SENTENZA N. 110
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), promosso dal Tribunale ordinario di Venezia, nel procedimento vertente tra B.F. ed altri e la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altri, con ordinanza del 9 maggio 2014, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di B.F. ed altri nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 14 aprile 2015 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Felice Carlo Besostri e Anna Falcone per B.F. ed altri e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 maggio 2014 il Tribunale ordinario di Venezia ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 20 febbraio 2009, n. 10 (Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, concernente l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), nella parte in cui prevede, per la elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, una soglia di sbarramento per le liste che non abbiano conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi.
1.1.– Quanto al giudizio a quo, il giudice rimettente premette, in punto di fatto, che: a) nell’ambito di un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis cod. proc. civ., alcuni cittadini iscritti nelle liste elettorali di Comuni appartenenti alla circoscrizione dell’Italia nord-orientale per le elezioni del Parlamento europeo, hanno chiesto di accertare, nei confronti dello Stato, del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministero dell’interno, il loro diritto di esprimere il voto libero, eguale, personale e diretto nelle consultazioni elettorali, così come garantito dalla Costituzione, dal Trattato sull’Unione europea («TUE») e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea («TFUE»); b) secondo gli attori, tale diritto sarebbe violato dalle disposizioni indicate, perché l’attribuzione dei voti alle sole liste che hanno conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi priverebbe irragionevolmente una consistente porzione dell’elettorato italiano di una effettiva rappresentanza in seno al Parlamento europeo; c) è stata rigettata l’istanza degli attori di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea per violazioni del TUE (artt. 2, 6, 9, 10 e 14), del TFUE (artt. 20, 22, 223 e 224) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (preambolo, secondo capoverso; artt. 10, 12, 20, 21, 39, 51, 52 e 53), promossa sul rilievo che le norme impugnate violerebbero altresì l’art. 3 dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, n. 76/787/CECA/CEE/Euratom, come modificato dalla decisione del Consiglio 25 giugno 2002, n. 2002/772/CE/Euratom, il quale, nella versione consolidata (già art. 2-bis), stabilisce che gli Stati membri possono prevedere la fissazione di una soglia minima per l’attribuzione dei seggi a livello nazionale non superiore al cinque per cento dei suffragi espressi; d) secondo il Tribunale di Venezia, l’Atto da ultimo richiamato non prevede direttamente la soglia di sbarramento, ma ne consente l’introduzione ai singoli Stati membri, sicché da esso non potrebbe derivare alcuna lesione del diritto di voto.
1.2.– Il medesimo giudice rimettente premette poi, in punto di diritto, che l’eccezione di illegittimità costituzionale, sollevata dagli attori, può essere circoscritta, quanto alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza, alle violazioni degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48 Cost.
Poste tali premesse, il Tribunale ordinario di Venezia osserva che, in punto di rilevanza, la sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge n. 18 del 1979, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 10 del 2009, assumerebbe rilevanza pregiudiziale ai fini della decisione, atteso che l’applicazione delle norme denunciate sarebbe necessaria per accertare la pienezza del diritto di voto esercitato dagli attori in occasione dell’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale di Venezia deduce che l’introduzione ex lege di una soglia di sbarramento in un sistema di tipo proporzionale, come quello in esame, limiterebbe irragionevolmente la rappresentanza politica, non ricorrendo l’esigenza di evitare una eccessiva frammentazione dei partiti, posto che al Parlamento europeo non sono attribuite funzioni elettive o di investitura fiduciaria di un governo dell’Unione; né esso avrebbe un ruolo determinante nella produzione legislativa, limitandosi invece a collaborare con il Consiglio nella discussione e nell’approvazione degli atti normativi, nonché a esercitare il controllo sulle altre istituzioni dell’Unione e ad approvarne il bilancio.
Ad avviso del rimettente, la sentenza della Corte costituzionale n. 271 del 2010, pronunciata in tema di legittimità dello stesso art. 21 della legge n. 18 del 1979, non costituirebbe un precedente decisivo, perché in quel caso la questione – dichiarata inammissibile – non aveva ad oggetto la soglia di sbarramento in sé considerata, ma l’esclusione delle liste che non l’avevano superata dal riparto dei seggi in base ai resti.
