Ritenuto in fatto
1. - Il pretore di Gorizia, con ordinanza emessa il 2 novembre
1983 nel procedimento penale a carico di Marusic Stanislao - imputato
del reato di cui agli artt. 1 e 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1085
("Disciplina della esposizione di bandiere estere") per aver esposto
o fatto esporre, il 25 aprile 1983, in Gorizia, due bandiere slovene
accanto a due bandiere nazionali italiane senza la preventiva
autorizzazione dell'autorità politica locale - ha sollevato, su
istanza di parte, questione di legittimità costituzionale, in
riferimento agli artt. 3, comma 1, e 6 Cost., degli artt. 1 e 3 della
legge n. 1985 del 1929, nella parte in cui fanno divieto alle
minoranze etniche esistenti nel territorio dello Stato d'esporre le
proprie bandiere, corrispondenti a quelle di Stati esteri, senza la
preventiva autorizzazione dell'autorità politica locale.
Il giudice a quo rileva, in primo luogo, che il divieto di esporre
bandiere di Stati esteri senza autorizzazione è di portata generale,
dirigendosi a tutti i soggetti - cittadini o stranieri - che si
trovino nel territorio nazionale, e quindi non potrebbe configurarsi,
sotto tale aspetto, una disparità di trattamento. Nonostante ciò,
appare lecito il dubbio circa la violazione dei principii
costituzionali, relativi all'eguaglianza ed alla tutela delle
minoranze, violazione realizzata attraverso la mancata considerazione
dell'esistenza, nel territorio nazionale, di cittadini italiani di
diversa origine etnica che si riconoscono nelle proprie tradizioni,
costumi, lingua e nei propri colori nazionali, talvolta
corrispondenti a quelli di Stati esteri. In considerazione del fatto
che l'ordinamento riconosce a diverse comunità operanti nel
territorio dello Stato (enti pubblici e privati, associazioni
politiche, religiose, culturali e sportive) il diritto d' esporre,
senza autorizzazione, insegne, stemmi o bandiere quali segni
distintivi della loro individualità, il trattamento operato per le
predette minoranze appare discriminatorio.
L'esigenza di un'autorizzazione per l'esposizione delle bandiere
delle comunità etniche minoritarie - che, per essere proprie di
gruppi esistenti nel territorio della Repubblica, potrebbero essere
considerate interne, anche se coincidenti con quelle di Stati esteri
- appare limitativa della libertà di taluni gruppi di manifestare la
propria identità.
L'ordinanza è stata regolarmente comunicata, notificata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, sostenendo l'infondatezza della questione.
In primo luogo, l'Avvocatura dello Stato nega che il collegamento
con uno Stato estero caratterizzi tutte le minoranze etniche nei
riguardi degli altri gruppi intermedi. Infatti, esistono minoranze
alloglotte che non si riconoscono (o non si riconoscono più) in uno
Stato diverso da quello d'appartenenza (ad esempio i serbo-croati del
Molise, i catalani di Alghero o i greco-albanesi del meridione
d'Italia); inoltre, esistono formazioni sociali diverse dalle
minoranze etniche (organizzazioni politiche, sindacali o culturali)
che si riconoscono in determinati Stati ed hanno interesse ad
adottare le relative bandiere come segno distintivo della propria
individualità.
Secondariamente, il valore tutelato dall'art. 6 Cost. non sarebbe
costituito dall'allogenia bensì dall'alloglossia e, quindi,
dall'aspetto linguistico-culturale del legame con un'etni'a diversa
da quella maggioritaria e non dall'aspetto politico nazionale d'un
eventuale collegamento con un'etni'a corrispondente con uno Stato
estero.
Pertanto, la normativa in questione non violerebbe gli artt. 6 e
3, primo comma Cost., poiché le minoranze alloglotte non si trovano
in posizione differenziata rispetto ad altri gruppi intermedi e la
pronuncia di incostituzionalità richiesta dal giudice a quo
violerebbe il principio di eguaglianza per ingiustificato favore
verso alcune minoranze etniche rispetto a formazioni sociali diverse
ma egualmente interessate ad adottare bandiere di Stati esteri come
segno distintivo della propria individualità. Peraltro, conclude
l'Avvocatura, le norme impugnate sarebbero state dettate a supporto
di valori fondamentali tutelati dalla Carta costituzionale: la
sovranità dello Stato e la "complessiva ed assorbente riserva" ad
esso del potere estero.
