Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di un soggetto,
indagato della contravvenzione di cui all'art. 13 della legge 30
aprile 1962, n. 283 - per avere, nella qualità di titolare di
esercizio commerciale, posto in vendita arance con "l'impropria
denominazione di biologiche, tale da sorprendere la buona fede e da
indurre in errore gli acquirenti circa la loro qualità" - il giudice
per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Asti
solleva, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale degli artt. 18, comma 2, e 29, comma 2,
del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (Attuazione delle direttive
89/395/ CEE e 89/396/CEE concernenti l'etichettatura, la
presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari), "nella parte
in cui abrogano (parzialmente) l'art. 13 della legge 30 aprile 1962,
n. 283, in contrasto con l'art. 2, punto d), della legge 29 dicembre
1990, n. 428".
Il giudice rimettente riferisce, in fatto, che presso l'esercizio
commerciale era stato prelevato un campione di arance, esposte in
vendita con un cartello collocato nella vetrina e recante la dicitura
"arance biologiche di produzione propria", e che all'analisi era
stata evidenziata la presenza nell'alimento di residui di imazalil,
principio attivo ad azione fungicida, in concentrazione superiore al
limite (0,010 mg/Kg) tollerato dall'ordinanza ministeriale 18 luglio
1990 e successive modificazioni.
Ravvisata quindi la configurabilità del reato di cui all'art. 13
citato, il giudice a quo dubita della vigenza della suddetta norma,
dal momento che il decreto legislativo n. 109 del 1992 ha introdotto
una fattispecie di illecito amministrativo (artt. 2, comma 1, e 18,
comma 2) "che pare adattarsi perfettamente" all'ipotesi sottoposta al
suo esame. Infatti di tale decreto l'art. 2, comma 1, stabilisce che
"l'etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti
alimentari non devono indurre in errore l'acquirente sulle
caratteristiche del prodotto" (tali essendo, in particolare, la
natura, l'identità, la qualità, la composizione, la quantità, la
durabilità, il luogo di origine o di provenienza, il modo di
ottenimento o di fabbricazione del prodotto) e l'art. 18, comma 2,
punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria (da lire 1,5 a
lire 9 milioni) la violazione di quel precetto.
Ritiene, quindi, che il contestato reato dovrebbe essere ormai
depenalizzato perché sostituito con la nuova sanzione
amministrativa, nonostante che parte della giurisprudenza sostenga la
tesi opposta.
In proposito ricorda che il previgente d.P.R. 18 maggio 1982, n.
322, relativo all'etichettatura dei prodotti alimentari,
introducendo, con l'art. 2, un divieto di pubblicità ingannevole
sanzionato in via amministrativa ai sensi del successivo art. 16,
aveva risolto ogni problema di interferenza con il precetto penale di
cui all'art. 13 della legge del 1962, mediante l'espressa clausola
di riserva penale ("salvo che il fatto costituisca reato") contenuta
nel primo comma dello stesso art. 16.
Analoga salvezza del precetto penale non si rinviene, invece,
nell'ipotesi in esame. Infatti nel decreto n. 109 del 1992, mentre
siffatta clausola è collocata in apertura al comma 1 dell'art. 18,
che contempla in generale l'illecito amministrativo derivante
dall'inosservanza delle nuove norme e ne indica le sanzioni
amministrative, la stessa formula di salvezza della fattispecie
penale non è ripetuta al comma 2 dello stesso art. 18, che reca la
sanzione specifica per la violazione del precetto di cui all'art. 2
del decreto medesimo.
D'altra parte, affermare la perdurante vigenza della norma penale
(art. 13 della legge n. 283 del 1962) significherebbe svuotare la
portata sanzionatoria della prima delle norme impugnate (art. 18,
comma 2) che verrebbe così limitata alle violazioni "meramente
formali" non riconducibili alla previsione del citato art. 13. Ma
ciò determinerebbe l'irragionevolezza del quadro normativo, perché
le infrazioni "formali" sarebbero punite dall'art. 18, comma 2,
impugnato, con una sanzione amministrativa pecuniaria di rilevante
entità (da lire 6 a lire 36 milioni), mentre le più gravi
infrazioni "sostanziali" attinenti al divieto di pubblicità
ingannevole sarebbero punite, dall'art. 13 citato, con l'ammenda da
lire 600.000 a lire 15 milioni, che rappresenta, pur nella permanenza
di un illecito penale - per il quale, peraltro, è ammessa
l'oblazione ex art. 162 del codice penale - una sanzione più lieve
in termini di "afflittività concreta, intesa come incidenza reale
sul patrimonio del responsabile".
Conclusivamente, ad avviso del giudice a quo, le norme impugnate
avrebbero determinato l'abrogazione implicita per incompatibilità
(così come prevede l'art. 29, comma 2, del decreto legislativo n.
109 del 1992) della fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 13
della legge n. 283 del 1962, non essendo per di più invocabile,
nella specie, il particolare regime ricavabile dall'art. 9, comma 3,
della legge n. 689 del 1981 - per il quale ai fatti previsti dagli
artt. 5, 6, 9 e 13 della legge n. 283 del 1962 "si applicano in ogni
caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i
fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno
sostituito disposizioni penali speciali" - nel senso in cui alcuni
l'hanno interpretato, come deroga al principio di specialità
(indicato nel primo comma dello stesso art. 9), valevole anche
rispetto alle fattispecie di illecito amministrativo introdotte
successivamente alla legge di depenalizzazione n. 689 del 1981.
Tutto ciò premesso, dovendosi applicare il principio di
specialità ex art. 9, primo comma, citato (e non operando invece la
deroga a detto principio enunciata nel terzo comma) al rapporto tra
la fattispecie penale di cui all'art. 13 della legge del 1962 e la
fattispecie di illecito amministrativo di cui all'art. 18 impugnato,
e dovendosi quindi ritenere implicitamente abrogata la prima di tali
norme per effetto della seconda, il giudice a quo formula le censure
ritenendo le norme impugnate - così come da lui interpretate - in
contrasto con l'art. 76 della Costituzione perché inosservanti della
legge 29 dicembre 1990, n. 428 che, nel conferire delega al Governo
per l'attuazione di direttive comunitarie, all'art. 2 autorizza
l'introduzione di sanzioni amministrative e penali "salve le norme
penali vigenti"; tra queste va certamente ricompreso anche l'art. 13
della legge del 1962.
2. - Quanto al requisito della rilevanza, il giudice rimettente
mostra di essere consapevole che, in caso di una pronuncia di
accoglimento della Corte, egli sarebbe comunque tenuto ad applicare
le norme più favorevoli, pur dichiarate incostituzionali, in virtù
del principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli
all'indagato. Ma osserva che, non potendo esistere nell'ordinamento
"zone franche" sottratte al controllo di costituzionalità, la
pronuncia della Corte potrebbe comunque incidere sulla formula di
proscioglimento o di archiviazione e sull'iter argomentativo della
decisione. Infatti, pur non mutando gli effetti pratici del
provvedimento da adottare nel giudizio a quo, e cioè l'accoglimento
della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, "non vi
sarebbe però perfetta coincidenza tra i parametri normativi e i
passaggi argomentativi del decreto di archiviazione emesso senza
promuovere il giudizio incidentale di costituzionalità e quelli del
decreto di archiviazione emesso all'esito (favorevole) di tale
giudizio". Permarrebbe, pertanto, la rilevanza delle proposte
questioni di legittimità costituzionale.
Considerato in diritto
1.1. - Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di
Asti dubita della legittimità costituzionale degli articoli 18,
comma 2, e 29, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109
(Attuazione delle direttive 89/395/CEE e 89/396/CEE concernenti
l'etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti
alimentari), in quanto essi, contrastando con l'art. 2, punto d),
della legge-delega 29 dicembre 1990, n. 428, violerebbero l'art. 76
della Costituzione.
1.2. - La vigente situazione normativa nella quale è posta la
presente questione di costituzionalità, attinente alla repressione
della pubblicità ingannevole in materia di commercio di sostanze
alimentari, può essere ricostruita sulla base di tre testi
normativi.
a) L'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n. 283 (Modifica degli
artt. 242, 243, 247, 250 e 262 del testo unico delle leggi sanitarie
approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265: Disciplina
igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e
delle bevande) prevede come reato, sanzionato con la pena
dell'ammenda, il fatto di offrire in vendita o propagandare a mezzo
della stampa od in qualsiasi altro modo, sostanze alimentari,
adottando denominazioni, o nomi impropri, frasi pubblicitarie, marchi
o attestati di qualità o genuinità da chiunque rilasciati, nonché
disegni illustrativi tali da sorprendere la buona fede o da indurre
in errore gli acquirenti circa la natura, sostanza, qualità o le
proprietà nutritive delle sostanze alimentari stesse o vantando
particolari azioni medicamentose.
b) In attuazione di direttive comunitarie in materia, la legge 29
dicembre 1990, n. 428 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi
derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle comunità europee -
legge comunitaria per il 1990), attribuiva al Governo poteri
legislativi delegati, stabilendo all'art. 2, lettera d), quale
principio e criterio generale, che "saranno previste, ove necessario
per assicurare l'osservanza delle disposizioni contenute nei decreti
legislativi, salve le norme penali vigenti, norme contenenti le
sanzioni amministrative e penali, o il loro adeguamento, per le
infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi, nei limiti,
rispettivamente, della pena pecuniaria fino a lire 100 milioni,
dell'ammenda fino a lire 100 milioni e dell'arresto fino a tre anni,
da comminare in via alternativa o congiunta".
c) L'art. 18, comma 2, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109,
emanato in esecuzione della predetta delega legislativa, prevede la
sanzione amministrativa pecuniaria da lire sei milioni a lire
trentasei milioni di lire per le ipotesi indicate dall'art. 2 del
medesimo testo normativo, cioè (comma 1) per l'"etichettatura, la
presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari" che inducano
"in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto e
precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla
composizione, sulla quantità, sulla durabilità, sul luogo di
origine o di provenienza, sul modo di ottenimento o di fabbricazione
del prodotto stesso". Infine, l'art. 29, comma 2, del medesimo
decreto legislativo n. 109 del 1992 dispone (oltre all'abrogazione
della precedente disciplina della materia contenuta nel decreto del
Presidente della Repubblica 18 maggio 1982, n. 322) l'abrogazione di
"tutte le disposizioni in materia di etichettatura, di presentazione
e di pubblicità dei prodotti alimentari e relative modalità,
diverse o incompatibili con quelle previste dal presente decreto, ad
eccezione di quelle contenute nei regolamenti comunitari e nelle
norme di attuazione di direttive comunitarie relative a singole
categorie di prodotti".
In questo quadro, il giudice rimettente ritiene che la normativa
richiamata in c) abbia abrogato la norma penale indicata in a), con
ciò violando il principio e criterio generale della salvaguardia
delle norme penali vigenti, salvaguardia disposta dalla legge-delega
menzionata in b). Su questa base - nella quale non entrano a far
parte elementi di diritto dell'Unione europea, le direttive disposte
dalla quale tacendo in ordine alla natura delle sanzioni nazionali da
prevedersi per il commercio dei prodotti non conformi alle direttive
stesse - si richiede, in base all'art. 76 della Costituzione, una
pronuncia d'incostituzionalità delle norme denunciate, nella parte
in cui esse abrogherebbero l'art. 13 della legge 30 aprile 1962, n.
283, in contrasto con l'art. 2, punto d), della legge 29 dicembre
1990, n. 428.
2. - La questione d'incostituzionalità così proposta è
inammissibile.
2.1. - L'argomentazione del giudice rimettente si incentra sulla
pretesa valenza abrogatrice propria delle norme impugnate, rispetto
alla norma penale contenuta nell'art. 13 della legge del 1962. I
dubbi di incostituzionalità sollevati stanno o cadono su questo
punto.
L'ordinanza che propone la questione, discostandosi da un opposto
orientamento pur presente nella giurisprudenza comune e largamente
prevalente in quello della Corte di cassazione, argomenta l'effetto
abrogativo anzidetto osservando innanzitutto che le ipotesi di
illecito previste dall'art. 2 del decreto legislativo del 1992, cui
rinvia l'impugnato art. 18 determinandone le sanzioni, si
sovrappongono in gran parte - e sicuramente con riguardo all'ipotesi
d'illecito che è oggetto del giudizio a quo - a quelle descritte
nell'art. 13 della legge del 1962. Si determinerebbe così un caso
di abrogazione secondo le regole generali e secondo il disposto
particolare dell'art. 29, comma 2, del medesimo decreto legislativo
del 1992, che dispone tale effetto per tutte le disposizioni "diverse
o incompatibili". Inoltre, si fa valere la circostanza che il comma
2 dell'art. 18, prevedendo la sanzione amministrativa per le
infrazioni alle disposizioni dell'art. 2, non ripete (a differenza di
quanto disposto dall'art. 16, comma 1, dell'abrogato d.P.R. n. 322
del 1982) la formula, contenuta invece nel primo comma dello stesso
articolo, "salvo che il fatto costituisca reato". Da tale omissione -
argomenta il giudice rimettente - devesi pertanto presumere la
volontà del legislatore di escludere la "riserva penale" per le
ipotesi previste, in relazione all'art. 2, dall'impugnato comma 2
dell'art. 18. A ciò si aggiunge la considerazione che, a voler
ritenere perdurante la vigenza della norma penale del 1962, si
svuoterebbe la portata del comma 2 dell'art. 18 del decreto
legislativo del 1992, il quale risulterebbe applicabile soltanto a
infrazioni meramente formali non riconducibili alla previsione della
norma anteriore, con conseguenze - oltretutto - incongrue circa
l'entità delle pene applicabili rispettivamente alle "violazioni
sostanziali" e a quelle esclusivamente "formali".
Da queste osservazioni, il giudice rimettente trae ragione per
ritenere che le violazioni in tema di pubblicità ingannevole di
prodotti alimentari e, in particolare, quella contestata nel giudizio
a quo, integrino oggi l'illecito amministrativo previsto dagli artt.
2 e 18, comma 2, del decreto legislativo del 1992, e non più il
reato previsto dall'art. 13, comma 2, della legge del 1962.
3. - Senonché, a tale ricostruzione normativa è possibile
contrapporne un'altra che conduce a esiti opposti - la perdurante
vigenza della norma penale dell'art. 13 della legge del 1962 - con
argomenti almeno altrettanto plausibili.
È vero che tra le norme del 1962 e del 1992 c'è una
sovrapposizione di fattispecie (peraltro non assoluta). Ma perché se
ne possa dedurre l'incompatibilità e affermare l'abrogazione della
norma più risalente a opera della più recente, occorrerebbe
innanzitutto presupporre l'esclusione del concorso, nel caso in
questione, di illecito penale e di illecito amministrativo (e quindi
delle norme che prevedono l'uno e l'altro). L'art. 9 della legge 24
novembre 1981, n. 689, che disciplina il concorso tra norme e tra
illeciti nell'ambito della "depenalizzazione" disposta da tale legge,
non risolve il problema con evidenza. La sua formulazione riflette le
perplessità del legislatore, documentate dai lavori preparatori, e
alimenta le divergenze dei commentatori sul problema: un problema
interpretativo la cui soluzione non spetta alla Corte costituzionale
e che - si potrebbe aggiungere - il giudice rimettente, chiedendo la
dichiarazione d'incostituzionalità delle norme impugnate non totale
ma soltanto "nella parte in cui abrogano" la precedente disciplina
penale, sembra implicitamente risolvere nel senso della possibilità
di concorso.
A ciò si aggiunga, da un lato, che la formula del terzo comma
dell'art. 9 della citata legge n. 689 - là dove stabilisce che, ai
fatti previsti da alcuni articoli della legge n. 283 del 1962 (tra
cui l'art. 13, che rileva nella presente questione), "si applicano in
ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste", anche
quando gli stessi fatti sono puniti da altre disposizioni con
sanzioni amministrative - è perfettamente compatibile con il
concorso degli illeciti, nonché con il cumulo delle sanzioni; e,
dall'altro, che lo stesso potrebbe dirsi in relazione, precisamente,
alla lettera della legge di delegazione (art. 2, lettera d), della
legge n. 428 del 1990) che si assume violata, là dove essa prescrive
che "si facciano salve le norme penali vigenti" e si delega il
Governo a stabilire sanzioni amministrative e penali "in via
alternativa o congiunta".
Un'altra possibilità - anch'essa nel senso della perdurante
vigenza della risalente norma penale - è offerta poi
dall'interpretazione complessiva dell'art. 18 (impugnato nel suo
secondo comma), potendosi sostenere che la clausola con la quale esso
si apre ("Salvo che il fatto costituisca reato") si riferisca non
solo alle ipotesi indicate al primo comma, ma a tutte quelle previste
in tale articolo, il quale determina esaustivamente il sistema delle
sanzioni alle infrazioni concernenti l'etichettatura, la
presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari. Secondo
questo modo di vedere, il primo comma stabilirebbe una norma di
portata generale, mentre il secondo - in relazione a ipotesi
specifiche, valutate dal legislatore come più gravi - non
delineerebbe un sistema alternativo, ma si limiterebbe a prevedere
pene amministrative più pesanti rispetto a quelle indicate nel primo
comma. Il silenzio della norma contenuta nel secondo comma circa la
clausola di "riserva penale" - silenzio che il giudice rimettente
giudica essere solida base per un'interpretazione a contrariis -
potrebbe apparire così un argomento privo di consistenza, valendo la
riserva affermata in generale nel primo comma. Perciò anche il
raffronto, operato dal giudice rimettente, con la diversa
formulazione dell'art. 16, primo comma, del d.P.R. n. 322 del 1982 -
che conteneva la clausola di riserva - non risulterebbe in alcun modo
probante. Tanto più, occorre aggiungere, che quest'interpretazione
complessiva dell'art. 18 corrisponderebbe all'indicazione contenuta
nella legge di delegazione, essendo principio di evidenza, tale da
non richiedere spiegazioni, che il decreto delegato debba essere
interpretato innanzitutto alla luce della delega del cui svolgimento
esso è il risultato.
Infine, assume rilievo anche la circostanza che questa conclusione
si porrebbe in linea col già ricordato art. 9 della legge n. 689 del
1981 il quale, dopo aver affermato il "principio di specialità"
nella concorrenza tra disposizioni penali e disposizioni che
prevedono sanzioni amministrative per la medesima infrazione, al
terzo comma stabilisce che "ai fatti puniti dagli artt. 5, 6, 9 e 13
della legge 30 aprile 1962, n. 283... si applicano in ogni caso le
disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti
stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno
sostituito disposizioni penali speciali". Tale disposizione vale a
indicare la volontà del legislatore di ribadire, anzi rafforzare il
rilievo della legge del 1962 nella tutela della veridicità
dell'informazione nel settore del commercio alimentare e nella
punizione degli illeciti relativi, rilievo che verrebbe negato, pur
in assenza di univoci elementi giustificativi, dall'interpretazione
abrogante assunta dal giudice rimettente per formulare la presente
questione di costituzionalità. Né varrebbe in contrario rilevare
che la disposizione del terzo comma dell'art. 9 citato dovrebbe
intendersi rivolta soltanto alla disciplina della collisione tra
norme anteriori alla legge n. 689 del 1981, poiché, altrimenti, le
si attribuirebbe l'efficacia di "norma sulle fonti" legislative,
dunque un'impropria efficacia superiore a quella tipica delle leggi
ordinarie. Assegnare a una norma legislativa il valore di elemento
interpretativo di una norma successiva, in mancanza di una sempre
possibile deroga o abrogazione da parte di altre leggi, non equivale
affatto ad attribuirle un rango diverso da quello che le è proprio
nel sistema delle fonti.
Ove si seguissero queste linee interpretative, infine, anche il
riferimento al denunciato art. 29, comma 2, del decreto legislativo
n. 109 del 1992, che dispone l'abrogazione di tutte le disposizioni
in materia di etichettatura, di presentazione e di pubblicità dei
prodotti alimentari e relative modalità, incompatibili ma anche
semplicemente diverse da quelle previste nel decreto stesso,
perderebbe di valore. L'art. 18, così interpretato in ordine alla
salvaguardia delle precedenti norme penali, costituirebbe deroga alla
regola abrogativa generale disposta in tale art. 29.
4. - Nel quadro delle norme e delle loro interpretazioni così
esposto, due posizioni si fronteggiano dunque: la prima - risultante
incidentalmente da una pronuncia della Corte di cassazione e assunta
dal giudice rimettente come premessa della presente questione
d'incostituzionalità - afferma l'avvenuta abrogazione dell'art. 13
della legge n. 283 del 1962 a opera degli artt. 18, comma 2, e 29,
comma 2, del decreto legislativo n. 109 del 1992; la seconda -
accolta da altra e più numerosa giurisprudenza, di merito e di
legittimità - ritiene viceversa la perdurante vigenza della prima
norma, pur in presenza di quelle successive, sottraendo così alla
questione d'incostituzionalità sollevata la sua premessa. Entrambe
queste posizioni, come si è mostrato, non mancano di argomenti
interpretativi a loro sostegno.
In questa situazione, la richiesta pronuncia d'incostituzionalità
risulta ingiustificata. In linea di principio, le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne
interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di
darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni
costituzionali. Ora, nel caso di specie, argomenti e precedenti
giurisprudenziali non mancano a dimostrazione che il risultato al
quale il giudice rimettente mira e ch'egli considera dovuto per
ragioni costituzionali - la perdurante vigenza della norma del 1962 -
può essere raggiunto sulla base dell'interpretazione delle norme
vigenti, senza involgere la questione di legittimità costituzionale
delle norme del 1992.
Il caso in esame presenta inoltre questa singolarità: di nascere
in presenza di un contrasto interpretativo interno alla
giurisprudenza comune, al di là del quale, però, vi è convergenza
sul risultato cui si mira e che è ritenuto conforme alla
Costituzione. La divergenza riguarda soltanto le vie da percorrere:
l'una richiede una previa declaratoria d'incostituzionalità; l'altra
implica semplici operazioni interpretative di norme legislative. La
questione di costituzionalità proposta tende così a configurarsi
come un improprio tentativo per ottenere dalla Corte costituzionale
l'avallo a favore di un'interpretazione, contro un'altra
interpretazione, senza che da ciò conseguano differenze in ordine
alla difesa dei principi e delle regole costituzionali, ciò in cui,
esclusivamente, consiste il compito della giurisdizione
costituzionale.