Sentenza 203/2014 (ECLI:IT:COST:2014:203)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: CASSESE - Redattore: MORELLI
Udienza Pubblica del 24/06/2014;    Decisione  del 09/07/2014
Deposito del 16/07/2014;   Pubblicazione in G. U. 23/07/2014  n. 31
Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, lett. g), della legge 23/10/1992, n. 421; art. 2, c. 3°, lett. b), del decreto legislativo 30/12/1992, n. 503.
Massime:  38083 
Massime:  38083 
Atti decisi: ord. 173/2012

Massima n. 38083
Titolo
Previdenza - Delega per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori dipendenti privati e pubblici - Elevazione da quindici a venti anni del requisito di assicurazione e contribuzione per il diritto a pensione dei lavoratori dipendenti e autonomi - Prevista esclusione del nuovo regime per i "soggetti che per un periodo non inferiore a dieci anni solari siano assicurati in relazione a rapporti di lavoro a tempo determinato inferiore a cinquantadue settimane per anno solare, purché risultino assicurati da almeno venticinque anni" - Asserita irragionevolezza del trattamento di favore riservato ai soli lavoratori a tempo determinato e non anche ai lavoratori a tempo indeterminato - Insussistenza - Non omogeneità delle categorie di lavoratori in comparazione - Non fondatezza della questione.

Testo

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lett. g), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 e dell'art. 2, comma 3, lett. b), del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, impugnato, in riferimento all'art. 3 Cost., che nell'introdurre il criterio direttivo della «graduale elevazione da quindici a venti anni del requisito di assicurazione e contribuzione per il diritto a pensione dei lavoratori dipendenti ed autonomi», ha contestualmente previsto di escludere, dalla applicazione del nuovo regime i «soggetti che per un periodo non inferiore a dieci anni solari siano assicurati in relazione a rapporti di lavoro a tempo determinato inferiore a cinquantadue settimane per anno solare, purché risultino assicurati da almeno venticinque anni». L'individuazione dei presupposti per il conseguimento dei trattamenti di quiescenza, al pari della determinazione della misura delle prestazioni o delle correlative variazioni, rientra nel novero delle scelte riservate al legislatore, attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti, che tenga conto accanto alle esigenze di vita dei beneficiari anche delle concrete disponibilità finanziarie e delle esigenze di bilancio con il limite della ragionevolezza. Nel caso di specie i lavoratori a tempo determinato, con rapporti che non coprono l'intero anno solare, hanno innegabili connotati di peculiare debolezza, che non ricorrono identicamente nella situazione di lavoratori che - ancorché in concreto impiegati per periodi inferiori alle cinquantadue settimane dell'anno solare - siano, però, comunque assistiti da un rapporto a tempo indeterminato. Pertanto, la scelta legislativa non presenta alcun profilo di irragionevolezza.

- In tema di trattamento di quiescenza e di scelte riservate al legislatore con bilanciamento dei valori contrapposti, v., ex plurimis, le seguenti citate decisioni: sentenze n. 316/2010, n. 30/2004 e ordinanza n. 256/2001.

Atti oggetto del giudizio
legge  23/10/1992  n. 421  art. 3  co. 1
decreto legislativo  30/12/1992  n. 503  art. 2  co. 3

Parametri costituzionali
Costituzione  art. 3


Pronuncia

SENTENZA N. 203

ANNO 2014


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Sabino CASSESE; Giudici : Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera g), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) e dell’art. 2, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), promosso dalla Corte d’appello di Firenze nel procedimento civile vertente tra l’INPS e Rastrelli Giovanna, con ordinanza del 17 maggio 2012, iscritta al n. 173 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione dell’INPS e di Rastrelli Giovanna, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 24 giugno 2014 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;

uditi gli avvocati Luigi Caliulo per l’INPS, G. Sante Assennato e Gabriella Del Rosso per Rastrelli Giovanna e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un giudizio civile promosso da una «lavorante a domicilio» per ottenere dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) il riconoscimento del «diritto […] alla liquidazione della pensione di vecchiaia ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 503/92 [Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421]», la Corte d’appello di Firenze – adita su gravame dell’Istituto avverso la decisione di primo grado favorevole alla ricorrente – ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata in riferimento all’art. 3 Cost., ed ha per ciò sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione incidentale di legittimità costituzionale della predetta norma delegata e della corrispondente norma delegante, di cui all’art. 3, comma 1, lettera g), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale).

