Considerato in diritto
1. - Le ordinanze in epigrafe propongono analoghe questioni:
riuniti i giudizi, le stesse questioni possono, pertanto, esser
decise con unica sentenza.
2. - L'ordinanza di rimessione del Pretore di Cingoli riferisce
che agli imputati è stata contestata la contravvenzione di cui
all'art. 17, lettera b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10 e
l'ordinanza di rimessione del Pretore di Padova riferisce che
l'imputato è stato chiamato a rispondere della contravvenzione di
cui all'art. 666 c.p.: mentre le predette ordinanze risultano
sufficientemente motivate in ordine alla rilevanza non si può qui
far riferimento al notissimo indirizzo giurisprudenziale relativo
alla "buona fede" nelle contravvenzioni senza impostare e risolvere
il generale problema della legittimità dell'art. 5 c.p.: a parte la
sua non uniformità, il predetto indirizzo giurisprudenziale, come in
seguito si motiverà, non trova fondamento nella vigente legislazione
a causa della norma di "sbarramento", di cui all'art. 5 c.p., che
impedisce ogni rilievo, comunque, all'ignoranza della legge penale,
sia essa qualificata o meno. Come è stato esattamente rilevato,
disciplinando un elemento negativo (l'ignoranza) lo stesso articolo
non offre possibilità d'operare distinzioni di disciplina tra le
diverse cause dell'ignoranza o tra le varie modalità concrete nelle
quali la medesima si manifesta.
3. - Prima d'esaminare se ed in quali limiti l'art. 5 c.p. deve
ritenersi illegittimo, a seguito dell'entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, vanno qui brevemente sottolineate alcune
premesse ideologiche, di metodo, storiche e dommatiche.
La mancata considerazione delle relazioni tra soggetto e legge
penale, l'idea che nessun rilievo giuridico va dato all'ignoranza
della legge penale, è, fra l'altro, il risultato di tre ben
caratterizzate impostazioni ideologiche. La prima, in radicale
critica alla concezione normativa del diritto, contesta che
l'obbedienza o la trasgressione della legge abbia attinenza con la
conoscenza od ignoranza della medesima. La seconda sottolinea che,
essendo l'ordinamento giuridico sorretto da una "coscienza comune"
che lo legittima e costituendo, pertanto, la trasgressione della
legge "episodio" particolare, incoerente e perciò ingiustificato
(attuato da chi, conoscendo e contribuendo a realizzare i valori
essenziali che sono alla base dello stesso ordinamento, appunto
arbitrariamente ed incoerentemente si pone in contrasto con uno dei
predetti valori) non può lo stesso ordinamento condizionare
l'effettiva applicazione della sanzione penale alla prova della
conoscenza, da parte dell'agente, per ogni illecito, del particolare
precetto violato. La terza impostazione ideologica, comunemente
ritenuta soltanto politica, attiene all'illuministica "maestà" della
legge, la cui obbligatorietà, si sostiene, non va condizionata dalle
mutevoli "psicologie" individuali nonché dall'alea della prova, in
giudizio, della conoscenza della stessa legge.
Senonché, contro la prima tesi, va osservato che, supposta
l'esistenza di leggi giuridiche statali, nessun dubbio può
fondatamente sorgere in ordine al principio che spetta
all'ordinamento dello Stato stabilire le condizioni in presenza delle
quali esso entra in funzione (e, tra queste, ben può essere prevista
la conoscenza della legge che si viola). Alla seconda tesi va
obiettato che, in tempi in cui le norme penali erano circoscritte a
ben precisi illeciti, ridotti nel numero e, per lo più, costituenti
violazione anche di norme sociali universalmente riconosciute, era
dato sostenere la regolare conoscenza, da parte dei cittadini,
dell'illiceità dei fatti violatori delle leggi penali; ma, oggi,
tenuto conto del notevole aumento delle sanzioni penali, sarebbe
quasi impossibile dimostrare che lo Stato sia effettivamente sorretto
da una "coscienza comune" tutte le volte che "aggiunge" sanzioni a
violazioni di particolari, spesso "imprevedibili", valori relativi a
campi, come quelli previdenziale, edilizio, fiscale ecc., che nulla
hanno a che vedere con i delitti, c.d. naturali, di comune
"riconoscimento" sociale. Alla terza impostazione ideologico-politica
va obiettato che, certamente, è pericoloso, per la tutela dei valori
fondamentali sui quali si fonda lo Stato, condizionare, di volta in
volta, alla prova in giudizio della conoscenza della legge penale, da
parte dell'agente, l'effettiva applicabilità delle sanzioni penali
ma che, tuttavia, il principio dell'irrilevanza assoluta
dell'ignoranza della legge penale non discende dall'obbligatorietà
della stessa legge; tant'è vero che, come è stato sottolineato di
recente dalla dottrina, nei sistemi nei quali si attribuisce
rilevanza all'ignoranza della legge penale non per questo la legge
diviene "meno obbligatoria".
Vero è che gli opposti principi dell'assoluta irrilevanza o
dell'assoluta rilevanza dell'ignoranza della legge penale non trovano
valido fondamento: ove, infatti, s'accettasse il principio
dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale si
darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni giuridici a
scapito della libertà e dignità della persona umana, costretta a
subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche) anche per
comportamenti (allorché l'ignoranza della legge sia inevitabile) non
implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti
dell'ordinamento; ove, invece, si sostenesse l'opposto principio
dell'assoluta scusabilità della predetta ignoranza, l'indubbio
rispetto della persona umana condurrebbe purtroppo (a parte la
questione della possibilità che esistano soggetti che volutamente si
tengano all'oscuro dei doveri giuridici) a rimettere alla variabile
"psicologia" dei singoli la tutela di beni che, per essere tutelati
penalmente, si suppone siano fondamentali per la società e per
l'ordinamento giuridico statale.
4. - Sul piano metodologico va osservato che non è prospettiva
producente ed esaustiva quella che esamini il tema dell'ignoranza
della legge penale considerando il solo "istante" nel quale il
soggetto oggettivamente viola la legge penale nell'ignoranza della
medesima. È indispensabile, infatti, non trascurare le "cause",
remote e prossime, della predetta ignoranza e, pertanto, estendere
l'indagine al preliminare stato delle relazioni tra ordinamento
giuridico e soggetti ed in particolare ai rapporti tra l'ordinamento,
quale soggetto attivo dei processi di socializzazione di cui all'art.
3, secondo comma, Cost. ed autore del fatto illecito. Se non si
mancherà d'accennare a tale indagine, va, peraltro, sottolineato che
la medesima non potrà, ovviamente, esser sufficientemente
approfondita in questa sede.
5. - Dal punto di vista storico e di diritto comparato va
sottolineato che il principio dell'irrilevanza dell'ignoranza di
diritto non è mai stato positivamente affermato nella sua
assolutezza. Si può, anzi, affermare che la storia del principio in
esame coincida con la storia delle sue eccezioni: dal diritto
romano-classico, per il quale era consentito alle donne ed ai minori
di 25 anni "ignorare il diritto", attraverso i "glossatori" ed il
diritto canonico, fino alle attuali normative di diritto comparato
(codici penali tedesco-occidentale, austriaco, svizzero, greco,
polacco, iugoslavo, giapponese ecc.) si evidenziano tali e tante
"eccezioni" all'assolutezza del principio in discussione che il
codice Rocco si può sostenere sia rimasto, in materia, isolato,
neppure più seguito dal codice penale portoghese. Quest'ultimo,
infatti, mutando recentemente la precedente normativa, ha previsto il
c.d. "errore intellettuale", nel quale rientra l'errore sul divieto
la cui conoscenza appare ragionevolmente indispensabile perché possa
aversi coscienza dell'illiceità del fatto.
6. - Va, infine, ricordato che, come rilevato da recente dottrina,
il principio dell'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale,
concepito nella sua assolutezza, non trova neppure convincente
sistemazione dommatica. Escluso che possa prospettarsi l'esistenza
d'un "dovere autonomo di conoscenza" della legge penale (ne
mancherebbe, fra l'altro, la relativa sanzione) anche le tesi della
presunzione iuris et de iure e della "finzione" di conoscenza della
legge penale (a parte la considerazione che le medesime, mentre
ritengono essenziale al reato la coscienza dell'antigiuridicità del
comportamento criminoso, "presumono", in fatto, ciò che assumono
essenziale in teoria) s'inseriscono in un contesto che parte
dall'opposto principio dell'essenzialità al reato della coscienza
dell'illiceità e, pertanto, della "scusabilità" dell'ignoranza
della legge penale.
7. - Prima d'iniziare il confronto tra l'art. 5 c.p. e la Carta
fondamentale, va, ancora, ricordato che, a seguito dell'entrata in
vigore di quest'ultima, lo stesso articolo è stato oggetto di
numerose, pesanti critiche. Partendo da ben note premesse
sistematiche (l'imperatività della norma penale); ricordata la
strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del
principio dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale
(già nel 1930 tal principio, trasferito dal capitolo
dell'imputabilità, nel quale era inserito dal codice del 1879, a
quello dell'obbligatorietà della legge penale, era divenuto
"cardine" del sistema); ed affermata la necessità, per la
punibilità del reato, dell'effettiva coscienza, nell'agente,
dell'antigiuridicità del fatto; è stata con forza sottolineata la
stridente incompatibilità dell'art. 5 c.p., qualificato come
"incivile", con la Costituzione.
