenza tra l’altro che non è possibile verificare l’incidenza della prestazione singolarmente compensata sul reddito nel complesso realizzato dal professionista.
Il Tribunale ritiene però che sussistano le condizioni per un superamento della giurisprudenza richiamata. L’aumentata richiesta di assistenza linguistica avrebbe implicato un forte incremento del ricorso ad interpreti e traduttori, molti dei quali, d’altra parte, avrebbero raggiunto un elevato grado di specializzazione, ed avrebbero finanche effettuato investimenti utili ad un più celere adempimento dell’ufficio. Gli incarichi, dunque, anche in virtù delle norme in tema di incompatibilità, sarebbero sempre meno saltuari, con riduzione del tempo disponibile per altre attività, ed un adeguato compenso per il forte impegno richiesto sarebbe ormai essenziale per assicurare una retribuzione compatibile con i diritti degli interessati.
La legge stessa – ripete il Tribunale – farebbe riferimento generale alle tariffe professionali per la determinazione delle somme dovute agli ausiliari, ed oltretutto ne imporrebbe un periodico adeguamento al costo della vita, mai attuato. Dal canto proprio, la Corte costituzionale, con la ordinanza n. 306 del 2012, avrebbe espressamente qualificato i compensi dovuti agli ausiliari come «retribuzione per il lavoro prestato».
Insomma, prevedendo un compenso irrisorio per prestazioni altamente qualificate, le norme censurate contrasterebbero con gli artt. 35 e 36 Cost.
3.2.4.– Le norme in considerazione implicherebbero anche disparità di trattamento non giustificate, e quindi illegittime ex art. 3 Cost., non solo tra coloro che prestano opera professionale sul libero mercato e coloro che svolgono l’identica opera in quanto ausiliari del giudice. Anche all’interno di quest’ultima categoria, infatti, sarebbero stati recentemente introdotti trattamenti di maggior favore, con vacazioni commisurate sullo spazio di un’ora, e con compensi variabili tra 100 e 400 euro. Il riferimento concerne le fattispecie regolate dagli artt. 39-quater e seguenti del decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), come introdotti con l’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia 2 agosto 2013, n. 106.
Per quanto voglia riconoscersi alle professionalità interessate dalla nuova normativa un valore particolarmente elevato – osserva il rimettente – anche la disciplina risultante dall’art. 4 della legge n. 319 del 1980 e dal decreto del Ministro della giustizia 30 maggio 2002 (Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell’autorità giudiziaria in materia civile e penale), richiamato dalla legge, è riferita a prestazioni specialistiche (ad esempio, perizie grafologiche e foniche, traduzioni, interpretariato), che sarebbero non legittimamente discriminate rispetto alle altre.
Alla disuguaglianza non potrebbe porsi rimedio con la disapplicazione del risalente decreto ministeriale, direttamente richiamato dalla legge. Quand’anche poi si ritenesse possibile il ricorso al criterio generale di liquidazione dei compensi per prestazioni d’opera o servizi, fissato nell’art. 2225 del codice civile, la retribuzione resterebbe incompatibile col principio di uguaglianza, perché necessariamente ridotta di un terzo in applicazione dell’art. 106-bis del citato d.P.R. n. 115 del 2002.
Il rimettente sostiene che la disciplina censurata ostacola il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, poiché incentiva i migliori professionisti a sottrarsi con ogni possibile espediente all’ufficio loro conferito, e comunque spingerebbe gli ausiliari ad indicare in eccesso il tempo utilizzato per la propria prestazione, così aggravando gli oneri di controllo del giudice e determinando un sistema irrazionale, non compatibile con il principio di ragionevole durata del processo.
3.2.5.– La congenita inadeguatezza della disciplina primaria di computo dei compensi – aggravata, come sostiene il rimettente, per effetto dell’introduzione, nel d.P.R. n. 115 del 2002, del nuovo art. 106-bis, che impone la riduzione di un terzo degli onorari spettanti, tra l’altro, ai consulenti nominati dal giudice – determinerebbe altresì la violazione dell’art. 53 Cost.: verrebbero infatti perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una parte soltanto dei contribuenti, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
4.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato l’11 novembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ovvero manifestamente infondate.
Sostiene l’Avvocatura generale – in primo luogo – che la materia della determinazione dei compensi da corrispondere per le prestazioni cui sono chiamati gli ausiliari del giudice sarebbe riservata alla discrezionalità legislativa, e non sarebbe dunque sindacabile, fuori del caso della manifesta irrazionalità. In tal senso si sarebbe più volte già pronunciata la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88 del 1970 e ordinanza n. 128 del 2002).
Queste stesse decisioni (cui si aggiunge la sentenza n. 41 del 1996) smentirebbero l’assunto presupposto alle questioni sollevate ex artt. 3, 35 e 36 Cost., e cioè che l’attività dell’ausiliario consista di una prestazione di lavoro. Sarebbe dunque impropria l’evocazione delle tariffe professionali quale metro di riferimento dei compensi. Resterebbe attuale, d’altra parte, l’impossibilità di valutare l’effettiva incidenza dei singoli contributi sull’intera attività professionale degli interessati, e quindi sui redditi complessivamente ricavati dalla medesima attività.
Anche la presunta violazione dell’art. 53 Cost. sarebbe già stata esclusa dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 2 del 1981), trattandosi di prestazioni di facere prive di ogni attinenza alla capacità contributiva, e non giustificandosi l’affermazione del rimettente che la disciplina censurata scaricherebbe solo su alcune categorie di lavoratori i costi delle politiche di bilancio.
