Ritenuto in fatto
1.1.– Con ordinanza del 13 giugno 2013, il Tribunale di Bologna ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui, limitatamente ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 50.000 ma non ad euro 77.468,53.
Il giudice a quo rileva come la norma censurata punisca con la pena indicata dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 chiunque non versa, nei limiti ivi previsti, l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Per la configurabilità del reato è dunque necessario, da un lato, che l’omesso versamento sia di importo superiore a 50.000 euro per ciascun periodo d’imposta (soglia di punibilità prevista dal richiamato art. 10-bis); dall’altro, che detta imposta risulti dovuta in base alla dichiarazione annuale, regolarmente presentata.
Per converso, l’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, prima della sua modifica ad opera dell’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera f), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, puniva con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presentasse, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, «quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro 77.468,53».
Dal raffronto tra le due disposizioni emergerebbe una irragionevole disparità di trattamento fra il soggetto che – essendo tenuto a versare l’IVA per un importo compreso nell’intervallo tra le due soglie (superiore, cioè, a 50.000 euro, ma non a 77.468,53 euro) – non abbia presentato la relativa dichiarazione annuale al fine di evadere l’imposta, e il soggetto che, trovandosi nelle medesime condizioni, abbia presentato regolarmente la dichiarazione senza tuttavia versare l’imposta entro il termine indicato dalla norma denunciata (il 27 dicembre dell’anno successivo).
Nel primo caso, infatti, il contribuente resta esente da pena, non risultando raggiunta la soglia di punibilità prevista dall’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000 per l’omessa dichiarazione; nel secondo, incorre invece in responsabilità penale, anche per i fatti commessi entro il 17 settembre 2011, in ragione del superamento della soglia di 50.000 euro, prevista dalla norma censurata per l’omesso versamento.
Tale assetto risulterebbe chiaramente lesivo del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., determinando il paradossale risultato di riservare un trattamento meno favorevole a chi ha tenuto la condotta meno lesiva degli interessi del fisco.
La conclusione troverebbe conferma nella modifica apportata all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000 dal citato d.l. n. 138 del 2011, che ha ridotto ad euro 30.000 la soglia di punibilità relativa all’omessa presentazione della dichiarazione annuale, portandola così al di sotto di quella prevista per l’omesso versamento dell’IVA. Siffatta modifica trova, tuttavia, applicazione solo in rapporto ai fatti commessi dopo il 17 settembre 2011, e dunque non elimina la disparità di trattamento riscontrabile con riguardo ai fatti realizzati entro detta data.
La questione risulterebbe, per altro verso, «all’evidenza» decisiva «in ordine alle determinazioni sulla penale responsabilità dell’imputato», non essendo possibile «altrimenti la definizione del giudizio».
1.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.
Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe manifestamente inammissibile, non avendo il rimettente descritto in alcun modo la vicenda concreta sottoposta al suo vaglio, limitandosi ad affermare la rilevanza in modo apodittico.
Nel merito, la questione sarebbe comunque manifestamente infondata, dovendosi escludere che, nel frangente, la discrezionalità legislativa in tema di configurazione degli illeciti penali sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole o arbitrario, tenuto conto del fatto che l’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 mira a rafforzare la tutela dell’interesse del fisco alla riscossione dei tributi con riferimento all’IVA, parte del cui gettito deve essere riversata all’Unione europea.
L’accoglimento della questione comporterebbe, d’altra parte, sia pure per un ambito di tempo limitato, la caducazione parziale del regime sanzionatorio introdotto dalla norma censurata, in contrasto con il principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, per cui non spetta alla Corte «rimodulare le scelte punitive del legislatore».
2.1.– Con ordinanza del 17 settembre 2013, il Tribunale di Bergamo ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, nella parte in cui prevede una soglia di punibilità inferiore a quelle stabilite, rispettivamente per i delitti di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione, dagli artt. 4 e 5 del medesimo decreto legislativo, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 138 del 2011.
Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del delitto previsto dalla norma censurata, per avere omesso, nella sua qualità di legale rappresentante di due distinte società in nome collettivo, di versare nel termine stabilito l’IVA risultante dalla dichiarazione per l’anno 2008, pari ad euro 87.475, quanto alla prima società, e ad euro 58.431 quanto alla seconda. Circostanze, queste, che sarebbero state confermate dall’istruttoria dibattimentale.
