Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 15 maggio 1993 il Pretore di Padova
ha sollevato, in riferimento all'art. 32, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5,
terzo e quinto comma, e 6 della legge 5 giugno 1990, n. 135
(Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro
l'AIDS). La questione è stata sollevata nel corso di un procedimento
civile promosso dall'operatrice di assistenza Patrizia Marchioro nei
confronti dell'Associazione Opera Immacolata Concezione (O.I.C.),
diretto ad ottenere un provvedimento d'urgenza, in base all'art. 700
cod. proc. civ., che le consentisse di riprendere la normale
attività lavorativa dopo essere stata cautelarmente sospesa dal
servizio, ma non dalla retribuzione, per essersi rifiutata di
sottoporsi ad esami sanitari, presso la Divisione malattie infettive
dell'Ospedale di Padova, diretti ad accertare l'esistenza o meno di
infezione da HIV.
L'art. 5 della legge n. 135 del 1990 stabilisce che nessuno può
essere sottoposto, senza il proprio consenso, ad analisi tendenti ad
accertare l'infezione da HIV, se non per motivi di necessità clinica
nel suo interesse (terzo comma), e che l'accertata infezione da HIV
non può costituire motivo di discriminazione in particolare, tra
l'altro, per l'accesso a posti di lavoro o per il mantenimento di
essi (quinto comma). L'art. 6 vieta ai datori di lavoro di svolgere
indagini dirette ad accertare, nei dipendenti o per l'instaurazione
di un rapporto di lavoro, l'esistenza di uno stato di
sieropositività.
Il Pretore rileva che, nel caso sottoposto al suo esame, la
richiesta di accertamenti sanitari era stata motivata da parte del
datore di lavoro escludendo ogni finalità di discriminazione ma
affermando la necessità, collegata all'assunzione delle relative
responsabilità, di appurare se l'operatrice in questione fosse in
possesso dell'integrità fisica richiesta per le delicate mansioni di
assistenza svolte sulle persone di ricoverati non autosufficienti. Lo
stesso giudice ritiene che le disposizioni legislative in questione,
escludendo comunque la possibilità di analisi e di accertamenti
sanitari su un eventuale stato di sieropositività senza il consenso
dell'interessato, siano in contrasto con l'art. 32 della
Costituzione, nella parte in cui non prevedono la possibilità di
prescinderne, limitatamente ai casi di specifiche attività
lavorative che, per la loro particolare natura, presentino il serio
rischio di trasmissione dell'infezione da HIV dall'operatore di
assistenza all'assistito.
Il Pretore considera la legge n. 135 del 1990 informata a principi
di alto valore sociale ed all'apprezzabile esigenza di non
discriminare o isolare, nemmeno sul lavoro, le persone sieropositive
o affette da AIDS. Ma ritiene che la stessa legge presenti profili in
contrasto con l'art. 32 della Costituzione, non consentendo, per le
attività che presentano rischio di trasmissione dell'infezione, di
effettuare accertamenti sanitari, anche contro la volontà
dell'interessato, con le dovute garanzie di riservatezza ed al fine
di tutelare la salute come interesse della collettività e dei terzi.
Il Pretore motiva la rilevanza della questione affermando che, se
le norme denunciate sono costituzionalmente illegittime, il ricorso
proposto per ottenere la reintegrazione d'urgenza nell'attività
lavorativa dovrebbe essere respinto.
2. - Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non
fondata.
L'Avvocatura ricorda che un'ingerenza nella sfera della salute dei
singoli cittadini può essere consentita solo entro limiti
circoscritti ed osserva che il legislatore, nel prevedere la
necessità del consenso dell'interessato per l'accertamento
dell'assenza di sieropositività, ha correttamente rispettato la
libertà di autodeterminazione di costui. Né vi sarebbe motivo di
ritenere che l'inserimento del malato di AIDS nel tessuto sociale,
per l'espletamento di un rapporto di lavoro, possa di per sé
rappresentare un fattore di pericolosità tale da giustificare
l'adozione di misure di prevenzione invasive della sfera di libertà
del cittadino.