5.– Con ordinanza del 28 maggio 2014 (r.o. n. 216 del 2014) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione collegiale, ha sollevato plurime questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice.
In particolare, è dedotta l’illegittimità: 1) dell’art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980, nella parte in cui determina in euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive; 2) dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato; 3) dell’art. 1, comma 607, della citata legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che la disposizione di cui alla lettera b) del precedente comma 606 si applica alle liquidazioni successive alla entrata in vigore della stessa legge n. 147 del 2013, e dunque anche nei casi in cui la prestazione dell’ausiliario sia stata completamente espletata in epoca anteriore.
La terza delle norme censurate contrasterebbe con l’art. 3 Cost., mentre le altre due violerebbero il disposto degli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost.
5.1.– A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di dieci incarichi peritali ad opera di uno stesso soggetto, tutti consistenti in indagini grafologiche. La richiesta del perito è stata depositata ampiamente oltre il termine decadenziale di cui all’art. 71 del d.P.R. n. 115 del 2002. Il Tribunale, tuttavia, all’esito di una lunga disamina, conclude che il ritardo sarebbe nella specie dovuto a causa di forza maggiore (la malattia e la morte di un familiare dell’interessato), il che, anche per effetto di una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina, dovrebbe escludere l’intervenuta decadenza dal diritto alla liquidazione, con conseguente necessità per lo stesso Tribunale di valutare il merito della relativa domanda, esercitando una funzione propriamente giurisdizionale (idonea dunque alla proposizione dell’incidente di costituzionalità).
Sempre a titolo di premessa, dopo aver ricostruito il quadro normativo in materia, il rimettente afferma che nella specie andrebbero riconosciute al perito 110 vacazioni per ognuno dei dieci incarichi assegnatigli, per un importo complessivo che, al lordo della prescritta riduzione di un terzo, assommerebbe a 9.033,00 euro, cui dovrebbe aggiungersi una piccola somma ulteriore per i tempi di trasferimento e permanenza presso gli uffici giudiziari.
Il compenso, secondo il rimettente, non sarebbe adeguato all’impegno profuso dal perito per l’espletamento degli incarichi. D’altra parte, pur essendosi gli incarichi anzidetti esauriti (compreso l’esame del perito in sede dibattimentale) prima dell’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, l’importo indicato dovrebbe essere ridotto di un terzo, portando la retribuzione oraria per le vacazioni successive alla prima sotto la soglia dei 3 euro. Assume infatti il Tribunale che il menzionato art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 dev’essere applicato «retroattivamente», anche ai periti d’ufficio in quanto ausiliari del giudice, a prescindere dalla circostanza che la loro prestazione si riferisca ad un giudizio nel quale sia stata accolta una domanda di patrocinio a spese dello Stato. Nonostante la sua collocazione, infatti, la norma de qua dovrebbe essere interpretata nel senso della sua applicabilità a qualunque giudizio penale, poiché altrimenti si determinerebbe una ingiusta discriminazione tra gli ausiliari del magistrato, per prestazioni identiche, sulla base di un elemento del tutto estrinseco, appunto l’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio in favore del non abbiente.
5.2.– L’art. 4 della legge 319 del 1980 contrasterebbe con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., per ragioni che il rimettente collega, in larga parte, anche agli effetti prodotti dalla riduzione dei compensi prescritta dall’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002.
Riprendendo gli argomenti esposti nella propria precedente ordinanza (r.o. n. 177 del 2014), il Tribunale ordinario di Lecce rileva che l’inadeguatezza strutturale delle tariffe previste dalla legge sarebbe aggravata da due fattori concorrenti. Il primo consisterebbe nell’omissione degli adeguamenti periodici al costo della vita, che pur sono imposti dalla legge (e sono stati sollecitati dalla stessa Corte costituzionale). Il secondo, nella previsione del nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, dal quale discende la necessità di ridurre di un terzo gli importi calcolati secondo la già deficitaria disciplina della legge n. 319 del 1980. L’indicata diminuzione non potrebbe giustificarsi per la natura pubblicistica del rapporto cui accede la prestazione, poiché di tale natura la legge già terrebbe conto, ex art. 50 del Testo unico, dettando i criteri di quantificazione primaria dei compensi dovuti agli ausiliari.
Si ribadisce, dunque, dal Tribunale, che la disciplina censurata darebbe vita ad una «classe di operatori economici» assoggettati ad un sistematico sfruttamento, proprio da parte dello Stato, con violazione concorrente degli artt. 35 e 36 Cost.
5.3.– Sempre riprendendo argomenti già svolti nella precedente ordinanza, il rimettente denuncia anche, e nuovamente, violazioni dell’art. 3 Cost., poiché l’art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980 determinerebbe disparità di trattamento non giustificate tra coloro che prestano opera professionale sul libero mercato e coloro che prestano l’identica opera in quanto ausiliari del giudice. Inoltre, pur essendo applicabile anche a prestazioni di elevato livello specialistico, la stessa norma prevedrebbe compensi assai minori di quelli riconosciuti ad altri ausiliari del giudice, ai quali – secondo il Tribunale – si riferirebbero gli artt. 39-quater e seguenti del d.m. n. 140 del 2012, come introdotti con d.m. n. 106 del 2013.
Il rimettente esclude, anche in questo caso, la possibilità di disapplicare le tariffe previste dal d.m. 30 maggio 2002, e di nuovo afferma che, del resto, neppure il ricorso ai criteri di computo dell’art. 2225 cod. civ. garantirebbe agli ausiliari una retribuzione adeguata, data la necessaria riduzione di un terzo in applicazione dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002.
