Ritenuto in fatto:
1. - Con atto di citazione notificato il 13 ottobre 1956 Tedeschi
Lorenzo, già mezzadro di Baldelli Dante nel periodo 1942-1950, citava
quest'ultimo innanzi alla Pretura di Perugia per sentirlo condannare al
pagamento di L. 108.330, in applicazione dell'art. 2 della legge 29
maggio 1956, n. 500 (c. d. legge Salari).
Tale legge si intitola: "Norme interpretative in materia di
consegna e riconsegna delle scorte vive nei contratti di mezzadria".
Essa dispone: "Art. 1: Quando nei contratti di mezzadria le scorte
vive sono state conferite dal concedente e consegnate al mezzadro a
stima in base ai prezzi di mercato, in caso di scioglimento del
contratto il mezzadro ha diritto a percepire dal concedente la metà
della differenza tra il valore delle scorte al momento della consegna,
calcolato in base ai prezzi allora correnti, ed il valore delle stesse
calcolato in base ai prezzi correnti all'atto della riconsegna". Art.
2: Il mezzadro ha diritto a percepire dal concedente la metà della
differenza dei valori previsti dall'articolo precedente anche quando
sia avvenuto lo scioglimento del contratto anteriormente alla entrata
in vigore della presente legge e le parti non abbiano comunque definito
i loro rapporti in ordine alle scorte vive".
Nel rapporto di mezzadria tra il Baldelli e il Tedeschi il
concedente aveva all'inizio del rapporto, nel 1942, consegnato al
Tedeschi scorte vive a stima, per un valore che dal libretto colonico
risulta essere di L. 9.800. Nel 1950, il concedente Baldelli, allo
scadere del rapporto di mezzadria, aveva - secondo l'assunto
dell'attore - prelevato dal "capitale colonico comune" (e cioè dal
capitale d'esercizio) il cosiddetto "plusvalore" delle scorte vive
(consistente nella differenza di valore tra il 1942 e il 1950, in
conseguenza della svalutazione monetaria, delle scorte consegnate al
mezzadro nel 1942). Per tal modo il Tedeschi, alla chiusura dei conti,
era rimasto debitore del Baldelli di L. 32.838. Col riferito atto di
citazione il Tedeschi chiedeva invece - in applicazione della legge
Salari - l'attribuzione a sé della metà del c.d. "plusvalore", e
pertanto la condanna del Baldelli alla restituzione di L. 108.330,
oltre gli interessi dal 1950.
Il convenuto sollevò in giudizio eccezione di incostituzionalità
della legge Salari, sotto vari profili.
Su tale eccezione il Pretore di Perugia si pronunciò con ordinanza
2-24 novembre 1956.
Esclusa la natura interpretativa della legge in questione rispetto
all'art. 2163 Cod. civ. e alle norme corporative, ma escluso a un
tempo che solo per ciò la legge potesse, in quanto retroattiva, esser
considerata incostituzionale; e ritenuta quindi manifestamente
infondata la questione sollevata al riguardo dal convenuto, come pure
l'altra questione circa la violazione del principio di divisione dei
poteri, inerente al preteso intento legislativo di eludere la
giurisprudenza affermatasi in materia, il Giudicante - pur escludendo
la violazione degli artt. 3 e 23 Cost., affermata dal convenuto -
ritenne di dover rimettere alla Corte costituzionale l'altra questione
sollevata dal convenuto, riflettente la violazione dell'art. 42
Costituzione. Ciò in quanto l'aver disposto che tra gli incrementi di
valore del bestiame da prendere a base della ripartizione tra
concedente e mezzadro vadano compresi anche quelli inerenti alla
svalutazione monetaria tra il momento della consegna del bestiame al
mezzadro e quello della riconsegna da parte di costui, si risolverebbe
in una espropriazione, senza indennizzo, della metà di una ricchezza
(il valore effettivo - intrinseco - delle scorte a suo tempo conferite
dal concedente) di pertinenza esclusiva del concedente.