Considerato in diritto
1. - La questione sottoposta all'esame della Corte concerne il
programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro
l'AIDS, dettato con la legge 5 giugno 1990, n. 135, che, nel
disciplinare l'accertamento dell'infezione e le rilevazioni
epidemiologiche, stabilisce che nessuno può essere sottoposto senza
il suo consenso ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV,
se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse (art. 5,
terzo comma). La stessa disposizione esclude discriminazioni in caso
di accertata infezione da HIV per l'accesso o il mantenimento di
posti di lavoro (art. 5, quinto comma). Inoltre l'art. 6 vieta ai
datori di lavoro di svolgere indagini dirette ad accertare
l'esistenza di uno stato di sieropositività nei dipendenti o in
persone prese in considerazione per l'instaurazione di un rapporto di
lavoro.
Ad avviso del Pretore di Padova questa disciplina, pur essendo
informata a principi di alto valore sociale ed all'apprezzabile
esigenza di non discriminare o isolare, neppure sul lavoro, le
persone sieropositive o affette da AIDS, sarebbe in contrasto con
l'art. 32 della Costituzione, che tutela la salute come diritto
fondamentale dell'individuo ed interesse della collettività, nella
parte in cui non prevede, limitatamente alle attività che per la
loro particolare natura presentano il serio rischio di trasmissione
dell'infezione, la possibilità di accertamenti sanitari, con
garanzie di riservatezza, anche contro la volontà degli interessati.
2. - Il giudice rimettente, indicando quale parametro del giudizio
di legittimità costituzionale l'art. 32, primo comma, della
Costituzione, invoca l'applicazione del principio di tutela della
salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della
collettività.
In proposito la Corte ha più volte affermato che la salute è un
bene primario, costituzionalmente protetto, il quale assurge a
diritto fondamentale della persona, che impone piena ed esaustiva
tutela (sentenze n. 307 e 455 del 1990), tale da operare sia in
ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato (sentenze n.
202 del 1991, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986).
La tutela della salute comprende la generale e comune pretesa
dell'individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non
pongano a rischio questo suo bene essenziale. Sotto il profilo
dell'assistenza pubblica la tutela della salute si specifica nel
diritto, basato su norme costituzionali di carattere programmatico,
all'erogazione, nel contesto delle compatibilità generali non
irragionevolmente valutate dal legislatore, di adeguate prestazioni
di prevenzione e cura, dirette al mantenimento o al recupero dello
stato di benessere (sentenza n. 455 del 1990).
La tutela della salute non si esaurisce tuttavia in queste
situazioni attive di pretesa. Essa implica e comprende il dovere
dell'individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio
comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale
che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco
riconoscimento e nell'eguale protezione del coesistente diritto degli
altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano
ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che
possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti
sanitari obbligatori, posti in essere anche nell'interesse della
persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri
particolari. Situazioni di questo tipo sono evidenti nel caso delle
malattie infettive e contagiose, la cui diffusione sia collegata a
comportamenti della persona, che è tenuta in questa evenienza ad
adottare responsabilmente le condotte e le cautele necessarie per
impedire la trasmissione del morbo. L'interesse comune alla salute
collettiva e l'esigenza della preventiva protezione dei terzi
consentono in questo caso, e talvolta rendono obbligatori,
accertamenti sanitari legislativamente previsti, diretti a stabilire
se chi è chiamato a svolgere determinate attività, nelle quali
sussiste un serio rischio di contagio, sia affetto da una malattia
trasmissibile in occasione ed in ragione dell'esercizio delle
attività stesse.
Salvaguardata in ogni caso la dignità della persona, che
comprende anche il diritto alla riservatezza sul proprio stato di
salute ed al mantenimento della vita lavorativa e di relazione
compatibile con tale stato, l'art. 32 della Costituzione prevede un
contemperamento del coesistente diritto alla salute di ciascun
individuo; implica inoltre il bilanciamento di tale diritto con il
dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario
contatto con la persona per attività che comportino un serio
rischio, non volontariamente assunto, di contagio. In tal caso le
attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge,
rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere
espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per
escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che
siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle
attività stesse. Non si tratta quindi di controlli sanitari
indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di
accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi
possono essere tenuti, costituendo un onere per poter svolgere una
determinata attività, sia nel contenuto degli esami. Questi devono
essere funzionalmente collegati alla verifica dell'idoneità
all'espletamento di quelle specifiche attività e riservati a chi ad
esse è, o intende essere, addetto.
Gli accertamenti che, comprendendo prelievi ed analisi,
costituiscono "trattamenti sanitari" nel senso indicato dall'art. 32
della Costituzione, possono essere legittimamente richiesti solo in
necessitata correlazione con l'esigenza di tutelare la salute dei
terzi (o della collettività generale). Essi si giustificano, quindi,
nell'ambito delle misure indispensabili per assicurare questa tutela
e trovano un limite non valicabile nel rispetto della dignità della
persona che vi può essere sottoposta. In quest'ambito il rispetto
della persona esige l'efficace protezione della riservatezza,
necessaria anche per contrastare il rischio di emarginazione nella
vita lavorativa e di relazione.
3. - In rapporto a questi principi la questione è fondata, come
di seguito precisato.
Le disposizioni sottoposte al giudizio di legittimità
costituzionale sono contenute nella legge n. 135 del 1990, che ha
inteso "dare una prima risposta seria e non frammentaria
all'eccezionale situazione di emergenza sociale determinata dalla
allarmante diffusione dell'infezione da HIV, patologia nuova e
gravissima in espansione a livello non solo nazionale, ma mondiale"
(sentenza n. 37 del 1991).
Le caratteristiche di diffusività di tale malattia erano state
già riconosciute, ai fini degli interventi previsti dalla
legislazione sanitaria, con il decreto ministeriale 28 novembre 1986,
che ha inserito la sindrome da immunodeficienza acquisita nell'elenco
delle malattie diffusive ed infettive, che comportano l'adozione di
provvedimenti sanitari e misure di protezione.
La stessa legge n. 135 del 1990 ha previsto, all'art. 7, norme di
protezione dal contagio professionale nelle strutture sanitarie ed
assistenziali pubbliche e private, dettate poi con il decreto
ministeriale 28 settembre 1990, che ha stabilito precauzioni per il
personale nei confronti della generalità delle persone assistite.
Con evidente riferimento al principio di doverosa tutela della
salute dei terzi, il legislatore, nel dettare una disciplina di
settore, ha riconosciuto l'esistenza di rischi di diffusione della
malattia connessi allo svolgimento di determinate attività e,
considerando tale pericolo non diversamente fronteggiabile, ha
stabilito per il personale appartenente alle forze di polizia che
"per la verifica dell'idoneità all'espletamento di servizi che
comportano rischi per la sicurezza, l'incolumità e la salute dei
terzi possono essere disposti, con il consenso dell'interessato,
accertamenti dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV";
ha poi previsto, senza che possa essere adottato altro provvedimento
nei confronti dell'interessato, la esclusione di chi abbia rifiutato
di sottoporsi agli accertamenti dai servizi che presentano rischio
per i terzi; servizi la cui determinazione è stata rimessa ad un
successivo decreto ministeriale (art. 15 del decreto-legge 4 ottobre
1990, n. 276, convertito in legge, con modificazioni, con la legge 30
novembre 1990, n. 359).
Riconosciuta legislativamente l'esistenza di attività e servizi
che comportano rischi per la salute dei terzi, derivanti dall'essere
gli operatori addetti portatori di una malattia diffusiva quale
l'AIDS, ne segue la necessità, a tutela del diritto alla salute, di
accertare preventivamente l'assenza di sieropositività per
verificare l'idoneità all'espletamento dei servizi che comportano
questo rischio e che non possono essere solo quelli inerenti alle
attività degli addetti alle forze di polizia. Lo stesso legislatore,
nel settore della sanità e dell'assistenza, ha inteso disporre la
protezione dal contagio professionale, avendo particolarmente di mira
il rischio che gli addetti possono correre nell'esercizio
dell'attività professionale; rischio per il quale operano in
prevalenza le misure di protezione previste. L'ulteriore necessità
che si manifesta è di tutelare la salute dei terzi in ogni settore
nel quale esista per essi un serio rischio di contagio, trasmissibile
da chi svolga un'attività loro diretta.
In particolare nell'assistenza e cura della persona, attività
prese in considerazione nel giudizio che ha determinato l'insorgere
della questione di legittimità costituzionale, sono necessari, come
condizione per espletare mansioni che comportano rischi per la salute
dei terzi, accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività
all'infezione da HIV del personale addetto, a tutela del diritto alla
salute dei destinatari delle prestazioni. Nella parte in cui non
prevede tale onere, l'art. 5, terzo e quinto comma, della legge n.
135 del 1990 è in contrasto con l'art. 32, primo comma, della
Costituzione.
Ciò posto, rimane superata la questione di legittimità
costituzionale sollevata con riferimento all'art. 6 della stessa
legge.