Il rimettente dubita, peraltro, della legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, rilevando come la norma denunciata riservi al fatto da essa sanzionato un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto a quello prefigurato per i più gravi illeciti di cui agli artt. 4 e 5 del medesimo decreto legislativo.
Prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 138 del 2011, le disposizioni ora citate prevedevano, infatti, che la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione fossero penalmente rilevanti solo nel caso di superamento di una soglia, riferita all’imposta evasa, rispettivamente di euro 103.291,38 e di euro 77.468,53.
Da ciò sarebbe derivata – e deriverebbe tuttora, posto che, nella specie, in ragione della data del commesso reato, occorre tenere conto della disciplina anteriore alla novella legislativa del 2011 – una conseguenza paradossale. Infatti, se l’imputato, quale legale rappresentante della seconda delle due società, in luogo di presentare regolarmente la dichiarazione IVA e non versare l’imposta dovuta in base ad essa (euro 58.431), avesse omesso di presentare la relativa dichiarazione, non si sarebbe reso responsabile di alcun reato, non risultando superata la soglia di punibilità prevista dall’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000.
Analogamente, se l’imputato, quale legale rappresentante dell’altra società, anziché presentare regolarmente la dichiarazione IVA e non versare l’imposta dovuta in base ad essa (euro 87.475), avesse presentato una dichiarazione infedele volta ad occultare il debito di imposta, non sarebbe incorso in responsabilità penale, rimanendo la violazione al di sotto della soglia di rilevanza prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 (e ciò a prescindere dall’ulteriore condizione prevista dalla lettera b del comma 1 di tale articolo).
In questo modo, le condotte più insidiose, in quanto atte ad ostacolare l’accertamento tributario, sarebbero rimaste non punibili, contrariamente a quella, «più trasparente», del soggetto che, rappresentando regolarmente la propria posizione fiscale, abbia omesso il versamento dell’imposta da lui stesso dichiarata come dovuta.
Un simile regime normativo si porrebbe inevitabilmente in contrasto con l’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza: tanto è vero che lo stesso legislatore ha poi ridotto i limiti di rilevanza penale delle violazioni evocate in comparazione con il d.l. n. 138 del 2011, portandoli ad euro 50.000, quanto all’ipotesi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, e ad euro 30.000, quanto all’ipotesi di cui all’art. 5.
La questione risulterebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo, giacché il suo accoglimento comporterebbe il proscioglimento dell’imputato.
2.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata sulla base di argomentazioni analoghe, mutatis mutandis, a quelle svolte, nel merito, in riferimento all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bologna.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Bologna dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui, limitatamente ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 50.000 ma non ad euro 77.468,53.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione, determinando una irragionevole disparità di trattamento fra il soggetto che – essendo tenuto a versare l’IVA per un importo compreso nell’intervallo tra i predetti valori – non abbia presentato la relativa dichiarazione annuale al fine di evadere l’imposta, e il soggetto che, trovandosi nelle medesime condizioni, abbia presentato regolarmente la dichiarazione senza tuttavia versare l’imposta entro il termine stabilito. Nel primo caso, infatti – ove si tratti di violazione anteriore al 17 settembre 2011 – il contribuente resta esente da pena, stante il mancato raggiungimento della soglia di punibilità di 77.468,53 euro, prevista per l’omessa dichiarazione dall’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, prima della modifica operata dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera f), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Nel secondo caso, invece – benché si tratti di condotta meno lesiva degli interessi del fisco – il contribuente incorre in responsabilità penale, anche per i fatti commessi sino al 17 settembre 2011, in ragione del superamento della soglia di punibilità di 50.000 euro, prevista dalla norma censurata per l’omesso versamento dell’IVA.
2.– Il citato art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 è ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost. anche dal Tribunale di Bergamo, nella parte in cui prevede, per l’omesso versamento dell’IVA, una soglia di punibilità inferiore a quelle stabilite per la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione dagli artt. 4 e 5 del medesimo decreto legislativo, prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 138 del 2011 (rispettivamente, euro 103.291,38 ed euro 77.468,53).
Secondo il rimettente, la norma denunciata violerebbe il principio di eguaglianza, assoggettando il contribuente che, dopo avere regolarmente presentato la dichiarazione annuale IVA, ometta il versamento dell’imposta, ad un trattamento paradossalmente deteriore rispetto a quello riservato al contribuente che non presenti la dichiarazione o presenti una dichiarazione infedele, occultando il debito di imposta: condotte, queste ultime, più insidiose, in quanto implicanti, oltre all’evasione di imposta, anche un ostacolo all’accertamento tributario.
3.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4.– La questione sollevata dal Tribunale di Bologna è manifestamente inammissibile.
Il giudice a quo, infatti, ha totalmente omesso di descrivere la fattispecie concreta sulla quale è chiamato a pronunciarsi, affermando la rilevanza della questione in termini meramente assertivi (ex plurimis, ordinanze n. 192, n. 150 e n. 99 del 2013).
5.– La questione sollevata dal Tribunale di Bergamo è fondata.
La norma incriminatrice di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, che delinea il reato di «omesso versamento di IVA», è stata introdotta – al pari di quella di cui al successivo art. 10-quater (che punisce il delitto di «indebita compensazione») – dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248. L’intervento si colloca nel quadro del processo di parziale revisione della strategia politico-criminale sottesa alla riforma penale tributaria realizzata dal d.lgs. n. 74 del 2000: strategia consistente nella focalizzazione dell’intervento repressivo preminentemente sulla fase dell’“autoaccertamento” del debito di imposta, ossia della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Ponendosi sulla scia della previsione punitiva di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)» – con cui era stato reintrodotto il delitto di omesso versamento di ritenute da parte del sostituto di imposta, soppresso dalla riforma del 2000 – la norma incriminatrice che qui interessa mira infatti a colpire, con specifico riferimento all’IVA, i fenomeni di evasione che si realizzino nella fase successiva a quella di determinazione della base imponibile: vale a dire, nella fase di riscossione dell’imposta.
In questa prospettiva, la norma sottoposta a scrutinio stabilisce che «la disposizione di cui all’articolo 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo»: e cioè – in forza dell’art. 6, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 405, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1991)» – entro il 27 dicembre dell’anno successivo al periodo di imposta di riferimento.
Il richiamo della norma censurata all’art. 10-bis dello stesso d.lgs. n. 74 del 2000, oltre ad individuare il trattamento sanzionatorio (reclusione da sei mesi a due anni), vale ad estendere alla violazione in esame la soglia quantitativa di punibilità stabilita dalla disposizione richiamata per l’omesso versamento di ritenute («nei limiti ivi previsti»). L’omesso versamento dell’IVA costituisce, di conseguenza, reato solo se di «ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta».
6.– Per il modo in cui è strutturata, la previsione punitiva protegge, dunque, l’interesse del fisco alla riscossione dell’imposta così come “autoliquidata” dallo stesso contribuente. Come chiaramente si desume dalla lettera della norma, presupposto per la sua applicazione è, infatti, che il soggetto di imposta abbia presentato la dichiarazione annuale ai fini dell’IVA, dalla quale risulti un saldo debitorio superiore a 50.000 euro, senza che sia seguito il pagamento, entro il termine previsto, della somma ivi indicata come dovuta.
A fronte di ciò, emerge, peraltro, un evidente difetto di coordinamento tra la soglia di punibilità inerente al delitto che interessa e quelle relative ai delitti in materia di dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele e omessa dichiarazione): difetto di coordinamento foriero di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza, rendono censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante al legislatore in materia di configurazione delle fattispecie astratte di reato (ex plurimis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010).
Anteriormente alle modifiche legislative di cui poco oltre si dirà, l’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000 richiedeva, per la punibilità dell’omessa dichiarazione (consistente nel fatto di chi, «al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte»), che l’imposta evasa fosse superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro 77.468,53. Ciò comportava una conseguenza palesemente illogica, nel caso in cui l’IVA dovuta dal contribuente si situasse nell’intervallo tra le due soglie (eccedesse, cioè, i 50.000 euro, ma non i 77.468,53 euro). In tale evenienza, infatti, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA, senza versare l’imposta dovuta in base ad essa, rispetto a chi non avesse presentato la dichiarazione, evadendo del pari l’imposta. Nel primo caso, il contribuente avrebbe dovuto rispondere del reato di omesso versamento dell’IVA, stante il superamento della relativa soglia di punibilità; nel secondo sarebbe rimasto invece esente da pena, non risultando attinto il limite di rilevanza penale dell’omessa dichiarazione.
Analoga discrasia era ravvisabile in rapporto alla dichiarazione infedele (consistente nel fatto di chi, fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 74 del 2000, «al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi»), la cui punibilità presupponeva, ai sensi dell’art. 4, che l’imposta evasa risultasse superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro 103.291,38. Laddove, infatti, l’IVA da versare si collocasse tra l’uno e l’altro limite di rilevanza (50.000 e 103.291,38 euro), fruiva di un miglior trattamento il contribuente che presentasse una dichiarazione inveritiera (non punibile per mancato superamento della relativa soglia), rispetto al contribuente che esponesse invece fedelmente la propria situazione in dichiarazione, salvo poi a non versare l’imposta di cui si era riconosciuto debitore.
La lesione del principio di eguaglianza insita in tale assetto è resa manifesta dal fatto che l’omessa dichiarazione e la dichiarazione infedele costituiscono illeciti incontestabilmente più gravi, sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del fisco, rispetto all’omesso versamento dell’IVA: e ciò, nella stessa considerazione del legislatore, come emerge dal raffronto delle rispettive pene edittali (reclusione da uno a tre anni, per i primi due reati; da sei mesi a due anni, per il terzo).
Il contribuente che, al fine di evadere l’IVA, presenta una dichiarazione infedele, tesa ad occultare la materia imponibile, o non presenta affatto la dichiarazione, tiene una condotta certamente più “insidiosa” per l’amministrazione finanziaria – in quanto idonea ad ostacolare l’accertamento dell’evasione (e, nel secondo caso, a celare la stessa esistenza di un soggetto di imposta) – rispetto a quella del contribuente che, dopo aver presentato la dichiarazione, omette di versare l’imposta da lui stesso autoliquidata (omissione che può essere dovuta alle più varie ragioni, anche indipendenti da uno specifico intento evasivo, essendo il delitto di cui all’art. 10-ter a dolo generico). In questo modo, infatti, il contribuente rende la propria inadempienza tributaria palese e immediatamente percepibile dagli organi accertatori: sicché, in sostanza, finisce per essere trattato in modo deteriore chi – coeteris paribus – ha tenuto il comportamento maggiormente meno trasgressivo.
7.– Lo stesso legislatore ha mostrato, del resto, di essersi avveduto dell’incongruenza.
L’art. 2, comma 36-vicies semel, del d.l. n. 138 del 2011, aggiunto dalla legge di conversione n. 148 del 2011, ha infatti ridotto la soglia di punibilità dell’omessa dichiarazione a 30.000 euro (lettera f) e quella della dichiarazione infedele a 50.000 euro (lettera d): dunque, ad un importo inferiore, nel primo caso, e pari, nel secondo, a quello della soglia di punibilità dell’omesso versamento dell’IVA, rimasta per converso inalterata. In tal modo, la distonia dianzi evidenziata è venuta meno.
Per espressa previsione dell’art. 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n. 138 del 2011, le modifiche in questione sono, tuttavia, applicabili ai soli fatti successivi alla data di entrata in vigore della relativa legge di conversione (17 settembre 2011). Né potrebbe essere altrimenti, discutendosi di modifiche di segno sfavorevole per il reo (all’abbassamento delle soglie corrisponde, infatti, un ampliamento dell’area di rilevanza penale).
Ne consegue che, con riguardo ai fatti commessi sino alla predetta data, il vulnus costituzionale permane.
8.– Al fine di rimuovere nella sua interezza la riscontrata duplice violazione del principio di eguaglianza è necessario evidentemente allineare la soglia di punibilità dell’omesso versamento dell’IVA – quanto ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011 – alla più alta fra le soglie di punibilità delle violazioni in rapporto alle quali si manifesta l’irragionevole disparità di trattamento: quella, cioè, della dichiarazione infedele (euro 103.291,38).
Una disparità di trattamento similare si riscontra, in verità, anche con riferimento al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 (non, invece, con riguardo al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2, che è privo di soglia). La circostanza resta, peraltro, in concreto irrilevante sugli esiti dell’odierno giudizio, giacché la soglia di punibilità relativa a tale delitto è uguale a quella dell’omessa dichiarazione (e, dunque, inferiore a quella della dichiarazione infedele, cui va ragguagliata, per quanto detto, la declaratoria di illegittimità costituzionale).
Irrilevante risulta anche la circostanza che, tanto per la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici che per la dichiarazione infedele, sia prevista – in aggiunta alla soglia di punibilità riferita all’imposta evasa – una ulteriore e concorrente soglia, riferita all’«ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione» (artt. 3, comma 1, lettera b, e 4, comma 1, lettera b). Tale soglia è, infatti, chiaramente inconciliabile con la materialità del delitto di omesso versamento dell’IVA, che prescinde dalla sottrazione all’imposizione di elementi attivi.
9.– L’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’IVA, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38.