Titolo
SENT. 379/96 A. CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA POTERI DELLO STATO (GIUDIZIO PER) - IMMUNITA' PARLAMENTARE - DICHIARAZIONE DEL G.I.P. DEL TRIBUNALE DI ROMA IN DATA 23 MAGGIO 1996 DI NON APPLICABILITA' DELL'ART. 68, PRIMO COMMA, COST. E DI TRASMISSIONE ALLA PRESIDENZA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI DEGLI ATTI DI PROCEDIMENTO A CARICO DEGLI EX DEPUTATI BONAFINI FLAVIO E TAGINI PAOLO INDAGATI IN ORDINE AI REATI DI CUI AGLI ARTT. 479 E 494 COD. PEN. PER ESSERSI ATTRIBUITI FALSAMENTE LA QUALIFICA E L'IDENTITA' DI ALTRI PARLAMENTARI ASSENTI ALLA SEDUTA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI DEL 16 FEBBRAIO 1995 E, SUCCESSIVAMENTE, PER LA PARTECIPAZIONE ALLE OPERAZIONI DI VOTO ATTESTANDO FALSAMENTE LA PRESENZA E L'ESPRESSIONE DEL VOTO DA PARTE DI DUE DEPUTATI NON PRESENTI IN AULA - ASSERITA INVASIONE DELLA SFERA DI AUTONOMIA DELLA CAMERA - PRETESA INSINDACABILITA' DA PARTE DELL'A.G. DELL'ATTIVITA' LEGISLATIVA ANCHE IN RELAZIONE ALLA VALUTAZIONE DEL COMPORTAMENTO DEI PARLAMENTARI NEL CORSO DELLE VOTAZIONI NONCHE' DELLE ATTIVITA' DISCIPLINATE DAI REGOLAMENTI PARLAMENTARI - NON SPETTANZA AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA, NE' AL G.I.P. PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA DEL POTERE DI PROCEDERE NEI CONFRONTI DEI PREDETTI EX-DEPUTATI - ANNULLAMENTO DEGLI ATTI EMANATI.
Testo
Non spetta al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ne' al Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale procedere nei confronti degli ex deputati Flavio Bonafini e Paolo Tagini per i reati di cui agli artt. 479 e 494 cod. pen. (falsita' ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona) in relazione alla attivita' posta in essere dalle suddette persone, in qualita' di deputati, nel corso della votazione svoltasi nella seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995 [nella specie, la Camera dei deputati aveva sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, nei confronti del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, sorto a seguito del provvedimento 23 maggio 1996 del Tribunale di Roma, Sez. G.i.p., uff. 15, con cui era stata dichiarata la non applicabilita' dell'art. 68, comma primo, Cost. e disposta la trasmissione alla Presidenza della Camera dei deputati degli atti del procedimento penale a carico dei predetti ex deputati, indagati in ordine ai reati di cui agli artt. 479 e 494 cod. pen., perche', in concorso con deputati assenti, si attribuivano falsamente la qualifica e l'identita' di altri parlamentari nella partecipazione alla seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995 e, successivamente, partecipavano alle operazioni di voto attestando falsamente la presenza e l'espressione del voto da parte di due deputati non presenti in aula], in quanto - posto che dai principi costituzionali, che definiscono la posizione delle Camere nei confronti del potere giurisdizionale, risulta un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto (che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione: universalita' della legge, legalita', rimozione di ogni privilegio, obbligatorieta' dell'azione penale, diritto di difesa in giudizio, etc..) e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare garantiti dagli artt. 64, 72 e 68 Cost. e sottratti al diritto comune (che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di liberta'), con la conseguenza che sono coperti da immunita' non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del diritto comune i comportamenti estranei alla 'ratio' giustificativa dell'autonomia costituzionale delle Camere; e che dal sistema costituzionale emerge in maniera immediata e certa il confine tra l'autonomia del Parlamento e il principio di legalita', di tal che, allorquando il comportamento di un componente di una Camera sia sussimibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio di legalita' ed i molteplici valori ad esso connessi (quali che siano le concorrenti qualificazioni che nell'ordinamento stesso quel medesimo comportamento riceva, in termini, ad es., di illegittimita', illiceita' etc.) sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e al preminente valore di liberta' del Parlamento che quel principio sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all'organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori, mentre, allorquando un qualche aspetto del comportamento stesso esuli dalla capacita' classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la sua disciplina (perche' coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la "grande regola" dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 Cost.) - i comportamenti dei membri della Camera dei deputati ritenuti, nella specie, penalmente rilevanti sono esaustivamente qualificabili alla luce del diritto parlamentare e si sottraggono ad ogni rimedio diverso dai mezzi di tutela del corretto svolgimento dei lavori previsti dal regolamento parlamentare: con riferimento ai fatti sottostanti all'ipotizzato reato di falso ideologico, i beni lesi riguardano le modalita' del procedimento di votazione, la regolarita' della seduta, la correttezza del computo dei parlamentari presenti, la regolarita' dei verbali, i poteri presidenziali di accertamento del voto e di proclamazione dei risultati (artt. 44-62 Reg. Camera; artt. 66-72 e 107-120 Reg. Senato) e, per quanto attiene alla tutela del bene della fede pubblica, questa e' interamente assorbita dalla valutazione circa il corretto svolgimento dei lavori parlamentari attribuita all'esclusiva competenza della Camera; con riferimento ai fatti sottostanti all'ipotizzato reato di sostituzione di persona, posto che la titolarita' del diritto di voto spetta ai parlamentari non come singole persone ma come componenti del Parlamento, la garanzia che il voto sia esercitato personalmente deve essere apprestata dai regolamenti parlamentari, l'applicazione dei quali e' insindacabilmente riservata alle Camere. Devono, conseguentemente, essere annullate l'ordinanza del G.I.P. del Trib. Roma del 23 maggio 1996, nonche' la richiesta della Proc. Rep. presso lo stesso Tribunale del 3 maggio 1996, accolta con la suddetta ordinanza. - S. nn. 231/1975, 129/1981, 1150/1988, 462/1993, 463/1993, 464/1993, 302/1995, 420/1995; O. nn. 68/1993 e 6/1996. red.: S. Di Palma
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 64
Costituzione
art. 68
Costituzione
art. 72
Riferimenti normativi
ordinanza g.i.p. tribunale di Roma
23/05/1996
n. 0
art. 0
co. 0
richiesta Procura Repubblica presso trib. Roma
03/05/1996
n. 0
art. 0
co. 0
Titolo
SENT. 379/96 B. CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA POTERI DELLO STATO (GIUDIZIO PER) - PROCEDIMENTO - AMMISSIBILITA' DEL RICORSO - NOTIFICA DEL RICORSO AGLI ORGANI INTERESSATI - RICORSO PROPOSTO DALLA CAMERA DEI DEPUTATI - PRETESA LESIONE DELLE ATTRIBUZIONI GARANTITE DAGLI ARTT. 64, 72, 68 COST. (IMMUNITA' PARLAMENTARI) - "ORGANI INTERESSATI" NEI CUI CONFRONTI DEVE DISPORSI LA NOTIFICAZIONE DEL RICORSO - LEGITTIMAZIONE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA - SUSSISTENZA.
Testo
Nell'ipotesi in cui la Camera dei deputati abbia sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato per pretesa lesione delle attribuzioni garantite dagli artt. 64, 72 e 68 Cost. (immunita' parlamentari), deve riconoscersi la legittimazione ad intervenire nel relativo giudizio anche al Senato della Repubblica in ragione dell'identica posizione costituzionale delle due Camere nella materia controversa. red.: S. Di Palma
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 64
Costituzione
art. 68
Costituzione
art. 72
Costituzione
art. 134
Altri parametri e norme interposte
legge
11/03/1953
n. false
art. 37
co. 4
Titolo
SENT. 379/96 C. CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA POTERI DELLO STATO (GIUDIZIO PER) - PROCEDIMENTO - LEGITTIMAZIONE ALLA PROPOSIZIONE DEL CONFLITTO - RICORSO PROPOSTO DALLA CAMERA DEI DEPUTATI - PRETESA LESIONE DELLE ATTRIBUZIONI GARANTIRE DAGLI ARTT. 64, 72, 68 COST. (IMMUNITA' PARLAMENTARI) - PRETESA, ESCLUSIVA LEGITTIMAZIONE DEL PRESIDENTE DELL'ASSEMBLEA - LEGITTIMAZIONE DELLA CAMERA - FATTISPECIE.
Testo
Nell'ipotesi in cui l'oggetto del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sia costituito dalla pretesa lesione delle attribuzioni garantite a ciascuna delle Camere dagli artt. 64, 72 e 68 Cost. (immunita' parlamentari), la legittimazione a proporre il relativo ricorso spetta alla Camera stessa e non al suo Presidente, in quanto la tutela richiesta attiene alla complessiva posizione di autonomia costituzionalmente riconosciuta ad ognuna delle Camere, e non gia' ad una specifica attribuzione del Presidente di ciascuna di esse. red.: S. Di Palma
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 64
Costituzione
art. 68
Costituzione
art. 72
Costituzione
art. 134
Altri parametri e norme interposte
legge
11/03/1953
n. false
art. 37
N. 379
SENTENZA 17 OTTOBRE-2 NOVEMBRE 1996
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio promosso con ricorso della Camera dei deputati,
notificato il 24 luglio 1996 e depositato in cancelleria il 1 agosto
1996, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del provvedimento
in data 23 maggio 1996 del Tribunale di Roma, sezione giudice per le
indagini preliminari, ufficio 15, con cui è stata dichiarata la non
applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e la
trasmissione alla Presidenza della Camera dei deputati degli atti del
procedimento a carico degli ex deputati Bonafini Flavio e Tagini
Paolo, indagati in ordine ai reati di cui agli artt. 479 e 494 del
codice penale, perché in concorso con deputati assenti si
attribuivano falsamente la qualifica e l'identità di altri
parlamentari nella partecipazione alla seduta della Camera dei
deputati del 16 febbraio 1995 e, successivamente, partecipavano alle
operazioni di voto attestando falsamente la presenza e l'espressione
del voto da parte di due deputati non presenti in aula, ed iscritto
al n. 21 del registro conflitti 1996;
Visti gli atti di costituzione della procura della Repubblica
presso il tribunale di Roma e del Senato della Repubblica;
Udito nell'udienza pubblica del 1 ottobre 1996 il giudice relatore
Carlo Mezzanotte;
Uditi l'avvocato Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati e
gli avvocati Federico Sorrentino e Salvatore Mileto per la procura
della Repubblica presso il tribunale di Roma e l'avvocato Paolo
Barile per il Senato della Repubblica.
Ritenuto in fatto
1. - Con informativa dell'11 aprile 1995 i carabinieri di Milano
trasmettevano al procuratore della Repubblica presso il tribunale di
Roma un esposto-denuncia relativo alla votazione effettuata nella
seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995, nel corso
della quale l'on. Paolo Emilio Taddei aveva pubblicamente denunciato
di aver assistito personalmente all'espressione di quattro voti da
parte di due soli deputati.
Il procuratore della Repubblica, con nota del 31 ottobre 1995,
chiedeva alla presidenza della Camera elementi informativi circa
l'erogazione dell'indennità giornaliera di presenza spettante ai
deputati, l'oggetto e il risultato della votazione ed altri profili
utili allo svolgimento delle indagini in ordine ai reati in quel
momento a suo avviso ipotizzabili (truffa e falso per induzione).
Con nota del 29 novembre 1995, diretta al procuratore della
Repubblica, il Segretario generale della Camera invitava il pubblico
ministero inquirente a riconsiderare la questione nell'ambito del
principio di insindacabilità degli atti normativi delle Camere e
sottolineava l'esclusiva competenza del Presidente della Camera dei
deputati a decidere sulla regolarità delle votazioni. Concludeva
affermando che la investigazione in merito alla stessa regolarità
delle votazioni e ai presupposti per l'erogazione delle indennità
parlamentari avrebbe comportato una violazione della sfera di
attribuzioni del Parlamento.
Il pubblico ministero proseguiva nella sua azione e, ipotizzando i
reati di cui agli artt. 479 e 494 del codice penale (falsità
ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e
sostituzione di persona), in data 3 maggio 1996 chiedeva al giudice
per le indagini preliminari di dichiarare, nei confronti degli
onorevoli Bonafini Flavio e Tagini Paolo, la non applicabilità
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, secondo il quale i
membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle
opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni.
Il giudice per le indagini preliminari, con ordinanza del 23 maggio
1996, accedeva alla richiesta del pubblico ministero e disponeva la
trasmissione degli atti del procedimento alla presidenza della Camera
dei deputati, secondo quanto stabilito dal decreto-legge n. 253 del
10 maggio 1996 (Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'art. 68
della Costituzione).
A seguito di tale provvedimento, la Camera dei deputati elevava
conflitto di attribuzione con ricorso depositato in data 11 luglio
1996, chiedendo a questa Corte di dichiarare: che spetta
esclusivamente alla Camera dei deputati, ai sensi degli artt. 64 e 68
della Costituzione, esercitare insindacabilmente l'attività
legislativa anche per quanto concerne la valutazione del
comportamento dei parlamentari nel corso delle votazioni; che, in
particolare, sono sottratte ad ogni sindacato dell'autorità
giudiziaria le attività disciplinate dai regolamenti parlamentari e
le vicende in cui si concretano lo svolgimento delle votazioni e
l'accertamento e la proclamazione dei relativi risultati; e,
conseguentemente, di annullare, perché viziata per incompetenza
assoluta, l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari,
ufficio 15, del 23 maggio 1996, nonché, per quanto possa occorrere,
le richieste del pubblico ministero in ordine alla pretesa
inapplicabilità dell'art. 68, riaffermando la competenza esclusiva
della Camera a pronunciarsi in proposito.
Ad avviso della Camera dei deputati, gli atti impugnati sarebbero
lesivi dell'autonomia delle Assemblee parlamentari nell'esercizio
delle proprie funzioni normative ed operative, garantita dall'art.
64, e non solo dall'art. 68 della Costituzione, in quanto la
regolarità della votazione nella quale si sarebbero verificati gli
asseriti illeciti sarebbe stata attestata, nell'esercizio di una
competenza esclusiva, dal Presidente della Camera. L'accertamento
della responsabilità per falso comporterebbe un inammissibile
controllo esterno sulla applicazione dei regolamenti parlamentari e
si risolverebbe in una dichiarazione di falsità del verbale della
seduta del 16 febbraio 1995, ai sensi dell'art. 537 del codice di
procedura penale secondo il quale la falsità di un atto o di un
documento, accertata con sentenza di condanna, è dichiarata nel
dispositivo.
La competenza in materia della autorità giudiziaria ordinaria
andrebbe perciò esclusa anche in considerazione dei distruttivi
inconvenienti che altrimenti si verificherebbero col ricorso in
Parlamento alla pratica del doppio voto, che potrebbe addirittura
divenire strumento di invalidazione di leggi da parte di parlamentari
che artatamente volessero inquinarne il procedimento di approvazione.
Ciò tanto più in quanto nella competenza riservata in maniera
esclusiva ai regolamenti parlamentari rientrerebbe, quale mezzo al
fine della tutela dell'autonomia del Parlamento, la disciplina del
modus operandi del parlamentare e la relativa previsione di sanzioni
disciplinari.
In sostanza, a giudizio della Camera, l'art. 68 della Costituzione
non potrebbe essere invocato, come invece sembra fare il giudice per
le indagini preliminari, ignorando l'art. 64, che tutela l'organo nel
suo complesso e la funzione legislativa ad esso affidata dagli artt.
70 e 72; solo una visione coordinata delle norme costituzionali
permetterebbe di cogliere il pieno significato dell'autonomia del
Parlamento: il richiamo isolato ad una norma (l'art. 68 Cost.), per
desumerne il limite alla insindacabilità dei comportamenti di
parlamentari incidenti sul procedimento legislativo, risulterebbe
asistematico e antistorico.
2. - Questa Corte, con ordinanza n. 269 del 1996, ha dichiarato
ammissibile il predetto conflitto di attribuzione proposto dalla
Camera dei deputati nei confronti del tribunale di Roma, sezione
giudici per le indagini preliminari, ufficio 15, estendendo la
notifica del ricorso, oltre che alla Procura della Repubblica presso
il tribunale di Roma, di un cui atto era stato chiesto
l'annullamento, anche al Senato della Repubblica, apparendo opportuno
acquisirne il punto di vista, stante l'identità della posizione
costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle
questioni di principio da trattare.
3. - Degli organi ai quali, secondo quanto disposto nell'anzidetta
ordinanza, il ricorso per conflitto è stato notificato a cura della
Camera, si sono costituiti innanzi a questa Corte la procura della
Repubblica presso il tribunale di Roma e il Senato della Repubblica.
La procura della Repubblica eccepisce in primo luogo la
inammissibilità del ricorso della Camera dei deputati sotto diversi
profili. Innanzi tutto, esso sarebbe motivato anche sulla base
dell'asserita violazione dell'art. 68 della Costituzione, mentre
nella delibera assembleare con la quale si è deciso di proporre
conflitto sarebbe ipotizzata la sola violazione dell'art. 64 della
Costituzione. In secondo luogo, la stessa Camera avrebbe omesso di
pronunciarsi circa l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo
comma, della Costituzione, dei comportamenti oggetto di indagine,
dopo la trasmissione degli atti del procedimento da parte del giudice
per le indagini preliminari. Infine, la procura eccepisce
l'inammissibilità del conflitto per difetto di attualità della
lesione, sotto il profilo delle conseguenze che una sentenza di
condanna in sede penale, già meramente eventuale, avrebbe sugli atti
della Camera. Una simile pronuncia, contrariamente a quanto sostenuto
nel ricorso introduttivo, non comporterebbe nella specie
l'applicabilità all'atto votato dell'art. 537 cod. proc. pen., e non
avrebbe alcuna incidenza sull'attestazione dell'esito della votazione
e sul regime giuridico degli atti risultanti, anche in considerazione
dell'amplissima maggioranza che si era espressa, nel caso di specie,
a favore dell'approvazione dell'atto stesso. D'altra parte, in via
generale, la proclamazione del risultato effettuata dal presidente
dell'assemblea attesterebbe, ad avviso della procura, solo l'esito
favorevole o sfavorevole della votazione e non la sua regolarità, e,
ancora, l'accertamento di un falso perpetrato nel corso dell'iter
parlamentare di una legge verrebbe a costituire solo un presupposto
della eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di
essa; e ciò anche nel caso in cui il reato fosse compiuto proprio al
fine dell'invalidazione successiva.
Quanto al merito del conflitto, la procura della Repubblica rileva
che i fatti oggetto di indagine comporterebbero una violazione del
principio costituzionale della personalità e indelegabilità del
voto parlamentare; principio, questo, desumibile - in correlazione a
quanto stabilito espressamente nell'art. 48, secondo comma, per il
voto politico - dall'art. 64, terzo comma, della Costituzione che
richiede, per l'approvazione delle deliberazioni, la maggioranza dei
"presenti". Apparirebbero, di conseguenza, indubitabili sia
l'invalidità del voto espresso in Parlamento da parte di un soggetto
diverso dal parlamentare al quale il voto stesso è destinato ad
imputarsi, sia l'assoluta estraneità dell'attività di sostituzione,
ove svolta da altro parlamentare, all'esercizio delle funzioni,
tutelato dall'art. 68, primo comma, della Costituzione.
Per ciò che riguarda la violazione dell'art. 64, primo comma,
della Costituzione, la procura osserva che il regolamento
parlamentare non disciplinerebbe atti e comportamenti penalmente
rilevanti, che possono verificarsi in sede parlamentare e che sarebbe
errato ritenere insindacabili, essendo commessi al di fuori
dell'esercizio delle funzioni. In ordine a tali fatti, la
responsabilità dei parlamentari dovrebbe essere piena e non solo
politica o disciplinare, dal momento che comunque il regolamento non
basterebbe a sanzionare efficacemente condotte che potrebbero
giungere fino alla coartazione fisica o morale di altri parlamentari
impegnati nel voto. Del resto, secondo la procura, il vigente
regolamento della Camera non conterrebbe norme disciplinari, se non a
tutela dell'"ordine delle sedute" ed in relazione a comportamenti che
rientrerebbero tutti nella sfera dell'insindacabilità, garantita
dall'art. 68, primo comma, della Costituzione.
4. - Il Senato della Repubblica nel suo atto di costituzione chiede
l'accoglimento del ricorso della Camera, ritenendo infondati gli
argomenti addotti dal giudice per le indagini preliminari e dal
pubblico ministero per affermare la non applicabilità del principio
di insindacabilità degli atti parlamentari.
A giudizio del Senato, l'esercizio dell'azione penale nel caso in
esame finirebbe con l'investire necessariamente gli atti della Camera
relativi alle operazioni di voto. Il giudice penale dovrebbe infatti
valutare la correttezza e la legittimità non solo dei voti
registrati nel processo verbale della Camera, ma anche della
proclamazione dell'esito della votazione e della determinazione circa
la definitività di tale proclamazione che nella specie è stata
effettuata dal Presidente a seguito di contestazione di altro
deputato; lo stesso giudice, infine, dovrebbe valutare la
legittimità della intervenuta decisione del Presidente di non
annullare e non disporre, a termini di regolamento, l'immediata
rinnovazione della votazione effettuata.
Tutto ciò, ad avviso del Senato, andrebbe ritenuto insindacabile
ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, che
sancirebbe una deroga alla punibilità dei comportamenti dei
parlamentari al fine di tutelare l'autonomia e l'indipendenza del
processo di formazione della volontà delle Camere.
Errata sarebbe anche l'affermazione, contenuta nella richiesta del
pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari, di
estraneità dei comportamenti dei deputati sottoposti a indagine
all'esercizio delle funzioni parlamentari. Il pubblico ministero
perseguirebbe infatti un reato di falso configurabile solo
nell'esercizio di funzioni pubbliche e, d'altra parte, il
comportamento dei deputati non potrebbe dirsi semplicemente
occasionato dall'esercizio delle funzioni di voto, bensì sarebbe
stato strettamente connesso e correlato con tale esercizio. Né
sarebbe possibile distinguere tra attività di voto regolare ed
attività irregolare senza sindacare le modalità di espressione del
voto.
5. - In prossimità dell'udienza tutte le parti costituite hanno
depositato memorie.
La Camera dei deputati confuta le deduzioni della procura di Roma,
sostenendo innanzitutto l'infondatezza delle eccezioni di
inammissibilità. Quanto alla prima, relativa al contenuto della
deliberazione di sollevare il conflitto, la Camera rileva che, in
generale, là dove è ammessa la difesa tecnica, non sarebbe logico
considerare preclusa la deduzione in giudizio di ogni motivo ritenuto
giuridicamente idoneo a provare il fondamento dell'iniziativa e,
nella specie, gli artt. 64 e 68 della Costituzione si troverebbero in
un rilevante rapporto di coerenza sistematica.
Quanto alla seconda eccezione, riguardante l'omessa pronuncia della
Camera circa l'insindacabilità dei comportamenti dei deputati
indagati, la memoria sottolinea che la Camera stessa avrebbe in tutti
i suoi atti contestato in radice il potere dell'autorità giudiziaria
ordinaria di interferire nel procedimento legislativo, censurando
anche l'erronea individuazione da questa effettuata dell'art. 68
della Costituzione, quale unica norma costituzionale rilevante nella
fattispecie.
Per ciò che concerne infine la terza eccezione di
inammissibilità, la difesa della Camera sostiene che la mera
eventualità della condanna penale e delle sue conseguenze sugli atti
della Camera non renderebbe privo il conflitto del requisito
dell'attualità, poiché, a questo fine, sarebbe sufficiente la sola
turbativa dell'esercizio delle attribuzioni, potendo anche mancare
del tutto un atto che dia occasione al conflitto: è proprio in
questo senso che si dovrebbe interpretare, secondo la ricorrente,
l'art. 38 della legge n. 87 del 1953 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale). Il problema all'esame
della Corte riguarderebbe immediatamente il funzionamento
dell'assemblea per la parte disciplinata dal regolamento della
Camera, trattandosi di una contestazione che investirebbe le
modalità di espressione di due voti, e cioè una materia
procedimentale riservata al regolamento stesso dall'art. 72 della
Costituzione.
In replica alle deduzioni della procura sul merito del conflitto,
la Camera afferma la non pertinenza del richiamo all'art. 64, terzo
comma, della Costituzione, che riguarderebbe materia, quale la
determinazione dei quorum di validità delle deliberazioni della
Camera, diversa dal voto dei cittadini elettori previsto dall'art.
48.
La Costituzione poi non prevederebbe alcuna deroga alle norme che
garantiscono piena autonomia al Parlamento e competenza esclusiva
sulle leggi alla Corte costituzionale, non potendosi certo
interpretare in tal senso l'obbligo imposto al pubblico ministero di
esercitare l'azione penale (art. 112 della Costituzione). L'invasione
della sfera di autonomia del Parlamento e dei suoi componenti
nell'esercizio delle funzioni, si consumerebbe, d'altra parte, con
qualsiasi tipo di atto o di comportamento che determini dall'esterno
impedimenti, controlli o turbative perché il Parlamento sarebbe,
anche secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, una
istituzione che si autodisciplina, risultando incondizionata
l'attribuzione ad esso delle sue competenze, della loro
regolamentazione, degli strumenti di vigilanza e di sanzione,
dell'interpretazione e dell'applicazione del regolamento, almeno per
quanto non previsto direttamente dalla Costituzione.
La difesa della Camera ricorda infine che le sezioni unite penali
della Corte di cassazione, con sentenza del 12 marzo 1983, avrebbero
negato la giurisdizione di qualsiasi autorità giudiziaria sugli atti
delle commissioni parlamentari di inchiesta, affermando, tra l'altro,
che non sarebbe ipotizzabile alcun illecito dei membri del Parlamento
nell'esercizio delle funzioni proprie del loro mandato.
6. - Il Senato della Repubblica espone nella memoria difensiva il
proprio convincimento - in merito alla prima eccezione di
inammissibilità sollevata dalla procura di Roma - circa la
correttezza del richiamo effettuato dal ricorso della Camera non solo
all'art. 64 della Costituzione, ma anche all'art. 68, primo comma,
della Costituzione: le due norme sarebbero, infatti, in un rapporto
di inscindibile connessione funzionale e l'ambito oggettivo del
conflitto verrebbe definito solo dall'atto introduttivo. Quanto alla
seconda eccezione di inammissibilità, la decisione di sollevare
conflitto implicherebbe, secondo il Senato, di per sé,
l'affermazione nel caso concreto della insindacabilità stabilita
dall'art. 68, primo comma, della Costituzione, né sarebbe possibile
escludere nella specie l'esercizio delle funzioni parlamentari, in
quanto lo stesso art. 68 garantirebbe ogni attività compiuta dal
parlamentare all'interno e all'esterno delle Camere, comunque
connessa con le funzioni derivanti dalla carica.
Anche l'eccezione relativa al difetto di attualità della lesione e
alla conseguente inammissibilità del ricorso, sarebbe, ad avviso del
Senato, infondata, essendo sufficiente a provocare indebite
interferenze il semplice svolgimento di attività di indagine da
parte dell'autorità giudiziaria ordinaria sull'attività legislativa
della Camera dei deputati.
Nel merito, secondo la difesa del Senato, sussisterebbe la
lamentata violazione dell'art. 64 della Costituzione da parte
dell'autorità giudiziaria: la peculiare collocazione dei regolamenti
parlamentari nel sistema delle fonti comporterebbe la potestà di
disciplinare i procedimenti di formazione della volontà
parlamentare, con il solo limite delle norme costituzionali, ma con
la sottrazione di tale competenza alla stessa legge ordinaria e con
la conseguente possibilità per le sole Camere di individuare sia le
corrette modalità di svolgimento delle funzioni parlamentari, sia le
conseguenze giuridiche dei comportamenti difformi da quanto stabilito
nei regolamenti. La materia del presente conflitto riguarderebbe la
sfera più tipica dell'autonomia parlamentare: il procedimento di
deliberazione e di votazione, la cui regolamentazione non può che
essere riservata a ciascun ramo del Parlamento. Né mancherebbero nel
regolamento della Camera le sanzioni per il caso concreto,
riconducibile ad una grave irregolarità nell'espressione di un voto.
7. - Nella memoria della procura della Repubblica si deduce un
nuovo motivo di parziale inammissibilità del ricorso della Camera:
poiché in esso si lamenterebbe la violazione di competenze (quali la
proclamazione dei risultati della votazione e la verifica della
regolarità di questa) attribuite in via esclusiva al presidente
dell'assemblea in materia di procedimento legislativo, il conflitto
avrebbe dovuto essere sollevato, sotto tale profilo, dallo stesso
Presidente della Camera.
La procura della Repubblica ribadisce poi che, avendo la Camera dei
deputati lamentato la lesione ad opera della autorità giudiziaria
della propria potestà normativa ed "operativa", garantita dall'art.
64 della Costituzione, non vi sarebbe necessità di soffermarsi sui
profili attinenti all'immunità parlamentare di cui all'art. 68,
primo comma, della Costituzione, se non per confutare la tesi della
difesa del Senato, secondo cui il voto espresso da un deputato in
luogo di un altro costituirebbe non già un mero ed illecito
comportamento materiale, bensì un vero e proprio "voto", espresso
nell'esercizio delle funzioni e pertanto insindacabile, ancorché
"irregolare". Sul punto la difesa della Procura sottolinea che
l'esercizio di "funzioni pubbliche", che sarebbe stato affermato
dall'autorità giudiziaria con riferimento all'attività posta in
essere dai due indagati, si ricollegherebbe esclusivamente al loro
status di parlamentari e alla attività di voto da questi esercitata,
nell'occasione, in nome proprio; tale qualificazione non potrebbe
estendersi però alla concomitante attività di "sostituzione" dei
colleghi assenti.
La procura sostiene ancora che l'iniziativa giudiziaria,
riguardante illeciti ascritti a parlamentari fuori dall'esercizio
delle loro funzioni, non lederebbe in alcun modo l'autonomia
legislativa del Parlamento: infatti, la funzione legislativa nella
specie sarebbe già stata esercitata e avrebbe avuto modo di
svolgersi senza interferenze, esaurendosi con l'approvazione
dell'atto in discussione. Né l'autonomia delle Camere potrebbe
ritenersi lesa per il fatto che l'eventuale sentenza di condanna di
parlamentari potrebbe incidere sull'attestazione di approvazione
della votazione effettuata dal Presidente: oggetto dell'indagine
sarebbe infatti soltanto il comportamento illecito ascritto ai due
deputati, mentre le eventuali conseguenze in ordine alla attività
svolta dal Presidente non rileverebbero.
Le assemblee parlamentari, d'altra parte, non potrebbero dettare
norme interne o esercitare una giurisdizione domestica in
sostituzione rispettivamente delle norme e della giurisdizione
dell'ordinamento penale generale; né potrebbero essere considerate
surrogatorie di quelle penali le norme disciplinari contenute nei
regolamenti parlamentari, finalizzate al buon funzionamento e alla
organizzazione delle Camere. Ad avviso della difesa della procura,
le immunità parlamentari e l'autonomia regolamentare ed
organizzativa delle Camere costituirebbero eccezioni,
costituzionalmente previste, al principio della rilevanza per
l'ordinamento generale degli atti e dei comportamenti dei
parlamentari: in particolare, l'art. 68, primo comma, della
Costituzione, costituendo deroga al principio di eguaglianza e ad
altri fondamentali principi costituzionali, sarebbe di stretta
interpretazione e comporterebbe di conseguenza la piena
responsabilità del parlamentare secondo le norme generali, per tutto
quanto egli compia fuori dall'esercizio delle sue funzioni, ancorché
nelle aule del Parlamento. Nella specie, la Camera, sollevando il
conflitto, avrebbe implicitamente escluso che le indagini intraprese
dall'autorità giudiziaria incidessero sull'art. 68, primo comma,
della Costituzione: conseguentemente, non potrebbe, attraverso il
richiamo dell'art. 64, far valere un'irresponsabilità che sarebbe
del tutto estranea alla previsione costituzionale.
Considerato in diritto
1. - Il conflitto di attribuzione promosso dalla Camera dei
deputati, sul quale questa Corte è chiamata a decidere, trae origine
dalle indagini avviate dalla procura della Repubblica presso il
tribunale di Roma nei confronti di due deputati inquisiti in
relazione alle ipotesi di reato previste dagli artt. 479 e 494 del
codice penale (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in
atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona), nonché
dal provvedimento del giudice per le indagini preliminari del
tribunale di Roma con il quale è stata esclusa l'applicabilità alla
specie dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e disposta la
trasmissione degli atti del procedimento in corso alla Camera dei
deputati. Nell'ipotesi accusatoria che ha dato luogo all'anzidetto
procedimento penale tali deputati si sarebbero falsamente attribuiti,
nella seduta della Camera del 16 febbraio 1995, la qualifica e
l'identità di altri parlamentari assenti, votando in luogo di
questi. Nella prospettazione della ricorrente l'attività della
autorità giudiziaria avrebbe leso le attribuzioni garantite alla
Camera dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione, dai quali si
desumerebbe il principio di assoluta insindacabilità delle attività
poste in essere dai singoli deputati nell'esercizio di funzioni
parlamentari.
2. - Con l'ordinanza n. 269 del 1996, questa Corte ha dichiarato
ammissibile il conflitto, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo
1953, n. 87, "restando impregiudicata, atteso il carattere meramente
delibatorio della presente pronuncia, ogni ulteriore decisione anche
in punto di ammissibilità". L'esito di quella delibazione deve
essere confermato in questa fase di cognizione piena, sia sotto il
profilo soggettivo del conflitto, sia sotto il profilo oggettivo.
Quanto al primo profilo, deve ribadirsi, in conformità alla
giurisprudenza ormai consolidata, la legittimazione di ciascuna
Camera a promuovere, attraverso il suo Presidente e sulla base di una
conforme delibera dell'assemblea, conflitti di attribuzione tra
poteri dello Stato. Entrambe le Camere sono infatti da ritenere
competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui
appartengono, ai sensi dell'art. 37, primo comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87, allorché vengano in considerazione "attribuzioni
rivendicate in nome dell'indipendenza e dell'autonomia di ciascun
ramo del Parlamento" (sentenza n. 129 del 1981). Del pari
indubitabile è la legittimazione - in questo caso passiva - del
giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma,
essendo insegnamento costante di questa Corte che i singoli organi
giurisdizionali svolgono le loro funzioni in posizione di piena
indipendenza, costituzionalmente garantita (sentenze n. 1150 del 1988
e n. 231 del 1975 e ordinanze n. 6 del 1996 e n. 68 del 1993). La
legittimazione a resistere al conflitto deve essere inoltre
riconosciuta alla procura della Repubblica presso il tribunale di
Roma, poiché il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 112 della
Costituzione, è titolare dell'attività di indagine finalizzata
all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (sentenze n. 420 del
1995, n. 462, n. 463 e n. 464 del 1993).
Sotto il profilo oggettivo, la Camera, negando che il comportamento
di due suoi membri, ai quali viene rivolto l'addebito di aver fatto
figurare la presenza di deputati assenti e di aver espresso il voto
in luogo di questi, possa essere sottoposto ad indagine ed
accertamento da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria, lamenta
la violazione della posizione di autonomia e di indipendenza che la
Costituzione le garantisce. Sussiste pertanto, indubbiamente, la
materia di un conflitto per la delimitazione della sfera di
attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali,
che questa Corte è chiamata a risolvere.
Legittimato ad intervenire nel presente conflitto deve essere,
infine, ritenuto il Senato della Repubblica al quale la notifica del
ricorso è stata estesa in forza dell'ordinanza n. 269 del 1996;
l'identica posizione costituzionale delle due Camere in merito alle
questioni delle quali si controverte rende opportuno accordare anche
all'altra Camera la facoltà di interloquire.
3. - Prima di passare allo scrutinio di merito, devono essere
esaminate alcune eccezioni di carattere processuale avanzate dalla
difesa della procura della Repubblica presso il tribunale di Roma.
Secondo una prima eccezione farebbe difetto, nella specie, il
requisito della attualità della lesione delle attribuzioni della
Camera, che potrebbero essere, in ipotesi, compromesse solo da una
sentenza di condanna dei parlamentari.
Questa prima eccezione, con la quale in sostanza si nega, seppure
implicitamente, anche la qualità di potere dello Stato del
procuratore della Repubblica, non può essere accolta. Solo se questa
Corte fosse stata adìta a scopo meramente consultivo, per
pronunciarsi, cioè, su ipotesi astratte, l'eccezione avrebbe avuto
fondamento, ma è pacifico che, ai fini dell'ammissibilità dei
conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, è richiesto solo
l'interesse ad agire, "la cui sussistenza è necessaria e sufficiente
a conferire al conflitto gli indispensabili caratteri della
concretezza e dell'attualità" (sentenza n. 420 del 1995). E non può
negarsi, nel caso di specie, che il requisito dell'interesse sia già
pienamente presente a seguito dell'attività di indagine promossa
dalla Procura della Repubblica nei confronti di due ex deputati e
della ordinanza adottata il 23 maggio 1996 dal giudice per le
indagini preliminari del tribunale di Roma, su conforme richiesta
della procura della Repubblica, con la quale si dichiara di voler
procedere. Il conflitto in cui si versa, pertanto, non è meramente
ipotetico, ma reale e concreto e scaturisce dall'attività posta in
essere, in relazione ad un caso specifico, da organi della autorità
giudiziaria requirente e, rispettivamente, giudicante.
Infondata, inoltre, è l'eccezione secondo la quale la
legittimazione a proporre il conflitto spetterebbe non alla Camera
dei deputati, bensì al suo Presidente. V'è in primo luogo la
difficoltà di ricostruire, sulla base delle norme costituzionali,
una sfera di attribuzioni propria del Presidente di Assemblea
parlamentare così ampia da comprendere la tutela dell'indipendenza
della Camera di appartenenza. La Costituzione, infatti, gli
attribuisce esplicitamente, oltre alla presidenza dell'assemblea
(art. 63, primo comma), il potere di convocazione straordinaria (art.
62, secondo comma), quello di essere ascoltato dal Presidente della
Repubblica nell'ipotesi di scioglimento (art. 88, primo comma), e,
quanto al Presidente della Camera, la convocazione e la presidenza
del Parlamento in seduta comune (art. 63, secondo comma), quanto al
Presidente del Senato, la supplenza del Capo dello Stato (art. 86,
primo comma). Ogni altro compito del presidente di assemblea è
rimesso alla disciplina dei regolamenti parlamentari. Poiché in
questo caso il ricorso introduttivo del presente giudizio mira a
tutelare la complessiva posizione di autonomia costituzionalmente
riconosciuta alla Camera dei deputati e non già una specifica
attribuzione del suo presidente, legittimata a proporre il conflitto
è la medesima Camera.
Deve essere del pari disattesa l'eccezione di inammissibilità che
muove da una presunta divergenza tra la delibera con la quale la
Camera ha deciso di proporre il conflitto, in cui risulta indicata
solo la violazione dell'art. 64 della Costituzione, e il ricorso
proposto dinanzi a questa Corte, nel quale si lamenta anche
l'asserita violazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione,
concernente l'insindacabilità dei voti dati e delle opinioni
espresse dai membri delle Camere. Va rilevato che la corrispondenza
tra il contenuto del ricorso e quello della deliberazione propositiva
deve essere valutata in relazione ai profili essenziali del
conflitto, dovendosi riconoscere alla difesa tecnica piena autonomia
nello svolgimento della tesi affermata dalla parte (sentenza n. 302
del 1995). Nella specie, la difesa della Camera si è limitata,
appunto, ad un apporto tecnico poiché ha argomentato la lesione
della attribuzione e, in definitiva, della prerogativa
dell'insindacabilità degli atti delle Camere, non solo dall'art. 64,
ma anche dall'art. 68 della Costituzione, considerando entrambe le
disposizioni concorrenti, insieme all'art. 72, a definire un ambito
di attività parlamentare sottratto alla interferenza dell'autorità
giudiziaria ordinaria.
Infondata è infine l'ulteriore eccezione di inammissibilità del
ricorso, svolta dalla difesa della Procura sul presupposto che,
spettando alla Camera pretendere dall'autorità giudiziaria
l'applicazione dell'immunità di cui all'art. 68, primo comma, della
Costituzione, la contraria affermazione contenuta nell'ordinanza 23
maggio 1996 del giudice per le indagini preliminari del tribunale di
Roma avrebbe richiesto alla Camera stessa una pronuncia sul merito,
anziché una deliberazione di sollevare conflitto di attribuzione,
essendo semmai rimessa all'autorità giudiziaria la facoltà di
proporre ricorso avverso la deliberazione parlamentare. Va però
osservato che il conflitto promosso dalla Camera dei deputati non fa
leva esclusivamente sull'art. 68, primo comma, della Costituzione,
ché anzi questa disposizione è invocata per argomentare l'esistenza
e la latitudine dell'autonomia garantita alle Camere. L'invasione
della sfera di autonomia della Camera dei deputati è dedotta dalla
ricorrente sull'espresso rilievo che l'autorità giudiziaria, avendo
affermato la sindacabilità del comportamento dei due ex deputati
alla luce del solo art. 68, primo comma, abbia sottaciuto dell'art.
64 della Costituzione, che detta sfera di autonomia direttamente
tutela. In questo caso, lo schema procedimentale delineato da questa
Corte a partire dalla sentenza n. 1150 del 1988, che postula il
previo apprezzamento della Camera di appartenenza in ordine alla
sindacabilità delle espressioni o dichiarazioni del parlamentare che
si assumano eccedenti la sua funzione - apprezzamento sul quale
soltanto si esercita il controllo di questa Corte in sede di
conflitto - non può operare automaticamente, per le ragioni di cui
tra breve si dirà.
4. - Con il progressivo dissolversi della loro originaria
giustificazione storica, che era di preservazione del ruolo della
rappresentanza politica in un contesto nel quale anche
l'amministrazione della giustizia era condizionata dal potere
esecutivo, l'inquadramento delle immunità parlamentari nell'attuale
sistema costituzionale ha assunto una oggettiva e sempre più
evidente problematicità. Con lo statuto di indipendenza dal quale è
assistito l'ordine giudiziario, la questione della funzione di quelle
immunità - che la nostra Costituzione, come altre costituzioni
dell'Occidente, perpetuando una delle più salde tradizioni del
parlamentarismo, ha riconosciuto - si è venuta delineando in maniera
in parte diversa. Il disegno costituzionale è suscettibile di
alimentare aspettative virtualmente antagonistiche, che si richiamano
sia ai valori dell'indipendenza e terzietà del giudice, sia al
valore della libertà politica del Parlamento. È quindi
comprensibile che il rapporto tra giudice e membri del Parlamento
possa manifestarsi in termini di conflitto proprio con riguardo alla
consistenza e ai limiti delle immunità parlamentari ovvero,
simmetricamente, con riguardo ai limiti dell'attività giudiziaria
nei confronti delle Camere.
In effetti, sul tema delle immunità parlamentari si registrano due
opposte tendenze, che si rispecchiano in parte nel presente
conflitto. Da un lato, una rilevante accentuazione del principio di
eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge conduce a ritenere, in
linea di principio, inammissibile la sottrazione dei membri del
Parlamento alle regole del diritto comune e a postulare la
sottoposizione alla giurisdizione di ogni loro comportamento. In
questa chiave, le disposizioni costituzionali dalle quali si è
storicamente argomentata l'esistenza di una sfera più o meno estesa
di autonomia parlamentare intesa come area protetta dall'interferenza
del potere giurisdizionale sono lette in senso fortemente
restrittivo, così da renderle più rispondenti alle istanze di una
moderna democrazia parlamentare che rifiuta posizioni di privilegio.
Sull'opposto versante, una configurazione della autonomia delle
Assemblee rappresentative in termini di assolutezza vorrebbe
sottratti a qualsiasi forma di sindacato esterno, in primo luogo al
sindacato del giudice penale, tutti i comportamenti dei membri delle
Camere dovunque tenuti e in qualunque modo collegati all'esercizio
delle loro funzioni, ritenendosi tale prerogativa coessenziale alla
sovranità del Parlamento.
Né l'una né l'altra visione trova rispondenza nei principi
costituzionali che definiscono la posizione delle Camere nei
confronti del potere giurisdizionale. Da tali principi risulta un
equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di
diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio
della giurisdizione (universalità della legge, legalità, rimozione
di ogni privilegio, obbligatorietà dell'azione penale, diritto di
difesa in giudizio, ecc.) e la salvaguardia di ambiti di autonomia
parlamentare sottratti al diritto comune, che valgono a conservare
alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà.
Sono infatti coperti da immunità non tutti i comportamenti dei
membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali
all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere
legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del
diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa
dell'autonomia costituzionale delle Camere, nel senso di cui ora si
dirà.
5. - Il principio di eguaglianza non si spinge fino al punto di
postulare l'attitudine della legge penale a penetrare in ogni ambito
della vita parlamentare. Ad una visione onnipervasiva del diritto
penale si oppone il principio della autonomia delle Camere e la
correlativa garanzia della non interferenza della giurisdizione
nell'attività delle istituzioni rappresentative. Lo statuto di
garanzia delle assemblee parlamentari risulta infatti definito, e al
tempo stesso delimitato quanto alla sua operatività, da un unitario
e sistematico insieme di disposizioni costituzionali, fra le quali
campeggiano gli artt. 64 e 72. Essi riservano ai regolamenti
parlamentari, votati a maggioranza assoluta da ciascuna Camera,
l'organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del
procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla
Costituzione. In particolare, la formula di cui al primo comma
dell'art. 64 della Costituzione - come questa Corte ha già osservato
- non riguarda soltanto l'autonomia normativa, ma si estende al
momento applicativo delle norme regolamentari, include la scelta
delle misure atte ad assicurarne l'osservanza e comporta, di
necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti
intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare (sentenza n.
129 del 1981).
È, in ultima analisi, l'autonomia delle funzioni delle Camere il
bene protetto, come dimostra del resto il regime
dell'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati
nell'esercizio delle funzioni parlamentari (art. 68, primo comma,
della Costituzione). Nella giurisprudenza della Corte questa sfera di
libertà non si atteggia come privilegio di un ceto politico, né
solo come garanzia individuale dei membri delle Camere, ma anche come
tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari, orientata a
sua volta alla protezione di un'area di libertà della rappresentanza
politica. Non a caso la difesa di questa prerogativa parlamentare non
è rimessa al solo interessato, ma appartiene alle Camere come
attribuzione propria (sentenza n. 1150 del 1988).
6. - In base agli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione si può
dunque affermare l'esistenza di una sfera di autonomia garantita alle
Camere; si tratta ora di definirne i contorni e di tracciare la linea
di confine tra i comportamenti dei membri delle Camere posti sotto il
presidio di tale garanzia e quelli che non possono sfuggire al
diritto comune.
È in primo luogo dalla considerazione del regime costituzionale
dei beni coinvolti nelle singole fattispecie che deve essere desunta
e identificata la linea di confine. Quando tali comportamenti ledano
beni di cui siano portatori singoli parlamentari, soccorre la
distinzione tra diritti che agli stessi parlamentari spettano come
persone e diritti che appartengono loro quali membri delle Camere e
sono perciò immediatamente connessi al loro specifico status; di
questo costituendo anzi la puntualizzazione in termini di posizioni
soggettive. I primi possiedono lo statuto costituzionale proprio dei
diritti, dal quale traggono una naturale vocazione giurisdizionale
(art. 24 della Costituzione), che non può essere sacrificata alla
autonomia delle Camere, poiché è certo che questa non comporta
l'alienazione totale di ciascuna persona, con tutti i propri diritti,
alla comunità parlamentare della quale fa parte. Sono pertanto da
ritenere del tutto estranei al peculiare regime di insindacabilità
degli atti o dei comportamenti "interni" le attività poste in essere
in violazione dei diritti della persona, le quali conservano integro
il loro regime e postulano il sindacato del giudice civile, o anche
penale quando la loro tutela sia rafforzata dalla legge con norme
incriminatrici.
I diritti la cui titolarità ed il cui esercizio abbiano come
presupposto lo status di parlamentare e ne connotino la funzione
possiedono, invece, uno statuto fondato sulla Costituzione e plasmato
dal principio di autonomia delle Camere. È in relazione a tali
diritti che la non interferenza dell'autorità giudiziaria civile o
penale si afferma con la massima cogenza, in quanto essa è
finalizzata al soddisfacimento del bene protetto dagli artt. 64, 72 e
68 della Costituzione: la garanzia del libero agire del Parlamento
nell'ambito suo proprio e l'esclusiva competenza di ciascuna Camera a
prevedere ed attuare i rimedi contro gli atti ed i comportamenti che
incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che
pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori. Tra questi
comportamenti, aventi una natura squisitamente funzionale, è
certamente da includersi l'esercizio del voto in Parlamento, alla
pari - del resto - con l'esercizio di ogni altra funzione derivante
dalla disciplina dei procedimenti parlamentari o dalle norme di
organizzazione che ciascuna Camera si sia data autonomamente.
Quando i comportamenti dei membri delle Camere trovino nel diritto
parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non
esista alcun elemento del fatto che si sottragga alla capacità
qualificatoria del regolamento, non possono venire in considerazione
qualificazioni legislative diverse, interferenti o concorrenti, anche
se da queste possa risultare il rafforzamento di un giudizio di
disvalore già desumibile dalla stessa disciplina regolamentare; non
può pertanto essere ammesso, in simili casi, un sindacato esterno da
parte dell'autorità giudiziaria. Proprio in ciò consiste, infatti,
la riserva normativa - che include il momento applicativo - posta
dagli artt. 64 e 72 della Costituzione a favore di ciascuna Camera.
Si può anzi dire che l'essenza della garanzia contro l'interferenza
di altri poteri che la Costituzione riconosce alle Camere è data
proprio dalla esclusività della capacità qualificatoria che il
regolamento parlamentare possiede allorché la disciplina da esso
posta sia circoscritta all'organizzazione interna di ciascuna Camera,
ai procedimenti parlamentari e allo svolgimento dei lavori.
7. - Nel sistema costituzionale, in conclusione, si delinea in
maniera immediata e certa - salve le ipotesi di cui si dirà - il
confine tra l'autonomia del Parlamento e il principio di legalità.
Allorché il comportamento di un componente di una Camera sia
sussumibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto
parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio
di legalità ed i molteplici valori ad esso connessi, quali che siano
le concorrenti qualificazioni che nell'ordinamento generale quello
stesso comportamento riceva (illegittimità, illiceità, ecc.), sono
destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e
al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio
sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine
all'organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori.
Se viceversa un qualche aspetto di tale comportamento esuli dalla
capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per
intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perché coinvolga
beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque
appartengano a terzi), deve prevalere la "grande regola" dello Stato
di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono
normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i
beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della
Costituzione).
Il confine tra i due distinti valori (autonomia della Camere, da un
lato, e legalità-giurisdizione, dall'altro) è posto sotto la tutela
di questa Corte, che può essere investita, in sede di conflitto di
attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato
dall'attività dell'altro.
I soli casi in cui l'identificazione della linea di confine è più
problematica sono quelli nei quali alcuni beni morali della persona,
che è la Costituzione stessa a qualificare inviolabili (onore,
reputazione, pari dignità), vengono a collidere con
l'insindacabilità dell'opinione espressa dal parlamentare, che è
momento insopprimibile (e, ben può dirsi, anch'esso inviolabile),
della libertà della funzione. La fisiologica interferenza tra due
situazioni di libertà genera in tal caso un conflitto tra valori
dotati entrambi di cogenza costituzionale, in relazione al quale
questa Corte ha già delineato il modello procedimentale di
composizione che si è poc'anzi ricordato (sentenze n. 129 del 1996 e
n. 1150 del 1988).
8. - Nel caso sottoposto all'esame di questa Corte i comportamenti
dei membri della Camera che il procuratore della Repubblica presso il
tribunale di Roma e il giudice per le indagini preliminari dello
stesso tribunale ritengono penalmente rilevanti e sottoponibili
all'attività di indagine e di accertamento della autorità
giudiziaria ordinaria sono tutti esaustivamente qualificabili alla
luce del diritto parlamentare, e si sottraggono pertanto ad ogni
rimedio diverso dai mezzi di tutela del corretto svolgimento dei
lavori previsti dal regolamento parlamentare.
I reati di falso ideologico e di sostituzione di persona (artt.
479 e 494 del codice penale), per i quali l'autorità giudiziaria sta
procedendo, riguardano beni la cui esigenza di tutela non trascende
l'esclusiva competenza della Camera a deliberare ed applicare il
regolamento parlamentare, a pretenderne la puntuale osservanza da
parte di tutti i suoi membri e ad irrogare le sanzioni interne per
l'ipotesi di inosservanza. I fatti sottostanti al reato di falso
ideologico, dai quali muove l'ipotesi accusatoria, consisterebbero
nell'aver fatto risultare presenti e votanti parlamentari assenti. I
beni lesi in questa ipotesi riguardano le modalità del procedimento
di votazione, la regolarità della seduta, la correttezza del computo
dei parlamentari presenti, la regolarità dei verbali, i poteri
presidenziali di accertamento del voto e di proclamazione dei
risultati (articoli da 46 a 62 del regolamento della Camera; articoli
da 66 a 72 e da 107 a 120 del regolamento del Senato). Quanto poi
alla tutela del bene della fede pubblica sottostante alla norma
incriminatrice, la lesione del quale l'autorità giudiziaria
intenderebbe accertare al fine della applicazione di una sanzione
penale, essa è, in questo caso, interamente assorbita dalla
valutazione circa il corretto svolgimento dei lavori parlamentari,
che solo la Camera è competente a compiere.
Considerazioni analoghe valgono per l'ipotesi del reato di
sostituzione di persona, che, nella prospettazione della difesa della
Procura della Repubblica resistente, proteggerebbe, nella specie, il
deputato sostituito contro l'usurpazione, da parte di altri
componenti della Camera, del suo diritto di voto. Si tratta invero di
un diritto del quale i parlamentari non sono titolari come singole
persone, ma come componenti del Parlamento. È da escludersi che la
tutela di tale diritto spetti all'autorità giudiziaria: la garanzia
che il voto sia esercitato personalmente deve essere apprestata dai
regolamenti parlamentari, l'applicazione dei quali è
insindacabilmente riservata alle Camere.
È vero che, in simili casi, possono venire in considerazione beni
costituzionali fondamentali per la democrazia, in relazione ai quali
una troppo rigida accezione dell'autonomia parlamentare potrebbe
essere ritenuta inappagante. Vi sono del resto ordinamenti, che
appartengono ad esperienze costituzionali non discoste dalla nostra,
nei quali lo statuto costituzionale dei parlamentari è tutelabile
innanzi agli organi di giustizia costituzionale. Una simile
prospettiva non si è ancora concretizzata nella esperienza del
nostro ordinamento, anche se la giurisprudenza di questa Corte si è
mostrata da sempre sensibile alle vicende che comportino la
compressione di diritti politici. L'insuscettibilità del diritto di
voto in Parlamento e, più in generale, dei diritti connessi allo
status di parlamentare di esser sottoposti alla tutela della
autorità giudiziaria ordinaria, civile o penale, è in ogni caso
momento essenziale dell'equilibrio tra i poteri dello Stato voluto
dalla Costituzione.
Non è, in conclusione, rinvenibile, nei fatti per i quali
l'autorità giudiziaria sta procedendo, alcun elemento o frammento
della concreta fattispecie che coinvolga beni o diritti che si
sottraggano all'esaustiva capacità classificatoria del regolamento
parlamentare (come invece accadrebbe, ad esempio, in presenza di
episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari,
corruzione, ecc.), sicché l'attività posta in essere dai membri
delle Camere in questione non può formare oggetto di attività
inquisitiva del pubblico ministero, né di accertamento da parte del
giudice.
9. - La soluzione del presente conflitto è dunque favorevole alla
Camera dei deputati alla luce del principio di legalità
costituzionale al quale devono conformarsi i rapporti tra poteri e,
nella specie, tra autorità giudiziaria e Parlamento. Tuttavia questa
Corte non può esimersi dall'osservare che, nello Stato
costituzionale nel quale viviamo, la congruità delle procedure di
controllo, l'adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro
pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto
parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di
legalità, certamente di conservazione della legittimazione degli
istituti della autonomia che presidiano la sua libertà.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che non spetta al procuratore della Repubblica presso il
tribunale di Roma, né al giudice per le indagini preliminari dello
stesso tribunale procedere nei confronti degli ex deputati Bonafini
Flavio e Tagini Paolo per i reati di cui agli artt. 479 e 494 del
codice penale (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in
atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona), in
relazione alla attività posta in essere dalle suddette persone, in
qualità di deputati, nel corso della votazione svoltasi nella seduta
della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995;
Annulla, conseguentemente, l'ordinanza del giudice per le indagini
preliminari del tribunale di Roma del 23 maggio 1996, nonché la
richiesta della procura della Repubblica presso lo stesso tribunale
del 3 maggio 1996, accolta con la suddetta ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 2 novembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola