Reg. ord. n. 217 del 2024 pubbl. su G.U. del 27/11/2024 n. 48
Ordinanza del Tribunale di Milano del 23/10/2024
Tra: Associazione Avvocati Per Niente ONLUS e altri C/ INPS
Oggetto:
Previdenza – Lavoro – Rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Riconoscimento dell’esonero contributivo, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026, alle lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli, con il medesimo rapporto di lavoro - Previsione che non riconosce l’esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o più figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato – Previsione che esclude l’esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico – Denunciata previsione che determina un trattamento deteriore per le lavoratrici madri a tempo determinato rispetto a quelle a tempo indeterminato, benché le due categorie siano omogenee sul piano contributivo – Ingiustificato trattamento deteriore per le lavoratrici madri con rapporto di lavoro domestico, rispetto a tutte le altre lavoratrici madri a tempo indeterminato - Irragionevole disparità di trattamento – Incidenza negativa sul piano della tutela della maternità e della famiglia - Disposizione che confligge con la normativa europea di riferimento che impone il rispetto della parità di trattamento e del principio di non discriminazione – Disposizione, apparentemente neutra, che, ponendo in una situazione di particolare svantaggio le persone di nazionalità straniera, contrasta con il principio di parità di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro, come cristallizzato dalle norme europee di diritto derivato – Lesione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario - Violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza.
Norme impugnate:
Parametri costituzionali:
Costituzione Art. 3 Co.
Costituzione Art. 31 Co.
Costituzione Art. 117 Co. 1
direttiva CE Art. Co.
direttiva CE Art. 11 Co.
direttiva CE Art. 24 Co.
direttiva UE Art. 12 Co.
direttiva UE Art. Co.
Udienza Pubblica del 11 giugno 2025 rel. NAVARRETTA
Testo dell'ordinanza
N. 217 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 ottobre 2024 Ordinanza del 23 ottobre 2024 del Tribunale di Milano nel procedimento civile promosso da Associazione Avvocati Per Niente Onlus e altri contro Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS . Previdenza - Lavoro - Rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Riconoscimento dell'esonero contributivo, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026, alle lavoratrici madri di tre o piu' figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli, con il medesimo rapporto di lavoro - Previsione che non riconosce l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o piu' figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato - Previsione che esclude l'esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico. - Legge 30 dicembre 2023, n. 213 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026), art. 1, commi 180 e 181. (GU n. 48 del 27-11-2024) TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO Sezione lavoro In persona del Giudice Franco Caroleo, a scioglimento della riserva, ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 6446 del Ruolo Generale per l'anno 2024 tra: APN - Avvocati Per Niente ONLUS, in persona del legale rappresentante p.t., e ASGI - Associazione degli Studi Giuridici sull'immigrazione, Maria Nicolai, Caterina Cottatellucci, Federica Bernard ed Elena Belotti, con gli avv.ti Alberto Guariso, Livio Neri e Mara Marzolla - parti attrici; e INPS, in persona del legale rappresentante p.t., con l'avv. Giulio Pecco - parte convenuta. 1. L'oggetto del ricorso. Con ricorso ex art. 28, decreto legislativo n. 150/2011 le parti attrici hanno chiesto: «Voglia il Tribunale, disattesa ogni contraria istanza in accoglimento delle domande delle signore Maria Nicolai, Caterina Cottatellucci, Federica Bernard, Elena Belotti: a) accertare dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall'INPS consistente nell'aver omesso di applicare alle ricorrenti il medesimo esonero contributivo applicato, ai sensi dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023, alle lavoratrici in identiche condizioni con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e pertanto nell'aver richiesto/ricevuto/trattenuto per contributi IVS una quota della retribuzione che non viene invece richiesta/ricevuta/trattenuta dalle lavoratrici con rapporto a temo indeterminato. E, conseguentemente, adottare ogni provvedimento necessario al fine di rimuovere la predetta discriminazione e farne cessare gli effetti; e pertanto, occorrendo nell'ambito del piano di rimozione di cui all'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011; b) ordinare all'INPS di restituire alle ricorrenti sopra indicate gli importi trattenuti sulle retribuzioni maturate da gennaio 2024 per il titolo di cui sopra e di comunicare ai datori di lavoro delle stesse che detti importi non devono essere versati neppure per le mensilita' necessarie alla sentenza, fino a che sussistano le condizioni prevista dall'art. 1, comma 180, legge n. 213/2023; in accoglimento delle domande proposte da ASGI aps e APN Onlus; c) ove ritenuto necessario, dichiarare rilevante e non manifestatamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 181/2023 nella parte in cui limitano l'esonero contributivo ivi previsto alle sole lavoratrici madri con contratto a tempo indeterminato e escludendo in ogni caso le lavoratrici con contratto di lavoro domestico, per violazione degli articoli 3, 31, 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione alla clausola 4 dell'accordo allegato alla direttiva 1999/70, all'art. 24, direttiva 2004/38, all'art. 11, par. 1, lettera a), direttiva 2003/109, art. 12, par. 1, lettera a), direttiva 2011/98, all'art. 16, par. 1, direttiva 2021/1883, nonche' all'art. 10 Convenzione OIL 143/75; e all'esito del giudizio di costituzionalita'; d) accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall'INPS consistente nell'aver omesso di applicare a tutte le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo determinato e alle lavoratrici domestiche il medesimo esonero contributivo previsto dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 e applicato alle lavoratrici in identiche condizioni soggettive con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non domestico; e pertanto nell'aver richiesto/ricevuto/trattenuto da dette lavoratrici una quota per contributi IVS che non viene invece richiesta/ricevuta/trattenuta alle lavoratrici con rapporto lavoro a tempo indeterminato e non domestico. E conseguentemente, adottare ogni provvedimento necessario al fine di rimuovere la predetta discriminazione e farne cessare gli effetti e, pertanto, occorrendo nell'ambito del piano di rimozione di cu all'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011; e) ordinare all'INPS: di restituire a tutte le lavoratrici con rapporto di lavoro a tempo determinato e con rapporto di lavoro domestico che si trovino nelle condizioni soggettive di cui all'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 gli importi trattenuti per contributi IVS sulle retribuzioni maturate da gennaio 2024 per il titolo di cui sopra; di modificare sul punto sopra indicato la circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 e ogni altra circolare o messaggio pertinente, comunicando al pubblico sul proprio sito istituzionale e a mezzo apposita circolare che l'esenzione contributiva prevista dai predetti commi deve trovare applicazione anche per le lavoratrici con contratto a tempo determinato e con contratto di lavoro domestico che si trovino nelle condizioni soggettive previste da detti commi; f) dato atto che statuizioni richieste sub e) attengono a obblighi di fare infungibili, condannare l'amministrazione convenuta a pagare alle associazioni ricorrenti, ai sensi dell'art. 614-bis del codice di procedura civile, euro 100,00 per ogni giorno di ritardo nell'adempimento del predetto obbligo, a decorrere dal novantesimo giorno successivo alla notifica della emananda sentenza; g) disporre la pubblicazione dell'emananda sentenza sulla home page del sito istituzionale dell'amministrazione per minimo di giorni trenta e/o o su uno o piu' quotidiani a tiratura nazionale che il Tribunale vorra' indicare. h) condannare l'INPS a rifondere alle ricorrenti spese diritti del presente procedimento (ivi compreso il rimborso del contributo unificato) spese da distrarsi in favore dei procuratori che si dichiarano antistatari». In particolare, le attrici hanno denunciato