È stato, tuttavia, agevole, sul versante delle premesse
sistematiche, contrapporre alla tesi dell'effettiva imperatività
della norma penale, la formula dell'idoneità della stessa norma a
funzionare come comando e, sul versante dell'illegittimità dell'art.
5 c.p., contrapporre alla richiesta di totale abrogazione o di
dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'intero articolo
l'inesistenza, nella Costituzione, d'un vincolo, per il legislatore
ordinario, di non sanzionare penalmente fatti carenti d'effettiva
coscienza dell'antigiuridicità. Le risposte, indubbiamente corrette,
da una parte hanno, tuttavia, finito col "chiudere" ogni indagine
sulla relazione tra ordinamento giuridico e soggetti, viventi in una
determinata concretezza storica, in una particolare situazione
sociale e d'altra parte hanno precluso, tranne lodevolissime
eccezioni, ogni ulteriore esame della Costituzione, allo scopo di
verificare se, in mancanza del precitato "vincolo" dell'effettiva
presenza della coscienza dell'antigiuridicità, non esistessero altri
vincoli, per il legislatore ordinario, mirati ad escludere
l'incriminazione di fatti commessi in carenza di altre, anche se meno
penetranti, relazioni tra soggetto e legge penale.
Sorge, invero, spontanea la domanda: a che vale richiedere come
essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno specifico
rapporto tra soggetto ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni
"preliminare" esame delle relazioni tra soggetto e legge e,
conseguentemente, tra soggetto e fatto considerato nel suo
"integrale" disvalore antigiuridico viene eluso? E come è possibile
risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve
le osservazioni che, in proposito, saranno prospettate in seguito)
del principio di colpevolezza, intesa quest'ultima come relazione tra
soggetto e fatto, quando, non "rimuovendo" il principio d'assoluta
irrilevanza dell'ignoranza della legge penale, sancito dall'art. 5
c.p., vengono "stroncate", in radice, le indagini sulle metodiche
d'incriminazione dei fatti e quelle sulla chiarezza e
riconoscibilità dei contenuti delle norme penali nonché sulle
"certezze" che le norme penali dovrebbero assicurare e, pertanto,
sulle garanzie che, in materia, di libertà d'azione, il soggetto
attende dallo Stato?
8. - Allo scopo d'un attento approccio all'esegesi dell'art. 27,
primo comma, Cost, occorre preliminarmente accennare al valore ed
alla funzione che il momento subiettivo dell'antigiuridicità penale,
il personale contrasto con la norma penale, assume nel sistema della
vigente Costituzione. Si noti: una parte della dottrina richiede
anche un mutamento terminologico, valido a distinguere la concezione
della colpevolezza quale fondamento etico della responsabilità
penale dalla concezione che ne accentua la sua funzione di limite al
potere coercitivo dello Stato. A parte ogni questione
sull'ammissibilità d'un'idea di colpevolezza che limiti senza
fondare la potestà punitiva dello Stato, i richiesti mutamenti
terminologici appaiono necessari ed anche urgenti; e, tuttavia, in
questa sede, è preferibile mantenersi fermi alla tradizionale
etichetta "colpevolezza" sia per ovvii motivi di chiarezza sia per
sottolineare, pur nel variare, storicamente condizionato, delle
nozioni dommatiche, la continuità dell'esigenza costituzionale del
rispetto e tutela della persona alla quale viene attribuito il reato.
Va, a questo proposito, sottolineato che non è stato
sufficientemente posto l'accento sulla diversità di due accezioni
del termine colpevolezza. La prima, tradizionale, fa riferimento ai
requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (ed
eventualmente anche alla valutazione di tali requisiti ed alla
rimproverabilità del soggetto agente); la seconda, fuori dalla
sistematica degli elementi del reato, denota il principio
costituzionale, garantista (relativo alla personalità dell'illecito
penale, ai presupposti della responsabilità penale personale ecc.)
in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del
legislatore ordinario nell'incriminazione dei fatti penalmente
sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i
necessari requisiti subiettivi minimi d'imputazione senza la
previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere
sottoposto a pena. Qui si userà il termine colpevolezza soprattutto
in quest'ultima accezione mentre lo stesso termine, all'infuori della
prospettiva costituzionale (nell'impossibilità di ritenere
"costituzionalizzata", come si preciserà fra breve, una delle tante
concezioni della colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà
riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47,
59 ecc. c.p.: questo sistema verrà, infatti, posto in raffronto con
l'art. 27, primo e terzo comma e con i fondamentali principi
dell'intera Costituzione, al fine di chiarire come l'art. 5 c.p.,
incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza
(attraverso l'esclusione d'ogni rilievo della conoscenza della legge
penale) fa sì che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle
direttive costituzionali in tema di requisiti subiettivi minimi
d'imputazione.
Va, a questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che
la colpevolezza costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla
più recente dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da
poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato,
sostituito con altri o paradossalmente eliminato. Limpidamente
testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della
funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le
moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza. Sia
nella concezione che considera quest'ultima "fondamento", titolo
giustificativo dell'intervento punitivo dello Stato sia nella
concezione che ne accentua particolarmente la sua funzione di limite
allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento del
sistema) inalterato permane il "valore" della colpevolezza, la sua
insostituibilità.
Per precisare ancor meglio l'indispensabilità della colpevolezza
quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute
nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema
pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non
può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere
strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo
d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio
di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità
penale su "congrui" elementi subiettivi. La strutturale "ambiguità"
della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme
titolo idoneo d'intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d.
destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del
codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è
lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi
precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento.
Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto
anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione:
per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente
solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo
fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque,
mai per comportamenti realizzati nella "non colpevole" e, pertanto,
inevitabile ignoranza del precetto.
A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di
legge statale, la tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto
fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire
od in relazione ai quali non è in grado, senza la benché minima sua
colpa, di ravvisare il dovere d'evitarli nascente dal precetto. Il
principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare,
costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di
legalità, vigente in ogni Stato di diritto.
9. - Le premesse precisazioni indicano la "chiave di lettura", il
quadro garantistico entro il quale inserire l'esegesi dell'art. 27,
primo comma, Cost.
Va, intanto, notato che l'art. 27 Cost. non può esser
adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire,
spezzettata, senza collegamenti "interni". I commi primo e terzo
vanno letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando
distinti principi, costituiscono un'unitaria presa di posizione in
relazione ai requisiti subiettivi minimi che il reato deve possedere
perché abbiano significato gli scopi di politica criminale
enunciati, particolarmente, nel terzo comma. Delle due l'una: o il
primo è in palese contraddizione con il terzo comma dell'art. 27
Cost. oppure è, appunto, quest'ultimo comma che svela, ove ve ne
fosse bisogno, l'esatto significato e la precisa portata che il
principio della responsabilità penale personale assume nella
Costituzione. Sicché, quand'anche la lettera del primo comma
dell'art. 27 desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero
certamente fugati da un'attenta considerazione delle finalità della
pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.
10. - Nell'esame del merito dell'interpretazione dell'art. 27,
primo comma, Cost., vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i
lavori preparatori.
È anzitutto da sottolineare che la motivazione politica della
norma in esame non risulta essere stata l'unico argomento dei
dibattiti svoltisi, nella seduta del 18 settembre 1946, presso la I
sottocommissione (della "Commissione per la Costituzione") anzi, tale
motivazione venne introdotta, come opinione personale del presidente
della stessa sottocommissione, quasi alla fine della seduta ed allo
scopo di "mantenere" la norma (che costituiva il capoverso dell'art.
5 del Progetto di Costituzione) contro le richieste della sua
soppressione. Gli argomenti trattati in precedenza risultano essere
stati vari, tutti, comunque, tendenti ad escludere che da una, sia
pur erronea, interpretazione della formula normativa potesse
desumersi la legittimità di responsabilità penali senza
partecipazione subiettiva.
Alcuni Costituenti mostrarono, con felice intuizione, davvero
premonitrice, forti preoccupazioni sulla possibilità di equivoci
nell'interpretazione della formula "La responsabilità penale è
personale" e ne chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere
"configurabile" una responsabilità penale senza elemento subiettivo.
La terminologia è spesso imprecisa ma la volontà certa.
Si iniziò, da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono
casi in cui è "discutibile se si tratti di responsabilità personale
o non si tratti di responsabilità penale anche per fatto altrui". Si
proseguì sottolineando che non si devono creare equivoci, anche
"avuto riguardo agli artt. 1151, 1152 e 1153 del vecchio Codice
civile, articoli che non trovano la loro corrispondenza nel codice
fascista".
