Ritenuto in fatto:
1. - Con ordinanza emessa il 30 aprile 1979 il Tribunale di Genova
ha, nel corso del procedimento civile tra la S.p.A. Granital e
l'Amministrazione finanziaria, sollevato di ufficio questione di
costituzionalità dell'art. 3 del d.P.R. n. 695/78, per presunta
violazione dell'art. 11 Cost., in riferimento agli artt. 189 e 177 del
Trattato di Roma.
La S.p.A. Granital presentava alla dogana di Savona una
dichiarazione di importazione definitiva di 500 tonnellate di orzo
canadese, accettata il 22 febbraio 1972.
All'atto della liquidazione dei diritti doganali dovuti è stato
applicato - nella misura inferiore, sopravvenuta dopo la data di
accettazione della dichiarazione - diritto di prelievo, ai sensi delle
disposizioni preliminari alla tariffa doganale, approvata con d.P.R. n.
723/65. Successivamente, con sentenza 15 giugno 1976, la Corte di
giustizia della Comunità interpretava l'art. 15 del regolamento CEE n.
120/1967, statuendo che il giorno dell'importazione, con riferimento al
quale il prelievo va calcolato, è quello in cui la dichiarazione di
importazione risulta accettata dalla dogana.
Con atto ingiuntivo del 28 aprile 1977 la dogana ha quindi intimato
alla società il pagamento di un'ulteriore somma (364.000 lire), pari
alla differenza fra l'imposta che si assumeva effettivamente dovuta, in
quanto vigente, appunto, alla data di accettazione della dichiarazione
e l'imposta invece vigente alla data dell'istanza diretta ad ottenere
l'applicazione del dazio più favorevole, liquidato all'atto dello
sdoganamento.
La società importatrice si opponeva a tale atto ingiuntivo,
deducendo innanzi al giudice a quo la nullità dell'ingiunzione,
perché priva delle firme dei competenti funzionari doganali; la non
applicabilità alla specie della suddetta sentenza della CGCE, in
quanto contrastante con i criteri stabiliti dalla Commissione CEE, con
le circolari ministeriali trasmesse alle dogane dal 63 al 72, nonché
con i precedenti giurisprudenziali delle corti italiane. La società
opponente asseriva altresì che la riliquidazione avrebbe posto a
carico dell'importatore un onere supplementare senza possibilità di
rivalsa sugli acquirenti; e deduceva ancora l'avvenuta riliquidazione
del tributo dopo il decorso del semestre, previsto dall'art. 74 del
T.U. n. 43 del 1973 per la revisione dell'accertamento doganale.
Nelle more del giudizio davanti al Tribunale, è entrato in vigore
il d.P.R. n. 695/78. L'art. 1 n. 3 di detto atto legislativo è
dettato in sostituzione dell'art. 6 punto 2 delle disposizioni
preliminari alla tariffa doganale (d.P.R. n. 723/65); infatti, esso
prevede che, qualora intervenga una variazione del dazio dopo che sia
stata accettata la relativa dichiarazione di importazione,
l'interessato può chiedere l'applicazione del dazio più favorevole.
Occorre, tuttavia, a questo riguardo, che la merce non sia ancora
lasciata alla libera disponibilità dell'importatore. Dall'agevolazione
così prevista sono eccettuati i prelievi agricoli.
Infine, l'art. 3 del d.P.R. n. 695/78 statuisce che la norma di cui
al punto 2 art. 6 delle disposizioni preliminari, come modificate
dall'art. 1 del medesimo decreto n. 695, abbia effetto a partire
dall'11 settembre 1976. Tale data è precisamente quella in cui è
stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità la sentenza
interpretativa resa dalla CGCE (sopra richiamata e resa in causa
113/75).
Secondo il giudice a quo, è questo ius superveniens a dover essere
applicato alla controversia pendente; la nuova normativa (d.P.R. n.
695/78) ritiene il Tribunale, esclude la possibilità di applicare il
dazio più favorevole ad importazioni di prodotti agricoli sottoposti
al regime dei prelievi comunitari, dovendosi qui unicamente aver
riguardo all'imposta in vigore nel giorno di accettazione della
dichiarazione doganale.
Le vigenti disposizioni del diritto interno imporrebbero dunque
all'interprete di applicare alla specie l'agevolazione preclusa dai
citati regolamenti della CEE. La richiesta declaratoria di
incostituzionalità avrebbe per contro l'evidente effetto di assicurare
la prevalenza della norma comunitaria anche con riguardo al periodo di
tempo in cui, nel caso all'esame del Tribunale di Genova, risultano
effettuate le importazioni soggette a prelievo.