5.4.– Il Tribunale insiste nell’assunto per cui la congenita inadeguatezza della disciplina primaria di computo dei compensi sarebbe stata aggravata dall’introduzione, nel d.P.R. n. 115 del 2002, del nuovo art. 106-bis. Tale ultima norma è posta ad oggetto di autonoma censura, anch’essa per il ritenuto contrasto con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., proprio in quanto non farebbe che aggravare i profili di illegittimità costituzionale che già connotano l’art. 4 della legge n. 319 del 1980.
Con specifico riguardo al denunciato art. 106-bis, il rimettente sottolinea poi l’asserita violazione dell’art. 53 Cost.: il legislatore avrebbe perseguito risparmi di bilancio scaricandone il costo su una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo alla loro capacità contributiva.
5.5.– Ancora, il Tribunale deduce la violazione dell’art. 3 Cost. con riguardo al comma 607 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, ove sarebbe disposta l’efficacia retroattiva della prescrizione relativa alla diminuzione degli onorari peritali.
La norma infatti provocherebbe una discriminazione tra i periti che abbiano ultimato le proprie prestazioni prima della sua entrata in vigore, a seconda che il giudice abbia o non provveduto alla valutazione delle relative domande di liquidazione.
Inoltre, si tratterebbe di una disciplina sostanziale che produce effetti retroattivi su rapporti non di durata, e per ciò stesso suscettibile di indurre ingiustificate disparità di trattamento. È vero – osserva il Tribunale – che il principio della produzione di effetti solo per il futuro non assume illimitata valenza sul piano costituzionale, quando si tratti di leggi che incidono su rapporti di natura civile. Occorre tuttavia che l’effetto retroattivo non produca conseguenze irragionevoli, con frustrazione dell’aspettativa dei consociati nella stabilità delle situazioni giuridiche. In particolare, non sarebbe possibile regolare sfavorevolmente per il privato rapporti intrattenuti con la pubblica amministrazione (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 92 del 2013, relativa alla decurtazione con efficacia retroattiva dei compensi previsti per i custodi giudiziari). E ciò varrebbe a maggior ragione per i rapporti non di durata, nel cui ambito il privato abbia già svolto per intero la propria prestazione, e solo la controparte pubblica sia chiamata ad adempiere la propria obbligazione, che non potrebbe essere ridotta senza alcuna razionale giustificazione.
L’applicazione della giurisprudenza sulla tutela dell’affidamento, secondo il giudice a quo, non sarebbe preclusa dalla natura non negoziale del rapporto tra l’ausiliario del giudice e l’amministrazione pubblica. Per quanto obbligatoria, la prestazione non sarebbe del tutto priva di una base volontaristica, visto che deve essere normalmente richiesta a soggetti iscritti in appositi albi, nei quali sono stati inseriti su loro domanda: una domanda che sarebbe determinata, a sua volta, da una ragionevole aspettativa circa la convenienza economica dell’effettuazione di consulenze professionali in ambito giurisdizionale. Da questa valutazione, secondo il Tribunale, scaturirebbe comunque un affidamento tutelabile, pur nell’assenza di un negozio volontario quale causa prossima della prestazione in favore dello Stato.
La denunciata irragionevolezza sarebbe massima una volta riferita, addirittura, a prestazioni già completamente esaurite, come nella specie, prima della legge retroattiva.
6.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 23 dicembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili ovvero infondate.
6.1.– In primo luogo. le questioni concernenti i commi 606 e 607 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013 sarebbero prive di rilevanza nel giudizio a quo. Erroneamente si sarebbe sostenuto, dal Tribunale, che la riduzione (retroattiva) di un terzo dei compensi riguardi anche i procedimenti non interessati da provvedimenti di ammissione al patrocinio a spese dell’Erario. La soluzione contraria sarebbe imposta dalla sede nella quale la nuova norma è stata inserita (cioè quella della disciplina del patrocinio per i non abbienti nel processo penale) e dalla stessa ratio dell’intervento di riforma, mirato a ridurre la spesa pubblica, dunque giustificato nei soli casi in cui le spese del procedimento, anziché essere poste a carico del condannato, sarebbero comunque sostenute dall’Erario.
6.2.– La finalità appena indicata renderebbe comunque conto, secondo l’Avvocatura generale, dell’infondatezza delle questioni sollevate. Sarebbe stato infatti perseguito, riducendo i compensi per tutti i soggetti che agiscono nell’ambito del processo penale concernente persone non abbienti, un «valore supremo», cioè la necessità di contenere la spesa pubblica, ed in particolare quella, ormai asseritamente ingentissima, per il patrocinio a spese dell’Erario, da rendere comunque compatibile in un quadro di complessiva riduzione delle risorse disponibili per l’amministrazione della giustizia.
In tale quadro, la clausola di retroattività per la nuova riduzione del terzo, relativamente a compensi non ancora liquidati, sarebbe indispensabile per rendere concreto ed immediato il necessario risparmio di spesa. Non si tratterebbe, quindi, di una deroga irragionevole al principio di efficacia solo futura della legge.
Quanto alla pretesa sperequazione tra soggetti che avessero già presentato richiesta di liquidazione dei compensi nel momento di entrata in vigore della norma censurata, a seconda della maggiore o minore celerità dei giudici per l’adozione del relativo provvedimento, si tratterebbe di un inconveniente di mero fatto, non direttamente riconducibile alla disciplina censurata.