Considerato in diritto
1. - Il richiamo al caso di specie, di cui all'ordinanza di
rimessione, vale già ad ingenerare un iniziale, grave sospetto
d'incostituzionalità della normativa impugnata.
Il pretore dà atto che l'esposizione delle bandiere slovene,
avvenuta in data 25 aprile 1983 nei pressi del
monumento ai Caduti della Resistenza, nella piazza di S. Andrea di
Gorizia, tendeva ad esprimere la piena adesione
della minoranza d'origine slovena alla commemorazione dei Caduti
della Resistenza italiana; ma non dubita che la
normativa impugnata per illegittimità costituzionale sia applicabile
alla specie. Il fatto che possa costituire illecito
penale un comportamento che non solo non viola alcun valore
costituzionalmente garantito ma non lascia intravvedere neppure quale
bene giuridico comprometta e che, perdippiù, oggettivamente tende ad
esprimere convinta adesione della minoranza slovena, alloglotta od
allogena che sia, al ricordo di coloro che offrirono la vita per la
conquista della nuova unità istituzionale e politica degli italiani,
sconcerta non poco. La minoranza in questione intendeva, con
l'esposizione in pubblico delle bandiere slovene, aderire alla
commemorazione in discorso e così unirsi a tutti gli italiani nel
riaffermare i valori dai quali è nata la Resistenza e quest'ultima,
che della Costituzione repubblicana è origine e sostanza sempre
vivente: può tutto ciò costituire fatto penalmente sanzionato?
L'illegittimità costituzionale della normativa impugnata comincia a
profilarsi già dall'indiscutibile risposta negativa all'ora proposto
quesito.
E vale subito aggiungere il netto contrasto tra l'asserito
"vigore" formale degli artt. 1 e 3 della legge 24 giugno 1929, n.
1085, e la realtà nella quale, come è stato sottolineato dalla
dottrina e dalla giurisprudenza, l'esposizione in pubblico di
bandiere estere, senza necessità di preventive autorizzazioni, è
puntualmente tollerata, in tutto il territorio nazionale, in
occasione di "nobili" manifestazioni politiche o di "meno nobili"
esigenze turistico-commerciali. L'esperienza, in altre parole, ha
avvertito il contrasto tra gli articoli citati, emanati in un
determinato clima ideologico-politico e la successiva Costituzione e
lo ha già risolto (salvo rare eccezioni) dando concreta prova della
sempre invocata e non sempre adottata interpretazione "secondo
Costituzione".
Va, infine, osservato che il ristretto profilo dal quale il
giudice a quo propone la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 1 e 3 della legge n. 1085 del 1929 non impedisce a questa
Corte d'essere consapevole che la stessa questione coinvolge anche
più vaste prospettive, ossia quelle delle manifestazioni di gruppi e
soggetti che possono esporre in pubblico bandiere estere al solo
scopo di manifestare adesione a concrete realizzazioni
ideologico-politiche perseguite da alcuni Stati. Il tener presente
anche l'ora indicata, più vasta prospettiva, dalla quale può esser
considerata la proposta questione di legittimità costituzionale, non
nuoce alle conclusioni che qui si vanno ad assumere, tenuto conto del
fatto che la consapevolezza dell'ampiezza delle implicazioni inerenti
ad una decisione non può che rendere più avvertiti nell'assunzione
di quest'ultima, anche se ad essa si deve giungere attraverso un
esame limitato da alcuni canoni costituzionali di valutazione.
2. - Il profilo dal quale l'ordinanza di rimessione considera
l'illegittimità dell'impugnata normativa ed il riferimento agli
artt. 3 e 6 Cost. impone a questa Corte alcune riflessioni relative
al confronto tra il diritto delle minoranze linguistiche d'esprimere
la propria identità e quello degli altri gruppi sociali.
L'ordinanza di rimessione assume che l'esigenza della preventiva
autorizzazione, per l'esposizione in pubblico delle bandiere delle
comunità etniche minoritarie, "ancorché coincidenti con le bandiere
di determinati Stati esteri", limiti la libertà delle stesse
comunità di manifestare la propria identità; mentre ad ogni "altra"
comunità, vivente nel territorio dello Stato, (enti pubblici e
privati, associazioni politiche, religiose, culturali, sportive) che
non sia illecita, è riconosciuto, senza necessità d'autorizzazione,
il diritto d'esporre in pubblico insegne, stemmi, bandiere ecc.,
espressivi della propria individualità.
