Ritenuto in fatto:
1. - Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, adite con
ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione da Enzo Micone -
che aveva convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma
l'Amministrazione del Senato della Repubblica facendo valere pretese
connesse al precorso rapporto di lavoro alle dipendenze della medesima
Amministrazione, la quale aveva eccepito il difetto di giurisdizione -
hanno sollevato d'ufficio, con ordinanza in data 31 marzo 1977,
questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 del regolamento
del Senato della Repubblica approvato il 17 febbraio 1971, e comunque
della norma attributiva al Senato medesimo dell'autodichia nei
confronti del personale dipendente, in riferimento agli artt. 24, 113,
101, comma secondo, e 108, comma secondo, della Costituzione.
Premesso che la resistente Amministrazione aveva dedotto che, in
base al disposto di cui agli artt. 12 del citato regolamento e 13 del
decreto del Presidente del Senato 9 novembre 1972, n. 4643, la
definizione dei ricorsi proposti dal personale dipendente è devoluta
all'Ufficio di Presidenza, correlativamente negando la giurisdizione di
qualsiasi (altro) giudice, le Sezioni unite affermano anzitutto che
l'esistenza dell'invocata norma, oltre che dalla citata disposizione e
da quella parallela e pressoché coeva di cui all'art. 12 del
regolamento della Camera dei deputati approvato il 18 febbraio 1971, è
desumibile, per costante tradizione interpretativa ribadita dalle
Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 1933 del 1963) e condivisa
dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 66 del 1964), dalle
corrispondenti disposizioni regolamentari anteriormente vigenti e,
comunque, dal sistema delle leggi in tema di tutela giurisdizionale. Ed
in quanto limitativa della portata generale di tali disposizioni,
siccome escludente la giurisdizione del giudice comune (ordinario e
amministrativo), detta norma suscita in ogni caso seri dubbi circa la
sua compatibilità con taluni fondamentali precetti della Costituzione
in materia di tutela giurisdizionale, sia che si ritenga che essa neghi
qualsiasi giudice nell'ordinamento generale, affidando la risoluzione
delle controversie del tipo di quella in questione allo stesso organo
costituzionale nell'ambito dell'ordinamento particolare di propria
competenza, sia che si opini, invece - come sembra preferibile - che
essa istituisca nell'ordinamento generale un giudice speciale, con
competenza in causa propria.
2. - Sulla scorta di tali premesse, ritenuta evidente la rilevanza
della questione di legittimità costituzionale, essendo imprescindibile
l'applicazione della norma denunciata in sede di regolamento di
giurisdizione, le Sezioni unite danno diffuso conto delle ragioni per
le quali ritengono la questione ammissibile, prima che non
manifestamente infondata.
Si domandano, anzitutto, se i regolamenti parlamentari siano
riconducibili o assimilabili agli atti "aventi forza di legge" che, ex
art. 134 Cost., possono costituire oggetto del sindacato di
legittimità costituzionale. E, sulla scorta dell'opinione in dottrina
prevalente, ritengono di dover rispondere affermativamente, essendo ai
regolamenti parlamentari riservata dalla Costituzione (artt. 64 e 72)
la disciplina di date materie, talché essi "sono assimilabili alle
leggi formali, con le quali versano, per la succennata riserva, in
rapporto di distribuzione (costituzionale) di competenza normativa a
pari livello". Né - si aggiunge in ordinanza - a tale conclusione può
utilmente opporsi il dogma dell'insindacabilità degli interna
corporis, ripudiato dalla stessa Corte costituzionale con sentenza n. 9
del 1959, la quale anzi implicitamente riconosce, con l'escludere che i
regolamenti parlamentari assurgano al livello di parametri di
costituzionalità, che del sindacato di legittimità costituzionale
possano formare oggetto. Tanto più laddove, come nella specie, essi
regolino, in connessione con la disciplina dell'organizzazione interna,
i rapporti fra Camere e terzi.
Ove poi, come sembra si debba, la norma venisse tratta, in
conformità alla richiamata, costante tradizione interpretativa, dal
sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale
nel senso di una limitazione delle competenze generali del giudice
comune e della attribuzione di una giurisdizione speciale all'organo
costituzionale, evidentemente il problema neppure si porrebbe. Ed a tal
proposito - si aggiunge ancora in ordinanza - è appena il caso di
precisare che il richiamo alla costante tradizione interpretativa non
equivale ad affermare che la norma trovi la propria fonte in una
consuetudine costituzionale, che riguarda la ripartizione e il modo di
esercizio di attribuzioni costituzionali e non già di mere
"prerogative" o "guarentigie", secondo quanto ritenuto dalla Corte
costituzionale con la menzionata sentenza n. 66 del 1964. Inoltre,
perlomeno per quanto riguarda il comportamento degli organi
giurisdizionali, difetterebbe comunque il requisito dell'adeguamento
all'esercizio dell'attribuzione dell'organo costituzionale da parte di
altro organo costituzionale.
3. - Quanto al giudizio sulla non manifesta infondatezza, il
giudice a quo ritiene preliminarmente insostenibile la tesi, talora
avanzata in relazione al tenore degli artt. 26 e 29 del testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato, che l'autodichia sarebbe una
conseguenza non già di una norma, positivamente esistente o desumibile
dall'ordinamento, limitativa delle norme sulla tutela giurisdizionale,
bensì di una lacuna, nel campo specifico, della normativa che quella
tutela avrebbe dovuto in concreto garantire. E ciò in quanto, a parte
la considerazione che in tema di diritti soggettivi deve riconoscersi
la massima potenzialità applicativa ad ogni norma comunque attuativa
della tutela giurisdizionale alla luce dei principi posti dagli artt.
24 e 113 Cost., la stessa Corte costituzionale, nel fare riferimento a
prerogative degli organi costituzionali e, quindi, a positive garanzie
di indipendenza dei medesimi nei confronti del potere giurisdizionale,
ha evidentemente ritenuto che di positiva esclusione di tutela dovesse
trattarsi.
Tanto affermato, delle due possibili tesi sul contenuto specifico
della norma denunciata (esclusione di un giudice nell'ordinamento
generale ovvero istituzione di un giudice speciale costituito dalla
stessa Camera o da una sua articolazione), le Sezioni unite
privilegiano la seconda, la quale "sembra suscettiva di offendere
(soltanto) le garanzie di serietà ed effettività di tutela che, in
relazione agli artt. 24 e 113 Cost., sono sancite dagli artt. 101,
comma secondo, e 108, comma secondo, Cost. sotto il profilo della
indipendenza-terzietà o indipendenza-imparzialità del giudice, e di
nuovo e più direttamente, dall'art. 24 Cost. sotto il profilo della
difesa e del contraddittorio"; laddove la prima (che nega qualsiasi
giudice nell'ordinamento generale per le controversie in argomento)
lederebbe anche più gravemente gli artt. 24 e 113 Cost (l'art. 24,
comma primo, anche in relazione all'art. 3 Cost.) che assicurano a
tutti la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi
legittimi, i quali ultimi, nel principio che risulta da entrambi i
precetti costituzionali, devono intendersi con riferimento agli atti di
esercizio di qualsiasi pubblico potere.