7.– Con ordinanza del 17 giugno 2014 (r.o. n. 14 del 2015) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice.
In particolare è dedotta, in riferimento agli artt. 3, 36 e 53 Cost., l’illegittimità dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 – come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013 – nella parte in cui non subordina l’applicabilità della prevista riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del giudice «all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative […], previsto dall’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002».
È sollevata, inoltre, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui, prevedendo l’applicazione del comma precedente per tutte le liquidazioni da effettuarsi dopo l’entrata in vigore della medesima legge, impone la riduzione di un terzo anche con riferimento a prestazioni professionali in tutto od in parte antecedenti alla legge medesima.
7.1.– A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di una perizia sull’imputabilità della persona sottoposta a giudizio.
Il rimettente osserva che, nella specie, deve applicarsi l’art. 24 del d.m. 30 maggio 2002, e che, valutati i valori minimi e massimi previsti dalla disciplina, ed il pregio concreto dell’opera svolta dal perito, andrebbe liquidata la somma di 240,00 euro, oltre ad altri 205,81 euro di rimborso per spese previamente autorizzate (somministrazione di test psicologici). Sul primo importo dovrebbe applicarsi la riduzione di un terzo prevista dal nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, sebbene la prestazione sia stata svolta per la gran parte (cioè con la sola eccezione dell’esame dibattimentale) prima dell’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, poiché la richiesta di liquidazione del compenso è intervenuta successivamente alla novella, e trova dunque applicazione il comma 607 dell’art. 1 della stessa legge n. 147 del 2013.
Le norme censurate sarebbero senz’altro applicabili nel caso di specie, posto che si procede nei confronti di persona già ammessa al patrocinio a spese dell’Erario.
7.2.– Il Tribunale ritiene che la prevista riduzione del compenso non possa trovare giustificazione nella natura pubblicistica del relativo incarico, posto che di tale natura la legge già tiene conto a livello di disciplina primaria dei criteri di determinazione, secondo il disposto dell’art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002.
È motivato dal rimettente, in primo luogo, il giudizio di non manifesta infondatezza del dubbio concernente l’efficacia “retroattiva” della previsione. È vero – si sostiene – che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto ammissibile la retroattività di disposizioni sopravvenute a regolare rapporti di natura civile; tuttavia, nella specie, sarebbe stato superato il limite della ragionevolezza e della necessaria tutela dell’affidamento nella sicurezza delle situazioni giuridiche (è citata, tra l’altro, la sentenza della Corte costituzionale n. 92 del 2013).
Non si sarebbe infatti in presenza di un rapporto di durata, ma di una prestazione già eseguita, completamente o per la gran parte, da un determinato soggetto, a fronte della quale interviene una norma che riduce la portata della prestazione dovuta dall’altra parte. Né la riduzione potrebbe essere giustificata nell’ottica di un recupero di proporzionalità, poiché anzi sussisterebbe l’esigenza opposta, visto che lo Stato, pure impegnato dalla legge ad effettuare adeguamenti triennali delle tabelle per i compensi agli ausiliari, sarebbe inadempiente in proposito da oltre 12 anni.
Non rileva, secondo il Tribunale, la fonte non negoziale della prestazione, e del resto quest’ultima non sarebbe del tutto priva d’un connotato di volontarietà, visto che gli incarichi peritali devono di norma essere conferiti a soggetti che siano stati iscritti, su loro domanda, in appositi albi.
7.3.– Riprendendo argomenti già svolti nelle precedenti ordinanze (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014), il Tribunale ordinario di Lecce assume che la norma con la quale è imposta la riduzione di un terzo dei compensi per gli ausiliari del giudice confligge, in particolare, con gli artt. 3 e 36 Cost., anzitutto perché tali compensi diverrebbero inferiori, in misura non ragionevole, a quelli spettanti per identiche prestazioni, secondo i criteri di mercato. D’altra parte, sempre richiamando argomenti già svolti, il rimettente sostiene che dovrebbe essere superata la risalente giurisprudenza costituzionale sull’irrilevanza della materia nella prospettiva dell’art. 36 Cost., poiché, in ragione di mutamenti normativi e sociali, molti specialisti (anche psichiatri) sarebbero ormai impegnati in misura esclusiva o prevalente quali ausiliari del giudice, da ciò dovendo ricavare una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e tale comunque da assicurare una esistenza libera e dignitosa.
La legge stessa – ripete il Tribunale – farebbe riferimento generale alle tariffe professionali per la determinazione delle somme dovute agli ausiliari, ed oltretutto ne imporrebbe un periodico adeguamento al costo della vita, mai attuato nonostante le sollecitazioni in tal senso della Corte costituzionale. Dal canto proprio quest’ultima, con la ordinanza n. 306 del 2012, avrebbe espressamente qualificato i compensi dovuti agli ausiliari come «retribuzione per il lavoro prestato».
7.4.– Il Tribunale assume infine che, considerate insieme, le due norme censurate violerebbero anche l’art. 53 Cost. perché finalizzate al perseguimento di obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una parte soltanto dei contribuenti, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
8.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 17 marzo 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
La finalità delle norme censurate sarebbe quella di realizzare un risparmio di spesa nell’ambito di procedimenti ove, in linea di tendenza, le stesse spese processuali si pongono a carico dell’Erario, invece che dell’eventuale condannato. Il contenimento della spesa pubblica sarebbe «valore supremo», tale da legittimare l’intervento legislativo, anche data la dilatazione pregressa ed incontrollata degli oneri connessi al patrocinio a spese dello Stato.
