Ritenuto in fatto
1. - Con undici ordinanze di rimessione, di analogo tenore (r.o.
nn. 64, 190, 199, 296, 323, 335, 336, 345, 390, 391 e 421 del 1998),
alcuni Tribunali amministrativi regionali (Lazio, Abruzzo, Liguria e
Marche) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 9, comma 4, della legge 19 novembre 1990, n. 341 (Riforma
degli ordinamenti didattici universitari), come modificato dall'art.
17, comma 116, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per
lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di
decisione e di controllo), che ha attribuito al Ministro
dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica il potere
di determinare la limitazione degli accessi ai corsi di laurea
universitari. Tale disposizione sarebbe in contrasto con gli artt. 33
e 34 - e con il principio della riserva relativa implicita di legge,
ivi desumibile - nonché con gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
I rimettenti ritengono la questione rilevante, trattandosi di
giudizi promossi da studenti non ammessi alla immatricolazione al
primo anno dei corsi di laurea per i quali le rispettive università
hanno stabilito un numero massimo di iscrizioni e l'amministrazione
ha dettato, con il decreto ministeriale 21 luglio 1997, n. 245
(Regolamento recante norme in materia di accessi all'istruzione
universitaria e di connesse attività di orientamento), norme
regolamentari queste che trovano, dichiaratamente, supporto normativo
nel richiamato art. 9, comma 4, della legge n. 341 del 1990, come
modificato dall'art. 17, comma 116, della legge n. 127 del 1997.
Secondo tutte le ordinanze di rimessione, in materia di accesso
agli studi, anche universitari, sussisterebbe, in base agli artt. 33
e 34 della Costituzione, una riserva relativa di legge, come
affermato da una consolidata giurisprudenza amministrativa: infatti
l'art. 33, secondo comma, della Costituzione stabilisce
espressamente che "la Repubblica detta le norme generali
sull'istruzione e istituisce scuole statali di ogni ordine e grado",
mentre l'art. 34, primo comma, sancisce che "la scuola è aperta a
tutti".
Nelle ordinanze si osserva che la previsione costituzionale di una
riserva relativa di legge in una determinata materia non preclude al
legislatore ordinario di demandare ad altre fonti la disciplina della
materia stessa, ma ciò è possibile soltanto previa la
determinazione, da parte del legislatore medesimo, di una serie di
precetti idonei a vincolare e indirizzare la normazione secondaria,
o, comunque, previa la individuazione delle linee essenziali della
disciplina, come precisato dalla giurisprudenza costituzionale.
La disposizione censurata, al contrario, conferisce al Ministro il
potere di determinare la limitazione degli accessi all'istruzione
universitaria, senza alcuna previa fissazione dei principi generali
della disciplina, ma addirittura attribuendo al Ministro stesso il
compito di definire, con l'ausilio di altro organo della pubblica
amministrazione e cioè il Consiglio universitario nazionale, quei
criteri generali per la regolamentazione dell'accesso. La violazione
del principio della riserva di legge comporterebbe in tal modo anche
la violazione del principio della tutela del diritto allo studio, di
cui agli artt. 33 e 34 della Costituzione.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, poi,
la norma in questione, demandando direttamente a uno strumento
amministrativo la disciplina delle limitazioni all'accesso ai corsi
universitari senza prescrizioni di limiti e criteri, si porrebbe
anche in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, sia per
il profilo della incongruità dello strumento utilizzato in relazione
alla riserva di legge, sia per il profilo della non coerenza con i
principi di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione
dell'attribuzione nella materia di un potere non legislativamente
delimitato.
2. - In tutti i giudizi di fronte alla Corte costituzionale (tranne
in quelli di cui al r.o. nn. 335 e 336 del 1998) è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l'infondatezza della
questione.
Precisa l'Avvocatura che l'art. 33, secondo comma, della
Costituzione, nel quale si suole individuare una riserva "implicita"
di legge, è stato dettato per assicurare l'uniformità
dell'istruzione impartita anche dalle scuole private, mentre il primo
comma dell'art. 34, che si limita a porre un principio di natura
programmatica, deve essere coordinato con il successivo terzo comma
che, prevedendo il diritto di accesso dei "capaci e meritevoli" ai
"gradi più alti degli studi", non solo legittima, ma comporta
limitazioni del diritto di accesso fondate sulla preparazione degli
aspiranti. Inoltre, il sesto comma del medesimo art. 33, riconoscendo
un'autonoma capacità normativa degli atenei di provvedere
all'organizzazione delle facoltà e dei corsi di laurea, secondo le
linee generali già definite dall'art. 6 della legge 9 maggio 1989,
n. 168, consente di contingentare le immatricolazioni mediante la
fissazione di un numero massimo di studenti compatibile con il
potenziale didattico disponibile, così come ormai espressamente
contemplato dall'art. 9 della legge n. 341 del 1990, senza che ciò
contrasti con la liberalizzazione dell'accesso agli studi
universitari sancita dall'art. 1 della legge 11 dicembre 1969, n.
910.
Il contingentamento degli iscritti attuato su base concorsuale -
con procedure selettive cui sono ammessi tutti gli aspiranti in
possesso dei requisiti legali - è inquadrabile nell'ambito delle
misure di carattere essenzialmente organizzatorio, che mirano ad
assicurare l'efficiente funzionamento delle facoltà e delle relative
strutture, in attuazione del principio costituzionale di autonomia
delle università.
3. - In alcuni giudizi (r.o. nn. 190, 199, 335, 345 e 390 del 1998)
si sono costituite le parti private, aspiranti studenti ricorrenti
nei giudizi a quibus, chiedendo l'accoglimento della questione per
violazione del principio della riserva di legge.
In particolare, nelle memorie si rileva che, nella vigenza della
normativa precedente alla legge n. 127 del 1997, non vi era dubbio
che il Ministro potesse disciplinare l'accesso ai corsi solo nel caso
in cui una limitazione a tale accesso fosse già prevista, e solo ove
tale previsione fosse dettata da una legge. Viceversa, con la
disposizione censurata, al Ministro sarebbe stato riconosciuto il
potere illimitato, arbitrario e privo di ogni vincolo, non più di
regolare l'accesso ai corsi ad iscrizione limitata, ma addirittura di
stabilire quali corsi siano di tal genere, in violazione della
riserva di legge contenuta nell'art. 33, secondo comma, della
Costituzione. Anche a ritenere tale riserva una riserva relativa,
gli aspetti generali della materia (in questo caso, l'accesso
all'università) dovrebbero essere regolati con legge, e, come già
evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale in riferimento
all'art. 23 della Costituzione, in modo "sufficiente", mentre alla
normativa di livello secondario dovrebbe essere affidata la
disciplina più specifica nell'ambito della legge stessa.
Nel caso di specie si sarebbe verificata una vera e propria
delegificazione, in materia coperta da riserva di legge e al di fuori
del meccanismo previsto dall'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto
1988, n. 400, in quanto la disciplina dell'accesso ai corsi
universitari viene affidata a una fonte "terziaria" (regolamento
ministeriale) in assenza, nella legge delegificante, di qualsiasi
norma generale, regolatrice della materia. Né il vincolo del numero
chiuso nel corso di laurea in odontoiatria può ritenersi discendere
direttamente dalla normativa comunitaria, come sostenuto
dall'Avvocatura generale dello Stato, perché non è da questa
imposto, e nemmeno può essere rimesso all'autonomia delle singole
università, in quanto anche tale autonomia, ai sensi del sesto comma
dell'art. 33 della Costituzione, deve svolgersi nei limiti stabiliti
dalle leggi dello Stato. La disposizione censurata, attribuendo al
potere regolamentare del Ministro sia di definire i criteri generali
di accesso all'università, sia di prevedere le eventuali limitazioni
di accesso ai singoli corsi di studio, violerebbe in tal modo anche
il principio dell'autonomia universitaria: la riserva di legge
prevista a garanzia di detta autonomia è una riserva relativa nei
confronti delle fonti espressive di essa, ma assoluta nei confronti
delle fonti prodotte dall'esecutivo.
La violazione del principio della riserva di legge sarebbe tanto
più grave in un settore nel quale è in gioco il diritto
fondamentale dell'accesso all'istruzione di cui agli artt. 33 e 34
della Costituzione, a fronte del quale vi sarebbe l'obbligo della
Repubblica di istituire scuole di ogni ordine e grado in misura
corrispondente alla diversificata domanda formativa, in nome anche
della piena libertà di scelta degli insegnamenti sancita dal primo
comma dell'art. 33, diritto che neppure il legislatore (e, tanto
meno, una fonte secondaria) può limitare.
Fondata sarebbe, infine, la censura che invoca a parametro gli
artt. 3 e 97 della Costituzione: la violazione del principio della
riserva di legge comporterebbe infatti anche la violazione del buon
andamento e dell'imparzialità dell'amministrazione, in quanto
l'intervento della legge rappresenta la condizione necessaria,
ancorché non sufficiente, per il rispetto di quei principi.
4. - Secondo la difesa della parte privata costituita in uno dei
giudizi di costituzionalità (r.o. n. 390 del 1998) la questione
dovrebbe essere dichiarata inammissibile in quanto la normativa
censurata non troverebbe applicazione nel giudizio di fronte al
Tribunale amministrativo regionale; difatti l'università degli studi
(in quel caso, Ancona) avrebbe determinato il numero di studenti da
ammettere al Corso di laurea in odontoiatria per l'anno accademico
1997-1998 con delibera del 5 giugno 1997, cioè in una data molto
anteriore rispetto a quella di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
(16 agosto 1997, n. 190) del decreto ministeriale 31 luglio 1997
(Limitazione all'accesso ai corsi di laurea in odontoiatria e protesi
dentaria per l'anno accademico 1997-1998), e anche il bando di
concorso (del 1 agosto 1997 per l'immatricolazione al primo anno di
quel corso di laurea) sarebbe anteriore a tale data, per cui gli atti
andrebbero restituiti al giudice rimettente.
5. - In prossimità dell'udienza hanno depositato memorie le parti
private costituitesi in alcuni giudizi (r.o. nn. 199, 345 e 390 del
1998), replicando alle considerazioni contenute nell'atto di
intervento dell'Avvocatura dello Stato e ribadendo le argomentazioni
già sostenute nei rispettivi atti di costituzione.
Considerato in diritto
1. - I Tribunali amministrativi regionali del Lazio, dell'Abruzzo,
della Liguria e delle Marche, con undici ordinanze di analogo
contenuto, sollevano questione di legittimità costituzionale
dell'art. 9, comma 4, della legge 19 novembre 1990, n. 341 (Riforma
degli ordinamenti didattici universitari), come modificato dall'art.
17, comma 116, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per
lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di
decisione e di controllo).
La disposizione impugnata, nell'originaria formulazione contenuta
nell'art. 9, comma 4, della legge n. 341 del 1990, stabiliva che il
"Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica
definisce, su conforme parere del CUN, i criteri generali per la
regolamentazione dell'accesso alle scuole di specializzazione ed ai
corsi per i quali sia prevista una limitazione nelle iscrizioni".
L'art. 17, comma 116, della legge n. 127 del 1997, disponendo sulla
formulazione testuale della disposizione anzidetta, ha stabilito che
"le parole "per i quali sia prevista" sono sostituite dalle
seguenti: ''universitari, anche a quelli per i quali l'atto emanato
dal Ministro preveda"". Pertanto, la disposizione risultante da tale
maniera di legiferare è la seguente: "Il Ministro dell'università e
della ricerca scientifica e tecnologica definisce, su conforme parere
del CUN, i criteri generali per la regolamentazione dell'accesso alle
scuole di specializzazione ed ai corsi universitari, anche a quelli
per i quali l'atto emanato dal Ministro preveda una limitazione nelle
iscrizioni".
Ritenendo che, in questo modo, attraverso la proposizione finale
della disposizione, la legge abbia istituito un libero potere del
Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica,
relativamente alla determinazione delle scuole e dei corsi
universitari ad accesso limitato, tutti i giudici rimettenti ne
mettono in dubbio la legittimità costituzionale con riferimento agli
artt. 33 e 34 - in particolare per quanto riguarda la riserva di
legge che si afferma valere nella materia in esame - e alcuni anche
in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
2. - Poiché le ordinanze di rimessione sollevano una questione di
legittimità costituzionale concernente la stessa disposizione
legislativa e per motivi in larga parte coincidenti, se ne può
disporre la riunione per la decisione con unica sentenza.
3. - Preliminarmente, deve essere esaminata l'eccezione di
inammissibilità, proposta in riferimento alla questione di
costituzionalità sollevata con una delle due ordinanze dell'11 marzo
1998 dal Tribunale amministrativo regionale delle Marche (r.o. n. 390
del 1998).
Si sostiene dalla difesa della parte ricorrente che il giudizio
innanzi al Tribunale - vertendo sulla legittimità di un
provvedimento di esclusione dal corso di laurea in odontoiatria preso
in un procedimento amministrativo iniziato con una delibera del
Senato accademico dell'Università degli studi di Ancona, successivo
all'entrata in vigore della disposizione attributiva al Ministro del
potere di prevedere limitazioni alle iscrizioni, ma anteriore
all'esercizio di tale potere e quindi indipendente dalla nuova
disciplina legislativa - debba essere definito sulla base della
normativa anteriore all'entrata in vigore della norma impugnata.
L'iniziativa del giudice rimettente sarebbe pertanto inammissibile
per irrilevanza della questione proposta o, quantomeno, si imporrebbe
la restituzione degli atti al fine di una nuova valutazione della
questione alla stregua dello ius superveniens.
Senonché, l'ordinanza che solleva la questione di
costituzionalità, avendo dato atto del rapporto temporale
intercorrente tra gli atti compiuti dagli organi dell'università, da
un lato, e la nuova disciplina legislativa e gli atti ministeriali
conseguenti, dall'altro, afferma che l'iniziale deliberazione del
Senato accademico "è stata superata" da tali atti, in quanto il
contestato limite di accesso al corso di laurea in questione non
sarebbe più riferibile all'autonoma decisione delle autorità
accademiche ma alle determinazioni del Ministro dell'università e
della ricerca scientifica e tecnologica, i cui provvedimenti
limitativi trovano fondamento nella norma di legge sottoposta al
vaglio di costituzionalità.
Così argomentando, il giudice rimettente mostra dunque di
considerare applicabile nel suo giudizio la norma denunciata. E,
poiché le valutazioni relative alla disciplina che deve trovare
applicazione per la definizione del giudizio spettano al giudice che
solleva la questione di costituzionalità, essendo dato a questa
Corte un mero riscontro circa l'avvenuta effettuazione di tali
valutazioni e circa il loro carattere non manifestamente arbitrario o
pretestuoso e poiché, nella specie, nulla di ciò è dato
verificare, la riferita eccezione di inammissibilità deve essere
respinta.
4. - Nel merito, la questione non è fondata, la disposizione in
esame dovendosi intendere secondo le considerazioni che seguono.
4.1. - L'accesso ai corsi universitari è materia di legge.
4.1.1. - Gli artt. 33 e 34 della Costituzione pongono i principi
fondamentali relativi all'istruzione con riferimento, il primo,
all'organizzazione scolastica (della quale le università, per quanto
attiene all'attività di insegnamento sono parte: sentenza n. 195 del
1972); con riferimento, il secondo, ai diritti di accedervi e di
usufruire delle prestazioni che essa è chiamata a fornire.
Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia,
l'una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non
c'è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non
sia finalizzata a diritti, così come non c'è diritto a prestazione
che non condizioni l'organizzazione. Questa connessione richiede
un'interpretazione complessiva dei due articoli della Costituzione.
L'art. 33, dopo aver stabilito, al primo comma, che "l'arte e la
scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento" e, al secondo
comma, che la "Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed
istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi", prevede per
le istituzioni di alta cultura e, tra esse, per le università "il
diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle
leggi dello Stato" (art. 33, sesto comma). Secondo la Costituzione,
l'ordinamento della pubblica istruzione è dunque unitario ma
l'unità è assicurata, per il sistema scolastico in genere, da
"norme generali" dettate dalla Repubblica; in specie, per il sistema
universitario, in quanto costituito da "ordinamenti autonomi", da
"limiti stabiliti dalle leggi dello Stato".
Gli "ordinamenti autonomi" delle università, cui la legge, secondo
l'art. 33 della Costituzione, deve fare da cornice, non possono
considerarsi soltanto sotto l'aspetto organizzativo interno,
manifestantesi in amministrazione e in normazione statutaria e
regolamentare. Per l'anzidetto rapporto di necessaria reciproca
implicazione, l'organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato
funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi. La
necessità di leggi dello Stato, quali limiti dell'autonomia
ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per l'aspetto
organizzativo, sia, a maggior ragione, per l'aspetto funzionale che
coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni.
In questo modo, all'ultimo comma dell'art. 33 viene a conferirsi
una funzione, per così dire, di cerniera, attribuendosi alla
responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti
legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto
all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere
all'istruzione universitaria, nell'ambito del principio secondo il
quale "la scuola è aperta a tutti" (art. 34, primo comma) e per la
garanzia del diritto riconosciuto ai "capaci e meritevoli, anche se
privi di mezzi" "di raggiungere i gradi più alti degli studi" (art.
34, terzo comma).
La conclusione cui così si perviene attraverso la specifica
interpretazione degli artt. 33 e 34 della Costituzione è, del resto,
confermata e avvalorata dai "principi generali informatori
dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite
imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo
che trae da costoro la propria diretta investitura" e dall'esigenza
che "la valutazione relativa alla convenienza dell'imposizione di uno
o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro
complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo
armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento,
quale organo da cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato".
Queste proposizioni, enunciate con riguardo a diritti di iniziativa
economica e contenute in una decisione di questa Corte (sentenza n. 4
del 1962) risalente nel tempo ma la cui validità nel vigente assetto
costituzionale non può non essere confermata, valgono ugualmente e,
per certi aspetti, a maggior ragione nel caso ora in discussione, nel
quale l'organizzazione dell'università, come servizio pubblico, da
una parte, coinvolge diritti costituzionali della persona umana come
il diritto alla propria formazione culturale (art. 2 della
Costituzione) e quello alle proprie scelte professionali (art. 4
della Costituzione), a sua volta mezzo essenziale di sviluppo della
personalità (sentenza n. 61 del 1965) e, dall'altra parte, implica
decisioni pubbliche d'insieme, inerenti alla determinazione delle
risorse necessarie per il funzionamento delle istituzioni scolastiche
in genere e universitarie in specie, che influisce sulle prestazioni
da esse erogabili.
La conclusione che ne deriva è che i criteri di accesso
all'università, e dunque anche la previsione del numerus clausus non
possono legittimamente risalire ad altre fonti, diverse da quella
legislativa.
4.1.2. - Ai fini della risoluzione della presente questione di
costituzionalità, non è sufficiente il riferimento a una "riserva"
di normazione primaria in materia di accesso all'istruzione
universitaria. Occorre infatti precisarne la portata, prendendo in
considerazione la possibilità di una normazione non legislativa
ulteriore, quale svolgimento e completamento di quella riservata al
legislatore.
La "riserva di legge" assicura il monopolio del legislatore nella
determinazione delle scelte qualificanti nelle materie indicate dalla
Costituzione, sia escludendo la concorrenza di autorità normative
"secondarie", sia imponendo all'autorità normativa "primaria" di non
sottrarsi al compito che solo a essa è affidato.
Tale valenza è generale e comune a tutte le "riserve". Dipende
invece dalle specifiche norme costituzionali che le prevedono,
secondo la loro interpretazione testuale, sistematica e storica, il
carattere di ciascuna riserva, carattere chiuso o aperto alla
possibilità che la legge stessa demandi ad atti subordinati le
valutazioni necessarie per la messa in atto concreta delle scelte
qualificanti la materia ch'essa stessa ha operato.
Nella specie, la riserva di legge in tema di accesso ai corsi
universitari, come prevista dalla Costituzione, non è tale da
esigere che l'intera disciplina della materia sia contenuta in legge.
Viene in considerazione, innanzitutto, il rapporto tra la legge e
l'autonomia universitaria prevista dall'ultimo comma dell'art. 33
della Costituzione, rapporto nel quale le previsioni legislative
valgono come "limiti", che non sarebbero più tali ove le
disposizioni di legge fossero circostanziate al punto da ridurre le
università, che la Costituzione vuole dotate di ordinamenti
autonomi, al ruolo di meri ricettori passivi di decisioni assunte al
centro.
Inoltre, sotto l'aspetto dei rapporti tra potestà legislativa e
potestà normativa del Governo, nulla nella Costituzione esclude
l'eventualità che un'attività normativa secondaria possa
legittimamente essere chiamata dalla legge stessa a integrarne e
svolgerne in concreto i contenuti sostanziali, quando - come nella
specie - si versi in aspetti della materia che richiedono
determinazioni bensì unitarie, e quindi non rientranti nelle
autonome responsabilità dei singoli atenei, ma anche tali da dover
essere conformate a circostanze e possibilità materiali varie e
variabili, e quindi non facilmente regolabili in concreto secondo
generali e stabili previsioni legislative.
In sintesi, la riserva di legge in questione è tale da comportare,
da un lato, la necessità di non comprimere l'autonomia delle
università, per quanto riguarda gli aspetti della disciplina che
ineriscono a tale autonomia; dall'altro, la possibilità che la
legge, ove non disponga essa stessa direttamente ed esaustivamente,
preveda l'intervento normativo dell'esecutivo, per la specificazione
concreta della disciplina legislativa, quando la sua attuazione,
richiedendo valutazioni d'insieme, non è attribuibile all'autonomia
delle università.
Rispetto alle linee costituzionali di questo quadro composito, le
possibilità che si aprono alle scelte legislative di ordinamento,
anche con riferimento all'accesso all'istruzione universitaria, sono
evidentemente molto ampie e diversificate, in relazione ai numerosi
aspetti della disciplina, i quali possono comportare le più varie
soluzioni circa l'allocazione e la combinazione procedurale delle
competenze decisionali, nei rapporti tra l'autonomia delle
università e la normazione nazionale, nonché tra le determinazioni
legislative e quelle ch'esse possono demandare all'esecutivo, a loro
volta influenzate dall'assetto che sia stato dato dalla legge ai
rapporti tra autorità universitarie nazionali e autonomia degli
atenei.
Se tali sono le esigenze di composizione del quadro ordinamentale
anzidetto - esigenze cui, con riferimento alla materia in esame, non
si può dire che, finora, il legislatore abbia organicamente prestato
la sua opera -, nel presente giudizio di costituzionalità, secondo
la prospettazione della questione da parte dei giudici rimettenti,
viene in considerazione direttamente solo il problema dei rapporti
tra le determinazioni del legislatore e quelle dell'amministrazione,
sotto il profilo della riserva di legge, relativamente
all'individuazione dei corsi universitari ad accesso limitato.
4.2. - La disposizione di legge sottoposta al controllo di
costituzionalità attribuisce al Ministro dell'università e della
ricerca scientifica e tecnologica il potere di disciplinare con
proprio atto l'accesso alle scuole di specializzazione e ai corsi
universitari, "anche a quelli per i quali l'atto stesso preveda una
limitazione nelle iscrizioni". Una formula, questa, che, certamente,
vale ad affermare l'esistenza di un potere ministeriale in materia,
là dove la formula originaria del censurato art. 9, comma 4, (il
quale trattava di criteri generali, definiti dal Ministro, "per la
regolamentazione dell'accesso alle scuole di specializzazione ed ai
corsi per i quali sia prevista una limitazione") aveva indotto, per
lo più, a ritenerlo escluso. Ma tale affermazione, nel nuovo
articolo 9, comma 4, è fatta più sotto forma di riconoscimento
della sua esistenza che non attraverso la sua previsione ex novo per
mezzo di una compiuta disciplina. Se il caso fosse questo secondo, se
cioè dalla disposizione censurata dovesse necessariamente trarsi -
come sarebbe se si dovesse seguire l'interpretazione prospettata dai
giudici rimettenti - la volontà del legislatore di istituire un
potere ministeriale, svincolato da adeguati criteri di esercizio, di
determinare le scuole e i corsi universitari a iscrizioni limitate,
la violazione della riserva di legge prevista dalla Costituzione
risulterebbe palese.
Poiché però non è così, è possibile dare alla disposizione
censurata un'interpretazione adeguata alle esigenze della riserva di
legge esistente in materia: interpretazione secondo la quale il
potere che la legge riconosce al Ministro può essere esercitato solo
se e nei limiti in cui da altre disposizioni legislative risultino
predeterminati criteri per l'individuazione in concreto delle scuole
e dei corsi universitari rispetto ai quali valgono esigenze
particolari di contenimento del sovraffollamento e si giustifichi
quindi la previsione - con l'atto ministeriale cui l'impugnato art.
9, comma 4, si riferisce - delle limitazioni nelle iscrizioni.
In breve, la disposizione censurata riconosce un potere senza
precisarne le condizioni di esercizio. Perché essa possa ritenersi
non incompatibile con la Costituzione sotto l'aspetto della riserva
di legge, occorre interpretarla nel senso che il potere ch'essa
afferma essere conferito all'amministrazione non sia libero e,
perché esso non sia libero, occorre che la disposizione che lo
riconosce sia integrata da altre determinazioni che lo circoscrivano.
Tali determinazioni, infine, possono essere ricavate, e così le
esigenze della riserva di legge possono essere soddisfatte, con
riferimento all'ordinamento nel suo insieme e non devono
necessariamente essere contenute nella disposizione specifica
istitutiva del potere dell'amministrazione ch'esse valgono a limitare
(così, ad esempio, sentenza n. 34 del 1986).
4.3. - Affinché dunque il principio di riserva di legge nella
materia in esame possa dirsi rispettato, occorre che il denunciato
art. 9, comma 4, della legge n. 341 del 1990 sia inserito in un
contesto di scelte normative sostanziali predeterminate, tali che il
potere dell'amministrazione sia circoscritto secondo limiti e
indirizzi ascrivibili al legislatore.
Analoga funzione nella composizione di tale contesto, e quindi di
delimitazione della discrezionalità dell'amministrazione, deve
essere riconosciuta alle norme comunitarie dalle quali derivino
obblighi per lo Stato incidenti sull'organizzazione degli studi
universitari.
Ed è, principalmente e particolarmente, a queste norme che, nella
specie, in carenza di un quadro organicamente predisposto dal
legislatore nazionale per la disciplina del numero delle iscrizioni
ai corsi universitari, deve farsi riferimento.
Vengono in considerazione, a questo proposito, e hanno valore
decisivo varie direttive (78/686/CEE del Consiglio, del 25 luglio
1978; 78/687/CEE del Consiglio, di pari data; 78/1026/CEE del
Consiglio, del 18 dicembre 1978; 78/1027/CEE del Consiglio, di pari
data; 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985; 89/594/CEE del
Consiglio, del 30 ottobre 1989 e 93/16/CEE del Consiglio, del 5
aprile 1993). Esse concernono il reciproco riconoscimento, negli
Stati membri, dei titoli di studio universitari sulla base di criteri
uniformi di formazione, l'esercizio del diritto di stabilimento dei
professionisti negli Stati dell'Unione nonché la libera prestazione
dei servizi e riguardano, al momento, i titoli accademici di medico,
medico-veterinario, odontoiatra e architetto.
Le ricordate direttive prescrivono, in vista dell'analogia dei
titoli universitari rilasciati nei diversi Paesi e del loro reciproco
riconoscimento, standard di formazione minimi a garanzia che i titoli
medesimi attestino il possesso effettivo delle conoscenze necessarie
all'esercizio delle attività professionali corrispondenti. In tutti
i casi cui le direttive si riferiscono, si prescrive che gli studi
teorici si accompagnino necessariamente a esperienze pratiche,
acquisite attraverso attività cliniche o, in genere, operative
svolte nel corso di periodi di formazione e di tirocinio aventi luogo
in strutture idonee e dotate delle strumentazioni necessarie, sotto
gli opportuni controlli. E ciò implica e presuppone che tra la
disponibilità di strutture e il numero di studenti vi sia un
rapporto di congruità, in relazione alle specifiche modalità
dell'apprendimento.
Alla stregua dell'art. 189 del Trattato CEE, le direttive vincolano
gli Stati membri cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in
merito alla forma e ai mezzi. Esse richiedono dunque attuazione, da
parte del legislatore e dell'amministrazione, secondo le regole
costituzionali che ne configurano i poteri e ne disciplinano i
rapporti.
Le direttive sopra menzionate hanno trovato attuazione nei decreti
legislativi 27 gennaio 1992, n. 129 e 2 maggio 1994, n. 353. Essi
dettano analitiche discipline relativamente al riconoscimento dei
titoli rilasciati dalle università e al diritto di stabilimento dei
professionisti e, quanto alla garanzia degli standard di formazione
universitaria che condizionano il reciproco riconoscimento dei titoli
accademici, richiamano gli obiettivi delle direttive, cioè "la
formazione prevista dalla normativa comunitaria" e "l'insieme delle
esigenze minime di formazione" richieste dalla stessa normativa. Tali
obiettivi, obbligatori per lo Stato in forza dell'art. 189 del
Trattato CEE, valgono per dettato legislativo - indipendentemente
dalla loro forza cogente diretta - nei confronti
dell'amministrazione, comportando che i poteri di cui essa sia
dotata, nella materia oggetto di direttive, sono da esercitare
secondo gli obblighi di risultato che la normativa comunitaria
impone, non rilevando poi la circostanza che tali poteri siano
definiti in occasione della attuazione delle direttive medesime o
siano legislativamente previsti - come è nella specie - altrimenti.
Quanto ai compiti del legislatore nelle riserve di legge che, come
nel caso in esame, la Costituzione configura "aperte" a svolgimenti
da parte della amministrazione, l'esistenza di direttive comunitarie
esecutive comporta che l'obbligo di predisposizione diretta della
normativa sostanziale entro la quale deve ridursi la discrezionalità
dell'amministrazione viene alleggerendosi, per così dire, in
conseguenza e proporzione alla consistenza delle direttive medesime
(salva sempre, ovviamente, la possibilità per il legislatore di
andare oltre, ma non contro, la normativa comunitaria).
5. - Tanto premesso, una volta che l'impugnato art. 9, comma 4,
della legge n. 341 del 1990 sia interpretato nel senso che esso non
conferisce all'amministrazione un potere svincolato dai limiti
sostanziali derivanti dall'ordinamento, risultano, negli stessi
limiti, destituiti di fondamento i dubbi di costituzionalità su di
esso sollevati, sotto il profilo della violazione del principio di
riserva di legge ricavabile dagli artt. 33 e 34 della Costituzione.
Infatti, nelle sopra citate direttive comunitarie si rinviene un
preciso obbligo di risultato, che gli Stati membri sono chiamati ad
adempiere predisponendo, per alcuni corsi universitari aventi
particolari caratteristiche - tra cui quelli cui si riferiscono i
ricorsi presentati davanti ai giudici rimettenti -, misure adeguate a
garantire le previste qualità, teoriche e pratiche,
dell'apprendimento.
In tali direttive, invero, non si tratta degli strumenti. Questi
sono infatti rimessi alle determinazioni nazionali e il legislatore
italiano, come per lo più i suoi omologhi degli altri Paesi
dell'Unione, ha per l'appunto previsto la possibilità di introdurre
il numerus clausus per tali corsi. Ma una volta attribuito il giusto
rilievo ai doveri che sul nostro Paese incombono per la
partecipazione all'Unione europea, e una volta considerato come essi
incidano nel rapporto tra legislazione e amministrazione, in tale
possibilità non è più dato scorgere quel carattere arbitrario in
base al quale i giudici rimettenti si sono indotti a sollevare la
presente questione di costituzionalità.
Parallelamente cadono i dubbi prospettati in relazione agli artt.
3 e 97 della Costituzione, la cui pretesa violazione è motivata
sulla premessa, dimostratasi inesatta, che il potere ministeriale sia
esercitabile, alla stregua della norma impugnata, con piena
discrezionalità.
6. - Sebbene possa dunque essere superato, in considerazione degli
obblighi comunitari e nei limiti in cui essi sussistono, lo specifico
dubbio di costituzionalità sollevato dai giudici rimettenti circa la
legittimità costituzionale della previsione del potere ministeriale
di limitare gli accessi universitari, occorre aggiungere che l'intera
materia necessita di un'organica sistemazione legislativa, finora
sempre mancata: una sistemazione chiara che, da un lato, prevenga
l'incertezza presso i potenziali iscritti interessati e il
contenzioso che ne può derivare e nella quale, dall'altro, trovino
posto tutti gli elementi che, secondo la Costituzione, devono
concorrere a formare l'ordinamento universitario.