il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall'INPS consistente nell'aver omesso di applicare alle lavoratrici attrici (tutte madri con due o tre figli e assunte con contratti a tempo determinato) e, in generale, a tutte le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo determinato e alle lavoratrici domestiche l'esonero contributivo di cui ai commi 180 e 181, dell'art. 1, legge n. 213/2023. Per questo, hanno chiesto l'accertamento dell'illegittimita' di tale norma nella parte in cui esclude dall'esenzione contributiva le lavoratrici madri con contratto a termine e quelle con rapporto di lavoro domestico. A parere della difesa attorea, la discriminazione si sostanzierebbe sotto le seguenti concorrenti prospettive: a) per violazione dell'obbligo di parita' di trattamento nelle condizioni di lavoro tra lavoratrici a tempo determinato e lavoratrici a tempo indeterminato sancito dalla clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE; b) per una discriminazione indiretta in danno delle lavoratrici straniere (titolari di permessi di lavoro) che sono statisticamente presenti tra le lavoratrici a tempo determinato in percentuale notevolmente piu' alta delle lavoratrici di cittadinanza italiana; c) perche', escludendo le lavoratrici domestiche, si avrebbe una ulteriore discriminazione indiretta in danno delle lavoratrici straniere (titolari di permessi di lavoro), che sono statisticamente presenti tra le lavoratrici di detto settore in percentuale notevolmente piu' alta rispetto alle lavoratrici della cittadinanza italiana; d) perche', in ogni caso, vi sarebbe un contrasto con gli articoli 3 e 31 della Costituzione. Su questa linea, l'illegittimita' delle disposizioni censurate e' stata fatta valere sotto due differenti profili: 1) quello della discriminazione individuale, in relazione alle attrici persone fisiche, in quanto «Costoro sono legittimate a contestare la predetta norma in quanto si trovano (a parita' di ogni altra condizione, ivi compresi gli ditti sulla futura pensione) a percepire una retribuzione netta inferiore di almeno il 2% rispetto a quella percepita da una lavoratrice a tempo indeterminato» (cfr. pag. 7 del ricorso); 2) quello della discriminazione collettiva, «in quanto i requisiti che vengono dedotti come discriminatoti pongono indirettamente in una posizione di particolare svantaggio la collettivita' indeterminata delle lavoratrici madri straniere con almeno 2 figli (o 3 dal gennaio prossimo) che si trovano a percepire una retribuzione netta inferiore del 2,19% o del 3,19% (a seconda del livello retributivo5 ) rispetto a quella percepita da una lavoratrice a tempo indeterminato per il solo 2024; e inferiore del 9,19% per i l 2025 e 2026» (cfr. pag. 7 del ricorso). In tal senso, le parti attrici hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023: per violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, poiche' la norma contestata, nel prevedere un trattamento meno favorevole per le lavoratrici madri titolari di un rapporto di lavoro a tempo determinato o di un contratto di lavoro domestico rispetto alle lavoratrici madri con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si porrebbe in contrasto con la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e, nell'implicare una discriminazione indiretta in ragione della nazionalita' consistente nell'esclusione delle lavoratrici a tempo determinato e delle lavoratrici domestiche (essendo ambiti lavorativi occupati da una percentuale di lavoratrici straniere notevolmente piu' alta rispetto alle lavoratrici di cittadinanza italiana), si porrebbe in contrasto con le direttive dell'Unione europea nn. 2004/38, 2003/109, 2011/98, 2021/1883; per violazione dell'art. 3 della Costituzione, per l'irragionevolezza dell'esclusione dall'esonero contributivo delle lavoratrici madri con due figli titolari di un rapporto di lavoro a tempo determinato o di un contratto di lavoro domestico per violazione dell'art. 31 della Costituzione, posto che, una volta che l'ordinamento abbia valutato come opportuno un determinato intervento a sostegno della famiglia e della maternita', non puo' irragionevolmente escludere famiglie e madri che si trovino nella medesima condizione personale e familiare oggetto di tutela. 2. Le difese dell'INPS. L'INPS si e' costituito in giudizio ed ha contestato le pretese avversarie, eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione attiva delle associazioni attrici e l'inammissibilita' del ricorso. Con riferimento ai paventati dubbi di costituzionalita', a parere dell'INPS: la norma oggetto di denuncia non crea alcuna disparita', non avendo peraltro ne' finalita' sociale ne' finalita' di incentivo alla maternita' ne' finalita' d'incentivo alla partecipazione femminile generica al lavoro; essendo l'assenza di stabilita' la caratteristica comune al lavoro a tempo determinato e al lavoro domestico, dovrebbe ritenersi che il legislatore abbia inteso incentivare la partecipazione femminile al lavoro, ma non genericamente a qualsiasi lavoro, bensi' al lavoro stabile; la misura prevista dichiaratamente non e' eccezionale ed e' collegata alla maternita', in quanto evento tipicamente femminile e che, tipicamente, costituisce una delle principali cause di discriminazione femminile sul lavoro; la non eccezionalita' della misura e il collegamento con la maternita' sono volti a consolidare nelle donne e nei datori di lavoro l'affidamento sulla serieta' della previsione e sulla sua non caducita'. 3. Sull'eccezione di difetto di legittimazione attiva. Preliminarmente va disattesa l'eccezione, sollevata dall'INPS, in ordine al difetto di legittimazione attiva delle associazioni APN - Avvocati Per Niente ONLUS e ASGI - Associazione degli Studi Giuridici sull'immigrazione. Ed invero, l'art. 4, comma 3, 1egge n. 67/2006 prevede che: «le associazioni e gli enti di cui al comma 1 sono altresi' legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti discriminatoti di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 2, quando questi assumano carattere collettivo». Orbene, la controversia in esame, nella parte azionata dalle associazioni attrici, ha proprio ad oggetto una fattispecie volta all'accertamento di una discriminazione collettiva nei confronti di soggetti non direttamente e immediatamente individuabili (la generalita' delle lavoratrici straniere) ed e' stata promossa da associazioni iscritte nell'apposito elenco di cui all'art. 5, decreto legislativo n. 215/2003 (all. n. 11 al ricorso), tenuto peraltro conto delle loro previsioni statutarie (all. nn. 12-13 al ricorso) e delle finalita' perseguite da esse. Del resto, secondo formai consolidato orientamento giurisprudenziale «nella materia della tutela contro le discriminazioni collettive, la legittimazione ad agire in capo ad un sonetto collettivo non rappresenta un'eccezione ma una regola funzionale all'esigenza di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che percio' deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva (voci fazione prevista dal decreto legislativo n. 215 del 2003, art. 5 per la repressione di comportamenti discriminatori per ragioni di razza o di origine etnica; quella di cui al decreto legislativo n. 9 luglio 2003, n. 216, art. 4 recante l'attuazione della dir. 2000/78/CE per la parita' di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; fazione di cui all'art. 4 per la repressione di comportamenti discriminatori in danno di persone con disabilita', di cui alla legge 1° marzo 2006, n. 6, recante misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilita' vittime di discriminazioni; fazione per contrastare le discriminazioni per ragioni di sesso nell'accesso a beni e servizi e loro fornitura, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, art. 55-quinquies, recante il codice delle pari opportunita' tra uomo e donna, a norma della legge 28 novembre 2005, n. 246, art. 6); e) costituirebbe percio' una vistosa eccezione il mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore nazionalita', non giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta, come si e' visto, fattore discriminatorio parimenti vietato in ogni campo della vita sociale (lavorativa ed extra-lavorativa) ai sensi dell'art. 43 TU immigrazione. 10. Anche la giurisprudenza della CGUE, ha gia' sostenuto (Corte di Giustizia CE, Sez. 2, 10 luglio 2008 - C-54/07) la rilevanza della discriminazione collettiva, sia pure alla luce della Direttiva 2000/43/CE (che attua il principio della parita' di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica); riconoscendo, da una parte, che l'esistenza di una discriminazione diretta «non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione» (e pertanto riconoscendo che essa potesse essere fatta valere in giudizio alla luce del diritto nazionale da una associazione collettiva), ed affermando, dall'altra, che allo scopo sia sufficiente considerare la potenzialita' lesiva della condotta denunciata) (Cass. n. 28745/2019). L'eccezione va comunque respinta. 4. Sull'eccezione di inammissibilita' del ricorso. Neppure sembra cogliere nel segno l'eccezione dell'INPS in relazione all'asserita inammissibilita' del ricorso in quanto la contribuzione non rientrerebbe tra le materie per cui e' azionabile il rimedio di cui all'art. 28 decreto legislativo n. 150/2011. Ed invero, l'art. 44, decreto legislativo n. 286/1998, espressamente menzionato dall'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011, attiene a qualsiasi comportamento discriminatorio adottato da un privato o da una pubblica amministrazione. Inoltre, l'art. 3, decreto legislativo n. 216/2003, anch'esso espressamente menzionato dall'art. 28, decreto legislativo n. 150/2011, prevede tra le aree di pertinenza anche «occupazione e condizioni di lavoro», in cui puo' farsi rientrare una misura come quella di causa che, pur riconoscendo un esonero contributivo, incide sulla retribuzione netta percepita. Tanto basta a respingere anche questa eccezione. 5. La questione di legittimita' costituzionale. Avuto riguardo alle domande attoree, il Tribunale ritiene rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 per le ragioni che si espongono di seguito. 5.1. Con riferimento alla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. L'art. 1, legge 30 dicembre 2023, n. 213, ai commi 180, 181 e 182 dispone: «180. Fermo restando quanto previsto al comma 15, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2026 alle lavoratrici madri di tre o piu' figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, e' riconosciuto un esonero del 100 per cento della quota dei contributi previdenziali per l'invalidita', la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore fino al mese di compimento del diciottesimo anno di eta' de/figlio piu' piccolo, nel limite massimo annuo di 3.000 euro riparametrato su base mensile. 181. L'esonero di cui al comma 180 e' riconosciuto, in via sperimentale, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024 anche alle lavoratrici madri di due figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, fino al mese del compimento del decimo anno di eta' de/figlio piu' piccolo. 182. Per gli esoneri di cui ai commi 180 e 181 resta ferma l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche». Con circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 (all. n. 2 al ricorso) l'INPS ha. fornito chiarimenti e adottato istruzioni operative in relazione alle citate disposizioni, confermando tra l'altro che le lavoratrici a tempo determinato e le lavoratrici domestiche sono escluse dal beneficio. Quanto alla situazione delle lavoratrici attrici, e' pacifico che: Maria Nicolai, assunta con contratto a tempo determinato alle dipendenze di Azione Solidale soc. coop. e madre di tre figli, nel 2024 ha subito mensilmente una trattenuta del 9,19% della sua retribuzione a titolo di contributi INPS e, al contempo, una «restituzione» del 7% a titolo di «esonero contributi IVS», percependo mediamente una retribuzione inferiore di euro 21,00 rispetto a quella percepita, a parita' di ogni altra condizione, da una lavoratrice a tempo indeterminato; Caterina Cottatellucci, Federica Bernard ed Elena Belotti, tutte assunte con contratto a tempo determinato alle dipendenze del Ministero dell'Istruzione e madri di due figli, hanno subito mensilmente una trattenuta dell'8,8% su 118 della loro retribuzione a titolo di contributi INPS-ex INPDAP e, al contempo, la «restituzione» del 6% a titolo di «esonero contributi IVS», percependo cosi' una retribuzione inferiore del 2,8% (quindi mediamente euro 46,99 per ciascuna) rispetto a quella percepita, a parita' di ogni altra condizione, da una lavoratrice a tempo indeterminato. Con il ricorso introduttivo del presente procedimento le parti attrici, tra le altre cose, hanno chiesto al Tribunale di ordinare all'INPS: a) di restituire a tutte le lavoratrici con rapporto di lavoro a tempo determinato e con rapporto di lavoro domestico che si trovino nelle condizioni soggettive di cui all'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 gli importi trattenuti per contributi IVS sulle retribuzioni maturate da gennaio 2024; b) di modificare la circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 e ogni altra circolare o messaggio pertinente, nella parte in cui escludono l'applicazione dell'esonero contributivo per le lavoratrici con rapporto di lavoro a tempo determinato e con rapporto di lavoro domestico, comunicando al pubblico sul proprio sito istituzionale e a mezzo apposita circolare che l'esenzione contributiva deve trovare applicazione anche per le lavoratrici con contratto a tempo determinato e con contratto di lavoro domestico che si trovino nelle condizioni soggettive previste dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023. Le domande cosi' formulate appaiono quindi tese a impedire il ripetersi de futuro di discriminazioni che possano coinvolgere qualsiasi lavoratrice madre con rapporto di lavoro a tempo determinato o con rapporto di lavoro domestico, attraverso la rimozione delle disposizioni contenute nella circolare INPS n. 27 del 31 gennaio 2024, che sono sostanzialmente riproduttive della norma legislativa oggetto di censura. Proprio in ragione di cio', il presente giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale, tenuto conto che, in presenza di un contrasto con norme del diritto dell'Unione europea aventi efficacia diretta, non risulta percorribile la via della disapplicazione della norma interna. Infatti, come chiarito nella sentenza della Corte costituzionale n. 1512024, nell'ambito di un giudizio ex art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011 in cui si discuta di norme legislative e regolamentari in contrasto (anche) con norme del diritto dell'Unione europea dotate di efficacia diretta: da un lato, il giudice ordinario puo' impartire un ordine di rimozione delle discriminazioni accertate a tutela del bene della vita delle parti attrici, dando piena e immediata attuazione al diritto dell'Unione europea; dall'altro lato, pero', se il giudice ordinario intende impedire il ripetersi de futuro di discriminazioni identiche o analoghe che possano coinvolgere qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle medesime condizioni, deve sollevare questione di legittimita' costituzionale sulle norme legislative ritenute incompatibili con le norme di diritto dell'Unione europea aventi efficacia diretta. In tal senso, la Corte costituzionale ha affermato che, laddove la norma regolamentare sia sostanzialmente riproduttiva di norma legislativa, ordinarne la rimozione, con effetti che travalicano il caso che ha originato il giudizio antidiscriminatorio, implica che sia sollevata questione di legittimita' costituzionale sulla seconda (cfr. Corte costituzionale n. 1512024: «In particolare, nell'ambito del giudizio ex art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011, la primaute' e' garantita dal giudice ordinario innanzitutto allorche' e' chiamato ad accertare l'esistenza dell'asserita discriminazione. E' in questo momento del giudizio che egli, ove accerti che la condotta per cui e' causa trova fondamento in atti normativi incompatibili con normativa dell'Unione europea a efficacia diretta, da' immediata applicazione a quest'ultima e ordina la cessazione della discriminazione. Nel giudizio dinanzi al Tribunale di Udine, il giudice ha ritenuto, per l'appunto, che fosse discriminatoria e in contrasto con l'art. 11 della direttiva 2003/109/CE l'impossibilita' per i ricorrenti di avvalersi, per attestare l'impossidenza di immobili, di una dichiarazione sostitutiva ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000. Conseguentemente, e correttamente, non ha applicato la normativa legislativa e regolamentare che prevede detta impossibilita' e, in diretta applicazione della richiamata normativa europea, ha ordinato di valutare la domanda dei ricorrenti - volta a ottenere il contributo per l'acquisto dell'alloggio da destinare a prima casa - «come se la documentazione attestante l'impossidenza di altri immobili fosse stata regolarmente prodotta in base agli stessi criteri valevoli per i cittadini comunitari». E' in questo momento del giudizio che il Tribunale di Udine, adottando il predetto ordine, ha a pieno garantito i principi del primato e dell'effetto diretto del diritto dell'Unione europea. L'impartito ordine di rimuovere l'art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016, che sostanzialmente riproduce l'art. 29, comma 1-bis, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, costituisce, invece, il piano di rimozione delle discriminazioni accertate che il Tribunale di Udine ha ritenuto di dover adottare. Una volta attribuito il bene della vita ai ricorrenti, dando piena e immediata attuazione al diritto dell'Unione europea, il giudice ha inteso poi impedire il ripetersi di discriminazioni identiche o analoghe che possano coinvolgere non tanto i ricorrenti, ma qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle medesime condizioni. In quest'ambito del giudizio non viene piu' in rilievo l'esigenza che il diritto dell'Unione europea dotato di efficacia diretta trovi immediata applicazione (Corte di giustizia, sentenza 22 giugno 2010, in cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli), perche' tale esigenza e' stata, appunto, gia' pienamente soddisfatta. Qui viene in gioco, invece, una logica interna all'ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, e' funzionale a garantire un'efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione: il che peraltro, quando sia stata rilevata un'incompatibilita' con il diritto dell'Unione europea, fa dell'art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011 uno strumento che garantisce anche l'uniforme applicazione di tale diritto e che contribuisce alla «costruzione di tutele sempre piu' integrate» (sentenza n. 67 del 2022). In quest'ottica, laddove la norma regolamentare sia sostanzialmente riproduttiva di norma legislativa, ordinarne la rimozione implica che sia sollevata questione di legittimita' costituzionale sulla seconda. La non applicazione per contrasto con il diritto dell'Unione europea a efficacia diretta - necessaria per l'attribuzione immediata del bene della vita negato sulla base dell'accertata discriminazione - non rimuove, infatti, la legge dall'ordinamento con immediata efficacia erga omnes, ma impedisce soltanto «che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale» (sentenza n. 170 del 1984). L'ordine di rimozione della norma regolamentare - che proietta i suoi effetti, per espressa scelta del legislatore compiuta con l'art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011, oltre il caso che ha originato il giudizio antidiscriminatorio - richiede, allora, che sia dichiarata l'illegittimita' costituzionale della legge, la quale, ancorche' non applicata nel caso concreto, e' ancora vigente, efficace e, sia pure in ipotesi erroneamente, suscettibile di applicazione da parte della pubblica amministrazione o anche di altri giudici che ne valutino diversamente la compatibilita' con il diritto dell'Unione europea. Sono, dunque, tanto l'ordinato funzionamento del sistema delle fonti interne - e, nello specifico, i rapporti tra legge e regolamento regionali anche in relazione al diritto dell'Unione europea - quanto l'esigenza che i piani di rimozione della discriminazione siano efficaci a richiedere che il giudice ordinario, se correttamente intenda ordinare la rimozione di una norma regolamentare al fine di evitare il riprodursi della discriminazione de futuro, sollevi questione di legittimita' costituzionale sulla norma legislativa sostanzialmente riprodotta dall'atto regolamentare, anche dopo che si sia accertata l'incompatibilita' di dette norme interne con norme di diritto dell'Unione europea aventi efficacia diretta. E lo stesso discorso non puo' che valere in una fattispecie, come quella di causa, afferente ad una circolare di un ente pubblico riproduttiva di norma legislativa (in contrasto con la normativa europea) e al comportamento dell'ente che si e' conformato a tale norma. Infatti, solo una pronuncia di illegittimita' costituzionale consentirebbe di rimuovere la norma dall'ordinamento con immediata efficacia erga omnes ed evitare cosi' il riprodursi della discriminazione de futuro (finalita', questa, evidentemente collegata alle pretese azionate nel presente giudizio). 5.2. Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. L'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 pone dubbi di legittimita' costituzionale in due parti: 1) nella parte in cui non riconosce l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o piu' figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato; 2) nella parte in cui esclude l'esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico. Il Tribunale non ritiene che la questione di legittimita' costituzionale sia manifestamente infondata con riguardo ad entrambe le parti. Deve allora procedersi ad un esame distinto delle due parti della norma impugnata, si da evidenziare le disposizioni della Costituzione che si assumono violate. 5.2.1. In relazione al mancato riconoscimento dell'esonero contributivo alle lavoratrici madri a tempo determinato. 5.2.1.1. Violazione dell'art. 3 della Costituzione Con riferimento alla parte della norma impugnata che limita l'esonero contributivo alle lavoratrici con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non lo estende anche a quelle con rapporto di lavoro a tempo determinato, si ritiene che il parametro di riferimento debba essere individuato anzitutto nell'art. 3 della Costituzione, per l'ingiustificata e irragionevole disparita' di trattamento. Non sembra infatti potersi giustificare, alla stregua dell'art. 3 della Costituzione, che le lavoratrici madri a tempo determinato siano trattate in modo deteriore rispetto alle lavoratrici madri a tempo indeterminato, tenuto conto che si tratta di due categorie, sul piano contributivo, sostanzialmente omogenee. Del resto, come rilevato in ricorso, il beneficio previsto dalla norma non ha alcuna incidenza sul regime legale di previdenza sociale (che rimane identico per le due tipologie di contratto qui considerate), ma incide esclusivamente sulla retribuzione netta percepita, a parita' di ogni altra condizione, «sottraendo» alla sola lavoratrice a tempo determinato una quota della retribuzione stessa, che viene invece lasciata nella retribuzione della lavoratrice a tempo indeterminato. Peraltro, il beneficio, diversamente da quello previsto dal comma 15 del medesimo art. 1 («In via eccezionale, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, per i rapporti di lavoro dipendente, con esclusione dei rapporti di lavoro domestico, e' riconosciuto un esonero, senza effetti sul rateo di tredicesima, sulla quota dei contributi previdenziali per l'invalidita', la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore di 6 punti percentuali, a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su base mensile per tredici mensilita', non ecceda l'importo mensile di 2.692 euro, al netto del rateo di tredicesima, opera per qualsiasi retribuzione (anche una retribuzione elevata gode dello sconto contributivo, se pure solo fino al limite di 3.000,00 euro). Inoltre, non puo' dirsi (come pure confermato dall'INPS) che la finalita' della norma sia quella di incentivo all'assunzione a tempo indeterminato, dacche' il beneficio e' riconosciuto anche alle lavoratrici a tempo indeterminato gia' assunte. Ne' il carattere di stabilita' dei contratti di lavoro a tempo indeterminato potrebbe valere ex se a giustificare la previsione in esame: al contrario, sembrerebbe piu' ragionevole attribuire il beneficio contributivo (con effetti diretti di natura retributiva) alle lavoratrici precarie, che hanno minori certezze lavorative e dispongono mediamente di retribuzioni piu' basse rispetto alle lavoratrici a tempo indeterminato. 5.2.1.2. Violazione dell'art. 31 della Costituzione Neppure sembra manifestamente infondata la deduzione relativa alla paventata violazione dell'art. 31 della Costituzione, per come prospettato dalla difesa attorea. Ed invero, la norma impugnata risulterebbe garantire alla maternita' e alla famiglia numerosa di una donna, con contratto di lavoro a tempo indeterminato una protezione diversa (e migliore) rispetto a quelle di una donna con contratto di lavoro a tempo determinato. L'irragionevolezza dell'esclusione dal beneficio delle lavoratrici madri a tempo determinato finisce quindi per incidere negativamente sul piano delle tutele della maternita' e della famiglia, implicando cosi' anche la violazione dell'art. 31 della Costituzione. 5.2.1.3. Violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione per contrasto con la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE Oltre alla violazione degli articoli 3 e 31 della Costituzione, sembra poi venire in rilievo anche la violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione ai vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. Ed invero, la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE prevede che «Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive». Detta clausola, dunque, sancisce il divieto, per quanto riguarda le condizioni di impiego, di trattare i lavoratori a tempo determinato in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in una situazione comparabile, per il solo fatto che essi lavorano a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, la direttiva 1999/70 e l'accordo quadro trovano applicazione nei confronti di tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell'ambito di un rapporto di impiego a tempo determinato che li vincola al loro datore di lavoro (cfr. CGUE ordinanza del 22 marzo 2018, Centeno Melendez, C-315/17, EU:C:2018:207, punto 38 e giurisprudenza ivi citata). Per quanto riguarda la nozione di «condizioni di impiego» ai sensi della citata clausola 4, punto 1, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta che il criterio decisivo per determinare se una misura rientri in tale nozione e' proprio quello dell'impiego, vale a dire il rapporto di lavoro sussistente tra un lavoratore e il suo datore di lavoro (cfr. CGUE sentenza del 5 giugno 2018, Grupo Norte Facility, C-574/16, EU:C:2018:390, punto 41 e giurisprudenza ivi citata; sentenza del 20 giugno 2019, Ustariz Arostegui, C-72/18, EU:C:2019:516, punto 25 e giurisprudenza ivi citata). La CGUE ha pertanto ritenuto che rientrino in detta nozione, tra l'altro, le indennita' triennali per anzianita' di servizio (v., in tal senso, sentenza del 22 dicembre 2010, Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 50, e ordinanza del 18 marzo 2011, Montoya Medina, C-273/10, non pubblicata, EU:C:2011:167, punto 32), le indennita' sessennali per formazione continua (v., in tal senso, ordinanza del 9 febbraio 2012, Lorenzo Martinez, C-556/11, non pubblicata, EU:C:2012:67, punto 38), la partecipazione a un piano di valutazione professionale e l'incentivo economico che ne consegue in caso di valutazione positiva (ordinanza del 21 settembre 2016, Alvarez Santirso, C-631/15, EU:C:2016:725, punto 36), nonche' la partecipazione a una carriera professionale orizzontale che da' luogo a un'integrazione salariale (ordinanza del 22 marzo 2018, Centeno Melendez, C-315/17, non pubblicata, EU:C:2018:207, punto 47). Peraltro, «la clausola 4 dell'accordo quadro dev'essere intesa nel senso che esprime un principio di diritto sociale comunitario che non puo' essere intepretato in modo restrittivo (v. citata sentenza Del Cerro Alonso, punto 38). Come hanno fatto valere sia l'Impact sia la Commissione, un'interpretazione della clausola 4 dell'accordo quadro che escludesse categoricamente dalla nozione di "condizioni di impiego" ai sensi di quest'ultima le condizioni finanziarie come quelle relative alle retribuzioni ed alle pensioni equivarrebbe a ridurre, in spregio dell'obiettivo assegnato alla suddetta clausola, l'ambito della protezione accordata ai lavoratori interessati contro le discriminazioni, introducendo una distinzione, fondata sulla natura delle condizioni di impiego, che i termini di tale clausola non suggeriscono affatto. Del resto, come ha rilevato l'avvocato generale al paragrafo 161 delle sue conclusioni, un'interpretazione siffatta condurrebbe a privare di senso il riferimento, operato alla clausola 4, punto 2, dell'accordo quadro, al principio del pro rata temporis, la cui applicabilita' e' concepibile per definizione solo in presenza di prestazioni divisibili come quelle derivanti da condizioni di impiego finanziarie, connesse, ad esempio, alle retribuzioni ed alle pensioni» (cfr. CGUE sentenza Impact 15 aprile 2008 C-268/06). Inoltre, si deve ricordare che, secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, il principio di non discriminazione, di cui la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro costituisce un'espressione specifica, richiede che situazioni paragonabili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia oggettivamente giustificato (cfr. CGUE sentenza del 5 giugno 2018, Grupo Norte Facility, C-574/16, EU:C:2018:390, punto 46 e giurisprudenza ivi citata). In tal senso, al fine di valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile nel senso dell'accordo quadro, occorre stabilire, conformemente alla clausola 3, punto 2, e alla clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro, se, tenuto conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una situazione comparabile (cfr. CGUE sentenza del 5 giugno 2018, Grupo Norte Facility, C-574/16, EU:C:2018:390, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). Tanto evidenziato, occorre rilevare che, nel caso di specie, le lavoratrici attrici e i soggetti per cui le associazioni attrici invocano tutela, in quanto titolari di rapporti contrattuali a tempo determinato, rientrano certamente nella nozione di «lavoratore a tempo determinato». Allo stesso modo, non pare potersi dubitare del fatto che l'esonero contributivo di cui ai commi 180 e 181 dell'art. 1 della legge n. 213/2023 sia riconosciuto proprio in ragione del rapporto di lavoro, cosicche' la sua previsione deve essere considerata una «condizione di impiego», ai sensi della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro. Del resto, come condivisibilmente evidenziato dalla difesa attorea, il beneficio previsto dalla norma non ha alcuna incidenza sul regime legale di previdenza sociale (che rimane identico per le due tipologie di contratto qui considerate), ma incide esclusivamente sulla retribuzione netta percepita, a parita' di ogni altra condizione, «sottraendo» alla sola lavoratrice a tempo determinato una quota della retribuzione stessa, che viene invece lasciata nella retribuzione della lavoratrice a tempo indeterminato. Lo sgravio contributivo e' poi connesso alla sussistenza di un rapporto di lavoro dipendente (a tempo indeterminato) e la sussistenza di tale rapporto di impiego costituisce la «condizione oggettiva» per l'accesso alla misura di miglior favore: in assenza di impiego, lo sgravio non e' applicabile e, in costanza di impiego, risulta parametrato (entro certi limiti) alla retribuzione percepita dalle lavoratrici. Sussistono dunque i caratteri richiesti dalla giurisprudenza europea al fine della qualificazione quale «condizioni di impiego» (cfr. CGUE sentenza 20 giugno 2019, n. C-72/18, Arostegui). Quanto poi alla comparabilita' tra lavoratrici assunte con contratti di lavoro a tempo determinato e lavoratrici assunte con contratti di lavoro a tempo indeterminato, la stessa non puo' che essere convalidata, tenuto conto che non vi sono fattori di diversita' sul piano della natura del lavoro o delle condizioni impiego, esistendo invece una differenza di trattamento in quanto le lavoratrici a tempo determinato non beneficiano dell'esonero di causa. Ne', tantomeno, si rinvengono ragioni oggettive, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro, che giustifichino questa differenza di trattamento. Tali elementi potrebbero risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l'espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti alle medesime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalita' di politica sociale di uno Stato membro (cfr. CGUE sentenza del 20 giugno 2019, Ustariz Arostegui, C-72/18, EU:C:2019:516, punto 40 e giurisprudenza ivi citata). Tuttavia, nel caso in esame, si scorge esclusivamente il riferimento alla mera natura temporanea della prestazione delle lavoratrici con contratto a tempo determinato. E tale riferimento non e' conforme ai menzionati requisiti e non puo' costituire di per se' una ragione oggettiva, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro: «Infatti, ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro basti a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato priverebbe del loro contenuto gli scopi della direttiva n. 1999/70 e dell'accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare ,ma situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato» (CGUE sentenza dell'8 settembre 2011, Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 74 e giurisprudenza ivi citata; confermata successivamente da sentenza del 20 giugno 2019, Ustariz Arostegui, C-72/18, EU:C:2019:516). E' allora evidente che l'avere riferito l'esonero contributivo solamente alla durata del rapporto contrattuale non consente di escludere da un'identica applicazione di esso quelle lavoratrici a tempo determinato il cui lavoro, secondo l'ordinamento, abbia analoga taratura. L'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023, nella parte in cui non riconosce l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o piu' figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato, sembra dunque porsi in contrasto con il principio di parita' di trattamento di cui alla clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, cosi' da comportare una violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione. 5.2.1.4. Violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione per contrasto con il principio di parita' di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro (discriminazione indiretta) La violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione sembra ravvisabile anche in relazione ad un altro parametro di matrice europea. Ed invero, l'ordinamento europeo riconosce da tempo il principio di parita' di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro. Cio' emerge: dall'art. 24 direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 per i cittadini dell'Unione europea («1. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato»); dall'art. 11, lettera a), direttiva 2003/109 /CE del Consiglio del 25 novembre 2003 per i cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo («1. Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: a) l'esercizio di un'attivita' lavorativa subordinata o autonoma, purche' questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all'esercizio di pubblici poteri, nonche' le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzioni»); dall'art. 12, lettera a), direttiva 2011 /98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 per i titolari di permesso unico lavoro («1. I lavoratori dei paesi terzi di cui all'art. 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne: a) le condizioni di lavoro, tra cui la retribuzione e il licenziamento nonche' la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro»); dall'art. 16, lettera a), direttiva 2021/1883/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2021 per i titolari di Carta blu UE («1. I titolari di Carta blu UE beneficiano di un trattamento uguale a quello riservato ai cittadini dello Stato membro che ha rilasciato la Carta blu UE per quanto concerne: a) le condizioni di impiego, compresa l'eta' minima di ammissione al lavoro, e le condizioni di lavoro, tra cui la retribuzione e il licenziamento, l'orario di lavoro, le ferie e i giorni festivi, nonche' le prescrizioni relative alla salute e alla sicurezza sul luogo di lavoro»). Con particolare riferimento alla direttiva 2011/98/UE, vale la pena ricordare quanto evidenziato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 54/2022: «Nel sistema delineato dalla direttiva 2011/98/UE, il diritto alla parita' di trattamento rappresenta la regola generale, cui gli Stati membri possono apportare deroghe solo entro limiti rigorosi. All'interpretazione restrittiva delle possibili deroghe fa riscontro la necessita' che gli Stati membri manifestino in modo inequivocabile la volonta' di limitare l'applicazione della parita' di trattamento (Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenze 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale, punto 27, e 21 giugno 2017, nella causa C449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva, punto 29). L'onere di dichiarazione espressa di eventuali deroghe, nel corso dell'attivita' di trasposizione, emerge dal sistema normativo, considerato nel suo insieme e nelle finalita' che lo ispirano. Esso si correla non soltanto alla salvaguardia dell'effetto utile della direttiva, ma anche a una fruttuosa e trasparente fase di recepimento, che lo stesso legislatore: dell'Unione europea vuole contraddistinta dall'impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione con la Commissione e alla «modifica delle loro misure di recepimento con uno o piu' documenti intesi a chiarire il rapporto tra gli elementi di una direttiva e le parti corrispondenti degli strumenti nazionali di recepimento» (considerando n. 32 della direttiva 2011/98/UE). La Corte di giustizia dell'Unione europea, nella piu' volte richiamata sentenza del 2 settembre 2021, ha ricordato che la Repubblica italiana non si e' avvalsa in alcun modo della facolta' di limitare la parita' di trattamento (punto 64)». Quanto alla vicenda oggetto del presente giudizio, e' indiscusso che l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 non comporti una discriminazione diretta fondata sulla nazionalita', dal momento che si applica indistintamente alle lavoratrici di nazionalita' italiana e alle lavoratrici di nazionalita' straniera con contratti a tempo determinato. Cio' che invece occorre approfondire in questa sede e' se, come sostenuto dalla difesa attorea, la disposizione legislativa comporti una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalita': ossia se la disposizione, apparentemente neutra, possa porre in una situazione di particolare svantaggio le persone di nazionalita' straniera rispetto alle persone di nazionalita' italiana, a meno che detta disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalita' legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Sul punto, nella sentenza 24 febbraio 2022, causa C-389/20, la Corte di Giustizia dell'Unione europea (Sezione Terza), decidendo su un caso di discriminazione indiretta fondata sul sesso, ha affermato che l'esistenza del particolare svantaggio per le persone asseritamente discriminate «potrebbe essere dimostrata, segnatamente, se fosse provato che detta disposizione, detto criterio o detta prassi colpiscono negativamente in proporzione significativamente maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle dell'altro sesso. Spetta al giudice nazionale verificare se cio' avvenga nel procedimento principale (v., in tal senso, sentenze dell'8 maggio 2019, Villar Laiz C-161/18, EU:C:2019:382, punto 38, e del 21 gennaio 2021, INSS, C-843/19, EU:C:2021:55, punto 25). 42. Nell'ipotesi in cui il giudice nazionale disponga di dati statistici, la Corte ha affermato che quest'ultimo deve, da un lato, prendere in considerazione l'insieme dei lavoratori assoggettati alla normativa nazionale da cui ha origine la disparita' di trattamento e, dall'altro, comparare le proporzioni rispettive dei lavoratori che sono e che non sono colpiti dall'asserita disparita' di trattamento nell'ambito della mano d'opera femminile rientrante nel campo di applicazione di tale normativa e le medesime proporzioni nell'ambito della mano d'opera maschile ivi rientrante [v., in tal senso, sentenze del 24 settembre 2020, YS (Pensioni aziendali del personale dirigente), C-223/19, EU:C:2020:753, punto 52 e giurisprudenza ivi citata, e del 21 gennaio 2021, INSS, C-843/19, EU:C:2021:55, punto 26]. 43. A tal proposito, spetta al giudice nazionale valutare in qual misura i dati statistici prodotti dinanzi ad esso siano affidabili e se possano essere presi in considerazione, vale a dire se, in particolare, non riflettano fenomeni puramente fortuiti o congiunturali e se siano sufficientemente significativi [sentenze del 24 settembre 2020, YS (Pensioni aziendali del personale dirigente), C-223/19, EU:C:2020:753, punto 51 e giurisprudenza ivi citata, e del 21 gennaio 2021, INSS, C-843/19, EU:C·2021:55, punto 27]» (si veda sulla stessa linea CGUE - Prima Sezione, 29 luglio 2024, cause riunite C-184/22 e C-185/22, secondo cui: «... la valutazione dei fatti che consentono di presumere l'esistenza di una discriminazione indiretta e' una questione di competenza dell'organo giurisdizionale nazionale, secondo il diritto o la prassi nazionale, che possono prevedere, in particolare, che la discriminazione indiretta sia accertata con qualsiasi mezzo, compresa l'evidenza statistica (sentenza del 3 ottobre 2019, Schuch-Ghannadan, C-274/18, EU:C:2019:828, punto 46 e giurisprudenza citata). 59. Per quanto riguarda i dati statistici, occorre ricordare, anzitutto, che spetta ai giudice nazionale valutare in quale misura tali dati prodotti dinanzi ad esso, che caratterizzano la situazione della mano d'opera, siano validi e se possano essere presi in considerazione, vale a dire se, in particolare, non riflettano fenomeni puramente fortuiti o congiunturali e se, in generale, appaiano significativi (sentenza del 3 ottobre 2019, Schuch-Ghannadan, C-274/18, EU:C:2019:828, punto 48 e giurisprudenza citata). 60. Poi, qualora ii giudice nazionale disponga di tali dati, secondo costante giurisprudenza, da un lato, esso e' tenuto a prendere in considerazione l'insieme dei lavoratori assoggettati alla normativa nazionale da cui ha origine la disparita' di trattamento e, dall'altro, il miglior metodo di comparazione consiste nel comparare le proporzioni rispettive dei lavoratori che sono e che non sono colpiti dalla norma in questione nell'ambito della mano d'opera maschile e le medesime proporzioni nell'ambito della mano d'opera femminile (sentenze del 6 dicembre 2007, Voß, C-300/06, EU:C:2007:757, punto 41 e giurisprudenza citata, nonche' del 3 ottobre 2019, Schuch-Ghannadan, C-274/18, EU:C:2019:828, punto 47 e giurisprudenza citata) ... 64. In tale contesto, i dati statistici costituiscono solo un elemento tra gli altri al quale tale giudice puo' ricorrere e al quale la Corte fa riferimento, quando esistono, al fine di accertare l'esistenza di una discriminazione indiretta nell'ambito dell'attuazione del principio della parita' di trattamento tra uomini e donne. Pertanto, secondo costante giurisprudenza della Corte, l'esistenza di un siffatto particolare svantaggio puo' essere dimostrata, in particolare, se fosse provato che una normativa nazionale colpisce negativamente in proporzione significativamente maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle dell'altro sesso (sentenza del 5 maggio 2022, BVAEB, C-405/20, EU:C:2022:347, punto 49 e giurisprudenza citata)»). In questo modo, la Corte di Giustizia ha invitato a tenere in considerazione i dati statistici (ove ritenuti affidabili) al fine di verificare se la proporzione dei lavoratori di sesso femminile colpiti dalla disparita' di trattamento derivante dalla disposizione nazionale censurata sia significativamente piu' elevata di quella degli altri lavoratori di sesso maschile. La Corte ha cosi' inteso valorizzare il dato statistico per accertare se la categoria di lavoratori che si assume discriminata sia proporzionalmente piu' colpita dalla disparita' di trattamento rispetto all'altra categoria di lavoratori che, seppur incisa anch'essa dalla disposizione, ne subisce una ricaduta statisticamente meno rilevante. Orbene, facendo applicazione dei criteri indicati dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, si deve rilevare che le parti attrici hanno fornito dati statistici che risultano piuttosto affidabili e sufficientemente significativi, non apparendo incentrati su fenomeni puramente fortuiti o congiunturali. In particolare: dal «Rapporto annuale 2024 - La situazione del paese» al cap. 2 «I cambiamenti del lavoro» (https://www.istat.it/produzione-editoriale/rapporto-annuale-2024-la- situazione-del-paese-2/) risulta che i contratti a termine incidono molto di piu' sulle donne (17,7% delle occupate sono a termine contro il 14,8% dei maschi); inoltre la recente dinamica di riduzione dei contratti a termine e' «concentrata nella sola componente maschile dell'occupazione, mentre in quella femminile si registra una leggera crescita che ha riportato l'occupazione a termine delle donne ai livelli pre-pandemia» (cfr. pag. 72); secondo il Dossier statistico immigrazione - IDOS 2023 (all. n. 9 al ricorso), nel 2022 la percentuale di stranieri con contratto a termine rispetto alla totalita' dei lavoratori stranieri era del 22,5%, contro una percentuale nazionale del 12,6%; quest'ultima percentuale riguarda sia italiani che stranieri ed e' dunque influenzata anche dal 22,5% degli stranieri; dal XIII Rapporto Gli Stranieri nel mercato del lavoro in Italia del 2023 pubblicato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali (https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita-immigtazione/focus/xiii-ra pporto-mdl-stranieri-2023) risulta una percentuale nazionale di rapporti a termine e stagionali superiore a quella sopra indicata (26,8%), ma una percentuale riferita ai cittadini extra UE del 36% (31,1% a termine e 4,9% stagionali) (cfr. pag. 76 e ss.); in questo quadro, i lavoratori extra UE sono sovrappresentati tra i lavoratori stagionali (13,8% del totale) e a tempo determinato (14,7% del totale dei lavoratori a termine) laddove invece la percentuale di lavoratori extra UE rispetto al totale dei lavoratori e' del 10,8% (cfr. pag. 76); secondo il rapporto Eurostat pubblicato in data 8 marzo 2022 (https://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-eurostat-news/-/edn-20 220308-2), nel 2020 in Europa la quota piu' alta di lavoratrici a tempo determinato si presentava tra le donne nate fuori dai territori extra-UE (21 %), rispetto alle donne nate in uno stato europeo diverso da quello in cui lavorano (14%) e le donne nate nello stesso stato europeo in cui lavorano (13%) («The highest share of temporary employees was also among women born outside the EU (21%), compared with women born elsewhere in the EU (14%) and native-born women (13%)»); il rapporto Eurostat pubblicato in data 26 maggio 2021 (https://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-eurostat-news/-/ddn-20 210526-1) reca un grafico (all. n. 10 al ricorso) che fornisce i seguenti dati sul lavoro femminile: il 20,6% delle donne straniere extra-UE (Non-EU born persons) e' occupato in lavori a termine (temporary works), contro il 14% tra le donne nate in uno stato europeo diverso da quello in cui lavorano (Persons born in another EU Member State) e il 12,8% delle donne nate nello stesso stato europeo in cui lavorano (Native-born persons). Sulla base di questi dati statistici, si puo' allora desumere che, tra le lavoratrici a tempo determinato, la percentuale delle lavoratrici straniere e' maggiore rispetto alla percentuale delle lavoratrici italiane. In tal senso, la proporzione delle lavoratrici a tempo determinato straniere colpite dalla disparita' di trattamento derivante dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 di cui trattasi si rivela piu' elevata di quella delle lavoratrici a tempo determinato italiane. Ne consegue che la norma impugnata pone in una situazione di particolare svantaggio le lavoratrici a tempo determinato straniere rispetto alle lavoratrici a tempo determinato italiane. Peraltro, non si rinvengono elementi tali da far ritenere che la disposizione in questione sia giustificata da fattori oggettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalita'. Al riguardo, la Corte di Giustizia dell'Unione europea nella citata sentenza del 24 febbraio 2022, causa C-389/20, ha chiarito che puo' ravvisarsi una giustificazione se la disposizione «risponde a un obiettivo legittimo di politica sociale, e' idonea a conseguire detto obiettivo ed e' necessaria a tal fine, fermo restando che essa puo' essere considerata idonea a garantire l'obiettivo invocato solo se risponde realmente all'intento di raggiungerlo e se e' attuata in maniera coerente e sistematica (v., in tal senso, sentenze del 20 ottobre 2011, Brachner, C-123/10, EU:C:2011:675, punti 70 e 71 e giurisprudenza ivi citata, nonche' del 21 gennaio 2021, INSS, C-843 /19, EU:C:2021:55, punti 31 e 32 e giurisprudenza ivi citata)». Tuttavia, come gia' si e' rilevato relativamente alla violazione dell'art. 3 Cost., non sembra che vi siano effettive ragioni (nemmeno di politica sociale) che sorreggano l'esclusione delle lavoratrici madri a tempo determinato dall'esonero contributivo in controversia. Del resto, come pure precisato dalla giurisprudenza europea, neppure sarebbe sufficiente che la norma risponda a obiettivi legittimi di politica sociale, dovendo pure sussistere l'idoneita' della norma nazionale a realizzare tali obiettivi e, in particolare, se venga attuata in maniera coerente e sistematica, occorrendo dimostrare che la categoria di lavoratori che essa esclude dalla tutela si distingue in modo pertinente da altre categorie di lavoratori che non ne sono escluse (cfr. CGUE sentenza del 24 febbraio 2022, causa C-389/20, par. 62). Ancora, nell'ipotesi in cui si dovesse constatare che la disposizione nazionale risponde a obiettivi legittimi di politica sociale e che essa e' idonea a realizzare tali obiettivi, dovrebbe verificarsi se tale disposizione non ecceda quanto necessario alla realizzazione di detti obiettivi (cfr. CGUE sentenza del 24 febbraio 2022, causa C-389/20, par. 68). Nel presente giudizio, pero', questi due ultimi profili non sono indagabili, a fronte del riscontro negativo circa la sussistenza di obiettivi atti a giustificare la discriminazione indiretta fondata sulla nazionalita' che la norma impugnata comporta. Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023, nella parte in cui non riconosce l'esonero contributivo alle lavoratrici madri a tempo determinato, sembra porsi in contrasto con il principio di parita' di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro (cristallizzato nelle citate direttive 2004/38/CE, 2003/109/CE, 2011/98/UE, 2021/1883/UE), cosi' da configurare un'altra violazione dell'art. 117, co. 1, Cost. 5.2.2. In relazione al mancato riconoscimento dell'esonero contributivo alle lavoratrici madri con rapporti di lavoro domestico. 5.2.2.1. Violazione dell'art. 3 della Costituzione. Con riferimento alla parte della norma censurata che esclude dall'esonero contributivo le lavoratrici madri con rapporti di lavoro domestico, sembra ravvisarsi una violazione dell'art. 3 della Costituzione per motivi similari a quelli gia' rappresentati per la prima parte della norma impugnata. Non pare infatti giustificabile, alla stregua dell'art. 3 Cost., che le lavoratrici madri con rapporti di lavoro domestico siano trattate in modo deteriore rispetto a tutte le altre lavoratrici madri a tempo indeterminato. Come gia' si e' detto, il beneficio previsto dalla nonna impugnata opera per qualsiasi retribuzione. Parimenti, non sembra potersi ammettere che il carattere di stabilita' dei contratti di lavoro a tempo indeterminato diversi da quello domestico possa valere ex se a giustificare le previsioni in esame: al contrario, sembrerebbe piu' ragionevole attribuire il beneficio contributivo (con effetti diretti di natura retributiva) alle lavoratrici domestiche, che hanno minori certezze lavorative (tenuto conto, tra le altre cose, del regime di recesso ad nutum) e dispongono mediamente di retribuzioni piu' basse rispetto alle lavoratrici a tempo indeterminato. 5.2.2.2. Violazione dell'art. 31 della Costituzione. Anche per quanto concerne la paventata violazione dell'art. 31 Cost., possono riprendersi le considerazioni gia' svolte per la prima parte della norma impugnata. Ed invero, l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 risulterebbe garantire alla maternita' e alla famiglia numerosa di una donna con contratto di lavoro a tempo indeterminato una protezione diversa (e migliore) rispetto a quelle di una donna con contratto di lavoro domestico, senza che cio' trovi ragione sul piano delle tutele della maternita' e della famiglia. 5.2.2.3. Violazione dell'art. 117. co. 1, della Costituzione. Infine, oltre alla violazione degli articoli 3 e 31 Cost., pare prospettabile anche una violazione dell'art. 117, co. 1, Cost. in relazione ai vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. Al riguardo, si deve ribadire quanto gia' detto (nel precedente par. 5.2.1.4.) in relazione al principio di parita' di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro, per come riconosciuto dall'ordinamento europeo (cfr. articoli 24 direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, 11, lettera a), direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, 12, lettera a), direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, 16, lettera a), direttiva 2021/1883/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2021). Come gia' evidenziato in relazione alla prima parte della norma impugnata, e' indiscusso che l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 non comporti una discriminazione diretta fondata sulla nazionalita', dal momento che si applica indistintamente alle lavoratrici di nazionalita' italiana e alle lavoratrici di nazionalita' straniera con rapporti di lavoro domestico. Occorre pero' verificare se la norma possa porre in una situazione di particolare svantaggio le persone di nazionalita' straniera rispetto alle persone di nazionalita' italiana (discriminazione indiretta), a meno che detta disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalita' legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Orbene, facendo applicazione dei criteri indicati dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea nella sentenza 24 febbraio 2022, causa C-389/20, si deve rilevare che le parti attrici hanno fornito dati statistici che risultano piuttosto affidabili e sufficientemente significativi, non apparendo incentrati su fenomeni puramente fortuiti o congiunturali. In particolare: dal XIII Rapporto Gli Stranieri nel mercato del lavoro in Italia del 2023 pubblicato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali (https://www.layoro.gov.it/temi-e-priorita-immigrazione/focus/xiii-ra pporto-mdl-stranieri-2023), i cui dati derivano dagli archivi delle comunicazioni obbligatorie e dei versamenti contributivi effettuati dai datori di lavoro, risulta che «Nel 2022 poco piu' della meta' dei lavoratori domestici e' costituita da extracomunitari: se ne osservano 449.636 su un totale di 894.299 (50,28%). Tale percentuale e' in aumento rispetto a quelle del 2020 e del 2021, in cui rispettivamente si riscontra il 48,69% e il 50,03% dei lavoratori extracomunitari sul totale. In questa categoria di lavoratori nel 2022 si conforma, come gia' visto nel biennio precedente, la netta prevalenza delle donne (86,4%)» (cfr. pag. 79); secondo il rapporto DOMINA 2022 (https://www.osservatoriolavorodomestico.it/rapporto-annuale-lavoro-d omestico-2022), nell'anno 2021, tra i lavoratori domestici contribuenti all'INPS, le donne straniere rappresentavano il 57,5% (le altre percentuali erano cosi' distribuite: donne italiane 27,4%; uomini stranieri 12,4%; uomini italiani 2,6%); secondo il rapporto IDOS «Le migrazioni femminili in Italia» (https://www.integrazionemigranti.gov.it/AnteprimaPDF.aspx?id=3730), nel 2021, l'87% delle lavoratrici straniere erano occupate nel settore dei servizi e, di queste, il 50% era occupato nei soli settori del lavoro domestico, di cura e di pulizia (cfr. grafico a pag. 9). Sulla base di questi dati statistici, si puo' allora desumere che, tra le lavoratrici domestiche, la percentuale delle lavoratrici straniere e' considerevolmente maggiore rispetto alla percentuale delle lavoratrici italiane (secondo il rapporto DOMINA 2022, le lavoratrici domestiche straniere contribuenti all'INPS nel 2021 erano, addirittura, piu' del doppio di quelle italiane). In tal senso, la proporzione delle lavoratrici domestiche straniere colpite dalla disparita' di trattamento derivante dall'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023 di cui trattasi si rivela significativamente piu' elevata di quella delle lavoratrici domestiche italiane. Ne consegue che la norma impugnata pone in una situazione di particolare svantaggio le lavoratrici domestiche straniere rispetto alle lavoratrici domestiche italiane. Peraltro, non si rinvengono elementi tali da far ritenere che la disposizione in questione sia giustificata da fattori oggettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalita'. Infatti, come gia' si e' rilevato in relazione alla violazione dell'art. 3 Cost., non sembra che vi siano effettive ragioni (nemmeno di politica sociale) che sorreggano l'esclusione delle lavoratrici madri con rapporti di lavoro domestico dall'esonero contributivo in controversia. Il riscontro negativo della sussistenza di obiettivi atti a giustificare la discriminazione indiretta fondata sulla nazionalita' che la norma impugnata esonera il Tribunale dalle ulteriori verifiche (sull'idoneita' e la necessita' circa il conseguimento degli obiettivi di politica sociale) menzionate dalla CGUE nella richiamata sentenza 24 febbraio 2022, causa C-389/20. Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, l'art. 1, commi 180 e 181, legge n. 213/2023, nella parte in cui esclude l'esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico, sembra porsi in contrasto con il principio di parita' di trattamento del cittadino straniero nelle condizioni di lavoro (cristallizzato nelle citate direttive 2004/38/CE, 2003/109/CE, 2011/98/UE, 2021/1883/UE), cosi' da configurare una violazione dell'art. 117, co. 1, Cost. P.Q.M. Visti gli articoli 134 della Costituzione e 23 della legge n. 87/1953, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli articoli 3, 31 e 117, comma 1, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 180 e 181, della legge n. 213/2023 nella parte in cui non riconosce l'esonero contributivo anche alle lavoratrici madri di tre o piu' figli (e, per i periodi di paga dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2024, anche alle lavoratrici madri di due figli) con rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato e nella parte in cui esclude l'esonero contributivo per i rapporti di lavoro domestico; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il presente giudizio; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Milano, 23 ottobre 2024 Il giudice: Caroleo