La rilevanza della questione, così prospettata, non sarebbe
scalfita dalla possibilità che l'opposizione sia nel giudizio di
merito accolta sulla base di altri e assorbenti motivi dedotti nella
domanda. Tali motivi si assumono, infatti ictu oculi infondati. Ad
avviso del Tribunale di Genova, non sussiste, anzitutto, la nullità
dell'ingiunzione per mancanza delle firme dovute, giacché il difetto
fatto valere dall'opponente si riscontra solo nella copia notificata al
contribuente, mentre la normativa in materia espressamente prevede che
l'ingiunzione possa essere notificata al contribuente in copia
autentica e non in originale. Né può poi configurarsi alcuna
decadenza per il mancato rispetto del termine di sei mesi prescritti
dall'art. 74 del T.U. n. 43/73, dal momento che, trattandosi nel caso
in esame di "errore nella misura", opererebbe il termine quinquennale
di prescrizione stabilita nell'art. 84 del suddetto Testo Unico.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, essa è, in
sostanza, argomentata in questi termini: i regolamenti comunitari sono
ex art. 189 del Trattato di Roma immediatamente e direttamente
applicabili nell'ordinamento statale; l'emanazione di norme interne
riproduttive di quelle emesse dagli organi comunitari offende, oltre
che tale precetto, l'art. 177 del Trattato, perché implica che la
disciplina di materia riservata alla competenza della Comunità sia
sottratta alla cognizione della Corte del Lussemburgo: spetta invero,
Si soggiunge, esclusivamente a detto organo interpretare il Trattato e
il diritto comunitario, con il risultato che le pronunzie da esso rese
ex art. 177 del Trattato vincolano indistintamente tutti i giudici
nazionali; l'art. 17 dei regolamenti CEE nn. 19/62 e 120/67 dispongono,
secondo l'interpretazione datane dalla Corte della Comunità, che il
diritto di prelievo è quello in vigore nel giorno di importazione, e
cioè del giorno in cui la dichiarazione di importazione è accettata
dagli organi doganali; la normativa interna detta, dal canto suo, altra
e divergente disciplina della specie, dalla quale risulta,
implicitamente ma inequivocabilmente, che - quando sia sopravvenuto il
dazio più favorevole - va riscosso un prelievo diverso da quello
vigente dal giorno dell'accettazione. I criteri, rispettivamente
accolti dal diritto comunitario e da quello nazionale, sarebbero dunque
palesemente incompatibili; e d'altra parte, osserva il giudice a quo,
il conflitto che così si prospetta non potrebbe essere composto in
sede interpretativa, con l'assumere che la censurata disposizione del
legislatore nazionale opera in conformità del diritto comunitario,
appunto in quanto è fatta retroagire dalla data in cui la pronunzia
interpretativa della Corte del Lussemburgo è venuta ad incidere sul
regime cui i prelievi vanno assoggettati. L'interpretazione adottata
da detta Corte - precisa il giudice a quo - non può infatti spiegare
effetti ex nunc: la natura propria della funzione interpretativa - sia
autentica sia giurisdizionale - ed il caratteristico sistema del
procedimento regolato dall'art. 177 del Trattato esigono, si afferma,
l'efficacia retroattiva della pronunzia del giudice comunitario,
indispensabile perché la questione pregiudiziale rilevi ai fini della
decisione rimessa al giudice interno, che ha promosso il procedimento
innanzi ai giudici del Lussemburgo.
2. - Nel presente giudizio di costituzionalità, si è costituito
il Presidente del Consiglio. L'Avvocatura dello Stato deduce che le
norme denunziate, nel rendere operante l'applicazione della normativa
comunitaria a partire dall'11 settembre 1976, contrastano con il
principio della diretta ed immediata applicazione della normativa
medesima solo in apparenza. In effetti, però, il legislatore delegato
(che ha approvato il d.P.R. n. 695/78) non avrebbe inteso violare tale
principio, bensì si sarebbe adeguato ad altro principio
dell'ordinamento comunitario, secondo cui la violazione di un obbligo
non comporta comunque e necessariamente l'obbligo di adempimento, ed
avrebbe su questa base attribuito rilevanza al periodo intercorso fra
l'entrata in vigore della norma comunitaria e la data in cui questa è
stata interpretata dalla Corte del Lussemburgo.