La retroattività della previsione censurata non sarebbe irragionevole, in quanto diretta a provocare un risparmio immediato. Il trattamento eventualmente differenziato di ausiliari che avessero già richiesto la liquidazione dei compensi alla data di entrata in vigore della novella, a seconda che il giudice avesse o non provveduto sulle istanze, rappresenterebbe un inconveniente di fatto, non direttamente riconducibile alla disciplina denunciata (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 362 del 2008).
Considerato in diritto
1.– Con quattro distinte ordinanze, il Tribunale ordinario di Grosseto in composizione monocratica (r.o. n. 121 del 2014) e il Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015) e collegiale (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014), hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale in relazione a norme che disciplinano, tra l’altro, la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del magistrato.
Sono censurate, in particolare, tre distinte disposizioni.
Anzitutto, è in questione l’art. 4, comma 2, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), nella parte in cui determina in euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive.
In secondo luogo, è censurato l’art. 106-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti, tra gli altri, agli ausiliari del magistrato.
Infine, è proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che la disposizione di cui alla lettera b) del precedente comma 606 si applica alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della stessa legge n. 147 del 2013, e dunque anche nei casi in cui la prestazione dell’ausiliario sia stata espletata in epoca anteriore.
1.1.– Il Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale, con entrambe le proprie ordinanze, censura il citato art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980 unitamente al pure citato art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, prospettando la violazione di diversi parametri costituzionali.
Viene richiamato, anzitutto, l’art. 35 della Costituzione, poiché contrasterebbe con l’obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni l’imposizione di prestazioni officiose remunerate con compensi modestissimi e comunque insufficienti, anche in quanto non adeguati periodicamente all’aumento del costo della vita, ed anzi, a partire dal 2014, ridotti nella misura di un terzo.
È poi richiamato l’art. 36 Cost., poiché la previsione censurata non assicurerebbe agli interessati una retribuzione proporzionata per qualità e quantità al lavoro prestato, e in ogni caso sufficiente a condurre un’esistenza libera e dignitosa.
È invocato, inoltre, l’art. 3 Cost., in quanto la previsione degli indicati compensi discriminerebbe irragionevolmente gli ausiliari del giudice rispetto a coloro che rendano prestazioni analoghe in base alle tariffe professionali di mercato, ed anche in quanto, tra gli stessi ausiliari del giudice, discriminerebbe coloro ai quali è applicabile la norma censurata rispetto alle categorie di consulenti cui si applica invece la disciplina dell’art. 39-quater e seguenti del decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), come introdotti con l’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia 2 agosto 2013, n. 106.
Lo stesso art. 3 Cost. sarebbe violato sotto un ulteriore profilo, poiché la previsione di onorari gravemente inadeguati – allontanando le migliori professionalità e rendendo nel complesso difficoltoso il reperimento di soggetti disponibili – intralcerebbe l’acquisizione delle prestazioni professionali degli ausiliari, prolungando i tempi di definizione dei processi e delle stesse procedure di liquidazione dei compensi (stante la possibile dilatazione dei tempi indicati per l’espletamento degli incarichi), così determinando una complessiva «irragionevolezza di sistema».
È richiamato, infine, l’art. 53 Cost., poiché attraverso la normativa censurata sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio, mediante l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
1.2.– Il Tribunale ordinario di Grosseto (r.o. n. 121 del 2014), dal canto suo, censura il citato art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, sempre nella parte in cui prescrive la riduzione di un terzo dei compensi per gli ausiliari del magistrato, in relazione all’art. 3 Cost., sotto tre diversi profili: da un primo punto di vista, in quanto irragionevolmente equiparerebbe gli ausiliari del giudice al difensore e alle parti del processo nella prevista riduzione di un terzo dei compensi; inoltre, in quanto irragionevolmente differenzierebbe il trattamento degli ausiliari, a parità di prestazioni, a seconda che prestino o non la propria opera in procedimenti in cui sia stata disposta l’ammissione di una parte al patrocinio a spese dell’Erario; infine, in quanto determinerebbe una complessiva irrazionalità della disciplina delle consulenze tecniche nel processo penale, aggiungendo una riduzione ai livelli già inadeguati dei compensi, e determinando quindi gravi difficoltà nell’acquisizione di prestazioni effettuate con scrupolo da soggetti professionalmente qualificati.
1.3.– Lo stesso art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 è censurato anche dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015), per l’asserito contrasto con l’art. 53 Cost., in quanto sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
Con la medesima ordinanza, la norma in questione è ulteriormente sospettata d’illegittimità costituzionale, nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato senza che la previsione di questa decurtazione sia «subordinata all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative ai compensi spettanti agli ausiliari del giudice, previsto dall’art. 54» dello stesso Testo unico: ciò avverrebbe in asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto discriminerebbe, senza giustificazione, gli ausiliari del giudice rispetto a coloro che effettuano analoghe prestazioni sul libero mercato professionale, privando gli stessi ausiliari di una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e comunque idonea ad assicurare loro un’esistenza libera e dignitosa.
1.4.– Infine, con due delle già citate ordinanze del Tribunale ordinario di Lecce (r.o. n. 216 del 2014 e n. 14 del 2015), è censurato l’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che le disposizioni del precedente comma 606, lettera b), si applichino alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della stessa legge, e dunque con riguardo anche a prestazioni in tutto o in parte eseguite prima della legge medesima.