Si sostenne, da altro Costituente, che la formula "La
responsabilità penale è personale" fosse da mantenersi, essendo
essa affermazione di libertà e civiltà, limpidamente aggiungendo:
"Si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni
partecipazione personale al fatto proprio. Questo è il principio del
diritto moderno, che trova la sua espressione nel principio della
consapevolezza che deve accompagnare il fatto materiale. Parlare di
responsabilità personale significa richiamarsi ad un principio che
domina nell'odierno pensiero della scienza giuridica".
Intorno ai "dubbi" (ripetiamo, non sulla necessità dell'elemento
subiettivo per la responsabilità penale ma sulla possibilità che,
interpretando erroneamente la formula, si potesse ritenere
ammissibile una responsabilità senza elemento subiettivo) si
chiesero "chiarimenti" sui "fatti penali commessi per ordine altrui"
e, dando all'espressione "fatto altrui" un significato che includeva
nel termine "fatto" anche l'elemento subiettivo, si osservò che
quest'ultimo manca, talvolta, in chi pur consuma materialmente il
reato e che, appunto per tale mancanza, non può esser chiamato a
rispondere penalmente. Se chi opera materialmente, s'affermò
esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l'esecuzione
d'un ordine, la responsabilità non è più dell'esecutore
dell'ordine, il quale ha consumato il reato ma di chi ha dato
l'ordine. Non è, dunque, responsabile "chi ha eseguito un ordine
legittimo dell'autorità" perché manca di elemento subiettivo ed è
responsabile chi ha commesso il fatto (altrui rispetto all'esecutore)
perché nel fatto è incluso il predetto elemento.
Si replicò, puntualmente, da parte di autorevoli Costituenti,
affermando che "Colui che ha commesso un atto delittuoso risponde di
persona propria se si trovava nella condizione di poter disobbedire":
"altrimenti risponderà colui che ha dato l'ordine e risponderà in
persona propria per aver prodotto il fatto delittuoso stesso". E si
aggiunse che colui che esegue l'ordine "non risponde penalmente
perché da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente".
Vi fu, poi, chi osservò che la responsabilità personale non è
un principio moderno ma un principio che, già nel 1500 o 1600, il
diritto canonico, riportando il delitto ad un peccato dell'anima,
aveva reso effettivo; e chiese la soppressione della formula in esame
da un canto perché scontata e dall'altro perché, ritornando sul
principio, si potevano provocare confusioni in tema di soggetti che
sono in colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui
azioni non sono causa diretta o prossima dell'evento ("non sono
direttamente colpevoli").
Tutti i Costituenti, dunque, almeno fino a questo momento del
dibattito, sostennero che la responsabilità penale personale
implicava necessariamente, oltre all'elemento materiale, un requisito
subiettivo e, per alcuni Costituenti, l'esistenza, in particolare,
della possibilità di muovere rimprovero all'agente, potendo da lui
pretendersi un comportamento diverso.
Esaminando gli ulteriori interventi ci s'accorge che, soltanto
quasi alla fine della discussione, mirandosi a respingere le
richieste di soppressione della norma in esame, si spostò il
dibattito sulle motivazioni politiche della stessa norma sostenendo
che non si doveva dimenticare che, in occasione di attentati alla
vita di Mussolini, si erano perseguiti i familiari dell'attentatore
od i componenti dei circoli politici a cui era affiliata la persona
che aveva consumato l'attentato e che, pertanto, la norma andava
mantenuta.
Da ciò si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne
usato, da chi sosteneva la motivazione politica dell'attuale primo
comma dell'art. 27 Cost., come comprensivo dell'elemento subiettivo
(attentare alla vita di Mussolini è agire colpevolmente) e
dall'altro che tale motivazione tendeva (dichiarata per l'avvenire
l'illegittimità costituzionale di sanzioni collettive) a non far
ricadere su innocenti "colpe" altrui. L'intervento successivo a
quello del presidente della prima sottocommissione è oltremodo
eloquente in proposito: "...Proprio in questi ultimi tempi si sono
viste delle persone pagare con la vita colpe che non avevano
assolutamente commesso". La motivazione politica della norma è,
dunque, quella d'impedire che "colpe altrui" ricadano su chi è
estraneo alle medesime.
Né va dimenticato che, nella seduta successiva (19 settembre
1946) della stessa prima sottocommissione, allorché si trattò di
sostituire il termine "colpevole" con quello di "reo", dapprima si
suggerì d'usare la parola "condannato" ma, successivamente, di
fronte alla contestazione sull'inusualità del termine "condannato"
fuori dalla sede processuale, si tornò, per un momento, alla parola
"colpevole", dichiarandosi espressamente: "Questa parola è più
chiara, specialmente quando si parla di rieducazione del colpevole,
perché il termine di rieducazione presuppone una colpa".
Ma la conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con
la norma di cui al primo comma dell'art. 27 Cost., ad escludere la
responsabilità penale senza elemento subiettivo si ha ricordando che
alcuni Costituenti presentarono, questa volta in Assemblea (seduta
antimeridiana del 15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame,
sostitutivo della parola "personale" con l'espressione "solo per
fatto personale" e che, nella seduta del 26 marzo 1947 dell'Assemblea
costituente, si motivò l'emendamento, fra l'altro, affermando che si
doveva armonizzare la responsabilità penale per fatto proprio con la
responsabilità del direttore di giornali per reati di stampa, "così
che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in
presunzione iuris tantum". E nella seduta pomeridiana del 27 marzo
1947 della stessa Assemblea, si motivò ancora una volta, da parte
d'altro autorevole presentatore, il citato emendamento,
dichiarandosi: "... E qui conviene stabilire che la responsabilità
penale è sempre per fatto proprio mai per fatto altrui; così
delimitandosi quell'arbitraria inaccettabile configurazione di
responsabilità presuntiva in materia giornalistica". La
responsabilità penale sorge, dunque, solo nell'effettiva presenza
dell'elemento subiettivo: non si può mai dare per presunta la colpa.
Se si tien presente che il caso della responsabilità penale del
direttore di giornali per reati commessi a mezzo stampa era
considerato, nel 1946-47, dall'assoluta maggioranza della dottrina,
classico caso di responsabilità penale senza elemento subiettivo di
collegamento con l'evento, non si può non dare il giusto rilievo
all'"assicurazione" che il Presidente della prima sottocommissione,
nella seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell'Assemblea, diede
ai presentatori del citato emendamento, nel pregarli di ritirarlo,
sull'inesistenza delle preoccupazioni affacciate, data la
formulazione proposta dalla Commissione.
In conclusione, va confermato che, per quanto si usino le
espressioni fatto proprio e fatto altrui, che possono indurre in
errore, in realtà, in tutti i lavori preparatori relativi al primo
comma dell'art. 27 Cost., i Costituenti mirarono, sul piano dei
requisiti d'imputazione del reato, ad escludere che si considerassero
costituzionalmente legittime ipotesi carenti di elementi subiettivi
di collegamento con l'evento e, sul piano politico, a non far
ricadere su "estranei" "colpe altrui". E mai, in ogni caso, venne
usato il termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale,
dell'azione cosciente e volontaria seguita dal solo nesso oggettivo
di causalità: anzi, sempre venne usato lo stesso termine come
comprensivo anche d'un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli
relativi alla coscienza e volontà dell'azione.
11. - Ma il significato del primo comma dell'art. 27 Cost. va
chiarito, anche a parte i citati lavori preparatori, nei suoi
particolari rapporti con il terzo comma dello stesso articolo e con
gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma, Cost.
Anzitutto, è significativa la "lettera" del primo comma dell'art.
27 Cost. Non si legge, infatti, in esso: la responsabilità penale è
"per fatto proprio" ma la responsabilità penale è "personale".
Sicché, chi tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il profilo,
per quanto, in sede penale, superato, della distinzione tra fatto
proprio ed altrui (salvo a precisare l'esatta accezione, in materia,
del termine "fatto") dovrebbe almeno leggere la norma in esame come
equivalente a: "La responsabilità penale è per personale fatto
proprio".
Ma è l'interpretazione sistematica del primo comma dell'art. 27
Cost. che ne svela l'ampia portata.
Collegando il primo al terzo comma dell'art. 27 Cost. agevolmente
si scorge che, comunque s'intenda la funzione rieducativa di
quest'ultima, essa postula almeno la colpa dell'agente in relazione
agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non
avrebbe senso la "rieducazione" di chi, non essendo almeno "in colpa"
(rispetto al fatto) non ha, certo, "bisogno" di essere "rieducato".
Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una
funzione deterrente (ma ciò è sicuramente da escludersi, nel nostro
sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che
subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una
responsabilità penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto si
dirà in tema d'ignoranza inevitabile della legge penale) alla
predetta colpa dell'agente, nella prevedibilità ed evitabilità
dell'evento.