L'Avvocatura non nega, per parte sua, che dall'applicazione di tale
ultimo principio possano derivare inconvenienti. Di questi possibili
riflessi la difesa dello Stato italiano ha anzi segnalato la rilevanza
in giudizio avanti la Corte della Comunità, sebbene in relazione
all'altra ipotesi in cui - al contrario di come accade nella specie -
è il singolo a pretendere, in forza delle sentenze interpretative
della Corte Comunitaria, la restituzione, anche a distanza di anni
dalla riscossione, di somme poi ritenute indebitamente percette
dall'amministrazione doganale. Vi sarebbe tuttavia sostanziale
differenza fra il caso or ora descritto e quello in esame, che concerne
il recupero di somme dovute per diritti doganali erroneamente non
applicati. Dove, invero, il singolo agisca in giudizio per la
restituzione di quanto risulti riscosso dall'autorità doganale in
violazione del Trattato di Roma e di norme comunitarie, viene in
rilievo la ratio del divieto di istituire tasse di effetto equivalente
al dazio doganale. Tale divieto serve, afferma l'Avvocatura, a
rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, nonché ad
evitare squilibri negli scambi comunitari e distorsioni nella
concorrenza. La proibizione del dazio doganale avrebbe quindi ai sensi
del diritto comunitario la precisa ragione giustificativa testé
indicata, che non comporta necessariamente la restituzione al singolo
del diritto doganale a suo tempo indebitamente riscosso. Ché anzi, ad
avviso dell'Avvocatura, l'onere della restituzione "senza alcun
retroattivo condizionamento delle situazioni pregresse" viene in
definitiva a tradursi in una nuova e pregiudizievole alterazione
dell'equilibrio degli scambi commerciali: il che implica un danno
ulteriore alla dinamica di tali scambi, non meno grave rispetto alle
conseguenze che si avrebbero peraltro verso, se l'incidenza del diritto
doganale indebitamente percetto fosse irreversibile. L'onere della
restituzione, precisa in proposito l'Avvocatura, si risolve in un
sostanziale arricchimento per gli operatori, i quali hanno intanto
evidentemente trasferito i maggiori costi a carico dei consumatori. Il
rimborso si atteggerebbe peraltro come un aiuto all'importazione; e da
ciò discenderebbe, correlativamente all'ingiustificato vantaggio per
gli importatori, un duplice maggior aggravio, da un canto per gli
stessi contribuenti, che come consumatori sopportano l'onere del
diritto doganale indebitamente riscosso, dall'altro per gli esportatori
dell'area comunitaria. Questi, si soggiunge hanno infatti prima subito
l'incidenza che sulle relazioni commerciali spiega la tassa equivalente
al dazio, e poi vedono alterata la concorrenza per effetto
dell'"aiuto", scaturente dal rimborso, di cui fruiscono gli operatori
dello Stato importatore.
In questa prospettiva la retroazione della norma comunitaria, che
dovrebbe automaticamente discendere dalla sua prevalenza nei confronti
delle confliggenti statuizioni del legislatore nazionale, incontra
allora un limite, imposto dal principio, in virtù del quale la
produzione normativa derivata dal Trattato riceve applicazione nei
paesi membri, anche sul piano temporale, in stretta e razionale
conformità degli scopi da essa istituzionalmente perseguiti. Di guisa
che - conclude l'Avvocatura - cessante ratione cessat età ipsa lex.
L'applicazione di un simile principio non sarebbe, tuttavia,
altrettanto evidente nel caso di specie. L'Avvocatura, più
precisamente, ritiene che il recupero, da parte dell'amministrazione,
di somme non liquidate o riscosse, mentre avrebbero dovuto esserlo in
conformità della corretta interpretazione della normativa comunitaria,
sia in definitiva giustificata, se si riflette che la mancata
percezione del prelievo è qui dovuta ad errore dell'amministrazione, e
che la successiva pretesa ed acquisizione delle somme dovute non
confligge, d'altra parte, con alcuna finalità del Trattato, alla quale
la normazione comunitaria debba conformarsi. Con tutto ciò, la difesa
del Presidente del Consiglio non giunge ad affermare che l'opposta
soluzione sia necessariamente priva di fondamento: invero, potrebbero
ravvisarsi serie ed apprezzabili ragioni per escludere il recupero là
dove esso dovesse seguire dopo molto tempo l'originaria riscossione del
prelievo, giacché in questo caso si avrebbe un evidente ed
irreversibile pregiudizio degli operatori interessati, esposti peraltro
al rischio di ingiustificate discriminazioni, per via delle eventuali
divergenze fra i regimi in questa materia adottati dai legislatori
degli Stati membri.
Nella specie, spetta a questa Corte verificare se la norma
nazionale denunziata sancisca un criterio compatibile con le esigenze
e, prima di tutto, con l'immediata applicabilità del diritto
comunitario. Si tratta dunque di stabilire se l'applicazione della
normativa comunitaria possa nel presente caso decorrere solo dal
momento in cui, con la pronunzia interpretativa della Corte Comunitaria
è intervenuta la competente individuazione dei profili di contrasto
fra tale normativa e le disposizioni del diritto interno. La questione
che si connette, nel senso ora precisato con l'interpretazione della
normativa comunitaria, è stata, ricorda l'Avvocatura, già rimessa
alla Corte di giustizia della Comunità europea, nella causa discussa
all'udienza del 25 ottobre 1979, per la quale il governo italiano ha
presentato una memoria allegata in copia nel presente giudizio, che
integra e sviluppa le deduzioni sopra esposte.
3. - La parte privata si è costituita nel presente giudizio fuori
termine. Del suo atto non si può quindi tener conto.
4. - In una memoria aggiuntiva pervenuta in prossimità
dell'udienza l'Avvocatura dello Stato richiama anzitutto altre due
ordinanze delle Corti di Appello di Venezia e di Bologna che sollevano
questioni analoghe alla presente.
In relazione al presente giudizio l'Avvocatura fa riferimento alla
sentenza CGCE del 1976 e alla sentenza 29 gennaio 1979 n. 639 della
Cassazione concernente l'interpretazione dell'art. 6 n. 2 del d.P.R.
26 aprile 1965, n. 723.
La difesa del Presidente del Consiglio osserva inoltre che prima
dell'entrata in vigore del d.P.R. del 1978 la Corte di Cassazione aveva
già più volte affermato l'inapplicabilità ai diritti di prelievo
della disposizione di cui al suddetto art. 6 n. 2.