È qui prospettato, in particolare, un contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto l’efficacia retroattiva della disposizione sostanziale che incide sul diritto alla remunerazione dei consulenti sarebbe disposta in assenza di una ragionevole giustificazione. La norma, inoltre, distinguerebbe irragionevolmente tra gli ausiliari che abbiano ultimato la propria prestazione ed avanzato richiesta di liquidazione dei compensi prima dell’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, a seconda che il giudice abbia o non tempestivamente provveduto sulla relativa domanda (r.o. n. 216 del 2014).
Infine, vi sarebbe violazione anche dell’art. 53 Cost., poiché sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva (r.o. n. 14 del 2015).
2.– La sostanziale comunanza delle norme censurate, dei parametri costituzionali invocati, nonché dei profili e delle argomentazioni utilizzate, comporta che i giudizi vengano riuniti e decisi con unica pronuncia.
3.– Tutte le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Grosseto (r.o. n. 121 del 2014) vanno dichiarate inammissibili.
Come risulta dalla stessa ordinanza di rimessione, il Tribunale aveva già provveduto alla liquidazione dell’onorario per il perito psichiatra, dopo l’entrata in vigore della legge n. 147 del 2013, senza operare la diminuzione prescritta dal nuovo art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, da quella introdotto. Ciò sarebbe avvenuto per un disguido concernente la formazione del fascicolo processuale, per effetto del quale, in sostanza, il Tribunale avrebbe ignorato, al momento della liquidazione, che nel procedimento in corso l’imputato era stato ammesso al patrocinio a spese dell’Erario.
Muovendo dal presupposto che proprio e solo tale circostanza implichi l’applicazione necessaria dell’art. 106-bis, il rimettente ritiene di dover procedere ad una revoca o modifica del provvedimento emesso, che definisce in vario senso, ma che comunque dovrebbe dar luogo ad una riduzione della somma liquidata. Dalla ritenuta necessità dell’intervento, il Tribunale desume quella dell’applicazione della norma censurata, che giudica illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost.
È, tuttavia, manifesto che il provvedimento ipotizzato dal rimettente, quale condizione di rilevanza della questione sollevata, sarebbe illegittimo. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che il procedimento di liquidazione dei compensi agli ausiliari presenta carattere giurisdizionale (il che, del resto, condiziona la possibilità stessa di sollevare, in tale sede, questioni di legittimità costituzionale: sentenza n. 88 del 1970). Per tale ragione, non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva, naturalmente, la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini, i provvedimenti di liquidazione non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione.
Pur a fronte di una così vistosa preclusione del provvedimento programmato, il Tribunale rimettente ha omesso di proporre una qualsiasi motivazione a sostegno del superamento di quest’ultima, e, in definitiva, delle ragioni che avrebbero dovuto condurlo a fare applicazione della norma sospettata d’illegittimità costituzionale.
Ciò determina l’inammissibilità delle questioni sollevate, per mancata illustrazione dei presupposti interpretativi che implicano la necessità di applicare la disposizione censurata (ex multis, sentenze n. 18 del 2015 e n. 249 del 2010, ordinanza n. 95 del 2012).
4.– Tutte le questioni poste dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014) sono a loro volta inammissibili, per difetto di rilevanza.
Come infatti risulta per tabulas dalle stesse ordinanze di rimessione, nei giudizi a quibus non vi è stata ammissione di alcuna parte processuale al patrocinio a spese dell’Erario. Per questo, non si deve fare applicazione della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 606, lettera b) – cioè dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, che prevede che gli importi spettanti, tra gli altri, all’ausiliario del magistrato, siano ridotti di un terzo – né, conseguentemente, del successivo comma 607 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, il quale stabilisce che la decurtazione ricordata si applichi alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della stessa legge.
Sebbene il limite non risulti dal tenore letterale della norma censurata, la circostanza che l’obbligo di riduzione dei compensi operi con riguardo ai soli giudizi con patrocinio a carico erariale, come sostiene anche l’Avvocatura generale dello Stato nell’atto di intervento per il giudizio r.o. n. 216 del 2014, risulta da una serie univoca di argomenti.
In primo luogo, la disposizione censurata è stata inserita nel Titolo II della Parte III del d.P.R. n. 115 del 2002, che riguarda le «Disposizioni generali sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario», ed in particolare nel capo V, destinato a regolare la designazione, ad opera della parte ammessa, di «Difensori, investigatori e consulenti tecnici di parte», e la relativa remunerazione.
In secondo luogo, il carattere peculiare della disposizione assume coerenza solo in rapporto ad una ratio di contenimento della spesa pubblica, che a sua volta si manifesta in termini di massima cogenza con riguardo ai procedimenti nei quali vi sia ammissione al patrocinio a carico erariale. L’ammissione al beneficio comporta infatti che alcune spese processuali siano gratuite (e che dunque i costi relativi siano direttamente sostenuti dall’Erario), e che altre siano anticipate dallo Stato (art. 107 del d.P.R. n. 115 del 2002), per restare definitivamente a carico del medesimo, a meno che il provvedimento di ammissione non venga revocato (art. 111 del Testo unico): ciò che ovviamente differenzia tali procedimenti rispetto a quelli “ordinari”, nei quali, in caso di condanna, le spese processuali sono poste a carico dell’imputato.