12. - Non è dato qui scendere ad ulteriori precisazioni: va
soltanto chiarito che quanto sostenuto è in pieno accordo con la
tendenza mostrata dalle decisioni assunte da questa Corte allorché
è stata chiamata a decidere sulla costituzionalità di ipotesi
criminose che si assumeva non contenessero requisiti subiettivi
sufficienti a realizzare il dettato dell'art. 27 Cost. Qui quella
tendenza si completa e conclude.
A parte un momento le affermazioni "di principio" contenute nelle
citate decisioni, nessuno può disconoscere che, sempre, le sentenze,
in materia, hanno cercato di ravvisare, nelle ipotesi concrete
sottoposte all'esame della Corte, un qualche "requisito psichico"
idoneo a renderle immuni da censure d'illegittimità costituzionale
ex art. 27 Cost. Le stesse decisioni, pur muovendosi nell'ambito
dell'alternativa tra fatto proprio ed altrui, non hanno mancato di
ricercare spesso un qualche coefficiente soggettivo (anche se
limitato) sul presupposto che il "fatto proprio" debba includere
anche simile coefficiente per divenire "compiutamente proprio"
dell'agente: così, ad esempio, nella sentenza n. 54 del 1964, nella
quale si afferma che il reato in esame "presuppone nell'agente la
volontà di svolgere quell'attività che va sotto il nome di ricerca
archeologica e che la legge interdice ai soggetti non legittimati dal
necessario provvedimento amministrativo. Il fatto punito è perciò
sicuramente un fatto proprio del soggetto cui la sanzione penale
viene comminata": si noti che l'attività indicata, in mancanza
d'evento naturalistico, integra l'intero fatto, oggettivo che, in
conseguenza del riferimento ad esso della volontà dell'autore,
"perciò sicuramente" costituisce "fatto proprio" dell'agente; così
nella sentenza 17 febbraio 1971, n. 20 ove, a proposito dell'art. 539
c.p., si rileva come, pur in presenza dell'errore sull'età
dell'offeso, "la condotta del delitto di violenza carnale, essendo
posta in essere volontariamente (e si badi: non esistendo,
nell'ipotesi esaminata, evento naturalistico, tal condotta esaurisce
il fatto, oggettivamente considerato, al quale va riferita la
volontarietà) è con certezza riferibile all'autore come "fatto suo
proprio"; e così ancora, a tacere di altre decisioni, in quella del
17 febbraio 1971, n. 21.
Ed anche a proposito delle dichiarazioni "di principio" contenute
nelle citate sentenze va sottolineato che, se si deve qui confermare
che il primo comma dell'art. 27 Cost. contiene un tassativo divieto
della responsabilità "per fatto altrui", va comunque precisato che
ciò deriva dall'altro, ben più "civile" principio, di non far
ricadere su di un soggetto, appunto estraneo al "fatto altrui",
conseguenze penali di "colpe" a lui non ascrivibili. Come è da
confermare che si risponde penalmente soltanto per il fatto proprio,
purché si precisi che per "fatto proprio" non s'intende il fatto
collegato al soggetto, all'azione dell'autore, dal mero nesso di
causalità materiale ( da notare che, anzi, nella fattispecie
plurisoggettiva il fatto comune diviene anche "proprio" del singolo
compartecipe in base al solo "favorire" l'impresa comune) ma anche, e
soprattutto, dal momento subiettivo, costituito, in presenza della
prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla
"colpa" in senso stretto.
Ed anche a proposito dell'esclusione, nel primo comma dell'art. 27
Cost., del tassativo divieto di responsabilità oggettiva va
precisato che (ricordata l'incertezza dottrinale in ordine alle
accezioni da attribuire alla predetta espressione) se nelle ipotesi
di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle
quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a
differenza di altri elementi, non è coperto dal dolo o dalla colpa
dell'agente (c.d. responsabilità oggettiva spuria od impropria) si
deve anche qui ribadire che il primo comma dell'art. 27 Cost. non
contiene un tassativo divieto di "responsabilità oggettiva".
Diversamente va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto,
per la c.d. responsabilità oggettiva pura o propria. Si noti che,
quasi sempre è in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato
che va posto il problema della violazione delle regole "preventive"
che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di
riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato.
Ma, ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità
oggettiva "pura" alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo
vietato dal legislatore non è sorretto da alcun coefficiente
subiettivo, va, di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi
criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi della
fattispecie che non possono non essere "coperti" almeno dalla colpa
dell'agente perché sia rispettato da parte del disposto di cui
all'art. 27, primo comma, Cost. relativa al rapporto psichico tra
soggetto e fatto.
E non va, infine, dimenticata la sentenza n. 3 del 1956, nella
quale limpidamente si afferma: "Ma appunto il direttore del periodico
risponde per fatto proprio, per lo meno perché tra la sua omissione
e l'evento c'è un nesso di causalità materiale, al quale
s'accompagna sempre un certo nesso psichico (art. 40 c.p.)
sufficiente, come è opinione non contrastata, a conferire alla
responsabilità il connotato della personalità". A parte ogni
rilievo, peraltro già sottolineato, in ordine all'alternativa tra
fatto proprio ed altrui, è altamente indicativa l'affermazione per
la quale al nesso di causalità materiale s'accompagna "sempre" un
certo nesso psichico.
13. - La verità è che non va "continuata" la polemica sulla
costituzionalizzazione, o meno, del principio di colpevolezza, di cui
agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., quasi che, malgrado l'evidente
inversione metodologica, sia consentito interpretare le norme
costituzionali alla luce delle norme ordinarie (qual è, peraltro,
tra le tante concettualizzazioni scientifiche, la nozione di
colpevolezza che dovrebbe essere costituzionalizzata?) ma, chiariti i
contenuti delle norme costituzionali che determinano i requisiti
subiettivi "minimi" d'imputazione, a prescindere un momento dal
sistema ordinario, desunto dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.,
occorre verificare, di volta in volta, se le singole ipotesi
criminose di parte speciale (collegate con le disposizioni di parte
generale) siano o meno conformi, quanto ad elementi subiettivi, ai
requisiti minimi richiesti dalle autonomamente interpretate norme
costituzionali.
La stessa possibilità (che si chiarirà, fra poco, essere
essenziale per il giudizio di responsabilità penale) di muovere
all'autore un "rimprovero" per la commissione dell'illecito non
equivale ad accoglimento da parte della Costituzione (a
costituzionalizzazione) d'una delle molteplici concezioni "normative"
della colpevolezza prospettate in dottrina bensì costituisce
autonomo risultato, svincolato da ogni premessa concettualistica,
dell'interpretazione dei commi primo e terzo dell'art. 27 Cost.,
anche se, per accidens, tale "rimprovero" venga a coincidere con una
delle nozioni di colpevolezza (normativa) prospettate in dottrina o
desunte da un determinato sistema ordinario.
A conclusione del primo approccio interpretativo del disposto di
cui al primo comma dell'art. 27 Cost., deve, pertanto, affermarsi che
il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve
necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione
agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Il fatto
(punibile, "proprio" dell'agente) va, dunque, nella materia che si
sta trattando, costituzionalmente inteso in una larga, anche
subiettivamente caratterizzata accezione e non in quella, riduttiva,
d'insieme di elementi oggettivi. La "tipicità" (oggettiva e
soggettiva) del fatto (ovviamente, di regola, vengono richiesti nelle
diverse ipotesi criminose, ulteriori elementi subiettivi, come il
dolo ecc.) costituisce, così, primo, necessario "presupposto" della
punibilità ed è distinta dalla valutazione e rimproverabilità del
fatto stesso.
14. - Dal collegamento tra il primo e terzo comma dell'art. 27
Cost. risulta, altresì, insieme con la necessaria
"rimproverabilità" della personale violazione normativa,
l'illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non
risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto
con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle
norme penali. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e
persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi
che, appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole
contrasto od indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali
"dispregiati" e l'opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno
senso soltanto sulla base della dimostrata "soggettiva
antigiuridicità" del fatto.
Discende che, anche quando non si ritenesse la "possibilità di
conoscenza della legge penale" requisito autonomo d'imputazione
costituzionalmente richiesto, ugualmente si dovrebbe giungere alla
conclusione che, tutte le volte in cui entra in gioco il dovere
d'osservare le leggi penali (che, per i cittadini, è specificazione
di quello d'osservare le leggi della Repubblica, sancito dal primo
comma dell'art. 54 Cost.) la violazione di tal dovere, implicita
nella commissione del fatto di reato, non può certamente divenire
rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od
in una "subiettiva", limitata alla colpa del fatto. Trattandosi,
appunto, dell'applicazione d'una pena, da qualunque teoria s'intenda
muovere (eccezion fatta per quella della prevenzione generale in
chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s'è già avvertito,
non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una
responsabilità penale) e dovendo la violazione del precitato dovere
essere "rimproverabile", l'impossibilità di conoscenza del precetto
(e, pertanto, dell'illiceità del fatto) non ascrivibile alla
volontà dell'interessato deve necessariamente escludere la
punibilità. Il vigente sistema costituzionale non consente che
l'obbligo di non ledere i valori penalmente garantiti sorga e si
violi (attraverso la commissione del fatto di reato) senza alcun
riferimento, se non all'effettiva conoscenza del contenuto
dell'obbligo stesso, almeno alla "possibilità" della sua conoscenza.
Se l'obbligo giuridico si distingue dalla "soggezione" perché, a
differenza di quest'ultima, richiama la partecipazione volitiva del
singolo alla sua realizzazione, far sorgere l'obbligo d'osservanza
delle leggi (delle "singole", particolari leggi) penali, in testa ad
un determinato soggetto, senza la benché minima possibilità, da
parte del soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare
la sua violazione soltanto ai requisiti "subiettivi" attinenti al
fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e
significato di questi ultimi e, d'altra parte, a strumentalizzare la
persona umana a fini di pura deterrenza.
Quanto ora precisato già basterebbe a far ritenere l'art. 5 c.p.
incostituzionale nella parte in cui impedisce ogni esame della
rimproverabilità e, pertanto, scusabilità dell'ignoranza della (od
errore sulla) legge penale. Anche quando non si sia dell'avviso che
l'art. 5 c.p. operi nell'ambito della colpevolezza e lo si agganci,
come nel codice Rocco, all'obbligatorietà della legge penale,
ugualmente lo stesso articolo, per le ragioni innanzi indicate, si
dovrebbe ritenere contrastante con l'art. 27, primo e terzo comma,
Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza all'ignoranza od
errore sul precetto dovute all'impossibilità (non rimproverabile) di
conoscerlo.
15. - Ma il modo più appagante per convalidare tutto ciò è
quello intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina che ritiene la
"possibilità di conoscere la norma penale" autonomo presupposto
necessario d'ogni forma d'imputazione e che estende la sfera
d'operatività di tale "presupposto" a tutte le fattispecie
penalmente rilevanti, comprese le dolose. Considerando il combinato
disposto del primo e terzo comma dell'art. 27 Cost. nel quadro delle
fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto
dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost. ecc., alla
"possibilità di conoscere la norma penale" va, infatti, attribuito
un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi
d'imputazione costituzionalmente richiesti: tale "possibilità" è,
infatti, presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso
quest'ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi
attinenti al fatto di reato.
16. - Basilari norme costituzionali relative alla materia penale,
mentre tendono a garantire al cittadino, ed in genere ai c.d.
destinatari delle norme penali, la sicurezza giuridica di non esser
puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti,
svelano la funzione d'orientamento culturale e di determinazione
psicologica operata dalle leggi penali. Non è, infatti, senza
significato che il principio di legalità, inteso come "riserva di
legge statale" sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale,
dall'art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell'applicazione
delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende
particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia lex
scripta. I principi di tassatività e d'irretroattività delle norme
penali incriminatrici, nell'aggiungere altri contenuti al sistema
delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore
costituzionale intende garantire i cittadini, attraverso la
"possibilità" di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza
giuridica delle consentite, libere scelte d'azione.
E tutto ciò si chiarisce ancor più (come è stato sottolineato
in dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello "Stato di diritto",
anche il principio di riserva di legge penale e gli altri
precedentemente indicati, sono espressione della contropartita
(d'origine contrattualistica) che lo Stato offre in cambio, appunto,
dell'obbligatorietà della legge penale: lo Stato assicura i
cittadini che non li punirà senza preventivamente informarli su ciò
che è vietato o comandato ma richiede dai singoli l'adempimento di
particolari doveri (sui quali ci si soffermerà fra breve) mirati
alla realizzazione dei precetti "principali" relativi ai fatti
penalmente rilevanti.
17. - Va qui, subito, precisato che le garanzie di cui agli
artt.73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., per loro natura
formali, vanno svelate nelle loro implicazioni: queste comportano il
contemporaneo adempimento da parte dello Stato di altri doveri
costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla formulazione,
struttura e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono
essere conosciute solo allorché si rendano "riconoscibili". Il
principio di "riconoscibilità" dei contenuti delle norme penali,
implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost.,
rinvia, ad es., alla necessità che il diritto penale costituisca
davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da
norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente
formulate, dirette alla tutela di valori almeno di "rilievo
costituzionale" e tali da esser percepite anche in funzione di norme
"extrapenali", di civiltà, effettivamente vigenti nell'ambiente
sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare.
L'osservazione dell'"istante" in cui si viola la legge penale
nell'ignoranza della medesima non può far dimenticare, come s'è
avvertito all'inizio, che, "prima" del rapporto tra soggetto e
"singola" legge penale, esiste un ben definito rapporto tra
ordinamento e soggetto "obbligato" a non violare le norme, dal quale
ultimo rapporto il primo è necessariamente condizionato. È stato
osservato e ribadito, esattamente, che un precetto penale ha valore,
come regolatore della condotta, non per quello che è ma per quel che
appare ai consociati. E la conformità dell'apparenza all'effettivo
contenuto della norma penale dev'essere assicurata dallo Stato che è
tenuto a favorire, al massimo, la riconoscibilità sociale
dell'effettivo contenuto precettivo delle norme.
Oltre alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste,
pertanto, un altro "presupposto" della responsabilità penale,
costituito, appunto, dalla "riconoscibilità" dell'effettivo
contenuto precettivo della norma. L'oggettiva impossibilità di
conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi "chiunque" (non
soltanto il singolo soggetto, particolarmente considerato) non può
gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro limite della
personale responsabilità penale.
18. - Ma il problema centrale, per il nostro tema, attiene ai
doveri "strumentali" di conoscenza delle leggi, incombenti sui c.d.
destinatari dei precetti penali e, conseguentemente, ai limiti dei
predetti doveri.
Il passaggio dall'oggettiva possibilità di conoscenza delle leggi
penali, assicurata dallo Stato all'effettiva, concreta conoscenza
delle leggi stesse avviene attraverso la "mediazione", ovviamente
insostituibile, dell'attività conoscitiva dei singoli soggetti.
Supposta esistente, in fatto, l'oggettiva possibilità di
conoscenza d'una particolare legge penale, i soggetti privati,
divenendo diretti destinatari dell'obbligo (principale) d'adempimento
del precetto oggettivamente conoscibile, devono operare la predetta,
insostituibile mediazione. A questo fine incombono sul privato,
preliminarmente, strumentali, specifici doveri d'informazione e
conoscenza: ed è a causa del non adempimento di tali doveri che è
costituzionalmente consentito chiamare a rispondere anche chi ignora
la legge penale. Gli indicati doveri d'informazione, di conoscenza
ecc. costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà
sociale, di cui all'art. 2 Cost. La Costituzione richiede dai singoli
soggetti la massima, costante tensione ai fini del rispetto degli
interessi dell'"altrui" persona umana: ed è per la violazione di
questo impegno di solidarietà sociale che la stessa Costituzione
chiama a rispondere penalmente anche chi lede tali interessi non
conoscendone positivamente la tutela giuridica.
Posto, dunque, che lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista,
cioè, per l'agente l'oggettiva "possibilità" di conoscere le leggi
penali, residuano, tuttavia, ulteriori problemi. L'assoluta,
"illuministica" certezza della legge sempre più si dimostra assai
vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed
interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di
"entrate in vigore" di nuove leggi e di abrogazioni, espresse o
tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la mediazione
dei c.d. destinatari della legge, ad ulteriori "seconde" mediazioni.
La completa, in tutte le sue forme, sicura interpretazione delle
leggi penali ha, oggi, spesso bisogno di seconde, ulteriori
mediazioni: quelle ad es. di tecnici, quanto più possibile
qualificati, di organi dello Stato (soprattutto di quelli
istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le
violazioni delle norme, ecc.). Specifici, particolari doveri, nei
destinatari delle leggi penali (di richiesta e controllo delle
informazioni ricevute, ecc.) discendono da un sistema di norme
"strumentali", la violazione delle quali già denota quanto meno una
"trascuratezza" nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane
e, conclusivamente, dell'ordinamento tutto.
D'altra parte, chi, invece, attenendosi scrupolosamente alle
"richieste" preventive dell'ordinamento, agli obblighi di
solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., adempia a tutti i
predetti doveri, strumentali, nella specie prevedi bili e ciò non
ostante venga a trovarsi in stato d'ignoranza della legge penale, non
può esser trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per
trascuratezza violi gli stessi doveri. Come è stato rilevato,
discende dall'ideologia contrattualistica l'assunzione da parte dello
Stato dell'obbligo di non punire senza preventivamente informare i
cittadini su che cosa è vietato o comandato ma da tale ideologia
discende anche la richiesta, in contropartita, che i singoli
s'informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima
d'agire. La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta
nell'ignoranza della legge penale, può, pertanto, dimostrare che
l'agente non ha prestato alle leggi dello Stato tutta l'attenzione
"dovuta". Ma se non v'è stata alcuna violazione di quest'ultima, se
il cittadino, nei limiti possibili, si è dimostrato ligio al dovere
( ex art. 54, primo comma Cost.) e, ciò malgrado, continua ad
ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza è
"inevitabile" e, pertanto, scusabile.