Dopo l'entrata in vigore del detto decreto, la Corte di Cassazione
proponeva alla Corte di giustizia della CEE, con due ordinanze un
quesito relativo all'interpretazione della disciplina, che si trova ora
contenuta nella norma denunciata avanti questa Corte. La Corte di
giustizia ha, dal canto suo, con sentenza 27 marzo 1980, precisato che
la norma da essa interpretata va applicata anche alle fattispecie
anteriori alle sue pronunzie; una limitazione degli effetti retroattivi
che si connettono alle pronunzie interpretative rese dalla Corte del
Lussemburgo, può essere stabilita solo nella decisione adottata da
detto organo. Il che non accade nella specie.
La Corte del Lussemburgo ha inoltre avvertito che, in assenza di
norme comunitarie, spetta agli Stati membri stabilire modalità e
condizioni della riscossione degli oneri finanziari comunitari e dei
prelievi agricoli in particolare; tuttavia dette modalità e condizioni
non devono rendere la riscossione delle tasse e degli oneri comunitari
più difficile della riscossione delle tasse nazionali dello stesso
genere o tipo, per esempio con l'attribuire all'amministrazione statale
poteri più ridotti rispetto a quelli che ad essa competono in ordine
al tributo interno.
L'Avvocatura rileva poi che il 1 luglio 1980 è entrato in vigore
il regolamento CEE 24 luglio 1979 n. 1697 relativo al recupero a
posteriori dei dazi (di importazione e di esportazione) non corrisposti
dal debitore per le merci dichiarate, quando il regime doganale
comportasse invece l'obbligo di effettuare il pagamento.
In seguito ad un nuovo rinvio pregiudiziale, disposto con due
ordinanze della Corte di Cassazione del 18 ottobre 1980, la Corte
Comunitaria ha ritenuto che il suddetto regolamento non si applica a
fattispecie anteriori al 1 luglio 1980, data in cui esso è entrato in
vigore (si richiama in proposito la sentenza del 12 novembre 1981, n.
14 della motivazione).
La Corte di Cassazione non ha quindi potuto fare applicazione di
tale regolamento nella specie sottoposta al suo esame e ha ritenuto di
dover direttamente risolvere i dubbi interpretativi che toccavano la
materia di cui essa medesima aveva investito, ex art. 177 del Trattato,
la Corte del Lussemburgo, sempre in relazione al disposto dell'art. 3
d.P.R. n. 695 del 1978. Più di preciso il Supremo Collegio ha, con la
sentenza n. 3177 del 25 maggio 1982, al riguardo configurato due
possibili interpretazioni della normativa in questione, a seconda se si
ritenga che il legislatore abbia voluto astenersi dal disciplinare il
periodo anteriore all'11 dicembre 1976 o abbia invece, sempre con
riguardo a tale periodo, inteso che i prelievi comunitari fruissero del
trattamento di favore previsto per i dazi doganali dall'art. 6, secondo
comma, d.P.R. n. 723 del 1965. L'interpretazione prospettata per prima
è quella preferita dal Supremo Collegio, in quanto conforme al diritto
comunitario, sull'assunto che il legislatore abbia adeguato la norma da
ultimo citata alle prescrizioni della CEE solo a far tempo dalla data
in cui, grazie alla pronunzia della Corte del Lussemburgo, queste
risultavano con certezza operanti nell'ordinamento interno: e nulla
abbia voluto invece statuire per il periodo anteriore a tale pronunzia,
perché non era ancora acclarato l'effetto retroattivo delle decisioni
rese dai giudici del Lussemburgo sulla questione pregiudiziale di
interpretazione. La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione
implica, ad avviso dell'Avvocatura, che la norma interna, oggetto della
presente controversia, sia letta, in puntuale conformità del diritto
comunitario, nel senso che l'aliquota sui prelievi è quella vigente
all'atto dell'accettazione della merce da parte degli uffici doganali.
Così esigerebbe, per l'appunto, l'art. 17 del Regolamento CEE n. 19
del 1962.
Tale interpretazione - peraltro ribadita dalla Corte di Cassazione
in altre pronunzie del corrente anno - renderebbe infine irrilevante e
comunque infondata la questione.
5. - Nell'udienza pubblica del 6 dicembre 1983 il giudice La
Pergola ha svolto la relazione e l'Avvocatura dello Stato ha ribadito e
sviluppato le conclusioni già adottate.
Considerato in diritto:
1. - La presente controversia trae origine, come si spiega in
narrativa, dal giudizio promosso dal Tribunale di Genova, che censura,
in riferimento all'art. 11 Cost., l'art. 3 del d.P.R. 22 settembre
1978, n. 695 ("Modificazioni alle disposizioni preliminari della
tariffa dei dazi doganali di importazione della Repubblica italiana"),
così testualmente formulato: "La norma di cui al punto 2, secondo
comma, dell'art. 6, delle disposizioni preliminari della tariffa dei
dazi doganali di importazione della Repubblica italiana, quale risulta
modificata con l'art. 1 del presente decreto, ha effetto dall'11
settembre 1976". La statuizione, della quale vengono in questi termini
individuati gli effetti temporali, è quella che eccettua i prelievi
agricoli e le altre imposizioni previste ai sensi dell'art. 235 del
Trattato istitutivo della CEE dall'agevolazione concessa agli
importatori, in virtù di altra previsione dello stesso decreto,
dettata in sostituzione del punto 2, art. 6 delle anzidette
disposizioni preliminari. Tale agevolazione è contemplata là dove si
dispone che quando "dopo la data indicata nel precedente punto" - e
cioè la data in cui la dichiarazione d'importazione è accettata dalla
dogana - "interviene una variazione del dazio, l'importatore può
chiedere l'applicazione del dazio più favorevole purché la merce non
sia lasciata alla libera disponibilità dell'importatore stesso. La
domanda deve contenere l'indicazione dell'aliquota daziaria richiesta".
La disciplina in esame confliggerebbe con le prescrizioni del
diritto comunitario per le seguenti considerazioni:
A) Il giudice a quo rileva, in primo luogo, che i regolamenti nn.
19/62 e 120/67 adottati dal Consiglio della CEE nel settore, qui
considerato, dei cereali, contengono l'uno e l'altro, rispettivamente
all'art. 17.1 e 15.1, un'apposita ed espressa disposizione, in forza
della quale va riscosso il prelievo in vigore nel giorno
dell'importazione. La Corte di giustizia della CEE, prosegue il
Tribunale di Genova, ha poi, in sede d'interpretazione del citato art.
15.1 del regolamento n. 120/67, statuito che l'ammontare del prelievo
è fissato in relazione al giorno in cui gli uffici doganali accettano
la dichiarazione di importazione della merce. Ai sensi di tale
pronunzia, il prelievo agricolo deve ritenersi preordinato a compensare
la differenza fra il prezzo vigente sul mercato mondiale ed il più
elevato prezzo comunitario, di guisa che il mercato comune sia
stabilizzato e protetto anche nei confronti delle eventuali variazioni
del prezzo del mercato mondiale. Il successivo aumento dei prezzi sul
mercato mondiale, e la conseguente diminuzione dell'onere impositivo,
non possono, pertanto, influire sulla determinazione dell'aliquota, la
quale è fissata, in via di principio, con riguardo al prezzo di
acquisto delle merci. Nella richiamata sentenza - osserva infine il
giudice a quo - la Corte Comunitaria ha altresì precisato che la
raccomandazione della Commissione del 25 maggio 1962, relativa alla
data in cui si determina il dazio doganale applicabile alle merci
dichiarate per l'immissione in consumo, non concerne il prelievo
agricolo.
B) Ciò posto, il d.P.R. n. 695/78 è censurato, per aver da un
canto introdotto nell'ordinamento interno il criterio sancito nella
normativa comunitaria, e dall'altro congegnato gli effetti temporali
della statuizione all'uopo emessa in modo che, per quanto qui
interessa, il caso di specie non ricade nella relativa sfera di
applicazione. Più precisamente, la norma che eccettua il prelievo
agricolo dal regime del dazio più favorevole non può, ad avviso del
giudice remittente, operare prima della data dell'11 settembre 1976,
testualmente indicata dal legislatore come termine iniziale
dell'efficacia della medesima. Si tratta, peraltro, della data di
pubblicazione della suddetta sentenza interpretativa della Corte del
Lussemburgo, che stabilisce quale, ai fini della determinazione del
prelievo, sia il giorno dell'importazione. Così disponendo, la norma
censurata avrebbe l'implicita ma inequivoca conseguenza di
disattendere, con riguardo alle fattispecie insorte anteriormente
all'11 settembre 1976, il precetto secondo cui il prelievo è
necessariamente quello del giorno dell'importazione. Tale conclusione
varrebbe per il giudizio demandato al Tribunale di Genova, in cui
l'importazione soggetta a prelievo risale al 1972. Si assume di
conseguenza che la disciplina dedotta in controversia contraddica:
a) il principio della efficacia immediata dei regolamenti emessi
dagli organi della CEE, consacrato nell'art. 189 del Trattato di Roma,
dal momento che secondo la giurisprudenza di questa Corte qualsiasi
trasformazione o ricezione del diritto comunitario nel diritto interno,
ancorché operata mediante norme di carattere meramente riproduttivo,
risulterebbe incompatibile con l'automatica applicabilità della
produzione giuridica derivata dal Trattato, e ne sottrarrebbe
indebitamente l'interpretazione alla Corte del Lussemburgo, alla quale
spetta, ex art. 177 del Trattato, la cognizione delle questioni
pregiudiziali interpretative, necessaria e fondamentale garanzia
dell'applicazione uniforme del diritto comunitario in tutti gli Stati
membri;
b) l'art. 177 del Trattato, il cui disposto si assume leso anche
sotto il riflesso che la norma censurata confligge con il regolamento
comunitario come interpretato dalla Corte del Lussemburgo, e così
incide sul vincolo scaturente da tale pronunzia per qualsiasi giudice
nazionale. Il giudice a quo ritiene, infatti, che l'interpretazione
resa dalla Corte di giustizia non possa spiegare effetti solo ex nunc,
ma debba anche riguardare le importazioni anteriormente effettuate, di
cui, appunto, si tratta nella causa di merito. Secondo il Tribunale di
Genova, lo stesso congegno dell'art. 177 del Trattato esige che la
sentenza interpretativa pronunziata dal giudice comunitario abbia a
retroagire. Diversamente, non potrebbe risultare da tale pronunzia il
regolamento del caso, in cui il giudice nazionale ha sollevato
questione pregiudiziale in ordine all'interpretazione del diritto
comunitario.
La violazione dell'art. 11 Cost. è, quindi, argomentata in base
all'asserita incompatibilità fra prescrizione comunitaria e legge
nazionale, e alla conseguente inosservanza dei principi stabiliti negli
artt. 177 e 189 del Trattato di Roma.
2. - La questione, va subito precisato, è sollevata sull'assunto
che, in conformità dell'attuale giurisprudenza, le disposizioni di
legge contrarie al regolamento comunitario non possono considerarsi
nulle od inefficaci, ma sono costituzionalmente illegittime, e vanno in
quanto tali denunziate in questa sede, per violazione dell'art. 11
Cost. La Corte ritiene di dover anzitutto fermare l'attenzione su
questo primo e preliminare profilo dell'indagine ad essa demandata.
3. - L'assetto dei rapporti fra diritto comunitario e diritto
interno, oggetto di varie pronunzie rese in precedenza da questo
Collegio, è venuto evolvendosi, ed è ormai ordinato sul principio
secondo cui il regolamento della CEE prevale rispetto alle confliggenti
statuizioni del legislatore interno. Questo risultato viene, peraltro,
in considerazione sotto vario riguardo. In primo luogo, sul piano
ermeneutico, vige la presunzione di conformità della legge interna al
regolamento comunitario: fra le possibili interpretazioni del testo
normativo prodotto dagli organi nazionali va prescelta quella conforme
alle prescrizioni della Comunità, e per ciò stesso al disposto
costituzionale, che garantisce l'osservanza del Trattato di Roma e del
diritto da esso derivato (sentenze nn. 176, 177/81).
Quando, poi, vi sia irriducibile incompatibilità fra la norma
interna e quella comunitaria, è quest'ultima, in ogni caso, a
prevalere. Tale criterio opera, tuttavia, diversamente, secondo che il
regolamento segua o preceda nel tempo la disposizione della legge
statale. Nel primo caso, la norma interna deve ritenersi caducata per
effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento
comunitario, la quale andrà necessariamente applicata dal giudice
nazionale. Tale effetto caducatorio, com'è stato avvertito nelle più
recenti pronunzie di questa Corte, è altresì retroattivo, quando la
norma comunitaria confermi la disciplina già dettata - riguardo al
medesimo oggetto, e prima dell'entrata in vigore della confliggente
norma nazionale - dagli organi della CEE. In questa evenienza, le norme
interne si ritengono, dunque, caducate sin dal momento al quale risale
la loro incompatibilità con le precedenti statuizioni della Comunità,
che il nuovo regolamento ha richiamato. Diversa è la sistemazione data
fin qui in giurisprudenza all'ipotesi in cui la disposizione della
legge interna confligga con la previgente normativa comunitaria. È
stato invero ritenuto che, per il fatto di contrastare tale normativa,
o anche di derogarne o di riprodurne il contenuto, la norma interna
risulti aver offeso l'art. 11 Cost. e possa in conseguenza esser
rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale.
La soluzione testé descritta è stata delineata in altro giudizio
(cfr. sentenza n. 232/75) ed in sostanza così giustificata: il
trasferimento dei poteri alla Comunità non implica, nella materia a
questa devoluta, la radicale privazione della sovranità statuale;
perciò si è in quell'occasione anche detto che il giudice nazionale
non ha il potere di accertare e dichiarare incidentalmente alcuna
nullità, dalla quale scaturisca, in relazione alle norme sopravvenute
al regolamento comunitario, "un'incompetenza assoluta del nostro
legislatore", ma è qui tenuto a denunciare la violazione dell'art. 11
Cost., promuovendo il giudizio di costituzionalità.
La Corte è ora dell'avviso che tale ultima conclusione, e gli
argomenti che la sorreggono, debbano essere riveduti. L'assetto della
materia va invece lasciato fermo sotto gli altri profili, che non
toccano il rapporto fra la regola comunitaria e quella posteriormente
emanata dallo Stato.
Per l'esame da compiere, occorre guardare all'approccio della
pregressa giurisprudenza, quale si è , nel complesso, disegnato, nei
confronti del fenomeno comunitario. Dalle decisioni già rese si
ricava, infatti, un'utile traccia per riflettere sulla validità del
criterio fin qui adottato. Com'è di seguito spiegato, non vi è
ragione per ritenere che il giudice sia abilitato a conoscere
dell'incompatibilità fra la regola comunitaria e quella statale, o
viceversa tenuto a sollevare la questione di costituzionalità,
semplicemente sulla base dell'ordine cronologico in cui intervengono
l'una e l'altra norma. Giova al riguardo richiamare alcune premesse di
ordine sistematico, poste nelle precedenti pronunzie, per controllarne
il significato e precisare il risultato di questa nuova riflessione sul
problema.
4. - Vi è un punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei
rapporti fra diritto comunitario e diritto interno: i due sistemi sono
configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la
ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato.
"Esigenze fondamentali di eguaglianza e certezza giuridica postulano
che le norme comunitarie - , non qualificabili come fonte di diritto
internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno -,
debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in
tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e
adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese
della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e
conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i
destinatari". Così la Corte ha statuito nella sentenza n. 183 del
1973. In detta decisione è per la prima volta affermata la prevalenza
del regolamento comunitario nei confronti della legge nazionale. Questo
criterio va considerato nel contesto della pronunzia in cui è
formulato, e quindi inteso in intima e necessaria connessione con il
principio secondo cui i due ordinamenti sono distinti e al tempo stesso
coordinati. Invero, l'accoglimento di tale principio, come si è
costantemente delineato nella giurisprudenza della Corte, presuppone
che la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da
quello statale. Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell'art.
11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma
rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è, esse
non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi
predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro
ordinamento. In questo senso va quindi spiegata l'affermazione, fatta
nella sentenza n. 232/75, che la norma interna non cede, di fronte a
quella comunitaria, sulla base del rispettivo grado di resistenza. I
principi stabiliti dalla Corte in relazione al diritto - nel caso in
esame, al regolamento - comunitario, traggono significato, invece,
precisamente da ciò: che l'ordinamento della CEE e quello dello Stato,
pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma,
necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta,
dall'avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi
comunitari, in conformità dell'art. 11 Cost., le competenze che questi
esercitano, beninteso nelle materie loro riservate.
Occorre, tuttavia, meglio chiarire come, riguardo al fenomeno in
esame, si ponga il rapporto fra i due ordinamenti. Sovviene in
proposito il seguente rilievo. La disciplina emanata mediante il
regolamento della CEE è destinata ad operare, con caratteristica
immediatezza, così nella nostra sfera territoriale, come in quella di
ogni altro Stato membro; il sistema statuale, dal canto suo, si apre a
questa normazione, lasciando che le regole in cui essa si concreta
vigano nel territorio italiano, quali sono scaturite dagli organi
competenti a produrle. Ora, la Corte ha in altro giudizio affermato che
l'esercizio del potere trasferito a detti organi viene qui a
manifestarsi in un "atto", riconosciuto nell'ordinamento interno come
"avente forza e valore di legge" (cfr. sentenza n. 183/73). Questa
qualificazione del regolamento comunitario merita un cenno di
svolgimento. Le norme poste da tale atto sono, invero, immediatamente
applicate nel territorio italiano per forza propria. Esse non devono,
né possono, essere riprodotte o trasformate in corrispondenti
disposizioni dell'ordinamento nazionale. La distinzione fra il nostro
ordinamento e quello della Comunità comporta, poi, che la normativa in
discorso non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun
verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti aventi forza
di legge) dello Stato. Quel che si è detto nella richiamata pronunzia,
va allora avvertito, altro non significa, in definitiva, che questo:
l'ordinamento italiano - in virtù del particolare rapporto con
l'ordinamento della CEE, e della sottostante limitazione della
sovranità statuale - consente, appunto, che nel territorio nazionale
il regolamento comunitario spieghi effetto in quanto tale e perché
tale. A detto atto normativo sono attribuiti "forza e valore di legge",
solo e propriamente nel senso che ad esso si riconosce l'efficacia di
cui è provvisto nell'ordinamento di origine.
5. - Il risultato cui è pervenuta la precedente giurisprudenza va,
quindi, ridefinito, in relazione al punto di vista, sottinteso anche
nelle precedenti pronunzie, ma non condotto alle ultime conseguenze,
sotto il quale la fonte comunitaria è presa in considerazione nel
nostro ordinamento. Il giudice italiano accerta che la normativa
scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne
applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al
sistema dell'ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa
l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. Le
confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire
ostacolo al riconoscimento della "forza e valore", che il Trattato
conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto
produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di
questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben
guardare, pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole
interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo
ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l'osservanza di essa
nel territorio nazionale.
D'altra parte, la garanzia che circonda l'applicazione di tale
normativa è - grazie al precetto dell'art. 11 Cost., com'è sopra
chiarito - piena e continua. Precisamente, le disposizioni della CEE,
le quali soddisfano i requisiti dell'immediata applicabilità devono,
al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio
italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere
intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo,
se questa legge sia anteriore o successiva. Il regolamento comunitario
fissa, comunque, la disciplina della specie. L'effetto connesso con la
sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell'accezione
propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire
che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia
innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va
distinto dall'abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o
derogatorio, che investe le norme all'interno dello stesso ordinamento
statuale, e ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna
contraria al diritto comunitario non risulta - è stato detto nella
sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito - nemmeno affetta da alcuna
nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice
ordinario. Il regolamento, occorre ricordare, è reso efficace in
quanto e perché atto comunitario, e non può abrogare, modificare o
derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne le
statuizioni. Diversamente accadrebbe, se l'ordinamento della Comunità
e quello dello Stato - ed i rispettivi processi di produzione normativa
- fossero composti ad unità. Ad avviso della Corte, tuttavia, essi,
per quanto coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi. Proprio
in ragione, dunque, della distinzione fra i due ordinamenti, la
prevalenza del regolamento adottato dalla CEE va intesa come si è con
la presente pronunzia ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge
interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale è
interamente attratta sotto il diritto comunitario.
La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della fonte
statuale, solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità
si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile
dal giudice interno. Fuori dall'ambito materiale, e dai limiti
temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così configurata, la
regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua
efficacia; e d'altronde, è appena il caso di aggiungere, essa soggiace
al regime previsto per l'atto del legislatore ordinario, ivi incluso il
controllo di costituzionalità.
6. - Il regolamento comunitario va, dunque, sempre applicato, sia
che segua, sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso
incompatibili: e il giudice nazionale investito della relativa
applicazione potrà giovarsi dell'ausilio che gli offre lo strumento
della questione pregiudiziale di interpretazione, ai sensi dell'art.
177 del Trattato. Solo così è soddisfatta la fondamentale esigenza di
certezza giuridica, sempre avvertita nella giurisprudenza di questo
Collegio, che impone eguaglianza e uniformità di criteri applicativi
del regolamento comunitario per tutta l'area della Comunità Europea.
Quest'affermazione trova il supporto di due autonome e concorrenti
riflessioni.
Va osservato, in primo luogo, che alla conclusione testé enunciata
perviene, per parte sua, anche la Corte del Lussemburgo. Detto Collegio
considera, è vero, la fonte normativa della Comunità e quella del
singolo Stato come integrate in un solo sistema, e quindi muove da
diverse premesse, rispetto a quelle accolte nella giurisprudenza di
questa Corte. Quel che importa, però, è che col giudice comunitario
si possa convenire nel senso che alla normativa derivante dal Trattato,
e del tipo qui considerato, va assicurata diretta ed ininterrotta
efficacia: e basta questo per concordare sul principio secondo cui il
regolamento comunitario è sempre e subito applicato dal giudice
italiano, pur in presenza di confliggenti disposizioni della legge
interna.
A parte ciò, e per quanto risulta alla Corte, il regolamento
comunitario è fatto immediatamente operare, ad esclusione delle norme
interne incompatibili, anteriori e successive, in tutti indistintamente
gli ordinamenti degli Stati membri, quale che poi, in ciascuno di essi,
possa essere la giustificazione di siffatto regime alla stregua delle
rispettive previsioni costituzionali. Ed è, certamente, significativo
che il controllo sulla compatibilità tra il regolamento comunitario e
la norma interna, anche posteriore, sia lasciato alla cognizione del
giudice ordinario pur dove un apposito organo giudicante è investito,
analogamente a questa Corte, del sindacato di costituzionalità sulle
leggi. Così accade, sebbene per ragioni in parte diverse da quelle
sopra spiegate, nell'ordinamento federale tedesco. Il criterio ora
sancito gode, dunque, di generale osservanza. Il che conferma che esso
serve a stabilire e garantire condizioni di parità, sia degli Stati
membri, sia dei loro cittadini, di fronte al modo come funziona la
disciplina. e la stessa organizzazione, del Mercato Comune.
7. - Le osservazioni fin qui svolte non implicano, tuttavia, che
l'intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno
sia sottratto alla competenza della Corte. Questo Collegio ha, nella
sentenza n. 183/73, già avvertito come la legge di esecuzione del
Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai
diritti inalienabili della persona umana, nell'ipotesi contemplata, sia
pure come improbabile, al numero 9 nella parte motiva di detta
pronunzia. Nel presente giudizio cade opportuno un altro ordine di
precisazioni. Vanno denunciate in questa sede quelle statuizioni della
legge statale che si assumano costituzionalmente illegittime, in quanto
dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del
Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi
principi: situazione, questa, evidentemente diversa da quella che si
verifica quando ricorre l'incompatibilità fra norme interne e singoli
regolamenti comunitari. Nel caso che qui è previsto, la Corte sarebbe,
quindi, chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia
ingiustificatamente rimosso alcuno dei limiti della sovranità
statuale, da esso medesimo posti, mediante la legge di esecuzione del
Trattato, in diretto e puntuale adempimento dell'art. 11 Cost.
8. - In conclusione, la questione sollevata dal Tribunale di Genova
è inammissibile. Compete al giudice rimettente accertare se gli
invocati regolamenti e principi dell'ordinamento comunitario
consentano, e a qual titolo, che il regime del prelievo agricolo, sotto
il profilo dedotto nella presente controversia, sia fatto retroagire
soltanto fino alla data di pubblicazione della pronunzia interpretativa
della Corte del Lussemburgo, sopra richiamata al n. 1B).