Si deve aggiungere che la disposizione censurata accomuna nel medesimo trattamento, da un lato, gli ausiliari del magistrato e, dall’altro, gli avvocati difensori, gli investigatori privati autorizzati ed i consulenti tecnici di parte. Per i professionisti del secondo gruppo un problema di liquidazione dei compensi si pone solo in sede di patrocinio a spese erariali, giacché, altrimenti, la retribuzione spetta al privato che richiede le relative prestazioni professionali. L’accostamento non avrebbe perciò senso, una volta trasportato fuori della peculiare dimensione data dall’intervento erariale nel procedimento.
Appare, dunque, non plausibile l’assunto dal quale muove il Tribunale rimettente, secondo cui sarebbe necessaria una sorta di interpretazione adeguatrice, ad evitare che si attribuisca al legislatore l’intento, asseritamente assurdo, di retribuire diversamente la stessa prestazione a seconda che sia intervenuta o non l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
L’inapplicabilità nei giudizi a quibus delle norme introdotte con la legge n. 147 del 2013 priva di rilevanza – e, comunque, di adeguato sostegno argomentativo in punto di non manifesta infondatezza – anche le censure che il Tribunale rimettente ha proposto riguardo all’art. 4, comma 2, della legge n. 319 del 1980, direttamente attribuendo alla medesima la regolazione dei compensi attualmente corrisposti per le prestazioni remunerate a tempo. Infatti, l’incompatibilità della disciplina delle vacazioni con i vari parametri costituzionali evocati è stata prospettata unicamente in ragione dell’incidenza del nuovo art. 106-bis sui valori in precedenza fissati.
5.– Restano da esaminare, a questo punto, le sole questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015).
Il più volte citato art. 106-bis è censurato, per asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato, senza che tale previsione sia «subordinata all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative ai compensi spettanti agli ausiliari del giudice, previsto dall’art. 54» dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002.
5.1.– La questione, sollevata in questi peculiari termini, è fondata, con esclusivo riferimento all’art. 3 Cost.
In sede di giudizio di legittimità costituzionale, la ragionevolezza di un intervento legislativo ha da essere apprezzata anche alla luce del contesto normativo in cui avviene e delle condizioni che, di fatto, caratterizzano la materia e il settore sui quali è operato l’intervento stesso.
Nel caso di specie, è in questione un significativo e drastico intervento di riduzione dei compensi spettanti, tra gli altri, all’ausiliario del magistrato. L’intervento di riduzione è attuato con la legge di stabilità del 2014, ad opera di un legislatore che non poteva ignorare come si trattasse di compensi che, a norma dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002, avrebbero dovuto essere periodicamente rivalutati.
A fronte di una disposizione legislativa, appunto l’art. 54 ora citato, che impone l’aggiornamento della misura degli onorari dei soggetti in questione, ogni tre anni, in relazione alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, tale adeguamento non risulta essere intervenuto da oltre un decennio (allo stato, l’ultimo risulta operato con il decreto ministeriale 30 maggio 2002).
Sicché, dopo un decennio ed oltre di inerzia amministrativa, la base tariffaria sulla quale calcolare i compensi risulta ormai seriamente sproporzionata per difetto, anche a voler considerare, come richiede l’art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002, che la misura degli onorari in esame, rapportata alle vigenti tariffe professionali, dev’essere contemperata (e quindi ridotta) in relazione alla natura pubblicistica della prestazione richiesta (riduzione già attuata nella fissazione dei valori di partenza).
La mancata attuazione, in sede amministrativa, del vincolo di adeguamento previsto dalla fonte primaria (analoghe inadempienze, in passato, furono stigmatizzate da questa Corte: sentenze n. 41 del 1996 e n. 88 del 1970; ordinanze n. 234 del 2001 e n. 69 del 1979) ben può trovare idonei rimedi in altra sede (sentenza n. 41 del 1996 e ordinanza n. 234 del 2001).
Tuttavia, per il legislatore della legge di stabilità per il 2014, tale mancata attuazione costituiva un dato caratterizzante della materia che si apprestava ad incidere: e il non averne tenuto conto, nel momento in cui veniva deciso un significativo intervento di riduzione, induce a concludere, nella prospettiva segnata dall’art. 3 Cost., che la scelta legislativa abbia superato il limite della manifesta irragionevolezza.
Non è, infatti, riconducibile ai pur ampi margini spettanti alla discrezionalità legislativa una scelta attuata senza una preliminare valutazione complessiva della materia, necessaria per compiere un ragionevole bilanciamento tra esigenze di contenimento della spesa e remunerazione, sia pure secondo i ricordati criteri di contemperamento, degli incarichi in questione.
In tale prospettiva, va considerato come si tratti, nella specie, di prestazioni tendenzialmente non ricusabili dall’interessato, il quale, in quanto pubblico ufficiale, è obbligato alla fedele e diligente esecuzione delle proprie competenze professionali (ed è, questo, un profilo che differenzia l’ausiliario del magistrato dagli altri soggetti indicati nell’art. 106-bis in esame).
Si aggiunga, infine, che vanno adeguatamente apprezzate anche le ricadute “di sistema” di una disciplina che, nelle condizioni descritte, può favorire, per un verso, applicazioni strumentali o addirittura illegittime delle norme, a fini di adeguamento de facto dei compensi (ad esempio mediante un’indebita proliferazione degli incarichi o un pregiudiziale orientamento verso valori tariffari massimi), e, per l’altro, comportare un allontanamento, dal circuito dei consulenti d’ufficio, dei soggetti dotati delle migliori professionalità.