Non esiste, è vero, un "autonomo" obbligo di conoscenza delle
singole leggi penali; non può disconoscersi, tuttavia, l'esistenza
in testa ai c.d. destinatari dei precetti "principali", nei confronti
di tutto l'ordinamento, di doveri "strumentali", d'attenzione,
prudenza ecc. (simili a quelli che caratterizzano le fattispecie
colpose) nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di "interessi
altrui"; doveri già incombenti prima della violazione delle singole
norme penali, mirati, attraverso il loro adempimento e,
conseguentemente, attraverso la raggiunta conoscenza delle leggi, a
prevenire (appunto inconsapevoli) violazioni delle medesime.
Inadempiuti tali doveri, l'ignoranza della legge risulta
inescusabile, evitabile. Adempiuti ai medesimi la stessa ignoranza,
divenuta inevitabile e, pertanto, scusabile, esclude, la
rimproverabilità e, pertanto, la responsabilità penale.
19. - L'effettiva possibilità di conoscere la legge penale è,
dunque, ulteriore requisito subiettivo minimo d'imputazione, che si
ricava dall'intero sistema costituzionale ed in particolare dagli
artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo
comma, Cost. Tale requisito viene ad integrare e completare quelli
attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto e consente la
valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto
complessivamente considerato.
Non si creda, peraltro, che, ricavandosi il requisito della
"possibilità" di conoscere la legge penale dall'intero sistema
costituzionale (ed in particolare dai precitati articoli) esso sia
estraneo all'art. 27, primo comma, Cost., quasi che quest'ultimo
comma si riferisca soltanto alle relazioni psichiche tra soggetto e
fatto, e, in particolare, alla violazione, nelle ipotesi di colpa in
senso stretto, delle norme preventive che caratterizzano la colpa
oltre, se mai, alla "rimproverabilità" dell'autore del reato. Vero
è che l'art. 27, primo comma, Cost., dichiarando che la
responsabilità penale è personale, non soltanto presuppone la
"personalità" dell'illecito penale (la pena, appunto "in virtù"
della "personalità" della responsabilità penale, va subita dallo
stesso soggetto al quale è personalmente imputato il reato) ma
compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d'imputazione.
Il comma in discussione, interpretato in relazione al terzo comma
dello stesso articolo ed in riferimento agli artt. 2, 3, primo e
secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., svela non
soltanto l'essenzialità della colpa dell'agente rispetto agli
elementi più significativi della fattispecie tipica ma anche
l'indispensabilità del requisito minimo d'imputazione costituito
dall'effettiva "possibilità di conoscere la legge penale", essendo
anch'esso necessario presupposto della "rimproverabilità"
dell'agente. Il principio della "personalità dell'illecito penale"
è "totalmente" implicato dal principio della "responsabilità penale
personale" espresso, appunto, dal primo comma dell'art. 27 Cost.: che
l'integrale contenuto di questo comma debba esser svelato anche in
base alla sua interpretazione sistematica nulla toglie od aggiunge al
contenuto stesso.
20. - A questo punto va precisata l'interpretazione da dare
all'art. 5 c.p. nel momento in cui lo si "confronta" con gli articoli
della Costituzione innanzi richiamati e con l'intero sistema, in
materia penale, della Carta fondamentale. Per quanto occorra
allontanare le tentazioni di sopravvalutazione dell'art. 5 c.p. (è
quasi impensabile, infatti, che un soggetto "imputabile" commetta i
c.d. delitti naturali nell'ignoranza della loro "illiceità" mentre
l'ignoranza delle norme incriminatrici dei c.d. reati di pura
creazione legislativa, tenuto conto del loro sempre crescente numero
e del relativo "più intenso" dovere di conoscenza da parte dei
soggetti che operano nei settori ai quali tali norme appartengono, si
rivela, di regola, inescusabile) lo stesso articolo costituisce,
tuttavia, norma fondamentale nel vigente sistema delle leggi penali
ordinarie. Le interpretazioni che dottrina e giurisprudenza offrono
dell'art. 5 c.p., soprattutto allo scopo di distinguere l'irrilevante
errore sul precetto dal rilevante errore sulla legge extrapenale di
cui all'art. 47, terzo comma, c.p., sono tanto varie e così diverse
tra loro che è impossibile tentarne una sia pur sommaria
esposizione.
Qui occorre prendere le mosse dalla "rigorosa" interpretazione che
dello stesso articolo danno una parte della dottrina e la
giurisprudenza di legittimità (esclusa la "parentesi" della
rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni).
Non è questa, infatti, la sede per procedere ad
un'interpretazione "esaustiva" della norma impugnata: non, essendo
invero, possibile qui chiarire, con precisione, neppure l'oggetto sul
quale cade il "vizio", che l'art.5 c.p. sottende ed in base al quale,
ove lo stesso articolo non esistesse, l'agente sarebbe scusato, vale
qui riportarsi, in materia, alle dottrine che risultano in accordo
con la citata "rigorosa" interpretazione dell'articolo in
discussione: tali dottrine sottolineano che, incidendo l'art. 5 c.p.
sul momento subiettivo dell'antigiuridicità, l'errore che, ai sensi
dello stesso articolo, non scusa è quello che cade sul precetto,
sull'aspetto determinativo del precetto, tenuto conto, peraltro, che
valutazione e determinazione sono inscindibili nella norma penale.
Per nessuno degli aspetti dai quali viene considerato l'art. 5
c.p. si può, infatti, qui partire dalle riduttive interpretazioni
che dello stesso articolo alcuni Autori offrono, pur nel lodevole
tentativo di "mitigarne" il rigore: non foss'altro perché tali
interpretazioni non sono condivise dal diritto vivente.
Vero è che il problema dei rapporti tra soggetto e legge penale,
tra soggetto e norma penale, vanno impostati, come impone la
Costituzione, nell'ambito dell'autonomo requisito "possibilità di
conoscenza della legge penale" sulla quale ci si è soffermati
innanzi: allorché s'ignori la legge penale e l'ignoranza sia
inevitabile la mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e
norma penale, diviene, ai sensi dell'art. 27, primo comma, Cost.,
rilevante (risultando esclusa la personalità dell'illecito e non
essendo legittima la punizione in carenza del requisito della
colpevolezza costituzionalmente richiesta) mentre, ove l'ignoranza
della legge penale sia evitabile, rimproverabile, la stessa mancata
relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, non
esclude la punizione dell'agente che versa in errore di diritto
(sempre che si realizzino tutti gli altri requisiti subiettivi ed
obiettivi d'imputazione) giacché, in quest'ultima ipotesi, tale
mancata relazione già rivela quanto meno un'"indifferenza"
dell'agente nei confronti delle norme, dei valori tutelati e
dell'ordinamento tutto.
Richiamato l'art. 5 c.p. alla logica dell'elemento subiettivo,
della colpevolezza, che lo stesso articolo arbitrariamente mutila;
rilevato il contrasto tra l'articolo in discussione e l'art. 27,
primo comma, Cost. (espressivo quest'ultimo, come s'è innanzi
chiarito, dell'intero sistema costituzionale in materia di elemento
subiettivo del reato); la dichiarazione di parziale
incostituzionalità dell'art. 5 c.p. esclude, in ogni caso, che siano
chiamati a rispondere penalmente coloro che versano in stato
d'inevitabile (scusabile) ignoranza della legge penale.
21. - Allo stesso modo non è, in questa sede, consentito
riferirsi all'interpretazione dell'art. 5 c.p., secondo la quale
quest'ultimo, mentre dichiarerebbe irrilevante la conoscenza
effettiva della legge penale, nulla disporrebbe in ordine alla
possibilità di tale conoscenza. Questa tesi è degna di particolare
considerazione in quanto riconosce rilievo autonomo alla possibilità
di conoscere la legge penale e fa derivare tale rilievo dall'art. 27,
primo e terzo comma, c.p.: questo articolo, statuendo la necessità
di considerazione d'una qualche relazione psicologica del soggetto
con il disvalore giuridico del fatto, si riconnette, infatti, ai
principi di fondo della convivenza democratica a termini dei quali,
si ribadisce, così come il cittadino è tenuto a rispettare
l'ordinamento democratico, quest'ultimo è tale in quanto sappia
porre i privati in grado di comprenderlo senza comprimere la loro
sfera giuridica con divieti non riconoscibili ed interventi
sanzionatori non prevedibili.
Senonché, alla predetta interpretazione riduttiva dell'art. 5
c.p. è stato esattamente osservato che quest'ultimo, escludendo ogni
efficacia scusante dell'ignoranza della legge penale, non consente
alcuna distinzione attinente alla causa dell'ignoranza, in modo da
ritenere l'ignoranza scusabile, a differenza di quella inescusabile,
suscettibile di diverso trattamento.
D'altra parte, la proposta interpretazione "adeguatrice", ex art.