A cura della cancelleria della Pretura l'ordinanza venne notificata
alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e di essa venne
data comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento. A istanza
del Presidente della Corte costituzionale essa venne pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale del 30 gennaio 1957.
Nei termini di rito si sono costituiti nella cancelleria di questa
Corte l'attore e il convenuto del giudizio pendente innanzi al Pretore
di Perugia, sostenendo, rispettivamente, la insussistenza e la
sussistenza della illegittimità costituzionale rilevata dal Pretore.
È altresì intervenuto, nei termini, il Presidente del Consiglio dei
Ministri, negando qualsiasi illegittimità costituzionale.
2. - Analogo giudizio venne promosso innanzi alla Pretura di
Perugia, con atto di citazione notificato il 7 novembre 1956, dal
mezzadro Scorpioni Marsilio, il quale, asserendo non definiti alla fine
della mezzadria i rapporti con le concedenti signore Fiorita e Franca
Rizzoli, e dichiarando di non conoscere il recapito della prima di
esse, trasferitasi in Inghilterra, conveniva a in giudizio la seconda
per sentirla condannare - ai sensi della legge Salari - al pagamento di
L. 129.537, costituente il "credito colonico a stime reali".
Il Pretore ritenne preminente sulla necessità di ordinare la
integrazione del contraddittorio l'eccezione di incostituzionalità
sollevata dalla convenuta. Eppertanto, con ordinanza 18 novembre 1956,
riferiti dettagliatamente i profili di incostituzionalità da essa
esposti, sospese il giudizio, ordinando la rimessione degli atti alla
Corte costituzionale per la decisione delle seguenti questioni di
legittimità costituzionale della legge Salari: a) L'art. 2 violerebbe
gli artt. 24, 25, 101, 102, 104 Cost., in quanto con esso il
legislatore si sarebbe venuto a sostituire ai giudici nella decisione
di controversie in atto o in grado di insorgere sulla base di norme
preesistenti, ledendo in tal modo sia il principio della divisione dei
poteri, sia il diritto dei cittadini di agire in giudizio a tutela dei
propri diritti e interessi legittimi, sia il loro diritto alla difesa
in giudizio. Per giunta, non risultando conforme alla realtà
l'esposizione dello stato attuale della giurisprudenza fatta nelle
relazioni parlamentari, l'ordinanza osserva che potrebbe altresì
configurarsi un eccesso di potere del legislatore, sia sotto il profilo
dello sviamento che sotto quello dell'errore di fatto. b) L'art. 2
della legge Salari - pur prescindendo dalla artificiosità della
definizione di legge interpretativa, attribuitasi dalla legge stessa -
violerebbe il principio dell'irretroattività della legge, il quale
risulterebbe indirettamente affermato attraverso gli artt. 24, 25, 75 e
136 Cost., e si presenterebbe comunque come principio sicuro in
relazione a tutte le leggi abrogatrici e modificatrici di precedenti
situazioni di diritto. Gli artt. 24 e 25 Cost. solleverebbero comunque
il problema della irretroattività della legge, quanto meno rispetto
alle materie in cui predominano l'autonomia della volontà privata e
l'interesse dei singoli. c) L'art. 1 della legge Salari incorrerebbe
in violazione dell'art. 42 Cost., ponendo in essere "un trasferimento
coattivo di ricchezza, che è del tutto autonomo rispetto al rapporto
fondamentale di mezzadria, e che non può trovare in questo la sua
causa"; infatti, "nel suo risultato pratico", disporrebbe che "il
concedente, il quale abbia conferito il bestiame a stima, sia spogliato
d'autorità della metà della differenza tra il valore delle scorte
consegnate e il valore delle scorte riconsegnate, e cioè della
proprietà del bestiame o della somma corrispondente, nella misura che
corrisponde alla incidenza della svalutazione monetaria, in modo del
tutto indipendente dal lavoro del mezzadro, e comunque oltre quella
misura che, per aver il mezzadro provveduto al mantenimento delle
scorte, potrebbe spettargli". E l'espropriazione in tal modo realizzata
sarebbe in contrasto con l'art. 42 Cost. perché: 1) nella specie non
si ravviserebbero i richiesti motivi di interesse generale; 2)
mancherebbe il giusto indennizzo; 3) la espropriazione sarebbe
realizzata dalla legge stessa e non mediante atto applicativo della
legge. d) La legge Salari incorrerebbe infine in violazione degli artt.
