Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato alla Regione Campania il 22 marzo 2010 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 30 marzo 2010 (reg. ric. n. 51 del 2010), il Presidente del Consiglio dei Ministri ha proposto questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010), ed in particolare, tra le altre disposizioni: dell’art. 1, comma 12, ultima parte, in relazione all’art. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s) della Costituzione; dell’art. 1, comma 16, in relazione all’art. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), Cost; dell’art. 1, comma 25, in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost..
1.1. – Il ricorrente assume che l’art. 1, comma 12, ultima parte, della legge Regione Campania n. 2 del 2010, contrasta con la normativa nazionale e comunitaria vigente in materia di acque.
La norma prevede un finanziamento da parte della Regione, con fondi comunitari (risorse Fondo europeo di sviluppo regionale – FESR), per la realizzazione di condotte sottomarine lungo i canali artificiali con più elevato carico inquinante del litorale Domitio-Flegreo, per lo sversamento a fondale delle portate di magra; la disposizione risulterebbe incompatibile con la destinazione delle risorse pubbliche alla realizzazione di opere funzionali a garantire una corretta depurazione delle acque reflue prima dello scarico.
La realizzazione delle infrastrutture, per le quali la norma impugnata dispone il finanziamento, comporterebbe, senza alcun beneficio ambientale, una diversificazione di ricettore di scarichi non depurati nel mare piuttosto che nei canali artificiali. L’area interessata è quella del litorale Domitio-Flegreo – già sito di interesse nazionale, nel quale sono in campo notevoli risorse umane e finanziarie tese al ripristino di uno stato di legalità ambientale – che richiederebbe interventi maggiormente riqualificanti, mirati alla irreggimentazione delle acque e dei reflui urbani che scaricano in assenza di depurazione ed a garantire una depurazione che rispetti i limiti tabellari.
La formulazione della norma regionale consentirebbe interventi non legittimi e sottrarrebbe risorse pubbliche a ulteriori possibili soluzioni, risolutive dello stato di degrado esistente. Per tali motivazioni, non appare conforme al dettato costituzionale la norma censurata, in quanto introduce una previsione contraria alla normativa comunitaria e nazionale vigente in materia di acque – direttiva 23 ottobre 2000, n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque), e parte III del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) – ed inoltre non tiene conto delle finalità istituzionali con le quali sono stati fissati e condivisi obiettivi tra Comunità europea, Stato e regioni, finalizzati alla piena attuazione della stessa.
La difformità della norma regionale dalla normativa comunitaria, nonché da quella nazionale afferente alle materie della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e della «tutela della concorrenza», determina il contrasto con l’art. 117, comma 1, e comma 2, lettere e) ed s), della Costituzione.
1.2. – Il ricorrente espone inoltre che l’art. 1, comma 16, della citata legge regionale prevede che «al fine di contribuire al rilancio dell’economia delle zone montane e dei territori compresi nei parchi mediante il turismo cinofilo (cino-turismo), i comuni ricompresi in queste aree istituiscono, anche d’intesa con gli organi di direzione degli enti parco medesimi, aree cinofile. Dette aree sono adibite esclusivamente all’addestramento ed allenamento dei cani da caccia ed alle conseguenti verifiche zootecniche. Nell’interno delle stesse i comuni individuano strutture ove consentire l’addestramento anche dei cani da pastore, da utilità e dei cani adibiti alla pet-therapy ed al soccorso. La realizzazione e gestione di tali aree e strutture è prevalentemente affidata a cooperative di giovani residenti nei comuni interessati o ad imprenditori agricoli, singoli o associati, ed alle associazioni cinofilo-venatorie. In tali zone sono altresì consentite, nell’arco dell’anno, prove zootecniche per il miglioramento delle razze canine da caccia e da pastore di cani iscritti all’anagrafe canina».