27, primo e terzo comma, Cost., sarebbe in stridente contrasto con
l'interpretazione che il diritto vivente dà all'art. 5 c.p.: non
solo non s'interpreta questo articolo, soprattutto da parte della
giurisprudenza di legittimità (tranne l'"eccezione" della buona fede
nelle contravvenzioni) in maniera rigida ma, nel dare all'art. 5 c.p.
la massima "espansione", si è, da parte della stessa giurisprudenza,
finito, praticamente, con l'addivenire ad una interpretatio abrogans
dell'art. 47, terzo comma, c.p.
22. - E poiché anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza
alla "positiva" buona fede nelle contravvenzioni non trova fondamento
nell'attuale sistema del Codice Rocco (l'art. 5 c.p., statuendo, in
ogni caso, l'irrilevanza dell'ignoranza della legge penale, non
consente di distinguere la disciplina giuridica delle ipotesi che
danno luogo all'ignoranza "inqualificata" da quelle che la
"qualificano" per esser fondate sulla "positiva" buona fede del
soggetto; e poiché anche le diverse interpretazioni "evolutive"
dell'art. 5 c.p., secondo le quali lo stesso articolo statuirebbe
soltanto una presunzione iuris tantum e non iuris et de iure
d'irrilevanza dell'ignoranza della legge penale (tutte, peraltro,
degne di considerazione, in quanto mirate ad attenuare
l'incostituzionale rigore della statuizione in esame) contrastano con
l'interpretazione che dell'articolo in discussione dà il diritto
vivente; non resta, dunque, che partire qui da quest'ultima
interpretazione.
23. - Non può tacersi, a questo punto, che l'art. 5 c.p. ha
natura "bifronte": da un canto nega efficacia scusante all'ignoranza
della legge penale e dall'altro esclude ogni rilevanza all'errore
sull'illiceità del fatto e, pertanto, alla consapevolezza della
stessa illiceità. È stato, invero, in dottrina, precisato che
l'art. 5 c.p. non disciplina l'ignoranza della legge penale in
astratto ma l'ignoranza (od errore) "essenziale", anche incolpevole,
sull'illiceità d'un concreto comportamento.
Si possono, è vero, attenuare gli inconvenienti che si producono
a seguito del disposto di cui all'art. 5 c.p., in sede di dolo,
sostenendo essenziale al medesimo, ex art. 43 c.p., la coscienza
della violazione dell'interesse tutelato ed assumendo che l'art. 5
c.p. renda irrilevante soltanto la coscienza dell'illiceità penale
(= punibilità) del fatto. Ma per le ipotesi colpose il soggetto
agente verrebbe ad esser punito senza nemmeno la più lontana
possibilità (carenza incolpevole) di conoscere la "giuridicità"
delle regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione
delle quali lo stesso soggetto vien punito.
Va aggiunto che l'esistenza d'una norma, quale quella dell'art. 5
c.p., diretta ad escludere ogni giuridico rilievo all'ignoranza (od
errore) sulla legge penale, presuppone la contrapposta possibilità,
almeno teorica, che il reo, in assenza di tale norma, pretenda
scusarsi: ed il reo, in tal caso, si scuserebbe adducendo il
"turbamento", prodotto dall'ignoranza della legge penale sul processo
formativo della volontà del fatto. Nell'ipotesi prospettata,
tuttavia, da un canto si dimostrerebbe assurda una "pretesa" d'essere
scusati (nell'inesistenza dell'art. 5 c.p.) sol in base
all'ignoranza, anche inescusabile, della sola punibilità del fatto
(pur essendo coscienti di ledere il bene tutelato) e d'altro canto
sarebbe sempre l'errore nella formazione della concreta volontà
dell'illecito, al quale consegue la carenza di coscienza
dell'illiceità penale del fatto, anche se dovuta all'ignoranza (od
errore) sulla legge penale, a costituire la ragione della "scusa",
che appunto, lo stesso articolo esclude.
Senonché, a seguito della predetta osservazione, si ha la riprova
che l'art. 5 c.p., nell'attuale vigore, non soltanto determina un
uguale trattamento di chi agisce con la coscienza dell'illiceità
(totale o soltanto penale) del fatto e di chi opera senza tale
coscienza ma esclude ogni possibilità di valutazione della "causa"
della mancata coscienza (della sola punibilità o dell'"intera"
antiprecettività del fatto) trattando allo stesso modo errore
scusabile, inevitabile ed errore inescusabile, evitabile,
sull'illiceità. Punendo, in ogni caso, l'agente che versa in errore
di diritto l'art. 5 c.p. presume, iuris et de iure, comunque si
delimiti l'oggetto di tale errore, la "rimproverabilità" del
medesimo. Vero è che l'art. 5 c.p. rende incostituzionale tutto il
sistema ordinario in materia di colpevolezza, in quanto sottrae a
questa l'importantissima materia del rapporto tra soggetto e legge
penale e, conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato
illecito del fatto.
Ma l'art. 5 c.p. "snatura", togliendone fondamento, anche la
residua materia che non sottrae alla colpevolezza (dolo, colpa del
fatto ecc.). Allorché l'agente ignora, del tutto incolpevolmente, la
legge penale e, pertanto, incolpevolmente ignora l'illiceità del
fatto, non mostra alcuna opposizione ai valori tutelati
dall'ordinamento: può il suo dolo costituire oggetto di rimprovero
ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.? Certo, includendo nel dolo la
coscienza dell'offesa (a parte ogni discussione sulla conseguente
riduttiva interpretazione dell'art. 5 c.p.) si attenuano gli effetti
che, invece, discendono dalla rigorosa interpretazione dello stesso
articolo. Senonché, pur ammettendo che l'art. 5 c.p. sottragga alla
colpevolezza soltanto il rapporto tra soggetto e coscienza del
significato illecito "penale" del fatto e non dell'intero disvalore
antiprecettivo del fatto stesso (e sempre a prescindere dalla pratica
"inoperatività", in tal caso, dell'art. 5 c.p.) rimarrebbero del
tutto "scoperte" le ipotesi colpose (contravvenzionali ad es.). Per
assumere il
soggetto agente "in colpa" dovrebbe, invece, almeno essergli offerta
la "possibilità" di conoscere le norme penali che "trasformano" in
doverose le regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla
violazione delle quali, nella prevedibilità ed evitabilità concreta
dell'evento, si viene chiamati a rispondere: se l'agente, del tutto
incolpevolmente, ignorasse le predette norme penali, la sua "colpa"
(del fatto) non dovrebbe potersi ritenere rimproverabile ex art. 27,
primo e terzo comma, Cost.
La colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va,
pertanto, arricchita, in attuazione dell'art. 27, primo e terzo
comma, Cost., fino ad investire, prima ancora del momento della
violazione della legge penale nell'ignoranza di quest'ultima,
l'atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri
d'informazione o d'attenzione sulle norme penali, doveri che sono
alla base della convivenza civile.
Né si tema che le conclusioni qui raggiunte delineino una forma
di "colpa per la condotta della vita": risalire alle "cause"
dell'ignoranza della legge penale, per verificarne l'evitabilità,
costituisce verifica dell'esistenza, in concreto, almeno d'un
atteggiamento d'indifferenza, da parte dell'agente, nei confronti
della doverosa informazione giuridica. Tale verifica non solo non
viola il principio della responsabilità penale "per il singolo
fatto" ma mira a cogliere il completo disvalore soggettivo del
particolare episodio criminoso e può, condurre, come più volte
ribadito, all'esclusione della colpevolezza per il singolo fatto,
nell'ipotesi d'inevitabilità dell'ignoranza.
24. - L'art. 5 c.p. viola, infine, anche l'art. 3, primo e secondo
comma, Cost.
In ordine alla violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. va
anzitutto ricordato (a conferma di quanto innanzi osservato in ordine
all'uguale trattamento che, ai sensi dell'art. 5 c.p., riceve chi
agisce con la coscienza dell'illiceità del fatto e chi invece con
tale coscienza non opera) che, come ha avuto modo di rilevare
recente, attenta dottrina, colui che commette un reato nell'ignoranza
della legge penale dovuta ad impossibilità di prenderne conoscenza
vien punito con una pena che, rispetto a quella cui soggiace chi
commette lo stesso reato conoscendone l'illiceità, può esser
diminuita soltanto entro i limiti edittali ex art. 133 c.p. o, se
mai, ex art. 62- bis c.p. La diversità tra le predette situazioni
(conoscenza effettiva ed impossibilità incolpevole di conoscenza
della legge penale) è, invece, notevole sia sotto il profilo del
disvalore sia sotto quello della "sintomaticità". L'art. 5 c.p.
viola, dunque, anche il primo comma dell'art. 3 Cost.