23, 3 e 41 Costituzione. Del primo, in quanto, in base a questo,
l'imposizione di una prestazione patrimoniale (quale - una volta
escluso il carattere espropriativo - sarebbe quella posta a carico dei
concedenti dalla legge Salari) potrebbe aver luogo soltanto nei limiti
in cui sia indispensabile per il soddisfacimento dell'interesse
pubblico, e soltanto in base a disposizioni generali e astratte -
condizioni che entrambe non ricorrerebbero per gli artt. 1 e 2 della
legge Salari; inoltre sarebbe da esaminare se le prestazioni ammesse
dall'art. 23 Cost. possono essere imposte retroattivamente. Dell'art.
3, in quanto la legge Salari, col considerare soltanto i diritti del
mezzadro verso il concedente, e non anche quelli del concedente verso
il mezzadro, tratterebbe in modo disuguale le due categorie di
partecipanti al rapporto mezzadrile; e, d'altro canto, col considerare
soltanto i conferimenti di scorte vive a stima, e non anche quelli
fatti con altri sistemi, determinerebbe sperequazioni rispettivamente
tra gli stessi mezzadri e tra gli stessi proprietari concedenti.
Dell'art. 41, il quale garantirebbe la libertà contrattuale e la
autonomia privata, consentendo quindi al legislatore "di disciplinare
il tipo astratto dei contratti", ma interdicendogli - salvo
"circostanze eccezionali, ovvero per la tutela della sicurezza, della
libertà e della dignità umana" - di "obbligare il singolo a stipulare
un determinato contratto, di cui già siano stati determinati il
contenuto, la controparte e il prezzo": di tale articolo la legge
Salari, - la quale considererebbe il bestiame "come se fosse stato
venduto per metà dal conferente al mezzadro al prezzo di mercato
corrente al momento della consegna" - costituirebbe violazione in
quanto in realtà "implicherebbe, rispetto agli effetti, l'obbligo di
una vendita; ed operando retroattivamente (art. 2), determinerebbe in
modo cogente tutti gli elementi di tale contratto: contenuto, prezzo,
venditore e compratore". In questo modo l'autonomia privata
risulterebbe violata, pur non ricorrendo le condizioni richieste
dall'art. 41 della Costituzione.
A cura della cancelleria della Pretura l'ordinanza venne notificata
alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e di
essa venne data comunicazione ai Presidenti dei due rami del
Parlamento. A istanza del Presidente della Corte costituzionale, essa
venne pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12 gennaio 1957.
Nei termini di rito si sono costituiti nella cancelleria di questa
Corte l'attore e la convenuta del giudizio pendente innanzi al Pretore
di Perugia, sostenendo, rispettivamente, l'insussistenza e la
sussistenza della illegittimità costituzionale denunciata dal Pretore.
È altresì intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
negando qualsiasi illegittimità costituzionale.
3. - Anche il Pretore di Città di Castello ha sottoposto a
questa Corte la questione della legittimità costituzionale della legge
Salari.
Innanzi a tale Pretura, con atto notificato il 25 ottobre 1956,
Marziali Giuseppe, già mezzadro di Taffini Giovanni dal 1946 al 1952,
assumendo che alla cessazione del rapporto egli risultava, dal libretto
colonico, debitore di L. 72.849 verso il concedente, e ciò unicamente
perché il conto relativo al bestiame (conferito dal concedente
all'inizio del rapporto) "è stato effettuato con stime di comodo (L.