La disposizione si porrebbe in contrasto con la normativa statale di settore rappresentata dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), che, all’art. 11, prevede che ogni parco, nel rispetto delle proprie caratteristiche, attraverso il proprio regolamento, disciplini l’esercizio delle attività consentite entro il territorio di competenza, imponendo, tuttavia, al comma 3, il divieto di tutte «le attività e le opere che possono compromettere la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati con particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat».
Tra tali attività rientra sicuramente l’addestramento cani atteso che, come affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 350 del 1991, «nessun dubbio può sussistere né in ordine al fatto che "addestramento dei cani", in quanto attività strumentale all’esercizio venatorio, debba ricondursi alla materia della "caccia"...» e di conseguenza costituisce attività assolutamente vietata nelle aree protette.
Conclusivamente, la norma regionale in esame, dettando disposizioni difformi dalla normativa nazionale afferente alle materie della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e della «tutela della concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettere s) ed e), per la quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva, è costituzionalmente illegittima, per violazione delle suddette disposizioni costituzionali.
1.3. – Merita, altresì, censura – secondo il ricorrente – l’art. 1, comma 25, della stessa legge regionale n. 2 del 2010, il quale dispone in materia di dislocazione di centrali di produzione di energia da fonti rinnovabili. La norma prescrive il rispetto di una distanza minima per tutti gli insediamenti energetici non inferiore a cinquecento metri lineari dalle aree interessate da coltivazioni viticole con marchio DOC e DOCG, e non inferiore a mille metri lineari da aziende agrituristiche ricadenti in tali aree, individuando, in tal modo, aree non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
L’art. 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), prevede che «in Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3», relativo al rilascio dell’autorizzazione per l’installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili.
Tale disposizione è espressione della competenza statale in materia di tutela dell’ambiente, in quanto, inserita nell’ambito della disciplina relativa ai procedimenti per il rilascio dell’autorizzazione relativa agli impianti da fonti rinnovabili, ha, quale precipua finalità, quella di proteggere il paesaggio.
Il legislatore statale, infatti, allo stesso comma 10, ha espressamente sancito che le linee guida «sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio».
La giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato che la normativa statale di cornice non contempla alcuna limitazione specifica, né divieti inderogabili, alla localizzazione degli impianti energetici, rimettendo alle linee guida di cui all’art. 12, comma 10, del decreto legislativo n. 387 del 2003, il compito di «assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio».
È ben vero che la richiamata disposizione statale abilita le Regioni a «procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti», ma ciò può aver luogo solo «in attuazione» delle predette linee guida, che, al momento, non sono ancora state adottate con le modalità previste dallo stesso comma 10, vale a dire in sede di Conferenza unificata.
Il bilanciamento tra le esigenze connesse alla produzione di energia e gli interessi, variamente modulati, rilevanti in questo ambito, impone, infatti, una prima ponderazione concertata in ossequio al principio di leale cooperazione, al fine di consentire, alle Regioni e agli enti locali, di contribuire alla compiuta definizione di adeguate forme di contemperamento di tali esigenze. Una volta raggiunto tale equilibrio, ogni Regione potrà adeguare i criteri così definiti alle specifiche caratteristiche dei rispettivi contesti territoriali.
La norma impugnata appare, pertanto, lesiva della competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché del terzo comma dello stesso articolo, contrastando con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
2. – Nel giudizio si è costituita la Regione Campania, con decreto dirigenziale dell’Avvocato coordinatore, chiedendo il rigetto del ricorso.
In data 4 gennaio 2011, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha depositato memoria illustrativa, con la quale, nel ribadire le proprie conclusioni, ha eccepito l’inammissibilità della costituzione in giudizio della Regione Campania, osservando che, in base all’art. 51 del vigente Statuto della Regione (Legge regionale 28 maggio 2009, n 6, Statuto della Regione Campania), che si adegua all’art. 32, comma, 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la competenza a deliberare in ordine alla proposizione del giudizio di costituzionalità spetta alla Giunta regionale e in tale competenza deve ritenersi compresa la deliberazione a costituirsi in tale giudizio, attesa la natura politica delle valutazioni che i due atti richiedono (sentenza n. 225 del 2010).
Con atto depositato presso questa Corte il 5 gennaio 2011, la Regione Campania ha fatto pervenire delibera della Giunta regionale, resa a termine della seduta del 30 dicembre 2010, con cui, premessa l’irregolarità della propria precedente costituzione nel giudizio di costituzionalità, alla luce della giurisprudenza costituzionale, ratifica il Decreto dirigenziale n. 231 del 26 marzo 2010 dell’A.G.C. Avvocatura.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato numerose disposizioni della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della regione Campania – Legge finanziaria anno 2010): tra queste l’art. 1, comma 12, ultima parte, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s) della Costituzione; l’art. 1, comma 16, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), Cost.; l’art. 1, comma 25, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost.
Per ragioni di omogeneità di materia, la trattazione delle predette questioni di costituzionalità è stata separata da quella delle altre, sollevate con lo stesso ricorso.
2. – Preliminarmente va confermata l’ordinanza, emessa all’udienza pubblica ed allegata alla presente decisione, con la quale è stata dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio della Regione Campania, non potendo riconoscersi efficacia sanante alla c.d. ratifica della prima costituzione disposta con il Decreto dirigenziale n. 231 del 26 marzo 2010 dell’A.G.C. Avvocatura ed intervenuta, ad opera della Giunta regionale, successivamente alla scadenza dei termini per la costituzione.
3. – L’art. 1, comma 12, ultima parte, della legge Regione Campania n. 2 del 2010, prevede il finanziamento con fondi comunitari (risorse Fondo europeo di sviluppo regionale – FESR), da parte della Regione, per la realizzazione di condotte sottomarine lungo i canali artificiali con più elevato carico inquinante del litorale Domitio-Flegreo, per lo sversamento a fondale delle portate di magra.
La previsione del finanziamento, secondo il ricorrente, ammette implicitamente tali interventi, che sarebbero incompatibili con la destinazione delle risorse pubbliche alla realizzazione di opere funzionali a garantire una corretta depurazione delle acque reflue prima dello scarico, e per questo contrasterebbe con la normativa nazionale e comunitaria vigente in materia di acque, in particolare con la direttiva 23 ottobre 2000, n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque) e con la parte III del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale), e inoltre non terrebbe conto delle finalità istituzionali con le quali sono stati fissati e condivisi obiettivi tra Comunità europea, Stato e Regioni, finalizzati alla piena attuazione della stessa.
3.2. – La questione è fondata.
3.3. – Lo scopo della norma impugnata è l’allontanamento in alto mare, mediante condotte sottomarine, delle acque reflue dei canali affluenti, nel tratto di litorale Domitio-Flegreo, durante i periodi di magra. Pare evidente che, trattandosi di rimedio provvisorio in attesa della realizzazione di progetti per la depurazione delle acque inquinate, lo scarico avvenga senza sottoporre i reflui a trattamento alcuno.
La disciplina degli scarichi idrici, come più in generale la tutela delle acque dall’inquinamento, è ascrivibile alla materia dell’ambiente, attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n. 246 e n. 251 del 2009).
I margini di intervento, che la disciplina nazionale pur rimette alle Regioni, non giustificano tale tipo di misure.
La norma impugnata è macroscopicamente derogatoria sia alle norme di indirizzo comunitario sull’inquinamento del mare, sia alle finalità perseguite e agli strumenti predisposti dall’azione statale a tutela dell’ambiente, tanto da non potersi in alcun modo giustificare lo strumento individuato dalla Regione sia pure in via interinale, e neppure ritrovare un nesso tra la finalità che il comma 12 dell’art. 1 si propone («porre rimedio al fenomeno delle erosioni costiere»), e la soluzione tecnica adottata (scarico in alto mare delle acque reflue dei canali).
