Titolo
Stampa - Reati commessi a mezzo della stampa - Pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante, atte a turbare il comune sentimento della morale - Lamentata, indebita, limitazione della libertà di stampa nonche' violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza e del principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali - Non fondatezza della questione.
Testo
L'art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui vieta l'utilizzazione di stampati idonei a "turbare il comune sentimento della morale", va letto alla luce dell'art. 2 della Costituzione e, in particolare, del valore del rispetto della persona umana, che anima tale disposizione: infatti, solo quando la soglia dell'attenzione della comunita' civile e' colpita negativamente, e offesa, dalla pubblicazione di scritti o immagini, con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignita' di ogni essere umano, e percio' avvertibili dall'intera collettivita', scatta la reazione dell'ordinamento. La norma, non e' quindi inficiata, sotto il profilo di costituzionalita', dalla liberta' di pensiero, in quanto e' concepita come presidio del valore fondamentale della dignita' umana, nella cui tutela, peraltro, trova il suo limite, sicche' appare escluso anche il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie. Detto valore permea di se' il diritto positivo e deve dunque incidere sull'interpretazione di quella parte della norma stessa che evoca il comune sentimento della morale. Non e' pertanto fondata, in riferimento agli artt. 3, 21, sesto comma, e 25 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
Atti oggetto del giudizio
legge
08/02/1948
n. 47
art. 15
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 2
Costituzione
art. 3
Costituzione
art. 21
co. 6
Costituzione
art. 25
N. 293
SENTENZA 11-17 LUGLIO 2000
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Cesare MIRABELLI;
Giudici: Francesco GUIZZI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI,
Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge
8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), promosso con
ordinanza emessa il 17 febbraio 1999 dalla Corte di cassazione nel
procedimento penale a carico di Corvi Luigi e altri, iscritta al
n. 275 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno
1999.
Visti gli atti di costituzione di Corvi Luigi e di La Cava
Cristina nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 4 aprile 2000 il giudice relatore
Francesco Guizzi;
Uditi gli avvocati Paola Balducci e Caterina Malavenda per Corvi
Luigi, Franco Coppi e Caterina Malavenda per La Cava Cristina e
l'Avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente
del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - A seguito della pubblicazione sul settimanale "Visto" delle
fotografie scattate dalla polizia giudiziaria in occasione della
scoperta del cadavere di A.F.dT. venivano incriminati C.V., L.C. e
M.M. per i delitti di ricettazione, pubblicazione di immagini coperte
da segreto e di fotografie impressionanti e raccapriccianti, atte a
turbare il comune sentimento della morale.
Assolti nei due gradi di merito dalle prime due imputazioni, gli
imputati proponevano ricorso per cassazione in ordine alla terza,
deducendo diversi motivi, fra i quali l'illegittimità costituzionale
della norma incriminatrice, l'art. 15 della legge 8 febbraio 1948,
n. 47 (Disposizioni sulla stampa), sì che il Collegio giudicante,
aderendo alla eccezione, sollevava questione di legittimità
costituzionale in riferimento agli artt. 21, 25 e 3 della
Costituzione.
2. - Osserva il rimettente che l'art. 15 della legge sulla
stampa, richiamando le sanzioni stabilite dall'art. 528 del codice
penale, punisce come reato la fattispecie degli "stampati i quali
descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o
raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto
immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della
morale o l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di
suicidi o delitti".
Tre sono gli elementi della condotta previsti: la descrizione o
l'illustrazione di avvenimenti, anche immaginari, su stampati; l'uso
di particolari impressionanti o raccapriccianti; le modalità idonee
a turbare la morale corrente o l'ordine delle famiglie, ovvero a
favorire il diffondersi dei suicidi o dei delitti.
La questione sarebbe rilevante ai fini del decidere e non
manifestamente infondata.
La genericità e l'indeterminatezza della norma incriminatrice,
nella parte in cui utilizza il parametro del "comune sentimento della
morale" quale requisito del fatto, violerebbe l'art. 25 della
Costituzione. La condotta punibile - osserva il giudice a quo - non
dovrebbe essere rimessa a valutazioni soggettive, variabili e non
definibili a priori ma legata a previsioni legislative
sufficientemente determinate. Significativamente, la Corte di appello
avrebbe convenuto con tale censura, almeno nella parte riguardante il
richiamo al "comune sentimento della morale"; tuttavia ha creduto di
superare il problema, proponendo una lettura della incriminazione
tale da ovviare alla genericità della previsione: la violazione
della morale comune verrebbe in considerazione solo quando essa sia
così marcata da destare la sensazione o il raccapriccio.
Il Collegio rimettente ritiene però non appagante questa
interpretazione, atteso che la genericità del riferimento alla
morale, priva di oggettività giuridica, sarebbe verificabile proprio
in base allo scarso numero di precedenti esistente, di contro al
profluvio di immagini impressionanti o raccapriccianti che sarebbero
sotto i nostri occhi.
Il giudice a quo ipotizza altresì la lesione dell'art. 3 della
Costituzione, perché - rispetto a tutti coloro che diffondono
immagini o notizie a mezzo stampa - verrebbero assoggettati a
sanzione soltanto gli autori o i responsabili di immagini o notizie
ritenute impressionanti o raccapriccianti.
Infine, l'indebita estensione del divieto costituzionale
concernente le sole pubblicazioni contrarie al buon costume, fino a
ricomprendere - con la norma incriminatrice - le pubblicazioni
contrarie alla morale comune, costituirebbe violazione dell'art 21,
sesto comma, della Costituzione, dal momento che si introduce un
concetto più ampio di quello vietato dalla disposizione
costituzionale, quindi restrittivo della libertà ivi stabilita. E
anche a voler ritenere come aventi un analogo contenuto le due
espressioni, la fattispecie risulterebbe comunque indeterminata,
ricandendo nella prima delle doglianze.
3. - Si sono costituite le parti private chiedendo l'accoglimento
della questione.
La difesa concorda con la censura del rimettente e, in ispecie,
con quella riguardante la violazione dei principi di tassatività e
determinatezza della fattispecie penale, palesandosi assolutamente
vago il turbamento della "morale comune" quale requisito della
condotta. In particolare si osserva che la morale sarebbe cosa
diversa rispetto all'impressione o al raccapriccio suscitati dalle
immagini censurate. Attraverso la locuzione usata ("in modo da poter
turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare"), il
legislatore avrebbe inteso porre un limite alla tutela penale,
stabilendo che non ogni immagine impressionante o raccapricciante
verrebbe ad assumere, secondo la diversa opinione del giudice
dell'appello, una rilevanza penale. Aderendo alle valutazioni della
Corte di cassazione, la difesa delle parti private respinge tale
interpretazione ("segno di un chiaro disagio ermeneutico") e giunge
alla conclusione che essa si risolverebbe in una interpretatio
abrogans poiché la morale comune scadrebbe di rilievo e finirebbe
col coincidere con un altro elemento della condotta. Al contrario,
costruita senza evento, essendo soddisfatta dal semplice pericolo, la
fattispecie determinerebbe l'impossibilità di restringere il campo
applicativo, così determinando la violazione della regola
costituzionale.
Si tratterebbe di una situazione simile a quella già esaminata
da questa Corte nello scrutinio del delitto di plagio, conclusosi con
una declaratoria di illegittimità della disposizione incriminatrice
per essere tale reato accertabile soltanto attraverso " i parametri
culturali propri del giudicante" (sentenza n. 96 del 1981). È vero,
proseguono le difese, che per le questioni di costituzionalità
sollevate in riferimento all'art. 25 della Costituzione la Corte
costituzionale ha dichiarato la non fondatezza di quelle concernenti
le fattispecie penali, all'apparenza indeterminate, che consentono
però una interpretazione univoca a seguito dell'individuazione di
principi certi e determinati da parte della giurisprudenza di
legittimità (sentenze nn. 31 del 1995 e 122 del 1993), ma nel caso
di specie ciò non sarebbe possibile per l'esiguo numero delle
pronunce. Né una lettura della disposizione in senso
costituzionalmente adeguato potrebbe dare certezza e definizione al
concetto di "morale comune" contenuto nella fattispecie
incriminatrice.
4. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso
per l'infondatezza della questione, sostenendo che il ricorso a
locuzioni proprie del linguaggio e dell'intelligenza comuni è
consentito - come si rileva dalla giurisprudenza costituzionale -
perché spetterebbe al giudice dare a esse un contenuto concreto.
Tale compito sarebbe dunque assolto dalla giurisprudenza, che
potrebbe rinvenire ragioni giustificative dell'elasticità del
contenuto normativo nei mutamenti connessi ai diversi momenti
storici. L'art. 15 della legge sulla stampa sarebbe infatti diretto a
tutelare non solo la comune morale, ma anche l'ordine familiare e
l'ordine pubblico.
Perché il fatto si configuri come reato occorre che
l'espressione narrativa o visiva sia palesemente suggestiva e denoti
"un'insensibilità morale dell'autore". La norma incriminatrice
richiederebbe, cioè, un quid pluris: l'idoneità del documento a
destare sensazione o raccapriccio, il che basterebbe a scongiurare la
pretesa violazione dei parametri costituzionali invocati.
5. - In una memoria successiva i difensori delle parti costituite
hanno insistito nella richiesta di una declaratoria di illegittimità
costituzionale della disposizione denunciata, rilevando, da un lato,
la frequente circolazione di immagini "forti", potenzialmente
qualificabili come raccapriccianti o impressionanti e, dall' altro,
il profondo mutarsi della sensibilità collettiva.
La Corte dovrebbe quindi censurare l'art. 15 in esame, per la
"sopravvenuta irragionevolezza", analogamente a quanto affermato
nelle sentenze nn. 370 del 1996 e 519 del 1995.
Considerato in diritto
1. - Viene all'esame della Corte, con riferimento agli artt. 25,
21 e 3 della Costituzione, la questione di legittimità dell'art. 15
della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), che
sanziona penalmente, ai sensi dell'art. 528 del codice penale,
l'utilizzazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con
particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente
verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il
comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter
provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Esso lederebbe,
infatti, il principio di tassatività e determinatezza delle
fattispecie penali, quello della libertà di stampa e i principi di
ragionevolezza e uguaglianza, perché non offrirebbe idoneo
fondamento giustificativo alla punizione di coloro che diffondono
siffatte immagini.
2. - L'art. 15 della legge n. 47 del 1948 dispone che si applichi
l'art. 528 del codice penale ai fatti riguardanti gli "stampati i
quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o
raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto
immaginari".
La previsione penale esige, come elemento della fattispecie
legale, che tali stampati siano formati in modo "da poter turbare il
comune sentimento della morale o l'ordine familiare o da poter
provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Essa è all'esame di
questa Corte per indeterminatezza, violazione del principio di
uguaglianza e indebita limitazione della libertà di stampa, ma
soltanto nella parte in cui dispone che questi stampati siano idonei
a "turbare il comune sentimento della morale".
3. - La questione non è fondata.
Con riguardo all'art. 21, sesto comma, della Costituzione, questa
Corte non può non ricordare che tale articolo - nel vietare le
pubblicazioni contrarie al buon costume - demanda alla legge la
predisposizione di meccanismi e strumenti adeguati a prevenire e a
reprimere le violazioni del precetto costituzionale.
L'art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al
sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall'art. 30, comma 2,
della legge 6 agosto 1990, n. 223, non intende andare al di là del
tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a
"turbare il comune sentimento della morale". Vale a dire, non
soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma
anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella
società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il
rispetto della persona umana, valore che anima l'art. 2 della
Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione
incriminatrice denunciata.
Solo quando la soglia dell'attenzione della comunità civile è
colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o
immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi
della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili
dall'intera collettività, scatta la reazione dell'ordinamento. E a
spiegare e a dar ragione dell'uso prudente dello strumento punitivo
è proprio la necessità di un'attenta valutazione dei fatti da parte
dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore
cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo
la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il
profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui
concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana.
4. - Così intesa la figura delittuosa, si possono superare anche
le residue censure.
La descrizione dell'elemento materiale del fatto-reato,
indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici,
trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare
escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie,
risultando quindi infondate le censure di genericità e
indeterminatezza.
Quello della dignità della persona umana è, infatti, valore
costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque
incidere sull'interpretazione di quella parte della disposizione in
esame che evoca il comune sentimento della morale. Nella stessa
chiave interpretativa si dissolvono i dubbi sul fondamento della
previsione incriminatrice. Onde non v'è lesione degli artt. 3, 21 e
25 della Costituzione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla
stampa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 21, sesto comma, e
25 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta l'11 luglio 2000.
Il Presidente: Mirabelli
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 17 luglio 2000.
Il direttore della cancelleria: Fruscella