Il Tribunale di Venezia richiama infine le sentenze del 9 novembre 2011 e del 26 febbraio 2014 del Tribunale costituzionale federale della Repubblica federale di Germania (Bundesverfassungsgericht), con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme nazionali che avevano fissato, per le elezioni del Parlamento europeo, una clausola di sbarramento dapprima del cinque e poi del tre per cento, sul rilievo che qualsiasi clausola di sbarramento sia lesiva dei principi di uguaglianza e di pari opportunità per i partiti, perché nelle elezioni per il Parlamento europeo l’esigenza di massima rappresentatività dell’assemblea prevale su ogni altra considerazione di semplificazione del quadro delle forze politiche e di funzionalità del Parlamento.
2.– Gli attori nel processo principale si sono costituiti con atto depositato nella cancelleria di questa Corte il 16 settembre 2014, aderendo alle ragioni esposte dal rimettente e osservando, a sostegno delle tesi già fatte valere nel giudizio principale, che nelle elezioni europee del 2009 e del 2014 la soglia di sbarramento aveva privato di rappresentanza politica rispettivamente ben 4.037.313 elettori, pari al 13,22 per cento dei voti espressi, e 1.454.557 elettori, pari al 5,29 per cento del totale dei voti espressi.
Gli intervenienti contestano che le norme denunciate siano giustificate dal fine di attribuire stabilità al governo dell’Unione europea, che non deve ricevere la fiducia dal Parlamento (diversa essendo la fiducia personale, conferita ai singoli membri della Commissione sull’idoneità ad assolvere i compiti inerenti alla funzione), o dal fine di attribuire maggior rilievo ai parlamentari eletti in Italia, scongiurandone, cioè, un’irragionevole frammentazione, perché i parlamentari europei, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, non rappresentano i singoli Stati bensì i cittadini dell’Unione (artt. 10, paragrafo 2, e 14, paragrafo 2, del TUE), suddividendosi, tra l’altro, per gruppi politici e non per gruppi nazionali.
Ribadito che l’Atto di Bruxelles, avente natura di decisione, contrasta con il TUE e il TFUE, nella parte in cui prevede la facoltà di introdurre nei singoli Stati membri soglie di sbarramento sino al cinque per cento, così discriminando i cittadini dell’Unione, gli intervenuti ad adiuvandum, nel rassegnare le conclusioni, chiedono alla Corte costituzionale di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le questioni di interpretazione delle norme censurate, atteso che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la questione interpretativa del diritto dell’Unione europea assumerebbe carattere pregiudiziale rispetto alla risoluzione della questione di legittimità costituzionale.
3.– Con atto depositato nella cancelleria della Corte il 23 settembre 2014, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione per irrilevanza e manifesta infondatezza.
Sotto il primo profilo, la difesa dello Stato lamenta l’omessa descrizione della fattispecie per carente descrizione della domanda dedotta in giudizio, l’erronea o incompleta indicazione della norma censurata, nonché la mancata indicazione dei parametri costituzionali violati, limitandosi, l’ordinanza di rimessione, a censurare genericamente asserite limitazioni alla «pienezza del diritto di voto».
Sotto il secondo profilo, il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce che il giudice rimettente non avrebbe adeguatamente motivato sull’ammissibilità dell’azione proposta nel processo principale, non potendo gli attori conseguire dalla pronuncia del Tribunale un bene della vita diverso dall’illegittimità che la Corte dovesse dichiarare, cosicché l’azione si tradurrebbe in una diretta censura delle norme denunciate, che trasformerebbe la sollevata questione in un’impugnazione, in via diretta, di illegittimità costituzionale.
L’inammissibilità della questione, secondo la difesa dello Stato, discenderebbe altresì dalla mancanza di un univoco sistema di temperamento della soglia di sbarramento, tale da eliminare i vizi di costituzionalità sollevati. Ciò, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, non consentirebbe un intervento additivo, come la Corte costituzionale avrebbe già affermato nella sentenza n. 271 del 2010.
Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che l’introduzione della soglia di sbarramento è rimessa alla discrezionalità del legislatore e tende razionalmente a evitare un’eccessiva frammentazione della rappresentanza italiana al Parlamento europeo. Inoltre, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, i parametri evocati tutelerebbero l’astratta possibilità di esercizio del diritto di voto in condizioni di parità e uguaglianza; diritto che le norme impugnate non pregiudicherebbero in alcun modo, posto che il mancato conseguimento del seggio da parte del candidato o della lista scelti dall’elettore, quando si sia svolta la competizione elettorale, rientrerebbe nel meccanismo di trasformazione dei voti in seggi e potrebbe verificarsi con qualsiasi sistema elettorale, di tipo proporzionale o maggioritario, con o senza soglie di sbarramento. Non sussisterebbe pertanto alcuna violazione dell’art. 48 Cost., giacché il voto, nel momento in cui è espresso dall’elettore (“in entrata”), è «eguale» (vale a dire unico), senza che rilevi il risultato elettorale, e «libero», perché non vincolato o limitato, senza che il timore che questa o quella lista non superi la soglia possa indurre l’elettore a orientare diversamente il suo voto.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato non sarebbe parimenti rinvenibile una limitazione della sovranità popolare e del principio di uguaglianza, essendo tutti i voti eguali nel momento in cui sono espressi.
4.– Con memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, gli attori nel processo principale hanno ribadito le conclusioni precedentemente rassegnate e replicato alle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa dello Stato, osservando che le norme censurate sono chiaramente individuabili nell’ordinanza di rimessione, non assumendo rilievo eventuali inesattezze in essa contenute, e che le questioni processuali relative al requisito dell’incidentalità devono ritenersi superate alla luce delle ragioni esposte nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione n. 12060 del 2014, nella sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014 (pronunciata sulla questione sollevata con l’ordinanza da ultimo richiamata) e nella successiva sentenza della Corte di cassazione n. 8848 del 2014 (pronunciata a definizione dello stesso giudizio), alla cui stregua l’accoglimento della questione consentirebbe al Tribunale di Venezia di accertare, con efficacia satisfattoria, la violazione del diritto di voto degli attori.
Infine, gli intervenienti hanno precisato che l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea «ha la finalità di estendere a tutti i cittadini della UE la decisione della Corte di Giustizia, mentre una decisione favorevole del Tribunale di Venezia previo accoglimento della questione incidentale di costituzionalità avrebbe effetti limitati al nostro paese».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Venezia dubita, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 20 febbraio 2009, n. 10 (Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, concernente l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), nella parte in cui prevede, per l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, una soglia di sbarramento per le liste che non abbiano conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi.
Le norme impugnate violerebbero i parametri costituzionali evocati, non consentendo l’espressione di un voto libero, eguale, personale e diretto nelle consultazioni elettorali, poiché l’attribuzione dei seggi alle sole liste che hanno conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi priverebbe irragionevolmente una consistente porzione dell’elettorato di una effettiva rappresentanza in seno al Parlamento europeo.
2.– In via preliminare occorre occuparsi della questione interpretativa del diritto dell’Unione europea, della quale gli intervenienti affermano la pregiudizialità rispetto alla stessa questione di legittimità costituzionale. Al riguardo è assorbente la considerazione che l’art. 3 dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, n. 76/787/CECA/CEE/Euratom, come modificato dalla decisione del Consiglio 25 giugno 2002, n. 2002/772/CE/Euratom, non impone affatto l’introduzione della soglia di sbarramento, ma semplicemente ne consente l’adozione ai singoli Stati membri nella misura massima del cinque per cento. Nel caso in esame, dunque, la lamentata lesione del diritto di voto deriva esclusivamente dalle norme statali impugnate, con le quali il legislatore italiano, esercitando la propria discrezionalità nell’ambito di quanto consentito dall’ordinamento europeo, ha previsto il requisito del raggiungimento della soglia minima del quattro per cento dei voti complessivi conseguiti a livello nazionale quale condizione per l’ammissione delle liste al riparto dei seggi da assegnare secondo il sistema proporzionale. Non vi è pertanto alcuna questione pregiudiziale che questa Corte sia tenuta a rivolgere alla Corte di giustizia, non sussistendo dubbi di sorta sull’esatto significato dell’evocata previsione del diritto dell’Unione europea, né integrando la previsione stessa in alcun modo il parametro di costituzionalità, secondo quanto invece richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte ai fini della sussistenza del dedotto nesso di pregiudizialità (ordinanze n. 207 del 2013 e n. 103 del 2008).