Dopo aver prospettato, sulla base della tesi privilegiata, il
contrasto della norma anche con l'art. 102, comma secondo, Cost. per il
tempo successivo all'entrata in vigore della Costituzione (ma la
censura non viene poi proposta nella parte dispositiva dell'ordinanza)
il giudice a quo nega che elementi idonei ad attenuare il sospetto
delle prospettate censure di costituzionalità possano rinvenirsi nelle
modalità con le quali l'autodichia viene in concreto esercitata,
all'uopo richiamando il contenuto dell'art. 12 del regolamento del
Senato e delle disposizioni contenute nel regolamento interno del
personale approvato il 31 marzo 1948 e successive modificazioni. Ed
afferma che l'indagine relativa può essere comunque condotta in
relazione ad entrambi gli orientamenti sopra richiamati, tanto più se
si consideri che "l'area degli artt. 101 e 108 rientra in quella degli
artt. 24 e 113 Cost." e che "l'indipendenza-terzietà o
indipendenza-imparzialità è stata talvolta ritenuta requisito
talmente essenziale da incidere sull'esistenza stessa del giudice
(Corte cost., sentenza n. 110 del 1967)". Indagine che sarebbe
semplicistico ricondurre alle ovvie considerazioni:
a) che l'esclusione delle garanzie che rendono seria ed effettiva
la tutela giurisdizionale in ragione della qualità del soggetto contro
il quale certe pretese vengono fatte valere per atti al medesimo
imputabili è esattamente quanto gli artt. 24 e 113 mirano ad evitare;
b) che non ricorre il requisito della soggezione soltanto alla
legge in capo al giudice che decide in causa propria;
c) che il Senato decide appunto in causa propria quando giudica su
controversie promosse dai propri dipendenti, cioè su controversie
concernenti atti o rapporti propri. Né sembra che al Senato si
attaglino le considerazioni svolte dalle stesse Sezioni unite con
sentenza n. 2979 del 1975, allorché si affermò che il personale della
Presidenza della Repubblica dipende esclusivamente dal Segretario
generale; pur riconoscendosi, invero, che anche il Segretario generale
del Senato riveste la posizione di capo del personale, va tuttavia
considerato che, a norma dell'art. 19 del citato regolamento interno,
al Senato le nomine vengono fatte con decreto del Presidente previa
deliberazione del Consiglio di presidenza, altresì competente per le
promozioni degli impiegati di un certo livello, mentre le altre vengono
deliberate dal Consiglio direttivo dell'Amministrazione, presieduto dal
Presidente del Senato o, per sua delega, da un Vice presidente.
Il punto essenziale - continua l'ordinanza - sta invece
nell'accertare se la norma stessa non costituisca l'espressione o
l'implicazione necessaria di un principio racchiuso nella Costituzione;
nel qual caso ogni sospetto di illegittimità costituzionale verrebbe
evidentemente fugato. Prendendo le mosse dalla considerazione che
comunemente la giustificazione dell'autodichia viene ravvisata nelle
esigenze di indipendenza degli organi costituzionali, nella preminenza
del Parlamento e nel principio della divisione dei poteri, si osserva
che, a ben vedere, il problema si risolve in definitiva nello stabilire
"se e in qual senso e misura il detto principio possa ritenersi accolto
nella nostra Costituzione e se, come eventualmente accolto, esso
ricomprenda o implichi necessariamente la norma della cui dubbia
legittimità si tratta". Alla conclusione dubitativa sul primo punto e
senz'altro negativa sul secondo le Sezioni unite pervengono in esito ad
un'analisi storica dell'atteggiarsi del principio della divisione dei
poteri dall'epoca post-assolutistica, al secolo scorso, ai tempi più
recenti, nei quali la distinzione tra la serie di atti di esercizio del
potere da parte di ciascun organo ha assunto rilevanza anche sotto
l'aspetto formale, "collegandone strettamente forma procedimentale e
trattamento giuridico ad ulteriore garanzia ed in correlazione con la
sempre maggiormente avvertita esigenza di tutela giurisdizionale del
cittadino".
Da tali notazioni - osservano le Sezioni unite - è agevole dedurre
che già quando si addiviene ad una concezione del principio come
distribuzione di competenze, costituirebbe una forzatura postulare
l'indipendenza di ciascun organo anche per gli atti non rientranti
concettualmente e sostanzialmente nella sua funzione primaria. Mentre
addirittura in stridente contrasto con la finale evoluzione del
principio della divisione dei poteri sarebbe ritenere "che debbano
fruire del regime proprio della funzione primaria" (di ciascun organo)
"gli atti che di questa non hanno neppure la forma procedimentale".
La rigorosa applicazione del principio, invero, condurrebbe a
conseguenze cui non si pervenne neppure in epoca anteriore all'entrata
in vigore della Costituzione, non essendo mai stato esso inteso ed
applicato nel senso dell'impenetrabilità o indifferenza assoluta tra i
vari organi e le rispettive funzioni primarie, stante la consapevolezza
che "l'esigenza di assicurare la reciproca indipendenza è inscindibile
da quella di consentire l'equilibrio e il contemperamento sia fra gli
uni che fra le altre". Nell'attuale ordinamento costituzionale, poi,
dove la prevalenza di tale ultima esigenza è resa palese oltre che dal
concorso, in termini di cooperazione, di più organi costituzionali
alla funzione di indirizzo politico, anche dal controllo, sia pure a
livello costituzionale, sulle funzioni primarie di ciascun organo, non
v'è ragione di ritenere giustificabile l'esclusione del sindacato
giurisdizionale sull'esercizio delle funzioni accessorie. Tanto più se
si consideri che la tutela giurisdizionale ha assunto il rango di un
principio cardine non derogabile se non per ragioni puntualmente
giustificate (Corte cost., sent. n. 44 del 1968), al punto che
caratteri di garanzia giurisdizionale non possono disconoscersi allo
stesso sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi, pur
tenendo conto del livello costituzionale al quale esso opera.
La conclusione che le Sezioni unite ne traggono è che, quale che
sia il senso e la misura in cui il principio della divisione dei poteri
(ovvero quello dell'indipendenza degli organi costituzionali) può
ritenersi accolto nell'attuale assetto costituzionale, in ogni caso
"esso non sembra ricomprendere o implicare necessariamente l'esclusione
del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Camere non riconducibili
neppure formalmente alla loro funzione primaria". Meno ancora si
giustifica l'autodichia sulle controversie concernenti i rapporti di
impiego dei propri dipendenti, non sembrando affatto sostenibile che
gli atti dell'organo costituzionale inerenti a tali rapporti siano
riconducibili all'esercizio di un potere di autorganizzazione
incidente, in definitiva, sul modo intrinseco di essere dell'organo
medesimo, come invece accade quando l'organo dispone in ordine alla
propria struttura o ai propri uffici.
Né certamente possono trarsi argomenti in contrario dal giudizio
spettante a ciascuna Camera sui titoli di ammissione e sulle cause
sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità dei propri
componenti, e sul giudizio disciplinare nei confronti dei componenti
medesimi. Oltre all'evidente diversità di posizione dei componenti
rispetto ai dipendenti deve infatti osservarsi che, nel primo caso,
l'autodichia è espressamente riconosciuta dall'art. 66 Cost. e che,
nel secondo, il giudizio disciplinare - secondo quanto già affermato
dalle Sez. un. con sentenza n. 255 del 1976 - riveste caratteri
particolarissimi, costituendo momento di emersione della norma
deontologica la cui osservanza è garantita dagli stessi appartenenti
all'ordine o all'istituzione, mentre per il giudicabile rappresenta
addirittura una garanzia l'essere sottoposto al giudizio dei propri
pari. L'autodichia ha dunque, in tali casi, una sua autonoma
giustificazione, che non può essere estesa a situazioni diverse.
Maggior pregio - continua l'ordinanza - non potrebbe riconoscersi
neppure all'ulteriore argomento che al nostro diritto positivo non sono
estranei altri casi di autodichia in capo ad organi, ai quali la
Costituzione riconosce una particolare posizione di indipendenza,
attese le affermazioni contenute nella citata sentenza n. 44 del 1968
circa la necessità che, in ogni singolo caso, ricorrano puntuali
giustificazioni (quali, ad es. - si ipotizza in ordinanza - "la
competenza giurisdizionale generale dell'organo per date materie o
funzioni", ovvero "il concorso nell'organo di una particolare posizione
costituzionale e di prevalenti funzioni giurisdizionali").
Da tutto quanto esposto - conclude l'ordinanza - sembra doversi
ritenere che l'autodichia in questione non costituisce un attributo
compreso nella posizione propria dell'organo costituzionale o a tale
posizione immediatamente connessa, "ma solo un privilegio soggettivo,
il cui riconoscimento, a meno che sia ancorato a ragioni di prestigio
non rilevanti nell'attuale ambiente storico culturale", risponde nella
migliore delle ipotesi all'esigenza di rafforzare indirettamente
l'indipendenza dell'organo costituzionale nell'esercizio della sua
funzione primaria liberandolo dai condizionamenti esterni che fossero
in ipotesi ravvisabili nella possibilità del sindacato sui propri
atti, anche se non inerenti alla detta funzione primaria. Ma solo alla
Corte costituzionale spetterà di stabilire, ove dovesse ravvisare
"nell'autodichia uno strumento di attuazione del valore costituzionale
dell'indipendenza dell'organo", "se tale strumento sia illegittimo in
quanto leda un altro valore costituzionale da ritenere in ogni caso
preminente - quello della tutela giurisdizionale - ovvero in quanto,
non essendo strettamente indispensabile alla tutela di uno dei due
valori, induca, per eccesso a favore di questo, una rottura
dell'equilibrio delle rispettive tutele".
4. - Analoga questione di legittimità costituzionale le stesse
Sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno sollevato riguardo
alla corrispondente disposizione del regolamento della Camera dei
deputati. Adite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione con
ricorsi proposti nel corso di due procedimenti - rispettivamente
promossi da Luciano Russi innanzi al Pretore di Roma e da Franco
Muscariello innanzi al T.A.R. del Lazio - aventi ad oggetto
l'impugnazione dei provvedimenti con i quali era stato posto fine al
rapporto d'impiego intrattenuto con la Camera da due dipedenti, le
Sezioni unite, con due identiche ordinanze emesse il 10 luglio 1980,
hanno denunciato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali,
oltre che all'art. 108, comma primo, Cost., l'art. 12, n. 3, del
regolamento della Camera dei deputati e comunque della norma
attributiva alla stessa dell'autodichia sulle controversie di impiego
dei propri dipendenti.
Premesso che i ricorrenti avevano in entrambi gli originari
procedimenti sostenuto che il nostro sistema senz'altro ammette la
tutela giurisidizionale innanzi al giudice comune dei dipendenti della
Camera dei deputati, adombrando il contrasto con la Costituzione di
ogni diversa interpretazione e addirittura sollevando questione di
legittimità costituzionale della eventuale norma che l'autodichia
attribuisse, le Sezioni unite richiamano la precedente ordinanza
espressamente affermando che intendono riprenderne e ribadirne il
contenuto "salvo a tener conto, in quanto necessario, degli apporti
successivi della dottrina e ad estendere, nel senso che sarà appresso
indicato, la questione di incostituzionalità".
Gli argomenti ulteriori o diversi addotti con le due ordinanze del
1980 possono così sintetizzarsi.
In ordine all'esistenza della norma attributiva dell'autodichia e
dell'impossibilità di accedere ad un'interpretazione del sistema nel
senso di ritenere la tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni
senz'altro operante nei confronti dei dipendenti delle Camere, in
ordinanza si osserva che, a parte l'inequivoco tenore dell'art. 12, n.
3, del regolamento della Camera approvato il 18 febbraio 1971
("L'ufficio di presidenza... decide in via definitiva... etc."), è
evidentemente improbabile l'interpretazione prospettata da una parte
della dottrina, che ha ritenuto di poter attribuire all'espressione il
senso del riferimento ad una decisione amministrativa sottoposta a
ricorso giurisdizionale (attesa anche la quasi coeva soppressione, ad
opera della legge n. 1034 del 1971, della definitività dell'atto
amministrativo come requisito per la sperimentabilità del rimedio
giurisdizionale); ovvero quello dell'esplicito "abbandono" del
principio dell'autodichia mediante l'adozione di un'espressione diversa
da quella contenuta nell'art. 148 del regolamento precedentemente in
vigore (all'Ufficio di Presidenza "esclusivamente appartiene il
giudizio sugli eventuali ricorsi"), data anche l'assoluta carenza di
riscontri in tal senso nei regolamenti interni della Camera.
In ordine all'ammissibilità il giudice a quo preliminarmente
osserva che la soluzione del problema della sindacabilità da parte
della Corte costituzionale dei regolamenti parlamentari - problema che
ha formato oggetto di dibattito in dottrina dopo la prima ordinanza -
sebbene assolutamente pregiudiziale, non è tuttavia decisivo, giacché
la norma attributiva alle Camere dell'autodichia in materia di
controversie dei propri dipendenti "è desumibile (anche) dal sistema
delle disposizioni in tema di tutela giurisdizionale", anch'essa
denunciata. In ogni caso - continua l'ordinanza - benché spetti
ovviamente alla Corte costituzionale la decisione sull'ambito oggettivo
del proprio sindacato, sembra che la risposta debba essere affermativa.
Invero, alla tesi secondo la quale, ai fini di cui all'art. 134
Cost., la forza di legge andrebbe riconosciuta non già a tutti gli
atti assistiti dal requisito della primarietà, ma soltanto a quelli
"ammessi ad operare nello stesso spazio in cui è ammessa ad operare la
legge e con la medesima efficacia" (id est, oltre ai decreti legge e ai
decreti legislativi di cui agli artt. 78 e 79 Cost., a quelli previsti
dalle regioni ad autonomia speciale per l'emanazione delle relative
norme di attuazione, ai quali la Costituzione avrebbe inteso dare un
giudice che prima non avevano) con esclusione degli atti soggetti al
sindacato del giudice comune (quali i referendum ed i contratti
collettivi di cui all'art. 39 Cost.) e di quelli non soggetti ad alcun
sindacato giurisdizionale (salvo quello indiretto sui singoli atti
applicativi) in quanto espressione di autonomia costituzionale, quali
sarebbero appunto i regolamenti parlamentari, può contrapporsi la tesi
che fa capo ad una diversa nozione di "forza di legge". Quella, cioè,
secondo la quale, ormai, la forza formale della legge non risiede nella
sua efficacia sostanziale (innovatività e resistenza all'abrogazione),
non più omogenea neppure nell'ambito della stessa legge in relazione
all'esistenza di "leggi atipiche" e di "leggi rinforzate", bensì nella
"primarietà "; pertanto può parlarsi di "atti aventi forza di legge"
per tutti gli atti normativi operanti a livello primario - inclusi
dunque i regolamenti parlamentari - "intendendosi l'alternatività
rispetto alla legge non già nel senso della loro attitudine a
sostituire la legge formale nell'ambito di questa, bensì a sostituire
(o meglio a giustapporre) un ambito proprio a quello residuale della
legge formale".
Quale che sia il giudizio su tale teoria, non può comunque
disconoscersi la qualificante e soverchiante incidenza che
nell'ordinamento costituzionale delle fonti normative, caratterizzato
da una pluralità di fonti pariordinate, spiega il criterio della
competenza, ad assicurare il rispetto del quale, inteso come criterio
ordinatore della produzione normativa primaria è (anche) preordinato
il sindacato sulla legittimità costituzionale. E ciò sembra
sufficiente per ritenere soggetto a tale sindacato il regolamento
parlamentare, che ha un ambito normativo primario e riservato ex artt.
64 e 72 Cost., tanto più che è perfettamente configurabile sia una
riserva a favore del regolamento sia una riserva a favore della legge,
la violazione delle quali ad opera di ciascuna delle altre fonti
indubbiamente comporta la (sindacabile) violazione di precetti
costituzionali e, di riflesso, della complessiva regolamentazione
costituzionale nella quale il precetto si inquadra.
Né può validamente opporsi che il regolamento è espressione di
autonomia costituzionale, giacché ciò non toglie che si tratta di
autonomia normativa che opera come fonte di produzione primaria
costituzionalmente garantita, onde l'argomento varrebbe solo a
riconoscere la sindacabilità delle violazioni di tale garanzia, non
già per escludere quella che col regolamento si perpetri in danno di
altre garanzie poste dalla Costituzione a favore di diverse fonti di
produzione normativa primaria come, nella specie, la legge. Neppure
potrebbe sostenersi - concludono sul punto le Sezioni unite - che
l'assenza di sindacabilità costituzionale sarebbe, per il regolamento
parlamentare, bilanciata dall'assoggettamento dello stesso al sindacato
indiretto e incidentale (vale a dire sugli atti di osservanza) da parte
del giudice ordinario. Invero, a prescindere dalle riserve
sull'efficienza di siffatto sindacato, comunque limitato
all'accertamento dei requisiti di esistenza, "non si vede perché (se
non per le asserite ragioni riferibili all'intento dei conditores e
come tali non decisive) si dovrebbe ritenere sottratto al sindacato
dell'interprete più qualificato e sensibile dell'ordine costituzionale
l'atto normativo primario in argomento e d'altra parte assoggettata a
sindacato diretto, con effetto definitivamente caducatorio, soltanto la
legge ed i procedimenti strettamente alternativi ad essa".
In ordine alla non manifesta infondatezza, ribadite le conclusioni
cui erano precedentemente pervenute, le Sezioni unite civili della
Corte di Cassazione si preoccupano di esporre e contrastare le
obiezioni a quelle conclusioni "autorevolmente opposte" dalla dottrina.
Da ultimo, si domandano se la denuncia di incostituzionalità debba
operarsi anche in riferimento agli artt. 3, 24, 25, comma primo, 64 e
108, comma primo, della Costituzione. E rispondono affermativamente
solo in ordine all'ultimo parametro, osservando che l'invasione da
parte del regolamento di un campo oggetto di specifica riserva a favore
della legge posta da quel precetto costituzionale, integra una
violazione diretta oltre che del disposto dell'art. 108, comma primo,
Cost. anche, pur se solo di riflesso, della regolamentazione
complessiva del riparto della competenza normativa.
5. - Ad eccezione di Enzo Micone, che ha tardivamente depositato il
proprio atto di costituzione, in ogni giudizio si sono costituite
entrambe le parti ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri tramite l'Avvocatura generale dello Stato. In particolare, nel
giudizio promosso con la prima delle tre ordinanze, l'Avvocatura dello
Stato esclude anzitutto che i regolamenti parlamentari possano
costituire oggetto di sindacato di legittimità costituzionale da parte
della Corte, negandone il carattere di atti aventi forza di legge.
Fatto cenno all'argomento letterale consistente nel rilievo che la
formulazione dell'art. 134 Cost. ("leggi ed atti aventi forza di legge
dello Stato") è simile a quella degli artt. 75 e 87 Cost., ed è
tuttavia certo che i regolamenti parlamentari non sono soggetti ad
abrogazione per referendum ne sono promulgati dal Presidente della
Repubblica, nonché a quello - pur riconosciuto formalistico - che non
possono ricomprendersi tra gli "atti aventi forza di legge dello Stato"
perché sono atti di un organo e non dello Stato, l'Avvocatura sostiene
che una riprova dell'assenza nei regolamenti parlamentari della forza
di legge - intesa come attitudine ad abrogare una legge e come
resistenza all'abrogazione se non ad opera di una altra legge - può
storicamente trarsi dalle vicende dell'art. 18 del reg. generale della
Corte costituzionale, la cui natura giuridica è sicuramente analoga a
quella dei regolamenti parlamentari. La norma - si osserva - prevedeva
l'istituto della prorogatio per i Giudici costituzionali quando fu
emanata la legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, che all'art. 1
dettò una norma incompatibile, la quale dispose che alla scadenza del
termine il Giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio
delle funzioni. E dalla circostanza che la Corte costituzionale, con
deliberazione del 7 luglio 1969, espressamente dispose la soppressione
di detto art. 18 del reg. generale, si trae la conclusione che non si
ritenne che dalla sopravvenuta norma costituzionale potesse conseguire
effetto abrogativo della norma regolamentare (in virtù della sua
natura). Si nega, poi, che dalla sentenza n. 9 del 1959 della Corte
costituzionale possano trarsi le univoche conclusioni cui erano
pervenute le Sezioni unite, osservandosi come, invece,
dall'affermazione contenuta in quella sentenza che sull'interpretazione
della norma regolamentare "è da ritenersi decisivo l'apprezzamento
della Camera" era stato da taluno tratto il convincimento che la Corte
si sarebbe implicitamente pronunziata nel senso dell'insindacabilità
dei regolamenti parlamentari.
Vero è - continua l'Avvocatura - che la Corte costituzionale non
si è mai espressamente pronunciata sul punto, essendo stata, in altra
occasione nella quale era stata impugnata una norma di regolamento
parlamentare, la questione dichiarata inammissibile per difetto di
rilevanza (sentenza n. 148 del 1975). Tuttavia, da altre pronunce
possono trarsi argomenti per escludere la sindacabilità dei
regolamenti: così dalla sentenza n. 66 del 1964, che affermò la
competenza degli organi giurisdizionali dello Stato in materia di
impiego dei dipendenti dell'Assemblea regionale siciliana per la
ragione che ad essa non può attribuirsi la stessa posizione
costituzionale delle Camere, osservando altresì che al potere
regolamentare conferito all'Assemblea medesima dall'art. 4 dello
Statuto siciliano non può assegnarsi la stessa sfera di effetti
attribuita al potere regolamentare delle Camere ex art. 64 Cost.; dalla
sentenza n. 14 del 1965, che esclude che un regolamento di Consiglio
regionale avesse forza di legge; dalla sentenza n. 91 del 1968, con la
quale si precisò che "condizione dell'azione diretta a promuovere il
giudizio costituzionale è che oggetto della denuncia sia una legge
ovvero un decreto legislativo o un decreto legge"; dalle sentenze n.
183 del 1973 e n. 232 del 1975, con le quali la Corte, negando la
sindacabilità dei regolamenti comunitari, osservò che "l'art. 134
Cost. riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti
delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle
Regioni" e che "tali non sono i regolamenti comunitari". Da tale
analisi risulterebbe la insufficienza del solo elemento oggettivo e
sostanziale per ritenere ammissibile il sindacato di costituzionalità:
non basta - si afferma - che l'atto sia assimilabile come fonte di
diritto oggettivo, alla legge formale; deve sussistere anche il
requisito soggettivo e formale, deve cioè trattarsi di un atto dello
Stato o della Regione, e tale non è l'atto della Comunità o di un
singolo ramo del Parlamento.
In ogni caso - continua l'Avvocatura - se in ipotesi ammissibile,
la questione sarebbe infondata, essendo l'autodichia giustificabile in
funzione dell'esigenza di assicurare la autonomia e l'indipendenza
degli organi (Senato, Camera, Corte costituzionale, Corte dei Conti e
Consiglio di Stato) e degli ordini professionali (ai cui consigli
nazionali ed alle cui decisioni sarebbe ormai pacificamente
riconosciuta natura giurisdizionale) cui è attribuita. Autonomia ed
indipendenza "che, per quanto riguarda Corte dei Conti e Consiglio di
Stato, sono costituzionalmente garantite dall'art. 100 Cost." e che,
per "il Parlamento e la Corte costituzionale, assumono il carattere
della sovranità, della quale è peculiare manifestazione il potere
regolamentare attribuito alle Camere dall'art. 64 Cost. ed alla Corte
dagli artt. 137 Cost. e 14, legge n. 87 del 1953". Del resto, la stessa
ragione giustificatrice sarebbe stata indicata dalla Corte con la
citata sentenza n. 66 del 1964 e con la successiva sentenza n. 110 del
1970, con la quale si precisò che le attribuzioni di autonomia delle
Camere si svolgono a livello di sovranità. L'Avvocatura contesta,
inoltre, che la preoccupazione di evitare che una sentenza sfavorevole
possa nuocere al prestigio dell'organo sia irrilevante, in proposito
osservando che con sentenza n. 15 del 1969 la Corte costituzionale
affermò che la propria posizione di assoluta indipendenza deve essere
assicurata "anche nelle forme esteriori". Nega, infine, che gli atti
che riguardano le situazioni dei dipendenti - al contrario di quelli
incidenti sulla posizione dei componenti - siano estranei al potere di
organizzazione, il quale si estende invece a tutto quanto attiene alla
preparazione dell'attività ed all'esercizio delle funzioni dell'organo
e, quindi, anche alla scelta ed alla predisposizione degli strumenti
necessari. D'altro canto basta pensare ai poteri cautelari e di
annullamento del giudice amministrativo e a quelli cautelari e di
reintegrazione del giudice ordinario (artt. 700 c.p.c. e 28 dello
Statuto dei lavoratori) per comprendere come le pronunce di un giudice
esterno potrebbero, se non paralizzare, turbare profondamente la
funzionalità dell'organo parlamentare.
6. - Negli atti di costituzione e di intervento depositati negli
altri due giudizi, l'Avvocatura ribadisce le proprie conclusioni in
ordine all'inammissibilità e, in subordine, alla infondatezza delle
sollevate questioni, sviluppando le argomentazioni già svolte e
adducendone di nuove. Premesso che la sovranità costituisce attributo
che le Camere ripetono dalla Costituzione e che la riserva
costituzionale in favore della fonte regolamentare mira ad escludere i
controlli cui soggiace la legge (tra i quali quelli del Presidente
della Repubblica e del referendum abrogativo) in funzione dell'assoluta
indipendenza dell'organo parlamentare nel momento della strutturazione
del proprio ordinamento, l'Avvocatura osserva che, evidentemente, il
limite all'estensione di poteri diversi va rinvenuto in regole o
principi di rango costituzionale (una volta che si escluda che esso
direttamente discenda dalla norma regolamentare). Ma, in tale ottica,
la norma attributiva dell'autodichia che il giudice a quo - al di là
dell'esplicita previsione della disposizione del regolamento - indica
come evincibile dal sistema delle norme in materia di tutela
giurisdizionale, in quanto di livello costituzionale, renderebbe ogni
questione superata in radice.
Inoltre - continua l'Avvocatura - la Corte costituzionale, dopo
aver fatto riferimento all'"assoluta indipendenza" dell'organo
parlamentare (sentenza n. 143 del 1968), ha in particolare precisato
che detta autonomia se si esprime anzitutto sul piano normativo non si
esaurisce tuttavia nella normazione, ma "comprende il momento
applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la
concreta attuazione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza"
(sentenza n. 129 del 1981). Insomma, "situazioni e rapporti che
nell'ambito del sistema proprio dell'organo costituzionale trovano
configurazione, presupposti di esistenza e rilievo (non riferibili
all'ordine legislativo operante, per analoghe materie, in altro
ambito), nello stesso sistema debbono trovare il loro modo e momento di
definizione, ché, altrimenti, l'autonomia dell'organo ne risulterebbe
dimezzata".
D'altro canto, così come la Camera gestisce il proprio bilancio in
piena indipendenza da altri organi statali (sentenza n. 129 del 1981)
ed in modo autonomo fissa la struttura e l'organizzazione dei propri
uffici (in tal modo sottraendosi all'ambito precettivo dell'art. 97
Cost., che pone una riserva di legge), in modo altrettanto autonomo
regola, in tutti gli aspetti sostanziali e procedimentali, il rapporto
d'impiego con i dipendenti, senza che ciò costituisca invasione del
diverso e separato campo riservato alla legge dall'art. 108 Cost. (che
ha riguardo al sistema magistratuale dell'ordinamento generale e non
all'esplicazione dell'autonomia dell'organo costituzionale).
Né viene in discussione l'art. 113 Cost., che riguarda solo gli
atti della pubblica amministrazione, e rispetto al quale comunque
possono svolgersi le stesse considerazioni che si attagliano all'art.
97 Cost., che pone una riserva di legge concernente specificamente gli
uffici della "pubblica amministrazione (cfr. sez. II del titolo III,
Cost)".
Si nega, altresì, ogni violazione dell'art. 24 Cost.,
affermandosi, da un canto, che nell'ambito dell'ordinamento interno
delle Camere i dipendenti possono esperire un'istanza di giustizia
libera da condizionamenti di sorta e, dall'altro, che la Corte
costituzionale, con la menzionata sentenza n. 110 del 1970, ha ammesso
deroghe alla giurisdizione "nei confronti di organi immediatamente
partecipi del potere sovrano dello Stato e perciò situati ai vertici
dell'ordinamento in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca
parità ". Si osserva, in particolare, che l'Ufficio di Presidenza
della Camera dei deputati, cui viene devoluta la definizione delle
controversie in questione, è organo di vertice di creazione non
regolamentare ma costituzionale (art. 63 Cost.), estraneo a funzioni di
amministrazione del personale dipendente e composto da deputati al
parlamento, la cui posizione istituzionale esclude la configurabilità
di un interesse diretto, giuridicamente rilevante, da parte dei
medesimi.
In conclusione, l'autodichia costituirebbe uno strumento di
attuazione dell'indipendenza di un organo superiorem non recognoscens,
le cui attribuzioni si svolgono a livello di sovranità, e troverebbe
la sua puntuale giustificazione nell'esigenza sostanziale di
salvaguardare l'autonomia delle Camere anche nel momento
dell'organizzazione e della gestione dell'apparato necessario allo
svolgimento della loro funzione primaria.
7. - A conclusioni opposte perviene, nelle deduzioni di
costituzione, la difesa di Luciano Russi, che pone preliminarmente in
rilievo come entrambe le concezioni che si sono contrapposte alla
prevalente opinione affermativa circa la sindacabilità dei regolamenti
parlamentari da parte della Corte costituzionale appaiono
insoddisfacenti: la prima - secondo la quale i regolamenti
parlamentari, pur essendo fonti di carattere primario, non avrebbero
tuttavia forza di legge e sarebbero espressione della particolare
posizione che il nostro ordinamento riconosce alle Assemblee
Parlamentari - in quanto finisce con l'escludere il sindacato della
Corte su una eccessivamente ampia categoria di atti normativi primari
sol perché operano in un campo di competenza riservata; la seconda -
che ritiene il regolamento parlamentare atto fonte bensì differenziato
dal punto di vista formale, ma sostanzialmente subordinato alla legge e
privo della forza formale di legge - poiché, dopo talune esatte
premesse, del tutto immotivatamente esclude che i regolamenti si
pongano in posizione primaria allorché sia esplicitamente prevista una
riserva di competenza a loro favore. Invero, se si afferma che esiste
un'area nella quale è stabilita una competenza normativa riservata del
regolamento, non può poi disconoscersene, per lo meno in tale ambito,
il carattere primario e, quindi, la sindacabilità da parte della Corte
costituzionale. Se dal sindacato della Corte dovessero escludersi gli
atti normativi a competenza costituzionalmente riservata dovrebbe
infatti ridiscutersi tutta la giurisprudenza - ormai pacificamente
accettata - che lo riconosce in ordine ai decreti di attuazione degli
Statuti speciali, ai decreti di amnistia e di indulto, alle norme di
esecuzione dei Patti lateranensi, agli statuti regionali ordinari, alle
leggi "rinforzate" di cui agli artt. 132 e 133 Cost..
La verità, continua la difesa del Russi, è che la
giustapposizione tra primarietà e forza di legge va ricollegata al
problema specifico per la cui risoluzione era stata avanzata: quello
dei regolamenti delegati, dei quali si afferma la primarietà, ma non
la forza di legge. Ma si tratta di problema affatto diverso, giacché
la primarietà di tali regolamenti sussiste fin quando nelle materie da
essi disciplinate non intervenga la legge, laddove la primarietà dei
regolamenti parlamentari vale specificamente nei confronti della legge
e trova nella Costituzione la propria fonte legittimante: in
particolare, oltre che nell'art. 72, nell'art. 64 Cost..
Tutto ciò dovrebbe essere sufficiente - ad avviso della difesa del
Russi - a respingere la tesi che vede nel regolamento parlamentare una
fonte subordinata alla legge, anche se la negazione della riserva di
competenza a favore del regolamento parlamentare (per quanto concerne
l'area di cui all'art. 64 Cost., essendo l'art. 72 Cost. esplicito in
proposito) potrebbe non essere sufficiente per affermarne la natura
secondaria. L'art. 64 Cost. potrebbe essere infatti interpretato "come
norma attributiva di una competenza primaria alle singole Camere, non
riservata, ma concorrente con la legge per ciò che attiene alla loro
organizzazione interna, laddove il successivo art. 72 riserverebbe al
regolamento parlamentare la disciplina di determinate materie anche nei
confronti della legge ordinaria". Anche per tale via, dunque, si
giungerebbe a qualificare i regolamenti parlamentari come dotati di
forza di legge ed a ritenerli conseguentemente soggetti al sindacato di
costituzionalità della Corte, anche in funzione dell'esigenza propria
del nostro sistema costituzionale di non sottrarre al controllo
giurisdizionale neppure le supreme manifestazioni del potere statuale.
Nel merito, si prospetta un triplice ordine di argomentazioni a
sostegno della possibilità che l'art. 12 del regolamento Camera venga
interpretato dalla Corte - che potrebbe conseguentemente adottare una
pronuncia interpretativa di rigetto - secundum constitutionem nel senso
che esso prevede un rimedio amministrativo interno, di per sé non
esclusivo degli ordinari rimedi giurisdizionali. Lo consentirebbero: a)
il dato letterale della disposizione che, rimettendo all'Ufficio di
Presidenza la decisione in via definitiva dei ricorsi dei dipendenti,
adotta un'espressione che non può non essere posta in relazione col
fatto che, sino al dicembre del 1971, la definitività costituiva
presupposto necessario per l'impugnativa innanzi all'Autorità
giurisdizionale dei provvedimenti dell'Amministrazione; b) gli stessi
lavori preparatori della legge n. 1034 del 1971, dai quali non emerge
con chiarezza la volontà di sopprimere la regola della definitività,
tanto che parte della dottrina sostenne che la soppressione riguardava
soltanto gli atti specificamente indicati dall'art. 20; c) la non
esistenza - a parte la tradizione cui si riferisce l'ordinanza di
rinvio - di elementi testuali da cui dedurre l'esclusione della tutela
giurisdizionale ordinaria per i dipendenti degli organi parlamentari.
Sulla scorta di tali considerazioni la difesa del Russi conclude,
in via principale, per la declaratoria di infondatezza della questione
in quanto il ricorso previsto dall'art. 12 reg. Camera va configurato
come rimedio amministrativo contro il quale è ammessa la comune tutela
giurisdizionale e, in via subordinata, per la declaratoria
dell'illegittimità costituzionale della norma denunciata.
8. - Il Senato della Repubblica ha depositato due pareri pro
veritate di altrettanti studiosi del diritto costituzionale nei quali
si sostiene l'inammissibilità e l'infondatezza della questione di
legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite della Corte
di Cassazione con l'ordinanza del 31 marzo 1977.
9. - Franco Muscariello non ha presentato deduzioni.
Nel giudizio promosso con la prima delle tre ordinanze delle
Sezioni unite ha ritenuto di intervenire, pur non essendo parte nel
giudizio a quo, Autilia Santaniello, dipendente della Camera dei
deputati.
10. - Alla pubblica udienza del 15 gennaio 1985 le parti hanno
ribadito le tesi già svolte insistendo per l'accoglimento delle
rispettive conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - La questione sottoposta al vaglio di questa Corte nasce da tre
ordinanze, emesse dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione
- l'una il 31 marzo 1977 (r.o. n. 408/1977), le altre due il 10 luglio
1980 (r.o. nn. 315 e 316/1981) - nel corso di giudizi per regolamento
preventivo di giurisdizione, che erano stati promossi, il primo davanti
al Tribunale di Roma, sezione lavoro, il secondo davanti al Pretore di
Roma quale giudice del lavoro, il terzo davanti al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio. Con tali ordinanze, le Sezioni
unite della Corte di Cassazione hanno denunciato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 12.1 del regolamento del Senato della
Repubblica, dell'art. 12.3 del regolamento della Camera dei Deputati "e
comunque della norma attributiva dell'autodichia" ad entrambi i
predetti organi parlamentari, per contrasto con gli artt. 24, 113, 101,
secondo comma, e 108, primo e secondo comma, Cost.. Risultando
identiche le norme impugnate, identici i parametri costituzionali
invocati, e pertanto identica la questione sollevata, le tre cause
vanno riunite e decise con unica pronuncia.
2. - Tanto il Senato della Repubblica, quanto la Camera dei
Deputati, si erano costituiti in giudizio, eccependo il difetto di
giurisdizione dei giudici aditi. A tale eccezione conseguivano i
ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, sia di alcuni
interessati, sia delle Camere. E le Sezioni unite, ritenuto di dover
dubitare della legittimità costituzionale delle norme più sopra
indicate, in quanto non assicurerebbero ai dipendenti di entrambi i
rami del Parlamento la tutela dei loro diritti e interessi legittimi
"dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa", come
prescritto in linea generale nell'art. 113 Cost., hanno sollevato
d'ufficio la questione in esame, rimettendo gli atti a questa Corte,
dinanzi alla quale si sono costituiti, per Camera e Senato l'Avvocatura
dello Stato, tramite la quale ha compiuto atto d'intervento il
Presidente del Consiglio dei ministri, l'avvocato Franco Gaetano Scoca,
e (ma tardivamente) l'avvocato Stefano Riccio. Tutte le parti che si
erano tempestivamente costituite hanno depositato memorie ed alla
pubblica udienza l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti e gli avvocati
Franco Gaetano Scoca e Federico Sorrentino hanno ulteriormente ribadito
e più ampiamente illustrato le deduzioni già esposte negli scritti.
3. - La motivazione su cui viene poggiata la denunciata
illegittimità costituzionale richiede, stante la sua complessità, che
ne venga ripercorso l'iter argomentativo, e nella sua interezza, sia
pure summatim, e nello stesso ordine espositivo seguito dalle
ordinanze.
3.1. - Esse esordiscono con le affermazioni: che "la norma
invocata" dalla difesa delle Camere - quella, cioè, attributiva
dell'autodichia a queste - "in realtà, esiste"; che essa è
desumibile, già dai regolamenti parlamentari in vigore (art. 12), ma
anche dalle disposizioni regolamentari previgenti; che "è comunque
desunta, per costante tradizione interpretativa... dal sistema delle
disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale come
limitazione posta alla portata generale di tali disposizioni - nel
senso dell'esclusione di qualsiasi giudice o dell'introduzione di un
giudice speciale - a garanzia delle Camere in riferimento alla
posizione di queste". Premesso, poi, che "dall'applicazione della norma
non può prescindersi ai fini del regolamento di giurisdizione... il
cui oggetto è stabilire se vi sia un giudice e, quale esso sia" e che
dei due orientamenti interpretativi "è da preferire" quello che
"accorda un giudice, anche se questo non sembra avere i requisiti
voluti dalla Costituzione", si legge nelle ordinanze che "la norma fa
nascere dubbi circa la sua compatibilità con fondamentali precetti
della Costituzione relativi alla tutela giurisdizionale". Viene
successivamente affrontato il problema "se una norma quale quella
suindicata... sia riconducibile e assimilabile agli atti aventi forza
di legge, cui si riferisce l'art. 134 Cost."; ed il problema è risolto
affermativamente per una triplice considerazione: in tal senso sarebbe
la dottrina prevalente; l'assimilabilità sarebbe ancor più evidente
per la parte in cui "i regolamenti parlamentari... regolino rapporti
fra Camere e terzi"; nessun dubbio sussisterebbe sulla loro
sindacabilità, "se la norma più correttamente, ed in conformità con
la costante tradizione interpretativa richiamata all'inizio sia tratta
dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela
giurisdizionale nel senso... della attribuzione di una giurisdizione
speciale dell'organo costituzionale". Ed al riguardo si precisa che
l'insistito "richiamo alla costante tradizione interpretativa non
importa ritenere che la norma trovi la sua fonte in una consuetudine
costituzionale", di cui difetterebbero i requisiti.
3.2. - Alla luce poi degli artt. 24 e 113 Cost. - argomentano
ulteriormente le ordinanze - non sarebbe sostenibile che "non di
limitatezza delle cennate norme si tratti, bensì di una mera lacuna
della normazione attuativa di esse, con la conseguenza che la tutela
giurisdizionale non sarebbe positivamente esclusa, ma solo, allo stato,
in concreto non realizzabile per mancanza di adeguata strumentazione".
"Va altresì ribadito" - prosegue il giudice a quo - "che delle due
interpretazioni dianzi indicate come sostenibili, è preferibile la
seconda" (quella che accorda un giudice) alla prima (che nega ogni
giudice), giacché questa "sembra suscettiva di offendere anche più
gravemente gli artt. 24 e 113 Cost.", mentre quella "sembra suscettiva
di offendere (soltanto) le garanzie di serietà ed effettività di
tutela" sotto i profili dell'indipendenza-terzietà,
dell'indipendenza-imparzialità" e della difesa e del contraddittorio",
soggiungendosi che il "modo in cui l'autodichia viene attualmente in
concreto strumentata ed esercitata" - cioè, mediante il Consiglio di
Presidenza, che esercita anche la potestà regolamentare ed
amministrativa - non vale ad "attenuare" le sospette lesioni. E non
potendosi l'indagine esaurire - così ancora il giudice a quo - nelle
ovvie considerazioni: "che l'esclusione della tutela giurisdizionale...
è proprio quanto gli artt. 24 e 113 sono diretti ad evitare"; che "non
è soggetto soltanto alla legge il giudice che decide in causa
propria"; "che il Senato decide in causa propria", allora "il punto
essenziale è se la norma in argomento non trovi una giustificazione...
nell'indipendenza degli organi costituzionali", cioè nel "principio
così detto della divisione dei poteri", ovvero se gli atti di
autodichia siano "riconducibili all'esercizio di un potere di
autoorganizzazione incidente, in definitiva, sul modo intrinseco di
essere dell'organo costituzionale". Ad entrambi i quesiti viene data
risposta negativa. Ammesso pure - si dice nelle ordinanze che il
principio della divisione dei poteri sia accolto nella nostra
Costituzione, "rappresenta una forzatura postulare l'assoluta
indipendenza di ciascun organo anche per gli atti non rientranti
concettualmente e sostanzialmente nella sua funzione primaria".
"Nell'attuale ordinamento costituzionale" si sarebbe imposta l'esigenza
"di reciproco controllo proprio per quel che concerne le funzioni
primarie" - come appunto nella funzione di indirizzo politico -,
sicché "non vi è ragione di ritenere che l'assetto medesimo importi
l'esclusione del sindacato giurisdizionale sull'esercizio delle
funzioni accessorie", tanto più che, maggiormente che per il passato,
"la tutela giurisdizionale (è) considerata ormai quale principio
cardine", le cui eccezioni "vanno puntualmente giustificate". E deve
da ultimo "negarsi che qui venga in considerazione un potere di
autoorganizzazione", essendo certo che un'istituzione "non esercita
tale potere quando dispone delle situazioni dei propri dipendenti,
cioè di soggetti il cui destino non può toccare direttamente il modo
di essere intrinseco dell'istituzione medesima".
3.3. - Ne consegue - concludono le ordinanze - che, poiché
"l'autodichia in argomento non costituisce un attributo compreso nella
posizione propria dell'organo costituzionale o da tale posizione
immediatamente e necessariamente implicata, ma solo un privilegio
soggettivo", non è manifestamente infondata la questione della sua
legittimità costituzionale.
4. - La particolare elaboratezza della prospettazione testé
riassunta consiglia di fissare preliminarmente quei punti che sembrano
maggiormente giovare all'essenzialità e chiarezza del successivo
discorso.
4.1. - Per espresso dettato dell'art. 12.1 del vigente regolamento
del Senato della Repubblica, "il consiglio di presidenza, presieduto
dal Presidente del Senato... adotta i provvedimenti relativi al
personale... nei casi... previsti" dai regolamenti interni;
analogamente, per espresso dettato dell'art. 12.3 del vigente
regolamento della Camera dei Deputati, "l'ufficio di presidenza...
decide in via definitiva i ricorsi che attengono allo stato e alla
carriera giuridica ed economica dei dipendenti della Camera".
Le sopra trascritte disposizioni hanno dato motivo a contrasti
interpretativi, peraltro non del tutto privi di fondamento - specie con
riguardo alla formulazione del regolamento del Senato, troppo scarna, e
perciò scarsamente significante nella sua genericità -, opinandosi
addirittura - con riguardo, questa volta, al regolamento della Camera -
che la formulazione di questo sul punto, in quanto mutata rispetto al
regolamento anteriore, avrebbe comportato la caducazione del principio
dell'autodichia, nel senso conseguentemente che ormai i ricorsi dei
dipendenti dovrebbero ritenersi definiti con decisione amministrativa
impugnabile in sede giurisdizionale. Senonché, con le ordinanze in
esame, le Sezioni unite della Cassazione, dopo avere dichiarato
esplicitamente, come già detto, che, "ai fini del regolamento di
giurisdizione.. oggetto è stabilire se vi sia un giudice e quale esso
sia", ed implicitamente che la formulazione del regolamento del Senato
vale quella del regolamento della Camera, osservano che la norma
attributiva dell'autodichia - e perciò le due disposizioni
regolamentari in parola - può ritenersi che "esclude la giurisdizione
del giudice comune", sia "in quanto nega qualsiasi giudice
nell'ordinamento generale ed affida la risoluzione delle controversie
ad una decisione adottata dall'organo costituzionale... e destinato ad
operare unicamente all'interno dell'ordinamento particolare", sia "in
quanto istituisce nell'ordinamento generale un giudice speciale -
l'organo costituzionale appunto, in una sua articolazione - con
competenza in causa propria". E poiché nelle ordinanze si afferma
apertamente che "è da preferire,", e si riafferma che "è
preferibile", per le considerazioni riportate nel paragrafo 3.2.,
l'orientamento interpretativo, secondo cui le controversie in tema di
rapporto d'impiego dei dipendenti delle Camere sono decise da queste,
sembra non dubitabile che, così esprimendosi, il giudice a quo ha
inteso riconoscere in sostanza nei due menzionati articoli i portatori
del principio dell'autodichia e, quindi, l'esistenza nel nostro
ordinamento dell'autodichia, sia della Camera dei Deputati, sia del
Senato della Repubblica.
4.2. - In tutte le tre ordinanze vengono impugnati, specificamente
gli artt. 12, in parte de qua, dei regolamenti parlamentari in vigore,
e genericamente "la norma attributiva dell'autodichia" ad entrambe le
Camere. Stante la duplicità della denuncia, si rende necessario
comprendere in quale rapporto l'una impugnativa si pone nei confronti
dell'altra.
Sembra doversi escludere che il giudice a quo abbia inteso
riferirsi ad un unico dato normativo, giacché allora gli articoli dei
regolamenti sarebbero meramente ricognitivi ed esplicativi di quella
norma inespressa, da cui in effetti avrebbe tratto origine in passato e
su cui troverebbe ancor oggi fondamento la giurisdizione domestica
delle Camere; ciò equivarrebbe a ravvisare l'unica e vera fonte e
l'unico e vero sostegno dell'autodichia nella norma inespressa, che le
disposizioni dei due articoli si sarebbero limitate a recepire.
L'ipotesi è inaccoglibile: basterebbe in proposito considerare anche
solo che nelle ordinanze il quesito assolutamente pregiudiziale è
quello relativo alla sindacabilità, da parte di questa Corte, dei
regolamenti parlamentari, e che tale quesito risulterebbe proposto
inutiliter - anzi, non avrebbe addirittura senso -, ove le Sezioni
unite ritenessero che il rapporto fra le norme espresse e la norma
inespressa sia quello testé ipotizzato. Ma se, viceversa, si pone
mente che in ognuna delle tre ordinanze risultano impugnati
principaliter i più volte menzionati artt. 12 dei regolamenti
parlamentari, e solo successivamente "la norma attributiva
dell'autodichia", appare verosimile la congettura che l'impugnativa
della norma inespressa sia stata proposta in via meramente subordinata
e prudenziale.
Se la ricostruzione del pensiero del giudice a quo sul punto è
esatta, ne deriva che, a parte la questione della proponibilità della
denuncia di una norma inespressa, sarebbe ultroneo ogni discorso
intorno a quest'ultima, in quanto ai fini del decidere è necessario e
sufficiente fare oggetto del presente giudizio solo gli artt. 12.1 del
regolamento del Senato e 12.3 del regolamento della Camera.
4.3. - È appena il caso di avvertire che i regolamenti di che
trattasi sono esclusivamente quelli previsti dall'art. 64, primo comma,
Cost., cioè quelli adottati direttamente dall'assemblea di ognuna
delle due Camere "a maggioranza assoluta dei suoi componenti". Se,
infatti, si dubita che qualsiasi giudice - sia pure il giudice delle
leggi - abbia il potere di sindacare i suddescritti regolamenti, non si
dubita, viceversa, che a sensi dell'art. 134 Cost. è precluso a questa
Corte di prendere in esame atti normativi di una singola Camera diversi
da quelli di cui sopra. E nella specie i regolamenti oggetto di questo
giudizio sono precisamente quelli adottati dal Senato della Repubblica
il 17 febbraio 1971 e dalla Camera dei Deputati il giorno successivo ed
entrambi pubblicati nella "Gazzetta Ufficiale della Repubblica
italiana".
4.4. - Il giudice a quo si chiede: a) "se la norma in argomento non
trovi una giustificazione... nell'indipendenza degli organi
costituzionali", cioè nel principio così detto della divisione dei
poteri, ovvero nel principio che riconosce ad ogni Camera il potere di
autoorganizzazione; b) se l'istituzione dell'"organo costituzionale
quale giudice in causa propria" non offenda "le garanzie di serietà ed
effettività di tutela che, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost.,
sono sancite dagli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma,
della Costituzione sotto il profilo dell'indipendenza- terzietà e
indipendenza-imparzialità del giudizio, e di nuovo e più
direttamente, dall'art. 24 della Costituzione sotto il profilo della
difesa e del contraddittorio". Sollevando il primo interrogativo, egli
sospetta che la giurisdizione domestica delle Camere - e la correlativa
esclusione di un qualsivoglia giudice non possa ritenersi ancor oggi
costituzionalmente legittima, ove non si rinvenga una giustificazione
nel sistema instaurato dalla Costituzione repubblicana. Sollevando il
secondo interrogativo, che concerne più propriamente "il modo in cui
l'autodichia viene attualmente in concreto strumentata ed esercitata",
egli sospetta che non ricorrano e concorrano le garanzie che rendano
costituzionalmente legittimo l'esercizio della funzione
giurisdizionale.
I due punti appaiono di per sé meritevoli della più attenta
considerazione. Le Sezioni unite della Cassazione, pur riconoscendo
all'autodichia radici storiche e, a quanto pare, anche logiche, pensano
tuttavia che il nuovo sistema costituzionale ne abbia operato la
delegittimazione. Ed in quanto al dubbio sulla compatibilità
dell'autodichia delle Camere con i principi costituzionali in tema di
giurisdizione, non può non convenirsi col giudice a quo, anche sulla
base di principi contenuti in convenzioni internazionali, che
indipendenza ed imparzialità dell'organo che decide, garanzia di
difesa, tempo ragionevole, in quanto coessenziali al concetto stesso di
una effettiva tutela, sono indefettibili nella definizione di qualsiasi
controversia. Senonché, il dubbio sulla sindacabilità, da parte di
questa Corte, ai sensi ed ai fini dell'art. 134, primo alinea, Cost.,
dei regolamenti parlamentari contenenti gli impugnati artt. 12.1 e 12.3
è in ordine logico pregiudiziale rispetto ai due interrogativi di cui
sopra, e perciò va esaminato per primo.
5. - Il problema dell'assoggettabilità al giudizio di questa Corte
dei regolamenti parlamentari adottati a sensi dell'art. 64, primo
comma, Cost., è il problema dell'ammissibilità della questione.
Secondo il giudice a quo, tali regolamenti sono fonti del diritto
oggettivo assimilabili alle leggi ordinarie. Ed invero, la riserva del
potere di organizzazione delle Camere e di integrazione della
disciplina del procedimento legislativo, in quanto istituisce fra gli
uni e le altre un rapporto di distribuzione di competenza normativa, se
non comporta la costituzionalizzazione dei regolamenti in parola e la
loro parametricità, comporterebbe certamente la loro collocazione allo
stesso livello delle leggi ordinarie, specie per la parte in cui
vengono regolati i rapporti con terzi e, più ancora, se si ritiene che
la norma inespressa si lascia desumere dal sistema delle disposizioni
di legge in tema di tutela giurisdizionale. Né varrebbe in contrario
invocare il dogma dell'insindacabilità degli interna corporis degli
organi costituzionali, che questa Corte ha già ripudiato con l'ormai
remota sentenza del 1959, n. 9.
Di opposto avviso è, viceversa, l'Avvocatura dello Stato, la quale
contesta l'assimilabilità di cui sopra: i regolamenti parlamentari non
sarebbero atti dello Stato, bensì di organo, cioè di un singolo ramo
del Parlamento, e si sottraggono, sia alla promulgazione del Presidente
della Repubblica, sia all'abrogazione per referendum, sicché non
possono farsi rientrare fra gli atti di cui all'art. 134 Cost.; essi
sarebbero privi, tanto della potenzialità attiva (abrogatrice) nei
confronti delle leggi anteriori, quanto della potenzialità passiva (di
resistenza) nei confronti delle leggi posteriori, sicché non avrebbero
forza di legge; l'interpretazione della sentenza n. 9 del 1959 sarebbe
tutt'altro che univoca ed, anzi, sarebbero reperibili altre sentenze
(55/1964, 14/1965, 183/1973 e 232/1975), dalle quali "possono desumersi
e sono stati desunti indirettamente altri argomenti per escludere
quella sindacabilità".
5.1. - È opinione di questa Corte che i richiami alla
giurisprudenza costituzionale non danno un apporto risolutivo allo
scioglimento del nodo in parola. Ed invero, le sentenze che vengono
invocate dall'Avvocatura dello Stato e dalle parti, quando non sono
inconferenti, appaiono prestarsi solo a congetture, piuttosto forzate
e, comunque, controvertibili e controverse, le quali talvolta risultano
dedotte da qualche evidente obiter dictum. E quanto alle considerazioni
di ordine concettuale, esse in definitiva si bilanciano, sicché non è
possibile cogliere in alcuna di esse un argomento decisivo.
Sembra, viceversa, che la soluzione possa e debba ricercarsi
nell'art. 134 Cost., prima ipotesi, indagato alla stregua del sistema
costituzionale. Formulando tale articolo, il costituente ha segnato
rigorosamente i precisi ed invalicabili confini della competenza del
giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione
ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d'interpretazione
potrebbe ritenersi che questi vi siano ugualmente compresi. Ma una
simile interpretazione, oltre a non trovare appiglio nel dato testuale,
urterebbe contro il sistema. La Costituzione repubblicana ha instaurato
una democrazia parlamentare, intendendosi dire che, come dimostra anche
la precedenza attribuita dal testo costituzionale al Parlamento
nell'ordine espositivo dell'apparato statuale, ha collocato il
Parlamento al centro del sistema, facendone l'istituto caratterizzante
l'ordinamento. È nella logica di tale sistema che alle Camere spetti -
e vada perciò riconosciuta - una indipendenza guarentigiata nei
confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi
precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64,
primo comma, Cost.. Le guarentigie non vanno considerate singolarmente,
bensì nel loro insieme. Ed infatti, attengano esse all'immunità dei
membri delle Camere ovvero all'immunità delle rispettive sedi, è
evidente la loro univocità, mirando pur sempre ad assicurare la piena
indipendenza degli organi. Ne è conferma il divieto alla forza
pubblica ed a qualsiasi persona estranea - sia pure il Presidente della
Repubblica o il membro di una Camera diversa da quella di appartenenza
- di entrare nell'aula, che discende dall'art. 64, ultimo comma, Cost.,
prima ancora che dagli artt. 62.2 e 64.1 del regolamento della Camera e
69.2 e 70.1 del regolamento del Senato. Il Parlamento, insomma, in
quanto espressione immediata della sovranità popolare, è diretto
partecipe di tale sovranità, ed i regolamenti, in quanto svolgimento
diretto della Costituzione, hanno una "peculiarità e dimensione"
(sentenza n. 78 del 1984), che ne impedisce la sindacabilità, se non
si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza
regolamentare rientra fra le guarentigie disposte dalla Costituzione
per assicurare l'indipendenza dell'organo sovrano da ogni potere. Le
suesposte considerazioni non consentono che nell'art. 134, primo
alinea, Cost. possano ritenersi compresi i regolamenti parlamentari in
oggetto, dei quali pertanto va riconosciuta l'insindacabilità, con la
conseguente dichiarazione d'inammissibilità della proposta questione,
cui corrisponde la preclusione dell'esame del merito.