Risulta, in definitiva, manifestamente irragionevole un intervento di riduzione della spesa erariale in materia di giustizia – pur, come tale, sicuramente riferibile alla discrezionalità legislativa nel contesto della congiuntura economico-finanziaria – adottato senza attenzione a che la riduzione operi su tariffe realmente congruenti con le stesse linee di fondo del d.P.R. n. 115 del 2002: dunque su tariffe, da un lato, proporzionate (sia pure per difetto, tenendo conto del connotato pubblicistico) a quelle libero-professionali (che per parte loro, nell’ambito di una riforma complessiva dei criteri di liquidazione, sono state aggiornate) e, dall’altro, preservate nella loro elementare consistenza in rapporto alle variazioni del costo della vita.
Per queste ragioni, l’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013, è costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002.
È salva, naturalmente, l’eventualità che sopravvenga una complessiva ridefinizione della materia ad opera del legislatore, tale da implicare il superamento del meccanismo di adeguamento cui si riferisce la norma citata da ultimo.
6.– Quanto all’art. 1, comma 607, della legge n. 147 del 2013, che stabilisce che la decurtazione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato si applichi alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della legge stessa, sono infondate le censure in proposito sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (le sole che residuano).
6.1.– È infondata la questione proposta in riferimento all’art. 53 Cost.
Infatti, questa Corte ha già espressamente escluso che le manovre legislative sulla determinazione degli onorari da liquidare per prestazioni rese in ambito processuale abbiano attinenza con la materia regolata dalla norma costituzionale de qua.
In particolare, si è stabilito che «il principio della capacità contributiva contenuto nell’art. 53 non può trovare applicazione riguardo a prestazioni di “facere”, come quelle degli ausiliari del giudice, che non hanno palesemente alcuna attinenza con gli obblighi tributari» (sentenza n. 2 del 1981). Più recentemente, si è ribadito che «nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore che abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata, per come dianzi dimostrato, dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario» (ordinanza n. 270 del 2012).
6.2.– È pure infondata la questione sollevata in riferimento all’asserita violazione dell’art. 36 Cost.
Va, sul punto, ribadita la giurisprudenza di questa Corte, per la quale tale parametro costituzionale è inconferente rispetto ai compensi per le prestazioni degli ausiliari: l’art. 36 Cost. «è male addotto, innanzitutto perché il lavoro svolto dai consulenti tecnici d’ufficio non si presta a rientrare in uno schema che involga un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione e quindi un qualsiasi giudizio sull’adeguatezza e sufficienza di quest’ultima». Inoltre, l’art. 36 Cost. si riferisce alla complessiva percezione di reddito da parte del lavoratore, che, occupando una porzione ragionevole del proprio tempo e della propria capacità, deve trarre dalla sua attività il necessario per sostenere sé e la famiglia. Nel caso degli ausiliari del magistrato, che svolgono prestazioni occasionali, anche se ripetute, «non c’è modo di valutare in che misura quel lavoro giochi nella complessiva attività di coloro che in concreto lo svolgono e come i compensi per le relative operazioni (a parte l’impossibilità o difficoltà di coglierne la totale entità) concorrano alla formazione dell’intero reddito professionale del singolo prestatore» (sentenza n. 88 del 1970, richiamata dalla sentenza n. 41 del 1996).
Non persuadono le notazioni in senso contrario del Tribunale ordinario di Lecce (operate, peraltro, nell’ambito di ordinanze concernenti questioni irrilevanti), tese a dimostrare che l’attività officiosa sarebbe ormai, di fatto, la fonte dominante od anche solo prevalente del reddito di tutti gli ausiliari dei magistrati. Ammesso (ma non concesso) che siano ancorate a linee di tendenza effettivamente riscontrabili a livello locale e settoriale, esse non assurgono a dato di comune esperienza, tale da indurre questa Corte a modificare la giurisprudenza ricordata.
6.3.– Infine, non è fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
La ragionevolezza della norma va misurata sulla sua effettiva portata precettiva, come risultante, tra l’altro, dall’odierno intervento di questa Corte.
In primo luogo, alla luce di tale intervento, essa sarà dunque destinata ad operare esclusivamente su compensi aggiornati, secondo un’ordinaria verifica del quadro normativo condotta dal giudice procedente, che distinguerà, per ciascun caso concreto, tra compensi liquidabili in base a previsioni tariffarie non adeguate e fattispecie opposte, salva l’eventuale sopravvenienza di complessivi interventi di riforma ad opera del legislatore.
Inoltre, il rimettente pone una questione di legittimità costituzionale che, negli esiti auspicati, mira a rendere immuni dalla decurtazione le prestazioni professionali «in tutto od in parte» esaurite prima dell’entrata in vigore della disposizione censurata.
La questione potrebbe essere plausibilmente posta per le sole prestazioni del tutto esaurite, e sempreché non si ritenga applicabile il principio, già affermato dalla giurisprudenza comune in casi analoghi, della irrilevanza della norma sopravvenuta per liquidazioni che, pur disposte dopo la norma stessa, riguardino fattispecie completamente esaurite in precedenza (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 ottobre 2012, n. 17405). Se invece, come nel caso di specie, si tratta di prestazioni anche solo in parte rese dopo l’entrata in vigore della novella legislativa, risulta non certo irragionevole l’applicazione di un solo regime tariffario, cioè quello vigente al momento della liquidazione, di talché diverrebbe impropria la stessa attribuzione alla norma di effetti retroattivi (ordinanza n. 261 del 2013).
La questione dunque, considerati i limiti della sua rilevanza nel giudizio a quo, risulta non fondata in rapporto al parametro evocato.