La direttiva n. 2000/60/CE promuove (art. 1) la protezione delle acque territoriali e marine, e la realizzazione degli obiettivi degli accordi internazionali in materia, compresi quelli miranti a impedire ed eliminare l’inquinamento dell’ambiente marino, con l’eliminazione graduale degli scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze pericolose al fine ultimo di pervenire a concentrazioni, nell’ambiente marino, vicine ai valori del fondo naturale per le sostanze presenti in natura e vicine allo zero per le sostanze sintetiche antropogeniche. Tra i requisiti minimi del programma di misure adottande dagli Stati membri (art. 11), vi è l’assunzione delle iniziative necessarie per non accrescere l’inquinamento delle acque marine, precisandosi anche (paragrafo 6) che l’attuazione delle misure adottate non può in nessun caso condurre, in maniera diretta o indiretta, ad un aumento dell’inquinamento delle acque.
La legislazione nazionale di settore appronta una tutela delle acque attraverso una complessa attività di pianificazione, di programmazione e di attuazione (art. 56 del d.lgs. n. 152 del 2006, c.d. Codice dell’ambiente), al fine, fra l’altro, di proteggere le acque territoriali e marine e realizzare gli obiettivi degli accordi internazionali in materia, compresi quelli miranti a impedire ed eliminare l’inquinamento dell’ambiente marino, allo scopo di arrestare o eliminare gradualmente gli scarichi, e comunque impedirne ulteriori deterioramenti (art. 73). Strumento fondamentale di programmazione, attuazione e controllo è il Piano di tutela delle acque, per l’individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici, stabiliti dalle norme tecniche dello stesso Codice dell’ambiente, che la Regione deve predisporre e aggiornare, in vista del progressivo raggiungimento degli obiettivi di qualità (art. 76).
La stessa disciplina degli scarichi è approntata dal Codice dell’ambiente in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e comunque entro i valori limite previsti nell’Allegato 5 alla parte III dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, che sono inderogabili dalle Regioni (art. 101), con l’obbligo di pretrattamento degli scarichi più nocivi. L’immersione in mare di materiale è consentita (art. 109) limitatamente a materiali di escavo di fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi, di inerti, materiali geologici inorganici e manufatti al solo fine di utilizzo, ove ne sia dimostrata la compatibilità e l’innocuità ambientale, di materiale organico e inorganico di origine marina o salmastra, prodotto durante l’attività di pesca effettuata in mare o laguna o stagni salmastri.
Rispetto a tale sistema, l’intervento legislativo della Regione Campania (il cui Piano di tutela delle acque è fermo al 2007), appare del tutto disarticolato dalla strategia elaborata a livello nazionale.
La dichiarata finalità di porre rimedio all’erosione costiera è, verosimilmente, un pretesto per giustificare un intervento legislativo in una materia di competenza regionale (qual è considerata il ripascimento delle zone costiere: sentenza n. 259 del 2004): la finalità è tecnicamente irrealizzabile con la misura individuata, che ha il solo scopo di allontanare in mare i reflui stagnanti nei canali litoranei in periodi di magra, in palese contrasto con la disciplina statale a tutela dell’ambiente, che mira a impedire ed eliminare l’inquinamento dell’ambiente marino, arrestando o eliminando gradualmente gli scarichi.
In definitiva, la norma è illegittima, per contrasto sia con l’art. 117, primo comma, che con il secondo comma, lettera s), della Costituzione.
L’accoglimento della questione comporta l’assorbimento della censura formulata con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e) Cost.
4. – L’art. 1, comma 16, della legge della Regione Campania n. 2 del 2010, prevede l’istituzione da parte dei Comuni ricompresi nel territorio dei parchi e nelle zone montane, di aree cinofile, adibite esclusivamente all’addestramento ed allenamento dei cani da caccia, e l’individuazione di strutture ove consentire l’addestramento anche dei cani da pastore, da utilità e dei cani adibiti alla pet-therapy ed al soccorso. La destinazione dei parchi e dei territori montani a tali usi – al fine del rilancio dell’economia di questi territori mediante il turismo cinofilo – avviene «anche d’intesa con gli organi di direzione degli enti parco» ed è affidata a cooperative di giovani residenti nei comuni interessati o ad imprenditori agricoli, singoli o associati, ed alle associazioni cinofilo-venatorie. La norma consente anche che in tali zone si svolgano, nell’arco dell’anno, prove zootecniche per il miglioramento delle razze canine da caccia e da pastore di cani iscritti all’anagrafe canina.
La disposizione contrasterebbe, ad avviso del ricorrente, con la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), che all’art. 11 prevede che ogni parco, nel rispetto delle sue caratteristiche, attraverso il proprio regolamento, disciplina l’esercizio delle attività consentite entro il territorio di competenza, fermo restando il divieto di tutte le attività e le opere che possono compromettere la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat.
4.1. – La questione è fondata nei limiti di seguito precisati.
4.2. – Nel rispetto dei livelli uniformi, previsti dalla legislazione statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – e tale è la materia delle aree protette, in cui la legge n. 394 del 1991 costituisce fonte di principi fondamentali (sentenze n. 20 e n. 315 del 2010; n. 366 del 1992) – la Regione esercita la propria potestà legislativa, senza potervi derogare, mentre può determinare, sempre nell’àmbito delle proprie competenze, livelli maggiori di tutela (sentenze n. 193 del 2010 e n. 61 del 2009).
Il territorio dei parchi, siano essi nazionali o regionali, ben può essere oggetto di regolamentazione da parte della Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni (sentenza n. 232 del 2008).
La disciplina statale delle aree protette, che inerisce alle finalità essenziali della tutela della natura attraverso la sottoposizione di porzioni di territorio soggette a speciale protezione, si estrinseca non solo nelle limitazioni all’esercizio della caccia (sentenza n. 315 del 2010), nella quale, indubbiamente, rientra l’addestramento dei cani da caccia (sentenze n. 350 del 1991 e n. 165 del 2009), ma anche nella predisposizione di strumenti programmatici e gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte nei parchi, alle esigenze di protezione della flora e della fauna (sentenza n. 387 del 2008).
L’art. 11 della legge n. 394 del 1991, correttamente individuato nel ricorso quale norma interposta, rimette la disciplina delle attività compatibili entro i confini del territorio protetto, al Regolamento del parco, che è adottato dall’Ente parco, e approvato dal Ministro dell’ambiente, previo parere degli enti locali, e comunque d’intesa con le Regioni. La disciplina contenuta nel Regolamento deve attenersi ai parametri che la stessa legge prevede, tra i quali emerge il divieto non solo di cattura, uccisione, danneggiamento, ma anche di «disturbo delle specie animali» (comma 3, lettera a), in una concezione integrata dell’habitat naturale, oggetto di protezione in ottemperanza agli obblighi comunitari, per cui è fatto divieto di «perturbare le specie animali protette, in particolare durante tutte le fasi del ciclo riproduttivo o durante l’ibernazione, lo svernamento e la migrazione» (art. 8, lettera d, decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche).
Lo svolgimento di attività che pur riconducibili alle esigenze di sviluppo economico del territorio, determinano, secondo la previsione della legge impugnata, un particolare afflusso di persone e di animali nel territorio del parco, va rimesso alla regolamentazione tecnica dell’ente preposto all’area protetta (sentenza n. 108 del 2005), secondo un procedimento in cui è pur richiesta la cooperazione delle Regioni e degli enti locali. La previsione legislativa regionale diretta allo svolgimento di attività che estrinsecandosi nell’addestramento di cani, non solo da caccia, ed in prove zootecniche, vanno a interagire con l’habitat naturale, non appare rispettosa dei livelli di tutela dell’ambiente, contenuti nella normativa statale.
Il rispetto dei livelli di tutela s’impone anche in riferimento ai parchi regionali – la norma impugnata appare di generalizzata applicazione – il cui regolamento è adottabile con legge regionale (art. 22, lettera d, della legge n. 394 del 1991), tuttavia in conformità ai principi di cui all’art. 11: tra questi rientrano i divieti che la legge statale enuclea come condizioni essenziali per l’esistenza stessa di aree di particolare conservazione della natura, nonché la titolarità, nella promozione di iniziative atte a favorire la crescita economica, sociale e culturale delle comunità residenti, dell’organo di gestione del parco, in coordinamento con quelle delle Regioni e degli enti locali (art. 25, comma 3).
La creazione delle aree cinofile è invece rimessa dall’art. 1, comma 16, della legge regionale della Campania, direttamente ai Comuni, con la cooperazione solo eventuale («anche d’intesa») degli organi del parco (sulla necessità di intesa, in tema di protezione della natura, sentenze n. 437 del 2008 e n. 378 del 2007).
In definitiva, la norma è illegittima, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione limitatamente alla sua applicazione ai territori compresi nei parchi e non anche per quanto riguarda le zone montane.
L’accoglimento della questione comporta l’assorbimento della censura formulata con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., peraltro non motivata sul punto.
5. – L’art. 1, comma 25, della legge della Regione Campania n. 2 del 2010 prescrive, per la dislocazione di centrali di produzione di energia da fonti rinnovabili, il rispetto di una distanza minima non inferiore a cinquecento metri lineari dalle aree interessate da coltivazioni viticole con marchio DOC e DOCG, e non inferiore a mille metri lineari da aziende agrituristiche ricadenti in tali aree.
Secondo il ricorrente la norma individuerebbe aree non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, in contrasto con l’art. 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità). Il corretto inserimento degli impianti (particolarmente gli impianti eolici) nel paesaggio è rimesso, secondo il ricorrente, all’approvazione di linee guida adottate in Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali. La norma impugnata sarebbe, pertanto, lesiva della competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s) Cost., nonché del terzo comma dello stesso articolo, contrastando con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
5.1. – La questione è fondata.
5.2. – Non è consentito alle Regioni, in assenza di linee guida approvate in Conferenza unificata, porre limiti di edificabilità degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, su determinate zone del territorio regionale (sentenze n. 119 e n. 344 del 2010; n. 166 e n. 382 del 2009).
La disciplina attiene alla materia di potestà legislativa concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione di energia», in cui le Regioni sono vincolate ai principi stabiliti dalla legislazione statale (sentenze n. 124, n. 168, n. 332 e n. 366 del 2010).
L’applicabilità, sancita dal comma 9 dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, dei commi che lo precedono (e tra questi, del comma 7), indipendentemente da quanto disposto dal comma 10 (ovvero dall’emanazione delle linee guida statali) non vale a legittimare una legiferazione regionale sui temi trattati dalle stesse disposizioni, in particolare nel senso di vietare la realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in determinate aree del territorio regionale.
Il comma 9 vale a rendere comunque autorizzabili dalla Regione gli impianti, indipendentemente dalla regolamentazione del procedimento, che il comma 10 rimette all’approvazione della Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministro per i beni e le attività culturali. Nel renderne possibile l’istallazione in zona agricola, il comma 7 impone di tener conto delle esigenze di sostegno del mercato agricolo e di valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, di tutela delle biodiversità e del paesaggio rurale. Si tratta di esigenze da vagliare in sede di istruttoria per il rilascio dell’autorizzazione unica, nella valutazione complessiva degli interessi variegati di cui è depositaria la Conferenza dei servizi, non anche di valori che la Regione possa autonomamente tutelare in via preventiva, con la generalità propria dell’intervento legislativo, a discapito dell’esigenza di favorire la massima diffusione degli impianti di energia rinnovabile.
In conclusione, il primo periodo dell’art. 1, comma 25, della legge della Regione Campania n. 2 del 2010 è illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, mentre il secondo periodo è mera disposizione a carattere finanziario di contenuto autonomo.