3.– In ordine all’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, occorre ricordare in via generale la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il controllo della sua rilevanza «va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere» (ex plurimis, sentenza n. 263 del 1994). Il riscontro dell’interesse ad agire e la verifica della legittimazione delle parti, agli stessi fini, sono rimessi a loro volta alla valutazione del giudice a quo e non sono suscettibili di riesame da parte di questa Corte, qualora risultino sorretti da una motivazione non implausibile (ex plurimis, sentenze n. 1 del 2014, n. 91 del 2013, n. 280, n. 279, n. 61 del 2012, n. 270 del 2010).
Nella specifica materia elettorale, inoltre, questa Corte si è di recente pronunciata con la sentenza n. 1 del 2014, fornendo indicazioni sull’esame della rilevanza di questioni sollevate in relazione a talune previsioni della legge elettorale della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Con tale pronuncia è stata decisa la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di cassazione, di alcune disposizioni contenute nel decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati) e nel decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), relative all’attribuzione del premio di maggioranza su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato, nonché di quelle disposizioni che, disciplinando le modalità di espressione del voto come voto di lista, non consentivano all’elettore di esprimere alcuna preferenza.
Le questioni allora sollevate davanti a questa Corte, insorte nel corso di un giudizio finalizzato ad accertare la portata, ritenuta incerta, del diritto di voto nelle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sono state dichiarate ammissibili sulla base dei seguenti argomenti: la circostanza che l’ordinanza di rimessione avesse offerto una «motivazione ampia, articolata ed approfondita» su pregiudizialità e rilevanza; il positivo superamento, da parte della stessa ordinanza, dei due test di pregiudizialità della questione di legittimità costituzionale rispetto alla definizione del giudizio principale, attinenti alla diversità di oggetto del giudizio a quo rispetto al giudizio di costituzionalità e alla sopravvivenza di un margine di autonoma decisione del giudice a quo dopo l’eventuale sentenza di accoglimento; la peculiarità dell’oggetto, costituito da una legge, quella elettorale, che incide sull’esercizio di un diritto fondamentale, il diritto di voto, avente «come connotato essenziale il suo collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme», la cui protezione imponeva di ammettere la questione «allo scopo di porre fine ad una situazione di incertezza sulla effettiva portata del predetto diritto determinata proprio da “una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica”, in ipotesi frutto delle norme censurate» (sentenza n. 1 del 2014); l’esigenza, ormai ripetutamente affermata da questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 384 del 1991 e n. 226 del 1976), «che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato», giacché «[d]iversamente, si finirebbe con il creare una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico; […] perciò stesso si determinerebbe un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato» (sentenza n. 1 del 2014).
È alla stregua dei richiamati principi, affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, che occorre ora procedere all’esame della sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge n. 18 del 1979, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 10 del 2009, nella parte in cui prevede una soglia di sbarramento per le liste che non abbiano conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi.
3.1.– La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Venezia con riferimento alla normativa per l’elezione dei membri italiani del Parlamento europeo si differenzia per un profilo determinante – attinente al diverso regime del controllo giurisdizionale sulla relativa vicenda elettorale – dalla questione decisa con la citata sentenza n. 1 del 2014 e, per questa ragione, sulla sua ammissibilità si deve pervenire a conclusioni diverse, in applicazione degli stessi criteri elaborati da quella decisione in conformità alla giurisprudenza di questa Corte in tema di pregiudizialità e rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale.
Il giudice rimettente afferma che «la domanda di accertamento è […] formulata con riferimento alle future consultazioni per l’elezione del Parlamento Europeo e in tal senso va affermata la giurisdizione dell’A.G.O. a conoscere della controversia e riconosciuta l’ammissibilità della domanda in considerazione dell’interesse ad agire, qualificato agli effetti dell’art. 100 cod. proc. civ connesso all’accertamento della pienezza del diritto di voto quale diritto politico di rilevanza fondamentale nell’assetto democratico costituzionale». E prosegue osservando che «[l]a questione di legittimità costituzionale sollevata è rilevante posto che ai fini del richiesto accertamento sulla pienezza del diritto di voto dell’elettore in occasione delle consultazioni per l’elezione del Parlamento Europeo deve farsi applicazione necessaria della disposizione e il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questione».
3.2.– In applicazione della ricordata giurisprudenza costituzionale sulla rilevanza della questione, va sottolineato innanzitutto come il giudice rimettente, limitandosi a ricordare l’esistenza dell’istituto dell’interesse ad agire e a citare il petitum della domanda, senza argomentare sull’incertezza necessaria ai fini del valido esercizio dell’azione di accertamento, non offra una adeguata motivazione delle ragioni per le quali ha ritenuto ammissibile tale azione, sulla quale è chiamato a pronunciarsi nel giudizio principale. Il mero riferimento all’interesse «all’accertamento della pienezza del diritto di voto» con riguardo «alle future consultazioni per l’elezione del Parlamento Europeo», senza alcun’altra indicazione, nemmeno sintetica o per relationem, non può essere considerato motivazione sufficiente e non implausibile dell’esistenza dell’interesse ad agire, idonea, in quanto tale, a escludere un riesame ad opera di questa Corte dell’apprezzamento compiuto dal giudice a quo ai fini dell’ammissibilità dell’azione (sentenze n. 200 del 2014, n. 50 del 2007, n. 173 del 1994, n. 124 del 1968, n. 17 del 1960).
3.3.– Richiamando ancora gli argomenti che questa Corte ha posto alla base delle sue conclusioni sull’ammissibilità della questione decisa con la sentenza n. 1 del 2014, si deve rilevare inoltre come, nella valutazione dei due profili, dell’interesse all’accertamento della «pienezza» del diritto di voto e della necessaria applicazione della normativa che lo disciplina ai fini della definizione del giudizio a quo – costituenti requisiti di ammissibilità della questione, quanto alla sua pregiudizialità rispetto alla definizione del processo principale –, vada tenuta in particolare considerazione la circostanza che la normativa stessa, della cui legittimità costituzionale si dubiti, possa o meno pervenire incidentalmente al vaglio di questa Corte. In questa prospettiva, ai fini dell’ammissibilità della questione occorre, così, non soltanto che l’oggetto del giudizio principale e quello del giudizio di legittimità costituzionale non coincidano (ex plurimis, ordinanze n. 56 del 2011, n. 17 del 1999), ma altresì che l’incertezza sulla effettiva portata del diritto di voto, derivante da una normativa elettorale in ipotesi costituzionalmente illegittima, sia destinata, altrimenti, a restare insuperabile, a causa dell’impossibilità che la relativa questione di costituzionalità venga sollevata secondo l’ordinaria via incidentale in un giudizio avente ad oggetto la vicenda elettorale.
Tale situazione si verifica, come nel caso deciso da questa Corte con la sentenza n. 1 del 2014, nell’ipotesi delle elezioni per il Parlamento nazionale, in quanto in quel caso il controllo dei risultati elettorali è sottratto al giudice comune ed è rimesso dall’art. 66 Cost. alle Camere di appartenenza degli eletti, «quale unica eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di elezioni» (sentenze n. 259 del 2009 e n. 113 del 1993). Di conseguenza il vulnus che si lamenti arrecato a un diritto fondamentale, quale è il diritto di voto, da una normativa elettorale che si sospetti costituzionalmente illegittima non potrebbe essere eliminato attraverso lo strumento del giudizio incidentale.
3.4.– L’esigenza di evitare che sussistano zone sottratte al controllo di costituzionalità o di garantire la controllabilità anche di leggi che non potrebbero venire sottoposte per le vie ordinarie al sindacato di questa Corte assume un particolare rilievo in sede di valutazione di ammissibilità della questione, ammissibilità che «si desume precisamente dalla peculiarità e dal rilievo costituzionale, da un lato, del diritto oggetto di accertamento; dall’altro, della legge che, per il sospetto di illegittimità costituzionale, ne rende incerta la portata» (sentenza n. 1 del 2014).
L’attribuzione di un simile rilievo al profilo della controllabilità costituzionale di una determinata normativa, in funzione dell’apprezzamento del requisito dell’ammissibilità della questione che venga sollevata in relazione ad essa, si pone, del resto, in linea di continuità con la giurisprudenza di questa Corte, la quale, sin dalle sue prime pronunce, ha ritenuto di dover prudentemente calibrare, anche avendo riguardo a tale esigenza, le proprie valutazioni sui presupposti di ammissibilità delle questioni di costituzionalità ad essa sottoposte, quali, fra gli altri, la legittimazione a sollevarla (sentenze n. 384 del 1991 e n. 226 del 1976) o, appunto, la sua pregiudizialità (sentenza n. 59 del 1957, in tema di leggi-provvedimento). La verifica della pregiudizialità, la quale implica l’esistenza di un petitum separato e distinto dalla questione di costituzionalità su cui il giudice a quo sia chiamato a pronunciarsi, va compiuta, pertanto, tenendo nel dovuto conto l’imprescindibile esigenza di evitare il rischio di immunità della legge di cui si tratti dal sindacato di costituzionalità. Su questo presupposto la Corte, nella citata sentenza n. 1 del 2014, ha ritenuto che la residua verifica da parte del giudice a quo «delle altre condizioni cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto» fosse idonea ad integrare il requisito della pregiudizialità. Solo in questo modo infatti, in quel caso, l’incertezza sulla portata del diritto poteva essere risolta anche con riferimento al profilo della legittimità costituzionale della normativa disciplinante l’esercizio del diritto medesimo.
3.5.– L’incertezza sulla portata del diritto di voto nelle elezioni europee come prospettata dal giudice rimettente nel caso in questione, invece, non può essere considerata costituzionalmente insuperabile nel senso detto, cioè nel senso di non poter essere risolta, sul piano costituzionale, se non ammettendo un’azione del tipo di quella proposta nel giudizio a quo.
Della legge che disciplina l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, infatti, non si può dire – come invece si doveva dire della legge elettorale per la Camera e il Senato, e come in effetti la sentenza n. 1 del 2014 ha riconosciuto – che ricada in quella «zona franca», sottratta al sindacato costituzionale, che questa Corte ha ritenuto di non poter tollerare, in nome dello stesso principio di costituzionalità. Le vicende elettorali relative all’elezione dei membri italiani del Parlamento europeo, a differenza di quelle relative all’elezione del Parlamento nazionale, possono essere sottoposte agli ordinari rimedi giurisdizionali, nel cui ambito può svolgersi ogni accertamento relativo alla tutela del diritto di voto e può essere sollevata incidentalmente la questione di costituzionalità delle norme che lo disciplinano.
Come si è visto, invero, questioni relative a eventuali profili di illegittimità costituzionale della normativa che disciplina l’elezione del Parlamento europeo, e in particolare dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge n. 18 del 1979, impugnati nel presente giudizio, ben possono pervenire al vaglio di questa Corte attraverso l’ordinaria applicazione del meccanismo incidentale, nell’ambito di un giudizio principale promosso a tutela del diritto di voto, passivo o attivo, avente ad oggetto la vicenda elettorale e, in particolare, i suoi risultati, così come si è già verificato per lo stesso art. 21, primo comma, numero 2) (sentenza n. 271 del 2010, pronunciata nell’ambito di giudizi principali di impugnazione dell’atto di proclamazione degli eletti al Parlamento europeo in esito alle elezioni svoltesi il 6 e il 7 giugno 2009), nonché per altre leggi elettorali, diverse da quelle per il Parlamento nazionale (come in particolare la normativa sulla quale è stata pronunciata più di recente la sentenza n. 275 del 2014, in tema di elezioni comunali).
Al di fuori di una determinata vicenda elettorale nella quale sia dedotta la violazione di uno specifico diritto di voto, non può essere ritenuta ammissibile un’azione con la quale venga richiesto l’accertamento in astratto del contenuto di tale diritto, come regolato dall’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge n. 18 del 1979, sull’asserito presupposto dell’illegittimità costituzionale di queste disposizioni.
Sicché la questione va dichiarata inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, primo comma, numeri 1-bis) e 2), della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), sollevata, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Venezia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 maggio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2015.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA