Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Forlì solleva questione di legittimità
costituzionale sull'art. 238, secondo comma, del codice di procedura
civile, là dove prevede che la parte cui è stato deferito il
giuramento decisorio pronuncia le parole: "consapevole della
responsabilità che col giuramento assumo davanti a Dio e agli
uomini, giuro ...".
Ritiene il giudice rimettente che l'anzidetta formula di
prestazione del giuramento confligga col diritto costituzionale di
libertà religiosa, di cui agli artt. 2, 3, e 19 della Costituzione,
e violi il principio costituzionale di uguaglianza sotto il profilo
della razionalità, risultante anch'esso dall'art. 3 della
Costituzione, stante la diversa formula oggi vigente per quello che,
prima della sentenza n. 149 del 1995 di questa Corte, era il
giuramento del testimone nel processo civile di cui all'art. 251,
secondo comma, cod. proc. civ.
2. - La questione è fondata sotto il primo dei due profili
indicati.
3. - Sebbene il giudice rimettente prospetti l'anzidetta questione
di legittimità costituzionale in riferimento al rispetto della
libertà di coscienza del non credente, il problema che viene posto
ha portata generale.
3.1. - Gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione garantiscono come
diritto la libertà di coscienza in relazione all'esperienza
religiosa. Tale diritto, sotto il profilo giuridico-costituzionale,
rappresenta un aspetto della dignità della persona umana,
riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2. Esso spetta
ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei
o agnostici (sentenza n. 117 del 1979) e comporta la conseguenza,
valida nei confronti degli uni e degli altri, che in nessun caso il
compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della
religione possa essere l'oggetto di prescrizioni obbligatorie
derivanti dall'ordinamento giuridico dello Stato. La libertà di
professione religiosa, riconosciuta in ogni sua forma senza altro
limite che non sia quello del buon costume, non significa infatti
soltanto "libertà da ogni coercizione che imponga il compimento di
atti di culto propri di questa o quella confessione da parte di
persone che non siano della confessione alla quale l'atto di culto,
per così dire, appartiene": essa esclude, in generale, ogni
imposizione da parte dell'ordinamento giuridico statale "perfino
quando l'atto di culto appartenga alla confessione professata da
colui al quale esso sia imposto, perché non è dato allo Stato di
interferire, come che sia, in "un'ordine" che non è il suo, se non
ai fini e nei casi espressamente previsti dalla Costituzione"
(sentenza n. 85 del 1963).
Non si tratta dunque soltanto della coscienza - e della sua
protezione - dei non credenti, i quali non possono essere obbligati
al compimento di atti il cui significato contrasti con le loro
convinzioni. È in causa la natura stessa dell'essere religioso, ciò
che, nell'ordine civile, per l'ordinamento costituzionale può essere
solo manifestazione di libertà. Qualunque atto di significato
religioso, fosse pure il più doveroso dal punto di vista di una
religione e delle sue istituzioni, rappresenta sempre per lo Stato
esercizio della libertà dei propri cittadini: manifestazione di
libertà che, come tale, non può essere oggetto di una sua
prescrizione obbligante, indipendentemente dall'irrilevante
circostanza che il suo contenuto sia conforme, estraneo o
contrastante rispetto alla coscienza religiosa individuale.
In ordine alla garanzia costituzionale della libertà di coscienza
non contano dunque i contenuti. Credenti e non credenti si trovano
perciò esattamente sullo stesso piano rispetto all'intervento
prescritto, da parte dello Stato, di pratiche aventi significato
religioso: esso è escluso comunque, in conseguenza dell'appartenenza
della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del
suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di
garantire le condizioni che favoriscano l'espansione della libertà
di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione.
3.2. - All'anzidetta configurazione costituzionale del diritto
individuale di libertà di coscienza nell'ambito della religione e
alla distinzione dell'"ordine" delle questioni civili da quello
dell'esperienza religiosa corrisponde poi, rispetto all'ordinamento
giuridico dello Stato e delle sue istituzioni, il divieto di
ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare
l'efficacia dei propri precetti. Quella distinzione tra "ordini"
distinti, che caratterizza nell'essenziale il fondamentale o
"supremo" principio costituzionale di laicità o non confessionalità
dello Stato, quale configurato numerose volte nella giurisprudenza di
questa Corte (sentenze nn. 203 del 1989 e 195 del 1993), significa
che la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono
essere imposti come mezzo al fine dello Stato.
4. - Considerato che il giuramento nella cui formula sia compreso
il riferimento alla responsabilità che si assume davanti a Dio, pur
non essendo qualificabile come atto di culto (sentenza n. 85 del
1963), è tuttavia certamente un atto avente significato religioso
(sentenza n. 117 del 1979) che chiama in causa la coscienza
individuale in materia di religione, ne deve essere riconosciuta
l'illegittimità costituzionale, conformemente all'orientamento di
questa Corte in materia di formule di prestazione del giuramento
(sentenza n. 117 del 1979).
Il "giuramento decisorio" di cui è qui questione, pur non
potendosi dire propriamente imposto dalla legge - in quanto la parte
cui è "deferito" può rifiutarsi di prestarlo ovvero può
"riferirlo" alla controparte - è pur sempre l'oggetto di una
prescrizione legale alla quale la parte si trova sottoposta, con
conseguenze negative: se si rifiuta di prestarlo, soccombe rispetto
alla domanda o al punto di fatto per cui il giuramento è stato
ammesso; se lo riferisce all'altra parte, rinuncia alla possibilità
di affermare nel processo la verità attraverso un proprio atto
capace di formare prova legale assoluta. Per questo motivo, la
libertà della coscienza in materia di religione risulta violata.
Ma è altresì violata la distinzione, imposta dal principio di
laicità o non confessionalità dello Stato, tra l'"ordine" delle
questioni civili e l'"ordine" di quelle religiose. Il primo comma
dell'art. 238 cod. proc. civ. stabilisce che un organo dello Stato,
il giudice, deve "ammonire" il giurante sulla "importanza religiosa"
del giuramento e l'impugnato secondo comma del medesimo articolo
prevede che la parte deve esprimere la propria consapevolezza circa
la responsabilità che col giuramento assume "davanti a Dio". Risulta
così dalle norme richiamate un'inammissibile commistione:
un'obbligazione di natura religiosa e il vincolo che ne deriva nel
relativo ambito sono imposti per un fine probatorio proprio
dell'ordinamento processuale dello Stato.
5. - Non sussiste invece la prospettata violazione dell'art. 3
della Costituzione, nei termini di un'irrazionale differenza di
disciplina tra la formula del giuramento decisorio e la formula che
il testimone è tenuto a pronunciare, a norma dell'art. 251 cod proc.
civ., quale risulta dalla sentenza n. 149 del 1995 di questa Corte.
Con tale prospettazione si va al di là della questione della
conformazione della formula del giuramento ai principi costituzionali
di libertà e si mira esplicitamente all'abolizione del giuramento e
alla sua sostituzione con una semplice dichiarazione d'impegno a dire
la verità, così come è richiesto al testimone.
5.1. - A una simile operazione, innanzitutto, osta la diversità
degli istituti a raffronto. Con la citata sentenza n. 149 del 1995,
si è potuto operare l'estensione della nuova disciplina dettata per
i testimoni nel processo penale (art. 497, secondo comma, cod. proc.
pen.) ai testimoni nel processo civile poiché la testimonianza, in
entrambe le sedi processuali, presenta le medesime caratteristiche
essenziali. Ma qui si chiede un'equiparazione tra istituti
eterogenei. Il giuramento del testimone e l'impegno che ne ha preso
il posto hanno carattere promissorio ("giuro o prometto che dirò la
verità") mentre il giuramento decisorio ha carattere assertorio
("giuro che...", dove il segno di sospensione sta per la formula che
indica il "fatto proprio della parte o la conoscenza che essa ha di
un fatto altrui" - art. 2739, secondo comma, cod. civ. -). Col primo
giuramento, si assume un obbligo personale che richiede un
adempimento da parte del promittente (il dire la verità); col
secondo, non si promette nulla ma si assevera la verità di un fatto
storicamente accaduto. Si comprende allora come non sia possibile
sostituire la formula del giuramento della parte con quella che, a
norma dell'art. 251 cod. proc. civ., vale per il testimone
("Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con
la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non
nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza"). Una tale
sostituzione presupporrebbe una trasformazione del giuramento
decisorio in qualcosa di completamente diverso cioè, per l'appunto,
in una testimonianza di parte. La formula del giuramento decisorio
ben potrebbe essere diversa dall'attuale, ma non potrebbe dunque
essere la medesima prevista per la testimonianza. Se la si volesse
riscrivere, stante la pluralità di opzioni alternative, non potrebbe
certo essere la Corte costituzionale a farlo.
5.2. - Inoltre, la prospettata sostituzione del giuramento con una
dichiarazione d'impegno quale oggi richiesta dai testimoni nel
processo penale e civile rappresenterebbe un eccesso, rispetto a
quanto è costituzionalmente dovuto. La Costituzione, per i motivi
innanzi esposti, fa divieto di utilizzare formule di giuramento che
possano ledere la libertà di coscienza del giurante, ma tanto poco
esclude il giuramento come tale che lo prevede essa stessa, sia pure
in relazione a situazioni diverse da quelle ora in esame (si vedano
gli artt. 54, 91 e 93, nonché l'art. 5 della legge 11 marzo 1953, n.
87). Questa Corte, infatti, con la sentenza n. 117 del 1979, ritenuta
lesiva del diritto di libertà di coscienza del non credente la
formula originariamente prevista per il testimone dall'art. 251,
secondo comma, cod. proc. civ., ha soltanto inciso su tale formula
con la riserva del "se credente" apposta all'obbligazione di ordine
religioso, presupponendo la compatibilità con la Costituzione del
giuramento come tale. Ed è ben vero che la già richiamata,
successiva sentenza n. 149 del 1995, nella dichiarazione preliminare
che il testimone nel processo civile è tenuto a rendere, ha
sostituito la formula d'impegno a quella del giuramento; ciò
tuttavia ha fatto non a causa dell'incostituzionalità del giuramento
come tale, ma per un'esigenza di razionalità e coerenza
dell'ordinamento giuridico, una volta operata tale sostituzione nel
processo penale in conseguenza di una libera scelta del legislatore.
6. - Le anzidette considerazioni spiegano come alla rilevata
incostituzionalità della formula del giuramento decisorio non possa
porsi rimedio attraverso una pronuncia analoga a quella contenuta
nella sentenza n. 149 del 1995.
6.1. - Ciò che invece occorre è eliminare dalla formula prevista
dall'impugnato art. 238 cod. proc. civ. quanto attribuisce al
giuramento della parte un necessario significato religioso. Questo
non equivale a "secolarizzarne" il significato. Un'eventuale
statuizione in tal senso, a sua volta, potrebbe confliggere con la
coscienza dei credenti, rispetto ai quali il valore religioso del
giuramento non può essere escluso. Significa invece operare nel
senso di un ordinamento pluralista che, riconoscendo la diversità
delle posizioni di coscienza, non fissa il quadro dei valori di
riferimento e quindi né attribuisce né esclude connotazioni
religiose al giuramento ch'esso chiama a prestare.
A questo esito non è di ostacolo quanto talora sostenuto circa una
pretesa ineliminabile essenza religiosa del giuramento, cosicché
esso, se non contenesse l'appello a Dio, sommo e infallibile giudice
anche delle colpe interiori che sfuggono alla giustizia degli uomini,
non sarebbe nulla. Ancorché si ritenga che la matrice religiosa sia
quella originaria, il giuramento ha dimostrato la sua capacità di
sopravvivere alla secolarizzazione della vita pubblica, adattandosi a
contesti culturali sia pluralistici che a- o anti-religiosi, come non
solo la storia comparata degli ordinamenti, ma anche i precedenti
legislativi italiani ampiamente documentano. La legge 30 giugno 1876,
n. 3184, infatti, stabiliva, per i diversi giuramenti previsti nel
processo civile e penale, una formula incentrata principalmente
sull'importanza morale dell'atto, mentre il vincolo religioso veniva
rammentato solo in quanto il pronunciante fosse credente. A una
soluzione di questo genere si è accostata in passato questa stessa
Corte, con la sentenza n. 117 del 1979, là dove, con l'introduzione
dell'inciso se "credente", ha riferito il valore religioso
dell'obbligazione morale che il giuramento comporta soltanto a coloro
i quali avvertono un vincolo nei confronti di Dio, nella medesima
prospettiva indicata nella sentenza n. 58 del 1960 ove si è
affermato che, nel sistema adottato dal legislatore italiano, il
giuramento non ha quel prevalente carattere di religiosità che da
taluno si vorrebbe a esso attribuire.
Naturalmente, il venir meno di un contesto culturale unitario che
consenta di attribuire al giuramento un condiviso significato
religioso ne comporta una relativizzazione e un certo affievolimento
di valore (ciò che spiega la preferenza del legislatore attuale a
far uso di formule di impegno diverse dal giuramento). Tale
significato, da etico-sociale qual'era originariamente, diventa
morale-individuale, in quanto finisce per dipendere dal riferimento
che ciascuno faccia, in coscienza e secondo la sua visione del mondo,
a quanto considera di più impegnativo e degno di osservanza. Con
tale evocazione, colui che presta giuramento viene a conferire al suo
eventuale spergiuro un sovrappiù di negatività e gravità rispetto
a chi formula una semplice promessa, assumendosi la responsabilità
morale che deriva dalla violazione dei dettami ultimi della propria
coscienza. In questo, il giuramento è irriducibile ad altre formule
impegnative e si comprende che l'ordinamento giuridico possa
avvalersene, imponendone la prestazione quando i cittadini vengano
chiamati a compiere atti o a svolgere funzioni di particolare
rilevanza per la collettività.
6.2. - Poiché la libertà di coscienza di chi sia chiamato a
prestare il giuramento previsto dall'art. 238 cod. proc. civ.
comporta che la determinazione del contenuto di valore ch'esso
implica sia lasciata, per l'appunto, a quanto avvertito dalla
coscienza, la dichiarazione d'incostituzionalità del riferimento
alla responsabilità che si assume davanti a Dio deve estendersi
anche al riferimento alla responsabilità davanti agli uomini. Ciò
non solo perché, altrimenti, dalla dichiarazione
d'incostituzionalità dei soli riferimenti alla divinità potrebbe
apparire sancita una sorta di religione dell'umanità, ma anche
perché, mantenendosi il riferimento a un solo contenuto di valore,
implicitamente si escluderebbero tutti gli altri, con violazione
della libertà di coscienza dei credenti, per i quali il giuramento,
del tutto legittimamente, ha un significato religioso.
6.3. - In via conseguenziale, a norma dell'art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, la presente dichiarazione d'incostituzionalità
deve estendersi inoltre al primo comma, seconda proposizione,
dell'art. 238 cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che il
giurante sia ammonito dal giudice circa l'importanza religiosa del
giuramento. Tale previsione, infatti, è inscindibile da quella
contenuta nel secondo comma, circa la responsabilità davanti a Dio
che l'atto comporta. Cadendo quest'ultima, deve cadere anche la
prima.
7. - La pronuncia che si rende necessaria alla stregua delle
considerazioni che precedono comporta una dichiarazione
d'incostituzionalità parziale dell'art. 238 cod. proc. civ. dalla
quale esso risulta modificato come segue: (primo comma, seconda
proposizione) "Questi (il giudice istruttore) ammonisce il giurante
sull'importanza morale dell'atto e sulle conseguenze penali delle
dichiarazioni false, e quindi lo invita a giurare"; (secondo comma):
"Il giurante, in piedi, pronuncia a chiara voce le parole:
"consapevole della responsabilità che col giuramento assumo,
giuro...", e continua ripetendo le parole della formula su cui
giura".
L'eliminazione dalla disposizione in esame delle parti
incostituzionali opera altresì - in virtù del rinvio contenuto
nell'art. 243 cod. proc. civ. e senza necessità di ulteriori
dichiarazioni d'incostituzionalità - in riferimento al giuramento
deferito d'ufficio (artt. 240 e 241 cod. proc. civ.).