La Corte rimettente aderisce, in premessa, alla esegesi della normativa denunciata operata dalla Corte di cassazione (sentenza n. 3044 del 2012), nel senso che il regime agevolato (in deroga alla regola dell’innalzamento a 20 anni del requisito contributivo per l’accesso alla pensione di vecchiaia) – ivi previsto in favore dei lavoratori subordinati assicurati per meno di 52 settimane per anno solare (per un periodo non inferiore a dieci anni nell’arco di un rapporto assicurativo di almeno venticinque anni) – abbia natura eccezionale e sia, in via esclusiva, riferibile ai lavoratori “a tempo determinato”, non occupati per l’intero anno solare, e non anche ai lavoratori che, sebbene occupati a tempo indeterminato, a causa della modalità intermittente di esplicazione della prestazione, risultino parimenti assicurati per meno di 52 settimane annue.

Avendo, quindi, riguardo alla posizione della ricorrente lavoratrice a domicilio – la quale «in ragione del sistema di accredito […] delle sole giornate di lavoro comprese nel periodo intercorrente tra la data di consegna e quella “prevista” per la riconsegna […] viene a trovarsi accreditato nel corso dell’anno un numero di settimane inferiore a 52 pur svolgendo la sua attività con continuità» – ne inferisce il Collegio a quo che il diritto a pensione invocato da detta lavoratrice «non è pertanto attingibile in via di interpretazione, ma solo attraverso la rimozione dalla legge delega prima e, quindi, dalla norma delegata della limitazione del più favorevole regime per l’accesso alla pensione di vecchiaia ai soli rapporti di lavoro a tempo determinato inferiore a 52 settimane per anno».

E, a tal fine, appunto, la Corte rimettente prospetta il contrasto della suindicata normativa con il precetto dell’art. 3 della Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento di «situazioni omogenee ed egualmente meritevoli dello stesso tipo di tutela», quali quelle dei lavoratori le cui prestazioni non coprono l’intero anno solare (e non sono corrispondentemente assicurate), sia in ragione della natura del rapporto (a tempo determinato), sia a causa delle modalità intermittenti di esplicazione di una attività continuativa di lavoro.

2.− Si sono costituiti innanzi a questa Corte sia l’Istituto appellante sia la parte appellata nel giudizio principale.

2.1.− Il primo ha concluso per la manifesta infondatezza della questione «non potendo essere considerati alla stessa stregua, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione, i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato in rapporto alla contribuzione correlata alle prestazioni da loro rese», posto che il «mancato accredito per le 52 settimane dell’anno solare dipende per i primi dal fatto che per alcuni periodi non hanno svolto alcuna attività, avendo inanellato una serie di rapporti precari di breve durata, mentre per i secondi dal sistema di accredito contributivo espressamente previsto per una determinata tipologia di lavoro, in relazione alle modalità di svolgimento dell’attività continuativamente prestata dal lavoratore», e dovendosi anche considerare «il potere discrezionale del legislatore di limitare ad alcune categorie di lavoratori le previsioni normative che, tra l’altro, comportano ulteriori esborsi, come nel caso di specie, valutando le situazioni più meritevoli di tutela».

2.2.− La difesa della ricorrente ha viceversa sostenuto, in via principale, che l’unica interpretazione costituzionalmente compatibile della disposizione derogatoria in esame sia quella, estensiva, accolta dalla giurisprudenza di merito, per la quale detta deroga esprimerebbe una disciplina di favore per quelle posizioni assicurative connotate da un minor accredito contributivo nell’anno solare, compensate da una maggiore anzianità assicurativa, senza tuttavia alcun richiamo specifico alle ragioni ad esso sottese.

In subordine, ha chiesto dichiararsi la illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, con argomentazioni adesive all’ordinanza di rimessione, ulteriormente illustrate anche con memoria.

3.− È intervenuto anche il Presidente del Consiglio dei ministri, difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ed ha concluso per la non fondatezza della questione, sottolineando come «scopo della norma di cui si discute sia quello di tutelare, attraverso l’applicazione del più favorevole regime contributivo previgente, i lavoratori che non risultino impiegati per l’intero anno solare, e non quelli che, anche se impiegati durante tale arco temporale presentino una minore contribuzione», ed escludendo che tale previsione contrasti con il principio di uguaglianza, «visto che rientra nella discrezionalità del legislatore intervenire a disciplinare i tempi, i modi e la misura delle prestazioni sociali, anche in senso peggiorativo rispetto alla disciplina vigente, salvo il limite della ragionevolezza».


