Ritenuto in fatto:
Con ordinanza del 31 gennaio 1963, emessa nel procedimento penale a
carico di Ada Gollino, notificata al Presidente del Consiglio dei
Ministri ed alla parte, rispettivamente, il 9 ed il 6 febbraio 1963,
comunicata ai Presidenti delle due Camere in data 7 febbraio dello
stesso anno, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica, n.
87 del 30 marzo 1963, il Pretore di Cortina d'Ampezzo ha sollevato la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 27
dicembre 1956, n. 1423, contenente norme di prevenzione nei confronti
di persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità, in
riferimento agli artt. 16, 3, 25, terzo comma, e 102, primo comma,
della Costituzione.
Nell'ordinanza si osserva che ragioni di sicurezza e di sanità
possono, a norma dell'art. 16 della Costituzione, giustificare
l'allontanamento di una persona da un certo luogo, non invece l'ordine
di portarsi (pur senza l'obbligo di rimanervi) in altro luogo. I fini
di prevenzione perseguiti dall'art. 16 citato sarebbero soddisfatti da
una norma che consentisse l'allontanamento di una persona da un
determinato luogo; la norma, invece, che prevede l'obbligo di portarsi
(senza rimanervi) in altro luogo, sembrerebbe superare tali fini,
dimostrandosi, rispetto ad essi, incongrua per eccesso.
La norma sarebbe in contrasto anche con l'art. 3 della
Costituzione, perché autorizzerebbe limitazioni della libertà di
circolazione e di soggiorno non già in relazione a motivi di carattere
generale ed obiettivo, come richiede l'art. 16 della Costituzione, ma
in base a motivi ed a situazioni che implicano un giudizio sulla
personalità e sul comportamento dei singoli soggetti. Di conseguenza,
l'ordine di rimpatrio, comportando la qualifica di persona socialmente
pericolosa, inciderebbe sulla dignità del soggetto.
Vi sarebbe poi violazione del terzo comma dell'art. 25 della
Costituzione, in quanto il principio della assoluta riserva di legge
investe non soltanto le misure di sicurezza in senso stretto, ma anche
la più ampia categoria delle misure di prevenzione, fra le quali
rientra il rimpatrio con foglio di via obbligatorio.
Infine, l'art. 2 sarebbe in contrasto con l'art. 102 della
Costituzione, in quanto la misura di prevenzione in questione sarebbe
presa dall'autorità amministrativa e non da quella giudiziaria e senza
instaurare un contraddittorio nei confronti del cittadino.
Il Pretore, premesso che la questione di costituzionalità, così
formulata, non è stata presa in esame dalla Corte in precedenti
occasioni, ha sollevato la questione stessa, ritenendola non
manifestamente infondata e rilevante per la decisione della causa.
La parte privata non si è costituita nel giudizio davanti alla
Corte. È intervenuto, invece, il Presidente del Consiglio dei
Ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, la quale nelle
proprie deduzioni, depositate in cancelleria il 28 febbraio 1963,
sostiene che la questione sollevata dal Pretore di Cortina d'Ampezzo
non è fondata. E ciò per i seguenti motivi.
Il concetto di limitazione della libertà di soggiorno e di
circolazione presuppone, ovviamente, il riferimento ad un luogo nel
quale sia consentito soggiornare e tale luogo non può non essere, in
astratto, che quello della dimora abituale e cioè della residenza
della persona.
Che da parte del Questore il rinvio avvenga al luogo di residenza
è logico, un luogo di soggiorno dovendo pur essere riconosciuto
all'individuo. Ed è altrettanto logico che la norma di legge si
richiami a quel luogo, e non ad un altro, per la funzione strumentale
che l'istituto ha, ai fini di un controllo sull'adempimento del
precetto di non soggiornare in un certo luogo, ove ostino motivi di
sicurezza o di sanità. Ma la norma costituzionale, accanto ai limiti
di soggiorno, prevede anche i limiti di circolazione. Ed è appunto in
questi limiti di circolazione che s'inquadra l'ordine di rientro nel
luogo di residenza, anche se l'obbligo non trovi poi compiuta
espressione nel divieto di allontanarvisi.
L'art. 2 della legge del 1956 non appare eccedere tali limiti.
È da negarsi poi che sussista violazione dell'art. 3 della
Costituzione.
Secondo la giurisprudenza della Corte, la violazione del principio
di eguaglianza sussiste quando la norma di legge sia dettata "in odio"
a certe categorie di persone: nella specie, ciò non sussiste, perché
i limiti di soggiorno e di circolazione sono posti nei confronti delle
persone indicate nella legge del 1956 e ritenute pericolose per la
sicurezza pubblica o per la pubblica moralità, che si trovino fuori
dei luoghi di residenza.
Nulla, quindi, "in odio" a categorie di persone, il cui status non
giustifichi le limitazioni in astratto previste dalla norma
costituzionale.
Per quanto attiene, infine, alla dedotta violazione degli artt. 25
e 102 della Costituzione, l'Avvocatura, mentre ammette che la riserva
di legge di cui all'ultimo comma dell'art. 25 investe non solo le
misure di sicurezza in senso stretto, ma anche la più ampia categoria
delle misure di prevenzione, fra le quali non v'è dubbio che rientri
il così detto rimpatrio con foglio di via obbligatorio, nega che alle
misure di prevenzione si estenda anche la riserva di giurisdizione,
fondata dal Pretore sullo stesso art. 25 e sull'art. 102 della
Costituzione. La riserva di giurisdizione concerne soltanto le misure
di sicurezza e, delle misure di prevenzione, solo quelle che si
risolvono in una restrizione della libertà personale, per la quale
valgono le disposizioni di cui all'art. 13 della Costituzione. Il
rimpatrio con foglio di via obbligatorio non comporta restrizione alla
libertà personale, e pertanto esso può essere opisdsto anche da
autorità diversa da quella giudiziaria, il cui intervento è
necessario per le misure di sicurezza in senso stretto. Del resto
l'ordinamento giuridico offre strumenti idonei per il controllo della
legittimità degli atti di prevenzione, e, pertanto, anche sotto tale
profilo, la questione prospettata dal Pretore di Cortina d'Ampezzo deve
ritenersi infondata.
Considerato in diritto:
1. - L'ordinanza osserva che ragioni di sicurezza (o di sanità)
possono giustificare l'allontanamento di una persona da un luogo
determinato, ma non giustificano l'obbligo di portarsi, senza
rimanervi, in altro luogo.
Tale misura, non congrua rispetto alle esigenze da soddisfare,
costituirebbe una limitazione della libertà di circolazione e di
soggiorno più grave, e comunque ulteriore e diversa, in confronto a
quella consistente nel mero allontanamento da un certo luogo.
L'osservazione non è fondata. Potrebbe anche non contestarsi
l'esattezza dell'affermazione del Pretore, che, cioè , quando il
sacrificio di un diritto può essere disposto soltanto per salvaguardia
di un interesse pubblico determinato da una norma costituzionale, è
ammissibile il raffronto tra il mezzo prescelto dal legislatore
ordinario per quella salvaguardia e il fine impostogli, come limite,
dal legislatore costituzionale: di modo che, ove il mezzo risultasse
incongruo o addirittura eccessivo, la norma potrebbe essere
costituzionalmente illegittima. Ma, rispetto alla disposizione in
esame, non si ravvisa né incongruità né eccesso.
L'obbligo di portarsi, almeno inizialmente, nel Comune di residenza
risponde ad una esigenza logica, fondata sulla realtà: senza la
indicazione di una destinazione il foglio di via avrebbe l'aspetto di
un bando, non di un ordine di trasferimento da un Comune ad un altro.
D'altra parte, poiché tra Comuni e Comuni della Repubblica
italiana non ci sono barriere, non sarebbe materialmente possibile né
per l'autorità di pubblica sicurezza né per la stessa persona munita
di foglio di via obbligatorio accertare e fare accertare se tale
persona si sia effettivamente allontanata dal territorio di un Comune.
Ora, siffatto accertamento non è soltanto richiesto da esigenze di
buon funzionamento degli uffici di polizia ai fini di un efficace
controllo, che può essere unicamente effettuato presso gli uffici
esistenti in un determinato Comune; ma l'ordine di raggiungere il
Comune di residenza offre anche una garanzia per la stessa persona
munita del foglio di via, al cui interesse giova che la destinazione
sia fissata dalla legge. Difatti, più gravi limitazioni della libertà
di soggiorno e di circolazione e maggiori disagi si sarebbero avuti se
la scelta fosse stata devoluta all'autorità di pubblica sicurezza. Né
la scelta poteva essere lasciata allo stesso interessato, dovendosi
ragionevolmente presumere che egli nel luogo della sua dimora abituale
abbia le maggiori possibilità di reinserirsi in un ambiente più
confacente ad un sistema di vita meno esposto ai pericoli ed ai
turbamenti del luogo di non abituale dimora.
Se, poi, la persona non troverà adatto al suo soggiorno il Comune
di residenza, sarà libera di spostarsi dove vorrà, purché, fino a
quando perduri l'ordine di allontanamento, non torni al luogo di
provenienza.
Le esposte considerazioni mostrano come nella norma denunziata non
sussista incongruità né eccesso rispetto ai fini ed ai limiti segnati
dal precetto costituzionale.
2. - La seconda censura prospetta alcuni nuovi argomenti per
contrastare l'interpretazione data dalla Corte, con sentenza n. 2 del
1956, alla formula contenuta nell'art. 16 della Costituzione:
limitazioni stabilite in via generale dalla legge. In quella sentenza
fu detto che l'inciso "in via generale" deve intendersi nel senso che
la legge debba essere applicabile alla generalità dei cittadini, non a
singole categorie.
Secondo il Pretore, invece, quell'inciso, che non si trova né
nell'art. 13 né nell'art. 25, ultimo comma, della Costituzione,
significherebbe che le limitazioni consentite dall'art. 16 si
riferiscono a motivi di carattere generale, obiettivamente accertabili,
e non a motivi che implichino un giudizio sulla personalità e sui
comportamenti dei soggetti, tanto più che questo giudizio darebbe
luogo a discriminazioni inaccettabili.
Solo escludendo la possibilità di un giudizio rispetto ai
comportamenti individuali, si potrebbe ammettere che questi
provvedimenti siano adottati dall'autorità amministrativa.
L'interpretazione sostenuta nell'ordinanza non risponde alle
finalità chiaramente volute dalla norma costituzionale. I motivi di
sanità o di sicurezza possono nascere da situazioni generali o
particolari. Ci può essere la necessità di vietare l'accesso a
località infette o pericolanti o di ordinarne lo sgombero; e queste
sono ragioni - non le uniche - di carattere generale, obiettivamente
accertabili e valevoli per tutti. Ma i motivi di sanità e di sicurezza
possono anche derivare, e più frequentemente derivano, da esigenze che
si riferiscono a casi individuali, accertabili dietro valutazioni di
carattere personale. Si pensi alla necessità di isolare individui
affetti da malattie contagiose o alla necessità di prevenire i
pericoli che singoli individui possono produrre rispetto alla sicurezza
pubblica.
Il fatto che l'art. 16 accomuni, mettendole sullo stesso piano, le
ragioni di sanità e di sicurezza è indice che non può trattarsi solo
di ragioni di carattere generale, non essendo pensabile che motivi di
sanità attinenti alla pericolosità di singoli individui possano non
essere validi ai fini delle limitazioni consentite dalla norma
costituzionale. Ed anche il fatto che lo stesso art. 16 esclude le
restrizioni determinate da ragioni politiche conferma che le
limitazioni possono essere adottate per motivi di carattere
individuale, non essendo concepibile una misura ispirata da motivi
politici se non in vista dei personali convincimenti e comportamenti di
individui e di gruppi.
D'altra parte, se il costituente avesse avuto la volontà di
circoscrivere le limitazioni ai soli casi di carattere generale,
avrebbe certamente preveduto, magari imponendo particolari garanzie, la
possibilità di adottare provvedimenti di carattere individuale almeno
nei casi urgenti. E sarebbe strano il fatto che, mentre per le
restrizioni della libertà personale l'art. 13 prevede che la legge
indichi i casi urgenti in cui l'autorità di pubblica sicurezza può
intervenire, l'art. 16 avrebbe escluso in via assoluta che la legge
possa statuire limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno
che non siano di carattere generale.
Che la volontà del costituente sia stata quella di venire incontro
alle pubbliche esigenze di sanità e di sicurezza anche rispetto alle
situazioni di carattere individuale, si evince in modo chiaro dai
lavori preparatori, dai quali risulta che si volle lasciare alle
autorità di pubblica sicurezza la possibilità di "rinviare al proprio
domicilio, con foglio di via obbligatorio, le persone che siano per un
modo o per un altro, indesiderabili, come nei casi di accattonaggio,
prostituzione, etc.", considerando "come forma essenziale di tutela
della libertà dei cittadini quella di permettere alla polizia di
restituire al loro domicilio e ivi fissare le persone pericolose alla
sicurezza pubblica". E proprio per prevenire qualsiasi abuso nel campo
politico si stabilì che nessuna restrizione può essere determinata da
ragioni politiche.
Nel quadro di questi presupposti, ed espressamente in vista di
essi, fu inserita nel testo definitivo dell'attuale art. 16 la formula
"in via generale", per chiarire che "le autorità non possono porre
limiti contro una determinata persona o contro determinate categorie":
non nel senso che non si potessero adottare provvedimenti contro
singoli o contro gruppi, ma nel senso che non si potessero stabilire
illegittime discriminazioni contro singoli o contro gruppi.
La conclusione è che la formula "stabilisce in via generale"altro
non è che una particolare e solenne riaffermazione del principio posto
nell'art. 3 della Costituzione, come lo è nell'art. 21, ultimo comma,
della stessa Costituzione.
In vista della particolare delicatezza di questi provvedimenti che
i costituenti non dubitarono che fossero di competenza della autorità
amministrativa, non fa meraviglia che si sia sentita la opportunità di
ribadire un canone che la Costituzione enuncia come uno dei suoi
principi fondamentali.
Con la recente sentenza n. 23 del 1964 la Corte ha dichiarato, in
relazione all'art. 1 della legge del 1956, che la disposizione
configura una categoria di persone identificabili in base ad elementi
da essa stessa determinati: che poi la sua attuazione implichi un
margine di discrezionalità nelle valutazioni dei singoli casi concreti
non è motivo perché possa ravvisarsi nella norma un contrasto con
l'art. 3 della Costituzione, essendo proprie, quelle valutazioni, di
ogni giudizio diretto all'applicazione di norme giuridiche.
Si può ulteriormente precisare che nell'accertamento da farsi ai
fini dell'applicazione della misura prevista dall'art. 2 della stessa
legge, non si emette un giudizio sulla moralità e sulla
rispettabilità della persona, ma si accerta il pericolo per la
sicurezza o per la sanità, come ebbe a rilevare la Corte con un'altra
sua sentenza (n. 126 del 1962). Quando, nel caso in cui questo
accertamento sia positivo, si dia luogo all'applicazione della diffida
o del rimpatrio, il provvedimento non può dirsi discriminatorio,
giustificato com'è dalla necessità da cui è stato determinato:
necessità che esclude ogni carattere di arbitrarietà e di ingiusta
discriminazione. È, quindi, da escludere, sotto questo aspetto, la
violazione dell'art. 3 della Costituzione.
Sarà separatamente esaminata l'altra questione circa il denunziato
contrasto con lo stesso art. 3 per il fatto che il provvedimento
previsto dall'art. 2 della legge del 1956, risolvendosi in una misura
lesiva della dignità della persona, non è stato attribuito alla
competenza del giudice.
3. - Nelle precedenti pronuncie della Corte la questione relativa
alla competenza dell'organo chiamato ad applicare i provvedimenti in
questione era stata esaminata sotto l'aspetto della violazione
dell'art. 13 della Costituzione, e ciò in conformità e nei limiti
delle proposizioni contenute nelle ordinanze di rimessione.
Escluso che la limitazione dei diritti riconosciuti con l'art. 16
fosse da considerarsi restrizione della libertà personale ai sensi
dell'art. 13, la Corte ha più volte ripetuto che non è necessario
l'intervento del giudice.
Il Pretore di Cortina d'Ampezzo risolleva la questione
prospettandola da un angolo visuale che vorrebbe essere diverso:
la norma denunziata violerebbe una riserva di giurisdizione posta
dalla Costituzione. Tale riserva risulterebbe precipuamente dall'art.
102 della Costituzione. In questa norma, che vieta l'esercizio della
funzione giurisdizionale ad organi diversi da quelli investiti di
giurisdizione, il Pretore trova implicito il divieto di affidare ad
altri organi certi atti che per loro natura devono essere attribuiti ad
un giudice, "essendo compito della giurisdizione di giudicare gli
individui e correlativamente disporre delle loro libertà
fondamentali": nel che si concreterebbe la "riserva di giurisdizione".
Il provvedimento di rimpatrio sarebbe uno di codesti atti riservati al
giudice.
Poiché, ai fini di questa causa, ci si deve occupare soltanto
degli atti della pubblica Amministrazione, la Corte ritiene che sia
d'uopo ricordare che la vita amministrativa pubblica è intessuta di
atti, che l'Amministrazione adotta senza un previo accertamento da
parte dei giudici e che sono senz'altro imperativi. È questa, anzi,
una delle caratteristiche degli atti amministrativi. Ed anche in
relazione a questo generale potere degli organi amministrativi di
adottare provvedimenti senz'altro imperativi, è da considerare la
norma dell'art. 113 della Costituzione, secondo cui contro gli atti
della pubblica Amministrazione è ammessa, senza esclusioni o
limitazioni, la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi.
Si può dunque affermare che la tutela giurisdizionale rispetto
agli atti dell'Amministrazione è sempre assicurata senza limitazioni;
ma di regola è assicurata a posteriori.
Esistono indubbiamente delle sfere nell'ambito delle quali
l'Amministrazione non può provvedere, essendo la competenza riservata
agli organi giurisdizionali. Ma a tal fine occorre attenersi alle
singole disposizioni.
E poiché nel caso attuale si tratta di giudicare in ordine al
provvedimento di rimpatrio obbligatorio, l'esame consiste nel rilevare
se la disposizione denunziata, deferendo il provvedimento ad un organo
dell'Amministrazione, violi le norme od i principi della Costituzione
invocati nell'ordinanza di rinvio.
Si sostiene, nell'ordinanza, che la Costituzione tutela la pari
dignità sociale della persona (art. 3) e precisa, negli artt. 25, 27 e
101 e seguenti, a quali organi e con quali garanzie spetta di emanare
giudizi che intacchino quella parità, specialmente quando si risolvano
in una degradazione giuridica della persona: rilievo questo che
potrebbe dirsi confortato dalla sentenza n. 11 del 1956, emessa dalla
Corte sia pure nei confronti dell'art. 13 della Costituzione.
La Corte osserva che fra gli articoli seguenti al 101 bisogna
considerare il 102, sul quale l'ordinanza aveva posto l'accento per
fondarvi il principio della riserva di giurisdizione. L'argomento
addotto dall'ordinanza, secondo cui dal divieto di attribuire funzioni
giurisdizionali ad organi non investiti di giurisdizione si dovrebbe
dedurre la esistenza di detta riserva, operante anche in riferimento al
caso in esame, non appare esauriente, risolvendosi, quell'argomento, in
una petizione di principio.
Né a favore della tesi sostenuta nell'ordinanza si possono trarre
argomenti dalle altre norme costituzionali ora richiamate.
Non si può, infatti, fondatamente affermare che alla pubblica
Amministrazione sia sottratto qualunque provvedimento che intacchi la
dignità delle persone.
Nella vastissima sfera dei suoi compiti pubblici l'Amministrazione
è chiamata ad emettere una numerosa serie di atti le cui ripercussioni
sulla stimabilità delle persone possono essere rilevanti: si pensi
agli atti relativi a decadenze, dimissioni, divieti, sanzioni
amministrative, fra le quali, rilevantissime, quelle disciplinari, che
possono giungere alla destituzione di pubblici dipendenti ed alla
radiazione dagli albi professionali. Ben potrebbe il legislatore
attribuire al giudice la competenza di adottare qualcuno di questi
atti; ma non ha fondamento la tesi secondo cui tutti gli atti del
genere debbano essere affidati esclusivamente al giudice. Le leggi ed i
principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa stabiliscono le
garanzie formali e sostanziali che spettano al cittadino nei confronti
dell'Amministrazione quando trattisi di provvedimenti inerenti alle
persone; ma ciò non significa che, nell'ambito della legittimità
costituzionale, sia necessario che tali garanzie siano sempre poste
nelle mani del giudice. Questi ne conoscerà dopo; ed uno degli
elementi essenziali del suo esame consisterà nel rilevare se quelle
garanzie siano state o non rispettate dall'organo amministrativo.
Si può concludere che dall'insieme delle norme ora esaminate non
si può dedurre l'esistenza di un principio generale di ordine
costituzionale, che affermi la necessità dell'intervento del giudice
in tutti i casi in cui nell'interesse della pubblica Amministrazione si
debba procedere ad atti da cui derivi o possa derivare una menomazione
della dignità della persona. In sostanza, o tali atti sono ammissibili
in base all'art. 3 della Costituzione, e allora anche le autorità
amministrative possono emetterli, salvo che in virtù di altre norme o
principi costituzionali la competenza non debba essere affidata al
giudice, o non sono ammissibili e allora neppure una sentenza del
giudice potrebbe adottarli.
Una delle norme della Costituzione su cui è basato l'obbligatorio
intervento dell'organo giurisdizionale è l'art. 13. E sull'art. 13,
come esattamente nota l'ordinanza di rimessione, fu fondata la
pronuncia di illegittimità delle disposizioni relative
all'ammonizione. Con quella pronuncia, contenuta nella sentenza n. 11
del 19 giugno 1956, la Corte, dopo avere affermato che "in nessun caso
l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa
privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla
legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi
sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni",
considerò che secondo le norme allora vigenti l'ammonizione si
concretava nella restrizione della libertà personale, risolvendosi in
una sorta di degradazione giuridica.
Con questa sentenza, che non rappresenta una manifestazione isolata
del pensiero della Corte, ma che è invece strettamente collegata con
la coeva decisione n. 2 del 14 di quello stesso mese di giugno del
1956, venne fissato un orientamento sul quale la Corte è rimasta ferma
nelle successive decisioni.
È stato escluso che il rimpatrio obbligatorio importi restrizione
della libertà personale, ponendo esso soltanto limiti alla
possibilità di movimento e di soggiorno. Ciò fu dichiarato con la
sentenza n. 45 del 1960, alla quale hanno fatto seguito non poche altre
conformi decisioni, rispetto alle quali la Corte non ritiene che
sussistano ragioni per cambiare indirizzo.
L'ordine di rimpatrio non è suscettibile di coercitiva esecuzione.
Gli organi di polizia possono procedere alla traduzione solo dopo che
il giudice penale, accertata la legittimità dell'atto, abbia
dichiarato che l'intimato si è sottratto all'obbligo di obbedienza.
Espletate le necessarie formalità per accertare che il soggetto abbia
raggiunto la nuova sede, l'intimato è libero di restarvi o di
trasferirsi altrove, purché non torni alla sede dalla quale è stato
allontanato. Non sussistono altri adempimenti, né altri vincoli o
limitazioni alla libertà del soggetto.
Se si confronta questa situazione con quella rilevata dalla
sentenza n. 11 del 1956 rispetto all'ammonizione, si vede come nel
rimpatrio obbligatorio non sussistano quegli elementi in vista dei
quali la Corte riscontrò nell'ammonizione una causa di "degradazione
giuridica".
In sostanza, le due decisioni del 1956 e le decisioni successive
hanno ritenuto che per aversi degradazione giuridica, come uno degli
aspetti di restrizione della libertà personale ai sensi dell'art. 13
della Costituzione, occorre che il provvedimento provochi una
menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della
persona, tale da potere essere equiparata a quell'assoggettamento
all'altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio
dell'habeas corpus.
Per le ragioni esposte, l'ordine di rimpatrio non presenta tale
carattere.
Nell'ordinanza viene esposto un altro argomento per sostenere
l'obbligatorio intervento del giudice.
Il fine preventivo delle misure di polizia non toglierebbe che esse
possano avere il contenuto di una sanzione, tanto più che per il
rimpatrio obbligatorio non basta più il mero sospetto, e la
pericolosità del soggetto, che ne costituisce il presupposto, non può
essere soltanto desunta dalla sua personalità biopsichica, ma deve
sempre esprimersi attraverso liberi comportamenti. Comunque,
sussisterebbe una riserva di giurisdizione per l'applicazione delle
misure di polizia, al pari delle misure di sicurezza, per le quali
detta riserva risulterebbe dall'art. 25, terzo comma, della
Costituzione, come si desumerebbe dalla stessa collocazione della norma
che si apre con l'obbligatoria precostituzione del giudice e che a sua
volta fa parte di una serie di articoli (da 24 a 27) tutti riferentisi
alle attività dei giudici. Uguale sarebbe la situazione rispetto alle
misure di polizia, delle quali l'ordinanza si sforza di dimostrare
l'identità con le misure di sicurezza.
La Corte rileva che, anche se fosse esatto - e non è - che le
misure di polizia abbiano il contenuto di sanzione, non per questo
all'organo amministrativo dovrebbe essere inibito di provvedere, non
esistendo una norma o un principio costituzionale che, in linea
generale, imponga l'intervento del giudice per l'applicazione delle
sanzioni non penali. E lo stesso è da dirsi anche in rapporto al
carattere personale del rimpatrio obbligatorio: tale carattere non
impedisce che il provvedimento sia adottato dall'Amministrazione. Le
cose già dette in precedenza giustificano queste affermazioni della
Corte.
Qualche osservazione è d'uopo aggiungere circa l'argomento addotto
in ordine all'identificazione delle misure di sicurezza propriamente
dette con le misure di polizia di sicurezza.
Pure se si potesse aderire allo sforzo interpretativo
dell'Avvocatura dello Stato nel senso che la riserva di legge posta con
l'ultimo comma dell'art. 25 della Costituzione investa non solo le
misure di sicurezza intese in senso stretto, ma anche la più ampia
categoria delle misure di prevenzione, fra cui quella del rimpatrio
obbligatorio, non si potrebbe ugualmente ammettere la tesi
dell'ordinanza, secondo cui le une e le altre misure resterebbero
accomunate sotto una duplice riserva: di legge e di giurisdizione.
Se, infatti, si può comprendere che nessuna limitazione, quale che
essa sia, dei diritti di libertà può essere disposta fuori dei casi
previsti dalla legge, solo quelle limitazioni che si risolvano in una
restrizione della libertà personale cadono sotto il disposto dell'art.
13 della Costituzione. È vero che il fondamento comune e la comune
finalità delle misure di sicurezza e di quelle di polizia di sicurezza
si trovano nella esigenza di prevenzione di fronte alla pericolosità
sociale del soggetto, ma è anche certo che, per tutte le
considerazioni dianzi esposte che trovano puntuale riscontro nella
diversa disciplina prevista dagli artt. 13 e 16 della Costituzione,
resta sempre una netta differenziazione fra i due ordini di misure, per
diversità di struttura, settore di competenza, campo e modalità di
applicazione, specialmente per quanto si riferisce agli organi preposti
a tale applicazione.
I costituenti ebbero presente lo stato della legislazione, la quale
poneva, come pone, tanto una riserva di legge (art. 199 del Codice
penale) quanto una riserva di giurisdizione (art. 205 dello stesso
Codice) per le pene e per le misure di sicurezza propriamente dette; e
vollero mantenere ferma questa situazione. Ma, come risulta
espressamente dalle dichiarazioni di uno dei due proponenti del testo
che attualmente costituisce l'ultimo comma dell'art. 25 - dichiarazioni
rispetto alle quali non risulta che in quella sede fossero sorti
dissensi - fu tenuta ben presente, ai fini della tutela che si veniva a
stabilire, la particolare fisionomia delle misure di sicurezza, "che
entrano in considerazione nella legge penale, e quindi vengono
applicate nei confronti di persone socialmente pericolose, in occasione
della perpetrazione di un reato". E giova riportare queste altre parole
del dichiarante:
"Non sono misure di polizia: questo devo chiarire perché non
sorgano equivoci. Si tratta di misure preventive di sicurezza, che
devono essere applicate, a norme del Codice penale, nei confronti di
individui imputati o imputabili in occasione della perpetrazione di un
reato".
Ma anche indipendentemente da questi precedenti, bisogna
concludere, in base a tutte le considerazioni già esposte, che non si
può trarre dall'interpretazione degli articoli richiamati
dall'ordinanza un argomento in base al quale si possa stabilire che una
riserva di giurisdizione sia stata posta dagli articoli stessi nei
riguardi delle misure di polizia non contemplate dall'art. 13 della
Costituzione.