A chi osservasse che il diritto d'un qualsiasi ente od
associazione politica, culturale ecc. d'esporre le proprie bandiere
non può essere confuso con il diritto delle minoranze etniche
d'esporre bandiere di Stati esteri (che simboleggiano le Nazioni
nelle quali le stesse minoranze spesso dichiarano di riconoscersi, a
volte in dialettica con la Nazione italiana, simboleggiata dalla
relativa bandiera) ed a chi tentasse d'opporre che il collegamento
con lo Stato estero si verifica per le minoranze etniche e non per
gli altri gruppi interni e che, conseguentemente, l'incidenza che
l'esposizione delle bandiere delle predette minoranze ha o può avere
sugli interessi degli Stati esteri, ed anche su quelli dello Stato
italiano, si verifica per le minoranze etniche e non per gli altri
gruppi interni (questi ultimi, nell'esporre i propri segni
distintivi, ed anche le proprie bandiere, non incidono, in alcun
modo, su rapporti relativi a Stati diversi) il giudice a quo replica
che più razionale sarebbe affermare il principio della liceità
dell'esposizione delle bandiere delle minoranze etniche, ancorché
coincidenti con quelle di Stati esteri, con l'attribuzione, peraltro,
all'autorità statale del potere di vietare la predetta esposizione
soltanto per particolari situazioni internazionali o per gravi motivi
d'ordine pubblico.
Ma il problema non attiene specificamente alle minoranze
"etniche': esso è più generale, ove si consideri che qualsiasi
gruppo interno (ed anche qualsiasi cittadino) può riconoscersi ed
esprimere la propria identità politico-sociale attraverso un
simbolo, una bandiera corrispondente a quella d'uno Stato estero. E
ciò per motivazioni le più varie, nelle quali è almeno dubbio che
lo Stato possa interferire.
3. - La verità è che non soltanto le minoranze etniche ma anche
gruppi intermedi (ad es. associazioni politiche, sindacali, culturali
ecc.) e soggetti pubblici e privati possono riconoscersi nelle
idealità perseguite da Stati ed avere, pertanto, interesse ad
adottare le relative bandiere come segno distintivo della propria
individualità politico-sociale.
Da ciò discende che, mentre costituirebbe ulteriore
discriminazione non sottoporre ad alcuna limitazione l'esposizione in
pubblico di bandiere di Stati esteri da parte delle sole minoranze
etniche e sottoporre, invece, a discrezionale autorizzazione
dell'autorità politica la stessa (identica) esposizione da parte
degli altri soggetti che intendano, comunque, caratterizzare la
propria identità politico-sociale attraverso simboli o bandiere
corrispondenti a quelle di Stati esteri, va necessariamente chiarito
in questa sede se costituisca "scelta" razionale quella d'imporre a
preventiva autorizzazione dell'autorità politica l'esposizione di
bandiere che (nel caratterizzare l'identità politico-sociale di
gruppi, minoranze etniche oppur no, e di soggetti singoli)
corrispondono a quelle di Stati esteri e di lasciare, invece, tutti
gli altri soggetti liberi d'esporre i propri simboli, emblemi e
bandiere, che non s'identificano con simboli e bandiere di Stati
esteri.
A tal proposito va, anzitutto, ricordato che dal 1929 ad oggi è
notevolmente modificato il significato dei simboli, emblemi e
bandiere.
Forse, e fino ad un certo punto, il clima politico nel quale
furono emanate le norme impugnate può, in qualche modo, spiegare
(giammai giustificare) il perché del divieto di cui al primo comma
dell'art. 1 della legge 24 giugno 1929, n. 1085. Ove la bandiera
nazionale costituisca, come nel regime politico-istituzionale vigente
in Italia nel 1929, simbolo ed emblema della sovranità nazionale,
d'uno Stato che "non riconosce" altri valori oltre quelli dei quali
si fa detentore ed impositore, l'esposizione, nel territorio
nazionale, di bandiere di Stati esteri non può esser guardata con
favore. Che senso può mai avere l'esposizione di bandiere di Stati
esteri nel territorio ove impera la sovranità dello Stato italiano?
Come possono ideologie e valori diversi da quelli dello Stato che
insiste sul territorio esser dialetticamente confrontati con gli
"unici" valori e con l'"unica" ideologia dello stesso Stato?
Dando alla bandiera nazionale il significato ora posto in luce, è
fin troppo evidente che le concezioni generali imperanti nel 1929
finivano con l'attribuire anche alle bandiere estere lo stesso
significato: da ciò l'impossibilità "in radice" d'un confronto tra
valori "validi", quelli nazionali, ed ideologie "non valide"; e, in
conseguenza, il generale divieto d'esposizione di bandiere estere. È
da notare ancora che il divieto è generale e "prioritario": non solo
il diniego d'autorizzazione dell'autorità politica ma anche la
mancanza di richiesta d'autorizzazione, per qualsiasi motivo, lascia
inalterata l'illiceità del fatto; lo stesso divieto è inefficace
per la sola ipotesi della concessione dell'autorizzazione.
Non è necessario insistere sulla significatività della natura
politica dell'autorizzazione: non sono, infatti, motivi di ordine
pubblico a condizionare, almeno nelle intenzioni del legislatore del
1929, la predetta autorizzazione bensì ragioni attinenti alla
valutazione politica del fatto. Soltanto quando l'esposizione di
bandiere estere, in concreto, non sia indirizzata a proporre
confronti dialettici con valori "non validi", rispetto a quelli
nazionali, e soprattutto non manifesti l'adesione di cittadini alle
ideologie "non valide", l'autorizzazione può essere concessa;
l'esposizione di bandiere estere, in tal caso, "non offende"
l'esclusività e totalitarietà dell'ideologia espressa dalla
bandiera dello Stato insistente sul territorio nel quale la bandiera
estera è esposta.
Senonché, mutato il clima politico, emanata la Costituzione, sia
la bandiera nazionale sia le bandiere estere non costituiscono più
l'emblema, il simbolo della sovranità territoriale, concepita nel
senso sopra indicato, ma designano simbolicamente un certo Paese,
l'identità d'un determinato Stato e, se mai, anche l'ideologia che
la maggioranza del popolo di quest'ultimo accetta e propone al
confronto internazionale. Non avendo lo Stato da imporre valori
propri, contenuti ideologici che investano tutti i cittadini, e
"totalmente" ogni singolo cittadino, le bandiere valgono soltanto
quale simbolo identificatore d'un determinato Stato e, se mai, di
precisi, inconfondibili ideali dai quali muove il popolo e,
conseguentemente, la sua sovranità.
Dalle precedenti osservazioni discende che, se mai, il divieto
d'esposizione di bandiere estere poteva avere, nel 1929, una
motivazione: ma, con la Costituzione, con l'avvento della democrazia,
mutato il significato delle bandiere, anche quella motivazione è
venuta meno. Di tal che è, oggi, manifestamente irrazionale
discriminare fra coloro che intendano esprimere la propria identità
attraverso segni e bandiere corrispondenti a quelle di Stati esteri e
coloro che caratterizzino la propria identità diversamente.
Lo Stato democratico non può temere il confronto con le idealità
perseguite da popoli di altri Stati e da Nazioni diverse da quella
espressa dalla maggioranza dei propri cittadini: anzi, lo Stato
democratico s'instaura e vive nel predetto confronto e, pertanto, non
può che avere interesse al medesimo. Tanto più che, come ritiene il
giudice a quo, affermata la generale liceità dell'esposizione in
pubblico di bandiere estere, rimarrebbe sempre possibile un eventuale
divieto che, di volta in volta, come in ogni altra situazione,
l'autorità istituzionale competente (e non l'autorità politica)
ponesse, a causa di davvero eccezionali ragioni di ordine pubblico o
di carattere internazionale.
4. - Finora si è fatto riferimento esclusivamente al divieto
previsto dalla lettera c) del primo comma dell'art. 1 della legge 24
giugno 1929 n. 1085.
L'ordinanza di rimessione impugna anche l'art. 3 della predetta
legge. A parte la rimozione delle bandiere, prevista in quest'ultimo
articolo, vale considerare il collegamento tra il precitato divieto e
la sanzione penale di cui al terzo comma dello stesso articolo.
Infatti, dalla sintesi tra il divieto previsto nel primo comma e la
sanzione di cui al terzo comma dell'articolo in esame risulta
completa la norma penale, sulla quale va rivolta ora particolare
attenzione.
Il diritto penale costituisce, rispetto agli altri rami
dell'ordinamento giuridico dello Stato, l'extrema ratio, il momento
nel quale soltanto nell'impossibilità o nell'insufficienza dei
rimedi previsti dagli altri rami è concesso al legislatore ordinario
di negativamente incidere, a fini sanzionatori, sui più importanti
beni del privato. Anche tenendo presente la motivazione dalla quale,
come si è innanzi notato, è presumibilmente partito il legislatore
nell'emanare il divieto previsto dal primo comma dell'art. 1 della
legge n. 1085 del 1929, il ricorso alla sanzione penale appare
sproporzionato: se si tien conto che, con la Costituzione, è caduta
anche quella motivazione, tal ricorso si palesa oggi manifestamente
irrazionale.
Non si può, certo, fondatamente sostenere che si tuteli,
attraverso l'incriminazione del fatto in discussione, lo Stato
rappresentato dalla bandiera esposta; lo Stato estero trova già
sufficiente tutela nell'art. 299 del codice penale che, appunto,
incrimina, sia pure a condizione di reciprocità (v. art. 300 c.p.)
il vilipendio alla bandiera ufficiale o ad altro emblema di Stato
estero. Né è sostenibile che si tuteli, attraverso la semplice
esposizione in pubblico di bandiere estere, lo Stato italiano nei
suoi rapporti con gli Stati esteri, giacché un turbamento di tali
rapporti può aversi soltanto nell'ipotesi d'offesa o vilipendio
della bandiera dello Stato estero; tanto più che, come già s'è
rilevato e come sostiene il giudice a quo, nell'ipotesi d'eventuale,
eccezionale pericolo di turbamento dei predetti rapporti
internazionali o per motivi d'ordine pubblico, permangono inalterate
le facoltà ed i poteri che le norme dei rami dell'ordinamento
diversi dal penale attribuiscono alle autorità istituzionali dello
Stato.
Né si può, infine, obiettare che è comune alle incriminazioni
di fatti contravvenzionali la mancanza di ben individuati oggetti di
tutela, prevenendo le stesse incriminazioni pericoli di lesione di
ulteriori beni: sono, infatti, "inafferrabili" appunto questi
"ulteriori" beni che sarebbero garantiti attraverso l'incriminazione
del fatto contravvenzionale in discussione.
Vero è che, attraverso la penalizzazione del fatto in esame, non
è tutelato alcun bene giuridico: il fatto stesso manca di qualsiasi
oggetto giuridico specifico e della benché minima ratio
incriminandi.
5. - La struttura della norma penale risultante dal combinato
disposto degli artt. 1 e 3 della legge n. 1085 del 1929 conferma
quanto ora osservato e svela anche altra, gravissima discriminazione,
manifestamente irrazionale.
L'autorizzazione di cui alla lettera c) del più volte citato art.
1 della legge n. 1085 del 1929 non rientra nella fattispecie tipica
del reato in esame: la predetta autorizzazione costituisce
"condizione di liceità" della stessa fattispecie ma non incide né
sulla struttura né sulla qualificazione della medesima. Il fatto
tipico, legislativamente definito, consiste nell'"esposizione in
pubblico di bandiere estere". Anche ad aggiungere, alla descrizione
tipica, l'espressione "senza autorizzazione", e cioè anche ad
assumere la mancanza di quest'ultima quale elemento negativo del
fatto, le cose non cambiano: l'autorizzazione, in ogni caso, fa
mutare la qualificazione "negativa", già impressa dal legislatore al
"tipo" (esposizione, in pubblico, di bandiere estere) e, escludendo
il rilievo penale del comportamento conforme al "tipo", impedisce, in
concreto, il sorgere della punibilità.
La struttura della norma in discussione è "simile" a quella delle
norme parzialmente in bianco e cioè a quella delle norme che, pur
descrivendo tutto il comportamento (ed anche, eventualmente, l'evento
naturalistico) condizionano l'esclusione dell'antigiuridicità ad
altra norma o ad altro fatto: tuttavia, mentre in queste ultime,
almeno di regola, il fatto (ad esempio l'abilitazione di cui all'art.
662 c.p. o la licenza di cui all'art. 348 c.p. ecc.) che condiziona
in concreto l'esclusione dell'antigiuridicità del comportamento
conforme al tipo legislativamente definito, oltre ad essere concesso
dalle autorità istituzionali, è soggetto a ben precise regole,
l'autorizzazione prevista dalla norma penale in esame è
assolutamente discrezionale. Nella specie manca, cioè, la benché
minima indicazione dei "criteri" in base ai quali l'autorizzazione
può esser concessa. Da ciò discende che, a parte ogni altra
questione di costituzionalità, la concreta punibilità del fatto è
rimessa all'"arbitrio" dell'autorità: sicché i soggetti che non
ottengono la predetta autorizzazione vengono sanzionati penalmente e
sono, pertanto, trattati in maniera diversa, opposta e deteriore,
rispetto a quella in cui sono trattati coloro i quali, in virtù
della incontrollabile ed assolutamente discrezionale autorizzazione,
vanno del tutto esenti da pena.
E la discriminazione (dovrebbe ormai esser evidente) è
manifestamente irrazionale, anche in base a quanto sopra osservato in
relazione all'assunta, ex adverso, tutela del pericolo di turbamento
delle relazioni internazionali ed agli assunti motivi d'ordine
pubblico.
Razionale è stabilire la normale liceità dell'esposizione in
pubblico delle bandiere estere, in base all'evoluzione del
significato che le bandiere di tutti gli Stati oggi esprimono, salvo
i divieti, specifici ed eccezionali, che, a parere del giudice a quo,
possono sempre esser determinati dalle autorità istituzionali (e non
politiche) ai sensi ed in virtù delle norme di rami dell'ordinamento
diversi dal penale.
6. - Né è il caso d'insistere sulle gravi anomalie che la norma
penale in discussione genera. Mancando il fatto tipico (l'esposizione
in pubblico di bandiere estere) d'ogni significatività ed
offensività, prescindendo esso anche da ogni valutazione relativa
alle finalità oggettive del comportamento tipico, non solo possono
profilarsi situazioni paradossali, come quella relativa al caso di
specie (l'adesione alla Resistenza, al ricordo di coloro che diedero
la vita per la realizzazione dell'unità morale e politica
dell'Italia, da parte di minoranze etniche, configurata come illecito
penalmente sanzionato) ma vengono, in ogni caso, anche
irrazionalmente stravolti i principii che, ad esempio in tema di
elemento soggettivo del reato, costituiscono acquisizioni
costituzionalmente sancite e certamente irreversibili.Allorché il
fatto tipico è costruito esclusivamente da elementi naturalistici,
la volontà del medesimo viene a confondersi con il dolo che, in ogni
ipotesi di illecito penale, è, invece, volontà del significato del
fatto tipico, significato per il quale il fatto stesso è
incriminato. È ben vero che l'ipotesi in esame è contravvenzionale
e che, pertanto, si risponde anche per sola colpa: ma è quanto meno
discutibile una "colpa" che, prescindendo del tutto
dall'autorizzazione (che, si è già notato, non attiene al fatto
tipico) si risolve nella mera volontà dell'esposizione in pubblico
di bandiere estere. A quali regole od a quali norme può farsi
riferimento per determinare la "negligenza", "imprudenza" ecc.? Né
va dimenticato che, l'autorizzazione all'esposizione delle bandiere
estere, escludendo l'antigiuridicità del fatto attiene, come s'è
già sottolineato, alla qualificazione e non al fatto tipico:
l'ignoranza e l'errore su tale autorizzazione rimarrebbero, fra
l'altro, almeno a parere d'autorevole dottrina, fuori dell'ambito
d'operatività dell'art. 47, ultimo comma, c.p., e, in virtù
dell'art. 5 c.p., del tutto privi di rilevanza penale.
Non v'è chi non veda, in conseguenza, che non soltanto v'è
discriminazione irrazionale tra soggetti che "fortunatamente"
riescono ad ottenere l'autorizzazione all'esposizione di bandiere
estere e soggetti che, magari per ignoranza od errore
sull'autorizzazione stessa, sono penalmente sanzionati per aver
commesso lo stesso fatto tipico realizzato dai primi, ma che, mentre
per ogni illecito penale, in tema di elemento subiettivo del reato,
si risponde in virtù di ben precise norme e principii, anche
costituzionalmente garantiti, per il reato in esame si dovrebbe
rispondere in base a principii disattesi dalla dottrina e sconosciuti
alla vigente legislazione penale.
7. - L'art. 1 della legge n. 1085 del 1929 va dichiarato
incostituzionale nella sola parte in cui subordina alla
autorizzazione delle autorità politiche locali l'esposizione di
bandiere di Stati esteri, giacché, ovviamente, rimangono inalterate
tutte le norme e consuetudini internazionali vigenti in materia, come
tutte le norme interne relative all'uso di bandiere di Stati esteri
all'esterno degli edifici che godono dell'immunità riconosciuta dal
diritto internazionale od in occasione di visite di sovrani esteri o
di loro delegati. Conseguentemente l'art. 3 della predetta legge va
dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevede la sanzione
penale per la trasgressione al divieto d'esposizione in pubblico di
bandiere estere senza preventiva autorizzazione delle autorità
politiche locali.