Per quanto attiene alla violazione del secondo comma dell'articolo
ora citato va ribadito che il non poter addurre a scusa
dell'ignoranza della legge penale l'obiettiva o la subiettiva (nei
limiti anzidetti) impossibilità di conoscere la stessa legge
equivale a far ricadere sul singolo tutte le colpe della predetta
ignoranza. Ben è, invece, almeno possibile, come s'è già
sottolineato, che lo Stato non abbia reso obiettivamente
riconoscibili (o "prevedibili") alcune leggi; oppure che, malgrado
ogni positiva predisposizione di determinanti soggetti
all'adempimento dei predetti doveri strumentali d'informazione ecc.,
l'ignoranza della legge penale sia dovuta alla mancata rimozione
degli "ostacoli" di cui al secondo comma dell'art. 3 Cost.
25. - In conclusione: oltre agli specifici articoli della
Costituzione indicati in precedenza, l'art. 5 c.p.,
nell'interpretazione che del medesimo danno una parte della dottrina
e soprattutto la giurisprudenza, viola, come s'è sottolineato più
volte, lo spirito stesso dell'intera Carta fondamentale ed i suoi
essenziali princi'pi ispiratori. Far sorgere l'obbligo giuridico di
non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento
alla consapevolezza dell'agente, considerare violato lo stesso
obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della
legge penale e dell'illiceità del fatto, sottoporre il soggetto
agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua
consapevole ribellione od indifferenza all'ordinamento tutto,
equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico
offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola
retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve
occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati.
26. - Non resta che accennare ai criteri, ai parametri in base ai
quali va stabilita l'inevitabilità dell'ignoranza della legge
penale. È, invero, di gran rilievo impedire che, in fase
applicativa, vengano a prodursi, insieme alla "vanificazione" delle
risultanze qui acquisite, altre violazioni della Carta fondamentale.
È doveroso, per prima, chiarire che, ove una particolare
conoscenza, da parte del soggetto agente, consenta al medesimo la
possibilità di conoscere la legge penale, non è legittimo che lo
stesso soggetto si giovi d'un (eventuale) errore generale, comune,
sul divieto. Ciò va rilevato non perché si disconoscano i
tentativi, per tanti aspetti meritevoli di considerazione, della
dottrina mirati, attraverso l'oggettivazione, per quanto possibile,
dei criteri di misura della colpevolezza, a sottolinearne l'aspetto,
peraltro fondamentale, di garanzia delle libere scelte d'azione ma
perché non è desumibile dalla Costituzione la legittimità d'una
concezione della colpevolezza che consenta di non rimproverare il
soggetto per il fatto commesso (ovviamente, in presenza dei
prescritti elementi subiettivi) quando esista, in concreto, la
possibilità, sia pur eccezionale (di fronte ad un generale, comune
errore sul divieto) per il singolo agente di conoscere la legge
penale e, pertanto, l'illiceità del fatto. Ammettere, allo stato
attuale della normativa costituzionale ed ordinaria, il soggetto
agente (che è in errore sull'illiceità del fatto per ignoranza
della legge penale, pur essendo in grado di conoscere quest'ultima e
di non errare sulla predetta illiceità) a giovarsi del comune errore
sul divieto, determinato dall'altrui, generale, inevitabile ignoranza
della legge penale, val quanto riconoscere all'errore comune sul
divieto penale il valore di consuetudine abrogatrice di
incriminazioni penali.
27. - Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che
l'inevitabilità dell'errore sul divieto (e, conseguentemente,
l'esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di
criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati
influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce
delle specifiche caratteristiche personali dell'agente) bensì
secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (c.d.
oggettivi puri) secondo i quali l'errore sul precetto è inevitabile
nei casi d'impossibilità di conoscenza della legge penale da parte
d'ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva)
mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es.
assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente
caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione
ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi
giudiziari ecc. La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla
stregua di criteri oggettivi puri necessariamente comporta va,
tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall'esame di
eventuali, particolari conoscenze ed "abilità" possedute dal singolo
agente: queste ultime, consentendo all'autore del reato di cogliere i
contenuti ed il significato determinativo della legge penale
escludono che l'ignoranza della legge penale vada qualificata come
inevitabile.
Ed anche quando, sempre allo scopo di stabilire l'inevitabilità
dell'errore sul divieto, ci si valga di "altri" criteri (c.d.
"misti") secondo i quali la predetta inevitabilità può esser
determinata, fra l'altro, da particolari, positive, circostanze di
fatto in cui s'è formata la deliberazione criminosa (es.
"assicurazioni erronee" di persone istituzionalmente destinate a
giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni
dell'agente per lo stesso fatto ecc.) occorre tener conto della
"generalizzazione" dell'errore nel senso che qualunque consociato, in
via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto
nell'errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari
condizioni dell'agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione
del giudizio va compensata dall'indagine attinente alla particolare
posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto quando
eventualmente possegga specifiche "cognizioni" (ad es. conosca o sia
in grado di conoscere l'origine lassistica o compiacente di
assicurazioni di organi anche ufficiali ecc.) è tenuto a
"controllare" le informazioni ricevute. Il fondamento costituzionale
della "scusa" dell'inevitabile ignoranza della legge penale vale
soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d'inferiorità e
non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di
controllo, indifferenze, ecc., di soggetti dai quali, per la loro
elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari
comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza
nel conoscere le leggi penali.
28. - La casistica relativa all'"inevitabilità" dell'errore sul
divieto va conclusa con alcune precisazioni.
È stato, in dottrina, osservato che, realisticamente, l'ipotesi
d'un soggetto, sano e maturo di mente, che commetta un fatto
criminoso ignorandone l'antigiuridicità è concepibile soltanto
quando si tratti di reati che, pur presentando un generico disvalore
sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali
ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore
sociale (es. violazione di alcune norme fiscali ecc.). E, in
relazione a queste categorie di reati, sono state opportunamente
prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente si
rappresenti la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e
quella in cui l'agente neppure si rappresenti tale possibilità.
Or qui occorre precisare che, mentre nella prima ipotesi,
esistendo, in concreto (ben più della possibilità di conoscenza
dell'illiceità del fatto) l'effettiva previsione di tale
possibilità, non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge
penale (essendo il soggetto obbligato a risolvere l'eventuale dubbio
attraverso l'esatta e completa conoscenza della (singola) legge
penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad
astenersi dall'azione (il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che
esclude la rimproverabilità sia dell'azione sia dell'astensione è
soltanto quello in cui, agendo o non agendo, s'incorre, ugualmente,
nella sanzione penale); la seconda ipotesi comporta, da parte del
giudice, un'attenta valutazione delle ragioni per le quali l'agente,
che ignora la legge penale, non s'è neppure prospettato un dubbio
sull'illiceità del fatto. Or se l'assenza di tale dubbio discende,
principalmente, dalla personale non colpevole carenza di
socializzazione dell'agente, l'ignoranza della legge penale va, di
regola, ritenuta inevitabile.
Inevitabile si palesa anche l'errore sul divieto nell'ipotesi in
cui, in relazione a reati sforniti di disvalore sociale è, per
l'agente, socializzato oppur no, oggettivamente imprevedibile
l'illiceità del fatto. Tuttavia, ove (a parte i casi di carente
socializzazione dell'agente) la mancata previsione dell'illiceità
del fatto derivi dalla violazione degli obblighi d'informazione
giuridica, che sono, come s'è avvertito, alla base d'ogni convivenza
civile deve ritenersi che l'agente versi in evitabile e, pertanto,
rimproverabile ignoranza della legge penale.
Come in evitabile, rimproverabile ignoranza della legge penale
versa chi, professionalmente inserito in un determinato campo
d'attività, non s'informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso
campo.
La casistica non può esser qui approfondita: basta aver indicato
che (alla luce del fondamento costituzionale della scusa
dell'inevitabile ignoranza della legge penale) allo scopo di
verificare, in concreto, tale inevitabilità, da un canto è
necessario (per garantire la certezza della libertà d'azione del
cittadino) far riferimento a criteri oggettivi c.d. "puri" e "misti"
e dall'altro canto è doveroso recuperare la spersonalizzazione,
causata dall'uso preponderante di tali criteri, con l'esame delle
particolari situazioni in cui eventualmente versi il singolo soggetto
agente. La giurisprudenza va, infine, rinviata, nell'interpretazione
ed applicazione del nuovo testo dell'art. 5 c.p. ai criteri generali
che, in tema di responsabilità a titolo di colpa e di buona fede
nelle contravvenzioni, la stessa giurisprudenza è andata via via
adottando.
Il nuovo testo dell'art. 5 c.p., derivante dalla parziale
incostituzionalità dello stesso articolo che qui si va a dichiarare,
risulta così formulato: "L'ignoranza della legge penale non scusa
tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile".
29. - Non resta che sottolineare che spetta al legislatore (oltre
all'eventuale emanazione di norme "di raccordo") stabilire se
l'ignoranza evitabile della legge penale meriti un'attenuazione di
pena, come per gli ordinamenti tedesco occidentale ed austriaco,
oppure se il sistema dell'ignoranza della legge penale debba restare
quello risultante a seguito della qui dichiarata parziale
illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p.
Ogni altra questione sollevata dalle ordinanze di rimessione
rimane assorbita dalla predetta illegittimità costituzionale;