Considerato in diritto

1.– L’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), che demanda al legislatore delegato «il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori dipendenti privati e pubblici», nell’introdurre, sub comma 1, lettera g), il criterio direttivo della «graduale elevazione da quindici a venti anni del requisito di assicurazione e contribuzione per il diritto a pensione dei lavoratori dipendenti ed autonomi», ha contestualmente previsto di escludere, dalla applicazione del nuovo regime, i «soggetti che per un periodo non inferiore a dieci anni solari siano assicurati in relazione a rapporti di lavoro a tempo determinato inferiore a cinquantadue settimane per anno solare, purché risultino assicurati da almeno venticinque anni».

A tale criterio direttivo si è uniformato il legislatore delegato con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), il cui art. 2, sub lettera b) del suo comma 3, dispone, appunto, che − «in deroga» al nuovo regime dell’assicurazione generale obbligatoria disciplinato nei precedenti commi dell’articolo stesso − «per i lavoratori subordinati che possono far valere un’anzianità assicurativa di almeno venticinque anni, occupati per almeno dieci anni per periodi di durata inferiore a 52 settimane nell’anno solare, è fatto salvo il requisito contributivo per il pensionamento di vecchiaia previsto dalla previgente normativa».

2.− Come già chiarito dalla Corte di cassazione – in sede di esegesi della suddetta disposizione derogatoria, per il profilo individuativo della platea dei soggetti suoi destinatari – la stessa fa «chiaramente riferimento all’intento del legislatore di proteggere, con il più favorevole regime previgente, i lavoratori non occupati per l’intero anno solare e non già i lavoratori che, sebbene occupati nell’intero anno solare, possano anch’essi far valere una minore contribuzione» (sentenza n. 3044 del 2012).

Ed è questa, effettivamente, l’unica interpretazione della norma delegata costituzionalmente compatibile con il precetto dell’art. 76 della Costituzione (per il quale l’esercizio della potestà legislativa da parte del Governo deve svolgersi entro – e non oltre – l’ambito delimitato dalla delega legislativa), posto che il tenore della norma delegante è inequivoco nel riferire, testualmente, il più favorevole regime contributivo, che qui viene in rilievo, ai soggetti titolari di «rapporti di lavoro a tempo determinato» inferiore a 52 settimane per anno solare.

3.− La Corte d’appello di Firenze – che ha sollevato, in quanto rilevante nel giudizio innanzi a sé instaurato, questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 3, comma 1, lettera g), della legge n. 421 del 1992, e 2, comma 3, lettera b), del d.lgs. n. 503 del 1992, per contrasto con l’art. 3 Cost. – concorda con l’interpretazione delle norme denunciate resa dalla Corte di legittimità, che assume, a sua volta, come diritto vivente.

E su tale presupposto, appunto, articola una censura di irragionevolezza del combinato disposto delle norme stesse, «laddove […] esclude dal più favorevole regime di accesso alla pensione di vecchiaia i lavoratori subordinati che, potendo far valere un’anzianità assicurativa di almeno venticinque anni, pur avendo lavorato in via continuativa per almeno dieci anni, in ragione del sistema di accredito dei contributi proprio del rispettivo settore di appartenenza, abbiano accreditati periodi di durata inferiore a 52 settimane nell’anno solare».

4.− La questione non è fondata.

L’individuazione dei presupposti per il conseguimento dei trattamenti di quiescenza, al pari della determinazione della misura delle prestazioni o delle correlative variazioni, rientra, infatti, nel novero delle scelte riservate al legislatore, attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti, che tenga conto accanto alle esigenze di vita dei beneficiari anche delle concrete disponibilità finanziarie e delle esigenze di bilancio (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010, n. 30 del 2004, e ordinanza n. 256 del 2001).

Tale libertà di scelta incontra pur sempre il limite della ragionevolezza (sentenze e ordinanza citate).

Ma questo limite nella specie non è violato.

La posizione dei lavoratori a tempo determinato, con rapporti che non coprono l’intero anno solare, ha innegabili connotati di peculiare debolezza, che non ricorrono identicamente nella situazione di lavoratori che – ancorché in concreto impiegati per periodi inferiori alle cinquantadue settimane dell’anno solare – siano, però, comunque assistiti da un rapporto a tempo indeterminato.

L’avere il legislatore, con le disposizioni impugnate, inteso limitare la più favorevole disciplina, derogatoria al nuovo regime di riordino del sistema previdenziale, alla sola prima delle due comparate, ma non del tutto omogenee, categorie di lavoratori non presenta, quindi, alcun profilo di irragionevolezza.

E tanto basta per escludere che sussista il vulnus all’art. 3 della Costituzione, prospettato dalla Corte rimettente.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera g), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) e dell’art. 2, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Firenze, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.

F.to:

Sabino CASSESE, Presidente

Mario Rosario MORELLI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2014.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI