Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso dei procedimenti civili, tutti aventi ad oggetto la
domanda di aggiunta al nome di predicati di titoli nobiliari,
rispettivamente promossi: a) da Loffredo Gaetani Lovatelli, in proprio
e nel nome dei figli minori, contro il sindaco di Roma, quale ufficiale
di stato civile, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e contro
Lelia Gaetani Howard, Giovannella Gaetani Granier e Topazia Gaetani
Markewitch; b) da Celio Calcagnini Estense; c) da Gian Galeazzo Cetti
Serbelloni ed altri; d) da Eugenio Ferria Contin ed altri contro la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Tribunale di Roma, con
quattro ordinanze di identico contenuto emesse il 13 dicembre 1965, ha
sottoposto all'esame di questa Corte la legittimità costituzionale di
numerosi complessi di disposizioni relative alla materia araldica e
nobiliare.
Il Tribunale, dopo aver ricordato i contrasti giurisprudenziali in
merito all'interpretazione della XIV disposizione transitoria e finale
della Costituzione, osserva che per accertare l'esistenza di un titolo
non riconosciuto alla data del 28 ottobre 1922 è necessario applicare
le leggi araldiche emanate in epoca posteriore, alcune norme delle
quali condizionano lo stesso diritto al titolo, e rileva che sorge
altresì questione sulla permanenza del diritto all'iscrizione del
titolo in alcuni pubblici registri, secondo la disciplina da quella
stessa legislazione dettata.
Le ordinanze riferiscono che nel corso dei quattro giudizi
l'Avvocatura dello Stato, con l'adesione del pubblico ministero, ha
eccepito l'inapplicabilità delle norme araldiche a causa della loro
incompatibilità con l'art. 3 della Costituzione ed ha osservato che,
nell'ipotesi dell'accertamento del diritto a un titolo non
riconosciuto, il giudice non si limita a conservare effetti già
esauriti, ma attribuisce alla legislazione nobiliare nuova ed attuale
efficacia, conferendo al titolo un sostanziale riconoscimento. Da ciò,
secondo il Tribunale, scaturisce una vera e propria questione di
legittimità costituzionale, avente ad oggetto sia le norme emanate in
epoca successiva al 28 ottobre 1922 sia quelle anteriori a tale data.
Il giudice a quo conclude osservando che, nonostante l'esistenza di
seri dubbi sulla esattezza della tesi sostenuta dall'Avvocatura dello
Stato, non può escludersi con certezza l'incompatibilità fra le norme
ordinarie in discussione e la Costituzione e conseguentemente solleva
la questione di legittimità costituzionale, rilevante e non
manifestamente infondata, del R.D. 23 dicembre 1924, n. 2337; del R.D.
23 marzo 1924, n. 442; della legge 17 aprile 1925, n. 473; del R.D. 21
gennaio 1929 n. 61; del R.D. 16 agosto 1926, n. 1489; del R.D. 7 giugno
1943, n. 651; del R.D. 11 dicembre 1887, n. 1550; del R.D. 2 luglio
1896, n. 313 e del R.D. 5 luglio 1896, n. 314, in riferimento
all'art. 3 ed alla XIV disposizione della Costituzione.
2. - Le quattro ordinanze, regolarmente comunicate e notificate,
sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 14 maggio
1966.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti il Presidente del
Consiglio dei Ministri (atto 29 gennaio 1966), rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il signor Loffredo Gaetani
Lovatelli (atto 24 febbraio 1966), rappresentato e difeso dall'avv.
Giuliano Bracci; il signor Celio Calcagnini Estense (atto 22 febbraio
1966), rappresentato e difeso dall'avv. Sandro Diambrini Palazzi; i
signori Cetti Serbelloni (atto 26 maggio 1966), rappresentati e difesi
dagli avvocati Luciano Mela, Giorgio Cansacchi e Gian Galeazzo
Stendardi; ed i signori Ferria Contin (atto 5 aprile 1966),
rappresentati e difesi dall'avv. Luigi Scassellati Sforzolini.
L'Avvocatura dello Stato, dopo aver ricordato il contenuto dei vari
atti di legislazione araldica (tutti connessi alla prerogativa regia ed
agli artt. 79 e 80 dello Statuto del Regno), sostiene la loro assoluta
inconciliabilità con la Costituzione e, in particolare, osserva che la
XIV disposizione, nel cancellare in ossequio al principio di
eguaglianza ogni distinzione nobiliare, ha voluto far salvo agli ex
insigniti delle soppresse distinzioni il diritto, comune ad ogni
cittadino, alla conservazione e tutela del proprio nome, sicché la
c.d. cognomizzazione del predicato non può non riferirsi se non a
coloro il cui titolo nobiliare sia stato già riconosciuto in data
anteriore al 28 ottobre 1922: ed infatti, se al secondo comma della XIV
disposizione si desse una più lata interpretazione, si perverrebbe
all'assurdo di porre nel nulla il primo comma (in via incidentale e
indiretta si opererebbe un nuovo riconoscimento di titoli nobiliari),
si trasformerebbe in permanente la norma transitoria, si terrebbero
impegnati in vertenze del genere pubblici uffici amministrativi e
giudiziari, e si renderebbe paradossalmente incostituzionale, per
contrasto con l'art. 3, il secondo comma della XIV disposizione.
Quest'ultino, secondo l'Avvocatura, deve essere correttamente
interpretato nel senso che esso prende in considerazione solo i titoli
i quali al 28 ottobre 1922 avessero ottenuto quel riconoscimento senza
del quale un titolo è da considerare privo di rilevanza giuridica e,
quindi, di giuridica esistenza. Dai lavori preparatori, ai quali non si
può assurdamente negare ogni rilievo giuridico, risulta infatti -
così prosegue l'Avvocatura - che l'Assemblea costituente non volle
affatto distinguere fra "riconoscimento" ed "esistenza" dei titoli,
sicché la legislazione araldica è sicuramente in contrasto sia con
l'art. 3 che con la XIV disposizione, e l'incostituzionalità
dell'ordinamento araldico necessariamente travolge anche quelle norme
in base alle quali si pretende di attribuire agli uffici della pubblica
amministrazione oneri ed incombenze in una materia oramai priva di ogni
rilevanza. L'Avvocatura conclude perciò chiedendo che venga
dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme indicate nelle
ordinanze di rimessione e di ogni altra norma facente parte
dell'ordinamento araldico.
Secondo la difesa del Gaetani Lovatelli, invece, alla legislazione
araldica non può negarsi validità agli effetti dell'applicazione
della XIV disposizione, giacché ad essa occorre far riferimento sia
per quanto attiene all'esistenza del titolo sia per l'accertamento
incidentale necessario in ogni giudizio di cognomizzazione.
Un dubbio di costituzionalità potrebbe porsi, in astratto, nei
casi di richiesta di cognomizzazione di un predicato non riconosciuto a
norma della legislazione araldica, ma anche in questo più limitato
aspetto la questione apparirebbe infondata alla luce dell'ampia
formulazione della norma costituzionale e del valore dichiarativo dei
provvedimenti di riconoscimento.
La difesa del signor Celio Calcagnini Estense sostiene che nel
secondo comma della XIV disposizione la parola "esistenti", riferita ai
titoli anteriori al 28 ottobre 1922, va collegata alla esistenza
storico-araldica del titolo da cognomizzare e che il diritto al
predicato, una volta venuto meno il diritto al riconoscimento del
titolo nobiliare come tale, è un semplice diritto anagrafico di
cognomizzazione, che incide sulla formazione del nome e cognome
spettante alla persona fisica in forza dell'art. 6 del Codice civile: e
poiché è la stessa Costituzione a volere che, nei limiti di tale
diritto, la ricerca debba di necessità effettuarsi in base alla
legislazione araldica vigente al momento della sua entrata in vigore,
la questione di legittimità costituzionale appare manifestamente
infondata.
Ad avviso della difesa dei signori Cetti Serbelloni, il rapporto
fra la legislazione anteriore al 1948 e la Costituzione va posto in
termini non di legittimità costituzionale ma di abrogazione tacita a
norma dell'art. 15 delle preleggi e, di conseguenza, la competenza a
giudicarne non appartiene alla Corte ma all'autorità giudiziaria, alla
quale spetta di accertare gli effetti abroganti che una norma
precettiva, quale è quella contenuta nella XIV disposizione, spiega
sulle leggi anteriori. Dopo aver ricordato i contrasti interpretativi e
la soluzione data dalla Cassazione nel senso che sono cognomizzabili i
predicati dei titoli esistenti prima del 1922 ancorché non
riconosciuti dalla Consulta, la difesa sostiene che l'interpretazione
della norma costituzionale non spetta alla Corte, tanto più nel caso
di specie, nel quale l'interpretazione da eliminare è ormai "generale
e convalidata". D'altra parte un contrasto costituzionale potrebbe
ravvisarsi solo ove l'interpretazione data dalla Cassazione alla XIV
disposizione risultasse incompatibile con il sistema precettivo della
Costituzione: il che non è, perché entrambe le tesi interpretative di
quella norma sono compatibili con la lettera e con lo spirito della
Costituzione, ed anzi quella accolta dalla Cassazione risulta meglio
conciliabile col precetto costituzionale, perché evita di conferire
una efficacia costitutiva e definitiva agli atti della Consulta che la
Costituzione volle abolire. Nel merito la difesa osserva che per
raggiungere l'effetto della cognomizzazione è necessario
pregiudizialmente accertare la spettanza del titolo, e poiché ciò
discende dalla stessa XIV disposizione non può ravvisarsi un contrasto
tra la legislazione araldica e l'art. 3 della Costituzione. Il
principio di eguaglianza, d'altra parte, non esclude un trattamento
diverso di situazioni obiettivamente diverse, e perciò, se è vero che
le diverse condizioni sociali, razziali etc., non possono di per sé
generare una diversità di trattamento, non può dirsi che esse non
possono essere rilevanti per giustificare effetti giuridici
differenziati: il riconoscimento incidentale del diritto ad un titolo
non è destinato a perpetuare distinzioni sociali, ma serve solo a
permettere a certe persone, in relazione ad una situazione storica ad
esse inerente, di portare un certo cognome.
Né, secondo la difesa, la legislazione araldica contrasta con la
XIV disposizione, perché la cognomizzazione del predicato non si
identifica col riconoscimento del titolo, e perfino l'interpretazione
sostenuta dall'Avvocatura dello Stato non escluderebbe la necessità
del ricorso alla legislazione araldica tutte le volte in cui si
controvertesse in merito alla legittimità di un atto della Consulta
araldica. Quanto al dubbio se la legislazione da prendere in
considerazione sia quella anteriore o quella posteriore al 28 ottobre
1922, ferma l'eccezione preliminare che si tratta di questione di
abrogazione, si sostiene che essa va risolta nel senso che le leggi
successive a quella data sono abrogate, e ciò perché: a) la
limitazione del diritto alla cognomizzazione dei predicati esistenti
prima del 1922 implica l'accertamento della loro spettanza in base alle
leggi allora vigenti; b) la abrogazione retroattiva della prerogativa
regia comprende le manifestazioni normative di questa; c) le modifiche
alle norme sulla successione nei titoli, in quanto abolirono con
semplici regi decreti un diritto soggettivo creato dall'art. 79 dello
Statuto, furono anticostituzionali o, quanto meno, inidonee allo scopo.
Sullo specifco punto dell'incostituzionalità dell'art. 3 del
R.D.L. 20 marzo 1924, n. 442 (convertito in legge 14 aprile 1924, n.
89) e dell'art. 73 del R.D. 7 aprile 1943, n. 651, la difesa osserva
che il precetto ivi contenuto si limita ora a disporre la iscrizione
nei registri araldici delle sentenze di cognomizzazione, e non già di
sentenze costitutive di spettanza di titoli nobiliari, e, sottolineata
la differenza fra "registrazione" e "riconoscimento" quale emerge dalla
stessa legislazione araldica, sostiene che si deve escludere che sia
stata abrogata una norma che si limita a statuire la semplice
registrazione di una sentenza di cognomizzazione, tanto più che la
procedura di registrazione è certamente tuttora mantenuta per diversi
altri provvedimenti (es. concessione di stemmi ai comuni, emissione del
titolo di città etc.). La difesa conclude pertanto chiedendo che la
questione di legittimità costituzionale venga dichiarata non fondata.
Analoghe tesi sono state prospettate dalla difesa dei signori
Ferria Contin, la quale, dopo aver ricordato i termini nei quali la
questione è stata rimessa alla Corte, sostiene che la XIV disposizione
ha abrogato le norme successive al 28 ottobre 1922, ha abrogato quelle
anteriori a tale data per la parte relativa al riconoscimento dei
titoli, ma ha recepito queste ultime nei limiti in cui esse dettano
regole utilizzabili per l'accertamento dei predicati cognomizzabili
perché afferenti a titoli esistenti prima del 28 ottobre 1922: dal che
deve trarsi la conclusione che l'intera questione, risolvendosi in
un'ipotesi di abrogazione o, per le norme anteriori al 1922, di
recezione nella XIV disposizione, non rientra nella competenza di
questa Corte.
Nel merito la difesa dei Ferria Contin esclude la violazione
dell'art. 3 della Costituzione, atteso che il legislatore può emanare
norme differenziate per situazioni obiettivamente diverse: nella specie
il riconoscimento incidentale del diritto al titolo non è diretto
all'attribuzione di trattamenti preferenziali non dovuti, ma solo alla
cognomizzazione del predicato, e tende quindi a consentire l'esercizio
di un determinato e limitato diritto. Quanto alla XIV disposizione, si
osserva che alla legislazione araldica prefascista occorrerebbe pur
sempre far ricorso ove occorresse decidere controversie tra portatori
di titoli nobiliari già riconosciuti dalla Consulta, e ciò conferma
che si tratta di norme coerenti con la Costituzione. Le stesse
disposizioni che impongono le iscrizioni e annotazioni nei libri
araldici non attengono al riconoscimento di un titolo, ma costituiscono
esecuzione di un provvedimento di ben altro contenuto.
La difesa conclude chiedendo che la questione venga dichiarata non
fondata.
3. - L'Avvocatura dello Stato, i signori Cetti Serbelloni ed i
signori Ferria Contin hanno depositato memorie nelle quali
ulteriormente illustrano le tesi già prospettate. L'Avvocatura, dopo
aver denunciato il contrasto insanabile della legislazione araldica con
l'art. 3 della Costituzione, mette in evidenza che il secondo comma
della XIV disposizione non può che riferirsi a coloro il cui titolo
nobiliare e conseguente predicato sia stato già riconosciuto e
recepito nell'ordinamento vigente alla data del 28 ottobre 1922,
giacché una diversa interpretazione metterebbe nel nulla il disposto
del primo comma e produrrebbe aberranti conseguenze. L'uso del termine
"esistente" non può condurre a diversa conclusione, perché i titoli
nobiliari che non avessero ottenuto riconoscimento di grazia o di
giustizia non avevano rilevanza giuridica, come è dimostrato dalle
sanzioni che colpivano chi ne avesse fatto uso senza la previa
iscrizione nei registri araldici, e dai lavori preparatori della
Costituente emerge inequivocabilmente che non si volle minimamente
distinguere fra riconoscimento ed esistenza del titolo. L'Avvocatura
prosegue richiamando l'attenzione sull'insanabile contrasto fra la
Costituzione e la legislazione araldica, dal quale deriva che questa
ultima non può essere applicata neppure per l'esame ed il giudizio di
atti e fatti giuridici verificatisi sotto il suo impero: il divieto di
riconoscimento ex novo dello status nobiliare rende evidente che le
norme di diritto araldico, in qualunque epoca emanate, sono in
contrasto con la norma costituzionale che quel divieto ha sancito, e la
competenza ad accertarlo è indubbiamente della Corte costituzionale,
custode e garante dell'esatta osservanza della Costituzione.
La difesa dei signori Cetti Serbelloni sostiene che il primo comma
della XIV disposizione rende "inesistenti" per l'ordinamento attuale i
titoli nobiliari, sicché si può parlare di una "non disciplina" della
materia e, quindi, della mancanza di un presupposto della questione di
legittimità costituzionale, atteso che non è configurabile il
contrasto fra "una disciplina ed una totale assenza di disciplina".
Ciò spiega, secondo la stessa difesa, perché non sussista alcuna
violazione dell'art. 3 della Costituzione: se, infatti, la disciplina
giuridica dei titoli nobiliari non trova oggi alcuna applicazione per
la mancanza di un bene al quale essa possa applicarsi, le relative
norme non hanno modo di entrare in conflitto con l'art. 3. Tuttavia, se
pur un problema siffatto potesse porsi, esso andrebbe risolto
negativamente, perché la "pari dignità sociale" dei cittadini
significa esclusivamente la considerazione di cui un soggetto gode
nell'ambito sociale e si sottrae, perciò, ad ogni vincolo normativo,
nessuna legge potendo mai imporre una maggiore o minore considerazione
sociale di determinate attività o di determinate persone.
La difesa prosegue osservando che la legislazione araldica, se ha
perduto ogni efficacia per quanto riguarda i titoli nobiliari, la
conserva per quanto attiene alla tutela di un altro bene, che è il
cognome, col solo limite che gli elementi che entrano a comporlo siano
anteriori al 28 ottobre 1922: ciò non nel senso di un già intervenuto
riconoscimento formale, ma sotto il profilo di una loro esistenza non
illegittima in relazione all'ordinamento del tempo. Un'obiettiva
interpretazione della XIV disposizione non può prescindere dal rilievo
che il titolo nobiliare esiste a prescindere dal suo riconoscimento, e
la distinzione nel tempo operata dalla norma costituzionale dimostra
che il punto di riferimento è costituito dall'atto di concessione e
che di conseguenza alle regole in cui questo si collocava occorre far
capo ai fini della inserzione del predicato nel cognome. Ogni difforme
interpretazione, secondo la difesa, violerebbe un diritto fondamentale
tutelato dagli artt. 2 e 22 della Costituzione: in particolare se si
ritenesse che possono conseguire l'aggiunta del predicato al cognome
solo coloro che ottennero il riconoscimento dalla Consulta araldica, si
priverebbero di un diritto, che la Costituzione ha inteso garantire,
quanti a suo tempo tale riconoscimento non ottennero e si introdurrebbe
una decadenza contrastante col principio che l'art. 2934 del Cod. civ.
enuncia per tutti i diritti della personalità.
Né a diversa conclusione può indurre il carattere transitorio
della XIV disposizione, atteso che la transitorietà è assicurata dal
fatto che solo una cerchia oramai ben definita di soggetti può
chiedere l'aggiunta del predicato al nome. La difesa conclude mettendo
in rilievo che la disposizione costituzionale implica
l'inapplicabilità di tutta la legislazione posteriore al 28 ottobre
1922 e comporta che i predicati esistenti prima di tale data vengano
cognomizzati secondo le procedure previste dal R.D. n. 314 del 1896 e
dall'ordinamento dello stato civile.
La difesa dei signori Ferria Contin procede, preliminarmente, ad un
analitico esame dei singoli testi normativi sottoposti all'esame della
Corte, pervenendo alla conclusione che alcuni di essi - nella memoria
specificati - non hanno forza di legge ovvero, in quanto contrastanti
con lo Statuto del Regno non hanno validità, e quindi non possono
costituire oggetto di una controversia di legittimità costituzionale.
D'altra parte - si aggiunge -, dal momento che gli artt. 79 e 80 dello
Statuto recepirono nell'ordinamento unitario le norme nobiliari
preunitarie e dal momento che queste non sono state validamente
abrogate, per quanto riguarda l'ordine di successione dal R.D. 16
agosto 1926, n. 1489 e per quanto riguarda concessione, riconoscimento
ed uso dal R.D. 21 gennaio 1929, n. 61 o dal R.D. 7 giugno 1943, n.
651, nessuna incidenza sul processo a quo può spiegare la decisione
della Corte, chiamata a pronunziarsi su norme postunitarie, diverse da
quelle preunitarie in virtù delle quali i signori Ferria Contin hanno
proposta l'azione.
Ciò posto la difesa rileva che, così precisato il thema
decidendum, appare chiaro che il Tribunale di Roma ha proposto alla
Corte una mera questione di interpretazione della XIV disposizione, non
proponibile come tale e sulla cui soluzione le norme denunciate non
esercitano alcuna influenza, e prosegue rilevando che la scelta fra
l'una o l'altra interpretazione di quella norma non dipende in nessun
modo dalla compatibilità o meno delle norme denunciate con la
Costituzione, ma discende dalla valutazione che l'interprete crede di
dover dare alla volontà dei costituenti. Né può venire in
discussione il principio di eguaglianza che, se violato dal diritto di
cognomizzare il predicato, sarebbe violato tanto se quel diritto
competesse ai soli ex titolati riconosciuti quanto se lo si
riconoscesse agli ex titolati come tali: violato, dunque, dalla stessa
XIV disposizione. A tale aberrante conclusione, secondo la difesa, si
perviene partendo dall'erronea premessa secondo la quale il secondo
comma del precetto costituzionale costituisce un'eccezione al principio
espresso nel primo, laddove, invece, si tratta di cosa ben diversa: e,
cioè, l'esistenza ante 1922 di un titolo nobiliare appoggiato ad un
predicato costituisce un fatto al quale l'ordinamento riconnette il
solo diritto di operare l'aggiunta al cognome. Ciò significa che le
norme araldiche restano fuori dell'ordinamento repubblicano, ma non
toglie che ad esse occorra far capo, come a fonti storiche, per
accertare alla loro stregua l'esistenza del presupposto di fatto cui la
cognomizzazione è legata. Dal che consegue - così conclude la difesa
- che non sussiste alcun problema di costituzionalità delle norme
araldiche.
4. - Con ordinanza emessa il 18 giugno 1966 nel procedimento civile
pendente tra il signor Vincenzo Caballini, in proprio e quale
rappresentante dei figli minori, e la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, il Tribunale di Bologna, dopo aver rilevato che al fine di
stabilire se possa farsi luogo alla cognomizzazione del predicato di un
titolo nobiliare non riconosciuto dalla Consulta araldica anteriormente
al 1 gennaio 1948 occorre risolvere il problema della conciliabilità
della legislazione araldica con l'art. 3 della Costituzione, osserva
che una soluzione positiva determinerebbe la trasformazione della XIV
disposizione da transitoria in permanente e, in accoglimento di
un'eccezione formulata dal P.M., solleva, perché rilevante e non
manifestamente infondata, la relativa questione di legittimità
costituzionale, rimettendo gli atti a questa Corte "per la risoluzione
della questione di illegittimità costituzionale, per contrasto, con
l'art. 3 e con la disposizione transitoria XIV della Costituzione,
delle norme del R.D. 11 dicembre 1887, n. 1550; del R.D. 2 luglio 1896,
n. 313; del R.D. 5 luglio 1896, n. 314; del R. D. 23 marzo 1924, n.
442; della legge 17 aprile 1925, n. 473; del R.D. 16 agosto 1926, n.
1489; del R.D. 21 gennaio 1929, n. 61; del R.D. 7 giugno 1943, n. 651;
nonché della questione relativa al carattere permanente o transitorio
della XIV disposizione finale della Costituzione".
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966.
L'Avvocatura dello Stato, costituitasi in rappresentanza del
Presidente del Consiglio dei Ministri, ha depositato un atto di
deduzioni (2 dicembre 1966) ed una successiva memoria, sostenendo le
tesi già descritte negli altri giudizi.
Si è costituito altresì il signor Caballini, rappresentato e
difeso dagli avvocati Federico Mase' Dari e Giannetto Cavasola, il
quale, negli scritti difensivi depositati il 17 settembre 1966 ed il 27
aprile 1967, chiede che la questione sia dichiarata non fondata. A
sostegno di tale conclusione la difesa sottopone all'attenzione della
Corte le seguenti osservazioni: 1) la c.d. cognomizzazione del
predicato, legittima perché prevista dalla stessa Costituzione, non
viola l'art. 3 della Costituzione perché non attribuisce alcun
privilegio, tale non potendo definirsi il conferimento di un
determinato cognome. 2) L'interpretazione del secondo comma della XIV
disposizione sostenuta dall'Avvocatura è inesatta perché nel
vocabolario comune, nella terminologia giuridica ed in quella araldica
il vocabolo "esistenti" è diverso dal vocabolo "riconosciuti", come
dimostra lo stesso esame dei due commi del precetto costituzionale. 3)
Le leggi araldiche, la dottrina e la giurisprudenza suffragano la tesi
che l'atto di riconoscimento ha natura puramente dichiarativa, e non è
immaginabile che i costituenti abbiano ignorato questa realtà, alla
quale le espressioni usate nella XIV disposizione perfettamente
corrispondono: e l'interpretazione che ne consegue, secondo la quale la
cognomizzazione è ammessa per predicati di titoli esistenti ancorché
non riconosciuti è di gran lunga prevalente sia nella dottrina che
nella giurisprudenza. 4) Da ciò consegue la permanenza in vigore delle
norme in base alle quali occorre accertare se un titolo esistente o no
prima del 28 ottobre 1922, e ciò a meno che non si voglia rendere
assurdamente inoperante la XIV disposizione. 5) Il primo comma di
quest'ultima rende inoperante l'ordinamento araldico per ciò che
riguarda i titoli nobiliari in sé considerati, ma non preclude che, al
fine della cognomizzazione, venga accertato in base a quelle norme il
fatto storico dal quale discende la cognomizzazione (la quale non
riguarda il titolo, ma il predicato): a questi limitati effetti la
legislazione araldica non viola l'eguaglianza dei cittadini. 6) La XIV
disposizione, demandando ad una futura legge la soppressione della
Consulta, fornisce un ulteriore indice dell'attuale vigenza
dell'ordinamento araldico, sempre imperniato sulla istituzione e sul
funzionamento di quell'organo, fino al punto che è difficile sceverare
la materia a questo attinente dall'intero complesso normativo. 7) Circa
la distinzione fra legislazione anteriore o posteriore al 28 ottobre
1922 - peraltro indifferente ai fini della decisione del processo a quo
- il rinvio della soppressione della Consulta ad una futura legge
sembra presupporre che per intanto restino in vita tutte le leggi
vigenti al momento dell'entrata in vigore della Costituzione. 8) Ai
fini della qualificazione della XIV disposizione come transitoria o
permanente conta solo il suo contenuto, e questo non è tale da
limitare nel tempo né il divieto di riconoscimento dei titoli
nobiliari né il diritto alla cognomizzazione, esercitabile ogni
momento, quando ne ricorrano i presupposti.
5. - Le stesse questioni di legittimità costituzionale sono state
sollevate dal Tribunale di Roma con altra ordinanza emessa il 7
novembre 1966 nel procedimento pendente fra il signor Francesco Lopez y
Royo contro il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Tribunale, dopo aver riportato i termini nei quali l'Avvocatura
dello Stato aveva eccepito l'illegittimità costituzionale della
legislazione araldica, afferma che non è infondato il dubbio circa la
conformità alla Costituzione delle norme araldiche emanate in epoca
anteriore o successiva al 28 ottobre 1922, giacché in base ad esse il
giudice dovrebbe in sostanza svolgere un'attività di riconoscimento
dei titoli nobiliari, in contrasto col divieto contenuto nel primo
comma della XIV disposizione; e se anche non si dovesse seguire la tesi
dell'Avvocatura dello Stato - secondo la quale il diritto alla
cognomizzatione riguarda i soli predicati riconosciuti prima del 1922 -
sussisterebbe pur sempre il dubbio se possa applicarsi la legislazione
posteriore a tale data ed in quali limiti e con quali modalità debba
essere osservata quella anteriore. Affermando che questi problemi, i
quali nascono dalla incerta compatibilità della legislazione ordinaria
con la Costituzione, danno luogo ad una questione di legittimità
costituzionale, il Tribunale ne rimette l'esame a questa Corte negli
stessi termini delle precedenti ordinanze.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 51 del 25 febbraio 1967.
L'Avvocatura dello Stato, costituitasi in rappresentanza e difesa
del Presidente del Consiglio dei Ministri, sia nell'atto di deduzioni
(depositato il 16 marzo 1967) che nella successiva memoria ha
illustrato le tesi già sostenute nei precedenti giudizi.
6. - Nell'udienza pubblica le parti costituite hanno oralmente
illustrato le rispettive tesi ed hanno insistito nelle descritte
conclusioni.
Considerato in diritto:
1. - Le sei ordinanze del Tribunale di Roma e del Tribunale di
Bologna propongono le stesse questioni di legittimità costituzionale,
e pertanto i relativi giudizi, congiuntamente trattati nell'udienza
pubblica, vanno riuniti e definiti con unica sentenza.
2. - Dalle motivazioni delle ordinanze di rimessione risulta che i
vari testi normativi sottoposti all'esame della Corte (alcuni indicati
con errori, di data e di numero, che vengono corretti nel dispositivo
della presente decisione) sono stati impugnati non in tutte le singole
disposizioni, ma solo nelle parti in cui essi trovano applicazione: a)
per l'aggiunta al nome di predicati attinenti a titoli nobiliari
anteriori al 28 ottobre 1922, ancorché non riconosciuti; b) per la
sottoposizione delle vicende del relativo diritto e delle forme e dei
modi della sua tutela giudiziaria ad una disciplina difforme da quella
del comune diritto al nome.
Le questioni, così delimitate nel loro oggetto, rientrano nella
competenza di questa Corte. Le ordinanze, infatti, pongono il problema
della compatibilità di atti aventi forza di legge con disposizioni
costituzionali, e perciò chiedono che sia accertato, nei modi previsti
dall'ordinamento, se il giudice debba applicare o disapplicare norme
sulla cui conformità alla Costituzione cade un dubbio non
manifestamente infondato. E per quanto il rapporto fra la c.d.
legislazione nobiliare e la XIV disposizione transitoria e finale non
si ponga, segnatamente per la questione descritta sub a), in rigorosi
termini di abrogazione, ma piuttosto di strumentalità (nel senso,
cioè, che il ricorso a quelle leggi sarebbe mezzo per l'applicazione
della norma costituzionale, ove questa fosse intesa nel modo meno
restrittivo), è da rilevare che il principio enunciato fin dalla
sentenza n. 1 del 1956 giustifica la sussistenza della competenza di
questa Corte tutte le volte in cui l'applicabilità di una legge
ordinaria sia strettamente condizionata, come nella specie accade, al
riscontro con un precetto costituzionale.
3. - Gli atti impugnati - eccetto quelli convertiti in legge (così
il R.D.L. 20 marzo 1924, n. 442, convertito con legge 17 aprile 1925,
n. 473, ed il R.D.L. 28 dicembre 1924, n. 2337, convertito con legge 21
marzo 1926, n. 597)-trovano la loro fonte nella c.d. prerogativa regia
riconosciuta dall'art. 79 dello Statuto, e perciò, in quanto
costituiscono espressione di una potestà normativa primaria
direttamente attribuita dalla Costituzione allora vigente, essi sono
dotati di forza di legge (secondo un principio che, già riconosciuto
dalla giurisprudenza, trovò conferma nell'art. 1 dell'ordinamento
dello stato nobiliare approvato con R.D. 7 giugno 1943, n. 651), senza
che nel loro ambito, a causa di particolarità inerenti al procedimento
seguito o in considerazione del contenuto delle norme, siano da
distinguere testi che abbiano un puro carattere regolamentare. La forza
di legge esclude altresì che possa essere di qualche rilievo il
contrasto che si assume esistente fra il contenuto di alcune
disposizioni (in particolare di quelle che hanno ad oggetto la
successione nei titoli preesistenti allo Stato unitario, regolata in
maniera difforme rispetto a quella prevista dalla legislazione
anteriore) e l'art. 79 dello Statuto.
4. - La decisione delle questioni proposte dalle ordinanze di
rimessione comporta la necessità di accertare se il secondo comma
della XIV disposizione, nello stabilire che i predicati dei titoli
nobiliari esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del
nome, si riferisca solo ai titoli che già avessero ottenuto il
riconoscimento nelle forme e nei modi previsti dall'ordinamento
nobiliare ovvero anche a quelli che comunque fossero oggetto di un
diritto risalente ad epoca anteriore a quella data.
Alla soluzione del problema non può recare nessun contributo
l'indagine, espressamente sollecitata dal Tribunale di Bologna, sul
carattere permanente o transitorio della disposizione costituzionale, e
ciò perché la definizione di una norma come transitoria implica solo
che, nel passaggio da una vecchia ad una nuova disciplina, alcuni fatti
o rapporti, in considerazione della loro collocazione cronologica, sono
sottratti alla efficacia del nuovo regolamento, ma non esclude che la
norma possa trovare applicazione, per un tempo indefinito, tutte le
volte in cui quei fatti o quei rapporti siano oggetto di valutazione
giuridica. Né, per altro verso, alcun argomento risolutivo può
trarsi dal fatto che l'ultimo comma della XIV disposizione demanda ad
una futura legge, tuttora non emanata, la soppressione della Consulta
araldica. Dovendosi ritenere che la norma è da riferirsi all'intera
organizzazione predisposta per l'adempimento delle funzioni
amministrative nella materia araldica (che è più ampia di quella
strettamente nobiliare), la circostanza che il Costituente non ne abbia
direttamente disposta l'eliminazione non significa che in attesa della
futura legge siano state conservate tutte le attribuzioni previste
dalla legislazione che la istituì e la regolò, come è dimostrato
dalla sicura e non controversa caducazione di tutti quei compiti che
strettamente erano inerenti ad un ordinamento giuridico nel quale i
titoli nobiliari trovavano piena cittadinanza. Con ciò si vuol dire
che non dalle competenze dell'ufficio araldico si può risalire
all'interpretazione della XIV disposizione, ma, al contrario, da questa
si deve dedurre quali siano attualmente le sue residue funzioni.
La Corte ritiene che il reale significato della norma
costituzionale in esame non possa essere accertato se non alla luce del
principio espresso dal primo comma della disposizione, secondo il quale
l'ordinamento repubblicano non riconosce i titoli nobiliari. Ed infatti
l'incertezza intorno all'interpretazione della qualifica "esistenti"
riferita ai titoli anteriori al 28 ottobre 1922, non può essere
superata da considerazioni meramente letterali. Vero è che nel passato
ordinamento un titolo nobiliare era da considerare "esistente"
indipendentemente dal "riconoscimento" amministrativo o
giurisdizionale, che aveva solo una funzione di accertamento (peraltro
necessario al legittimo uso ufficiale del titolo), ma è da escludere
che la lettera della norma costituzionale si riferisca all'esistenza
del titolo in contrapposto al suo riconoscimento; la contrapposizione,
invero, è solo fra titoli anteriori e titoli posteriori al 28 ottobre
1922, e la preposizione normativa esprime in forma lessicalmente
positiva la esclusione dei secondi dal c.d. diritto alla
cognomizzazione. Sicché, equivalente la frase "esistenti prima del 28
ottobre 1922" a quella "non conferiti dopo il 28 ottobre 1922", è
chiaro che l'interpretazione letterale non è idonea alla risoluzione
del diverso problema qui in esame, che va, perciò raggiunta con
l'impiego di altri canoni ermeneutici: ed anzitutto, attraverso il
coordinamento dei due primi commi della disposizione, nel senso che al
secondo deve essere attribuito quel significato che maggiormente si
concilii col primo. È questo, infatti, ad esprimere la scelta di fondo
operata dal Costituente, e con essa ogni altra norma relativa alla
materia va di necessità coordinata.
Ciò posto, è da mettere in rilievo che il divieto di
riconoscimento dei titoli nobiliari non attiene solo all'attività
giudiziaria o amministrativa necessaria, come accadeva nel precedente
ordinamento, per l'accertamento ed il conseguente legittimo uso di un
titolo già di per sé esistente (e ciò conferma che dalla diversa
terminologia usata nel primo e nel secondo comma non può trarsi
argomento favorevole alla tesi sostenuta dalle parti private), ma
comporta che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un
diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza: in una
parola, essi restano fuori del mondo giuridico. Da questa premessa, che
nessuno contesta, inevitabilmente discende che l'ordinamento non può
contenere norme che impongano ai pubblici poteri di dirimere
controversie intorno a pretese alle quali la Costituzione disconosce
ogni carattere di giuridicità. E perciò, una volta attribuiti al
primo comma quel contenuto e queste conseguenze, è certo da escludere
che il secondo possa essere interpretato in un senso che con l'uno e
con le altre sarebbe in contrasto. Ciò accadrebbe ove si accogliesse
la tesi che, al fine della cognomizzazione, il giudice debba accertare
l'esistenza del titolo in capo a questo o a quel soggetto, valutarne le
vicende alla stregua delle regole proprie del regime successorio
nobiliare e dare piena applicazione alla legislazione araldica fino al
punto - secondo la teoria che appare più coerente con le promesse - da
potersi pronunziare solo previo contraddittorio dell'interessato con
l'ufficio araldico (legislativamente definito come rappresentante della
regia prerogativa) e con provvedimento destinato ad essere iscritto
negli appositi libri nobiliari. Né importa che l'accertamento andrebbe
compiuto non in funzione del legittimo uso del titolo, ma come
strumentale rispetto al diverso diritto relativo all'aggiunta del
predicato al nome; ed infatti, nonostante questa finalità, il titolo
costituirebbe pur sempre oggetto di un diritto e di una vera e propria
tutela giuridica, laddove l'uno e l'altra sono perentoriamente esclusi
dal principio enunciato nel primo comma.
Tale irrilevanza giuridica dei titoli nobiliari impedisce, dunque,
che essi possano essere giudizialmente accertati e perciò il secondo
comma della XIV disposizione va interpretato nel residuo senso che
l'aggiunta al nome dei predicati anteriori al 28 ottobre 1922 non trova
la sua fonte nel diritto al titolo, non più sussistente, ma nel già
intervenuto riconoscimento, che assume il ruolo di presupposto di fatto
del diritto alla cognomizzazione.
Siffatta conclusione, oltre a rispondere all'esigenza di una
corretta interpretazione sistematica desunta dal necessario
coordinamento dei due primi commi della XIV disposizione, trova pieno
conforto nei lavori preparatori, dai quali si ricava che intento del
Costituente fu quello di evitare che dal disconoscimento dei titoli
nobiliari potesse derivare una lesione del diritto al nome (il che,
ovviamente, esclude la cognomizzazione attuale di predicati mai
riconosciuti e perciò mai legittimamente usati come elemento di
individuazione del casato) ed è, nel contempo, l'unica che appaia
conciliabile con la "pari dignità sociale" garantita dal primo comma
dell'art. 3 della Costituzione. Su quest'ultimo punto, infatti, va
respinta la tesi sostenuta dai signori Cetti Serbelloni, secondo la
quale tale formula sarebbe priva di ogni possibile contenuto giuridico,
giacché essa esprime un principio generale che da un lato importa
l'illegittimità di tutte le misure legislative che colleghino
particolari distinzioni di rilevanza sociale a circostanze che non
siano dipendenti da capacità e da meriti personali, dall'altra
concorre ad interpretare le stesse norme costituzionali nel senso più
rispettoso di sffatta esigenza. Ora, come è induhhio che il primo
comma della XIV disposizione è chiaramente ispirato al fine di meglio
garantire, nel senso anzidetto, la parità dei cittadini, cos è certo
che il secondo comma deve essere inteso in modo da escludere che per
altra via venga consentita una perdurante ed indefinita efficacia della
legislazione nobiliare.
5. - Da quanto fin qui si è detto discende che non sono
compatibili con il secondo comma della XIV disposizione gli atti
impugnati, per la parte in cui essi dovrebbero trovare applicazione per
l'aggiunta al nome di predicati di titoli nobiliari i quali, ancorché
siano anteriori al 28 ottobre 1922, non abbiano formato oggetto di
riconoscimento durante il vigore del vecchio ordinamento.
Va aggiunto che l'interpretazione della norma costituzionale nei
sensi innanzi descritti e la considerazione che il diritto alla
cognomizzazione impone che il predicato segua in tutto la sorte del
nome giustificano altre due conseguenze: a) che le vicende del diritto
attribuito dal secondo comma della XIV disposizione devono ormai essere
valutate non secondo le norme che regolavano la successione nei titoli
nobiliari, ma alla stregua di quelle che disciplinano i modi di
acquisto del nome; b) che la tutela di tale diritto sotto ogni aspetto
(sia per quanto attiene alle forme del procedimento ed ai soggetti
legittimati a prendervi parte sia per quanto riguarda l'esecuzione dei
provvedimenti) deve seguire le regole che il vigente ordinamento detta
per la tutela del diritto al nome. Queste conclusioni ricevono
ulteriore conferma dall'art. 3 della Costituzione, essendo certo che
l'assoggettamento del diritto all'aggiunta del predicato al regime
proprio dei titoli nobiliari non potrebbe trovare alcuna
giustificazione in un ordinamento che a questi, con norma
costituzionale, nega ogni autonoma rilevanza. Anche per questa parte,
dunque, va dichiarata la illegittimità costituzionale degli atti
legislativi sottoposti al controllo della Corte.