945.000) anziché con le stime reali (lire 1.400.000)", e che pertanto
a esso Marziali "devono essere accreditate L. 227.500 rappresentanti la
metà della differenza fra la stima reale e quella di comodo, dato che
non può esser fatta alcuna riduzione a titolo di plusvalore bestiame",
citava il Taffini per sentirlo condannare al pagamento di L. 154.651
"per mancato accredito utile bestiame". Il convenuto, rilevato che
l'attore invocava sostanzialmente l'applicazione della legge Salari, ne
eccepiva la incostituzionalità. E il Pretore - ritenuta inesatta
l'affermazione del carattere interpretativo della legge, ed escluso che
essa fosse incostituzionale a causa del suo carattere retroattivo, come
pure che violasse il principio di uguaglianza, il diritto di difesa, il
principio della divisione dei poteri nei confronti del potere
giudiziario, la libertà di iniziativa economica, e comunque ledesse i
precetti degli artt. 3, 23, 24, 41, 43, 101, 102 e 104 Cost. -
giudicò peraltro meritevole di considerazione la questione relativa
alla conformità della legge all'art. 42 Cost.; e ciò, non tanto
sotto il profilo che la legge importi la espropriazione senza
indennizzo, a favore del mezzadro, della metà circa del capitale
bestiame conferito a suo tempo dal concedente - espropriazione e
mancanza di indennizzo delle quali non sarebbe lecito dubitare -,
quanto sotto il profilo che l'art. 42 Cost. consentirebbe soltanto
espropriazioni a favore della pubblica Amministrazione, e non anche a
favore dei privati. Eppertanto, considerata rilevante la questione di
costituzionalità ai fini del decidere, con ordinanza 5 dicembre 1956
sospese il giudizio, ordinando la trasmissione degli atti a questa
Corte.
A cura della cancelleria della Pretura l'ordinanza venne notificata
alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai
Presidenti dei due rami del Parlamento. A istanza del Presidente della
Corte costituzionale essa è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
del 12 gennaio 1957.
Nei termini di rito si è costituito nella cancelleria di questa
Corte il solo Taffini, sostenendo la tesi della illegittimità
costituzionalità della legge Salari. È intervenuto, nei termini, nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri negando
l'illegittimità costituzionale.
4. - Un altro giudizio di legittimità costituzionale nei
confronti della legge Salari è stato promosso dal Tribunale di Arezzo.
Innanzi a quella Giustizia Frangipani Domenico, già mezzadro fino
al gennaio 1955 dei sigg. Randellini Luigi, Francesco, Assunta, Pietro,
Olinto e Marco, premesso che, alla cessazione del rapporto, in sede di
accettazione del saldo colonico, aveva fatto salva "ogni azione di
recupero" in ordine alla "rivalutazione bestiame" (vale a dire al c. d.
"plusvalore" delle scorte vive conferite dal concedente all'inizio
della mezzadria), con atto di citazione notificato il 6 giugno 1956
conveniva i Randellini per sentirli condannare alla restituzione di
quanto a lui dovuto in relazione al fatto che al termine del rapporto
mezzadrile "non doveva essere applicato alcun coefficiente di
svalutazione sulle scorte vive".
I Randellini, costituitisi in giudizio, eccepirono in via
principale che la legge Salari, della quale l'attore chiedeva
l'applicazione, vale soltanto nei casi di ripartizione delle scorte tra
mezzadro e concedente ai sensi dell'art. 2163 Cod. civ., e non anche
nei casi nei quali - come nella specie - la ripartizione andava fatta
ai sensi della carta della mezzadria (norme deliberate dal Consiglio
naz. delle corporazioni, sezione agricoltura, e pubblicate sulla
Gazzetta Ufficiale 6 dicembre 1933, n. 282). In via di ipotesi
deducevano inoltre l'incostituzionalità della legge: 1) per aver
voluto modificare, retroattivamente, gli effetti di uno stato di
diritto già in atto, sottraendo al magistrato controversie sorte sulla
base di una legge preesistente, e privando altresì il cittadino del
diritto di difesa (artt. 24, 25, 101, 102, 104 Cost.); 2) per aver
disposto una espropriazione senza che ricorressero ragioni di interesse
generale e senza indennizzo, e avere per di più violato l'autonomia
privata configurando il conferimento iniziale delle scorte da parte del
concedente come volto a instaurare immediatamente un rapporto di
comproprietà (artt. 41 e 42 Cost.); 3) per avere imposto ai concedenti
una prestazione che avrebbe potuto essere imposta solo con legge
generale e astratta, creando per giunta notevoli disuguaglianze tra
mezzadri e concedenti (attraverso la previsione della svalutazione e
non anche quella della rivalutazione monetaria), tra mezzadri e
mezzadri (attraverso la considerazione dei soli casi di conferimento
delle scorte a stima da parte del concedente), e tra concedenti e
concedenti (per l'identica ragione, considerata dal punto di vista dei
concedenti) (artt. 23 e 3 Cost.).
Il Tribunale non si occupò della eccezione principale, relativa
all'applicabilità della legge Salari nel caso in questione, e, in
motivazione, affermata la sussistenza di una manifesta infondatezza
delle eccezioni di incostituzionalità, dichiarava "argomenti
apprezzabili" quelli relativi alla "rispondenza o meno della legge 29
maggio 1956, n. 500, ai criteri di astrattezza e generalità che si
assumono necessari in una legge impositiva di una prestazione come si
sostiene esser quella in esame, la quale, per contro, sarebbe intesa
nella sostanza a costituire un privilegio"; come pure gli argomenti che
"siasi sanzionata una disuguaglianza dei cittadini, regolando solo un
aspetto economico, favorevole al mezzadro, e non anche l'aspetto
opposto". "Ciò a prescindere da particolari considerazioni su quei
motivi, che al Tribunale sembrano irrilevanti, e che avrebbero portato
il potere legislativo ad un eccesso di potere, consistito nella
statuizione di norme contrastanti con la giurisprudenza ormai
consolidata", ma "non senza tener presente che il dibattito sulla
costituzionalità della legge così detta Salari, si è già esteso
anche al campo dottrinario con opinioni contrastanti". Così motivando,
esso, sul presupposto che "il giudizio non può esser definito
indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione di
legittimità costituzionale della legge 29 maggio 1956, n. 500", con
ordinanza 31 gennaio 1957 disponeva "il deferimento alla Corte
costituzionale della questione di legittimità costituzionale della
legge 29 maggio 1956, n. 500", sospendendo il giudizio civile in corso.
Avvenuti gli adempimenti di rito, si costituivano, nei termini,
innanzi alla Corte costituzionale i convenuti Randellini, e interveniva
- sempre in termini - il Presidente del Consiglio dei Ministri,
sostenendo, rispettivamente, la tesi dell'incostituzionalità e quella
della costituzionalità della ripetuta legge.
5. - Anche innanzi al Pretore di Gubbio venne sollevata la
questione di incostituzionalità della stessa legge.
Appellandosi a quest'ultima, con atto di citazione 27 ottobre 1956
Martini Ubaldo, mezzadro fino all'ottobre 1955, conveniva in giudizio
gli eredi del fu Fagioli Luigi, sigg. Fagioli Guido Gregorio, Marco
Emilio, Vercellone Pia Clotilde ved. Fagioli, nonché Fagioli Armando
Ermanno, Carlo Maria e Maria Grazia, chiedendo il riconoscimento del
proprio credito relativo alla metà del c.d. "plusvalore" delle scorte
vive a suo tempo conferite dal proprietario, e la condanna dei
convenuti al pagamento di L. 188.081, con gli interessi legali.
Anche in questo giudizio, i convenuti eccepirono che la legge
Salari: a) violava gli artt. 24, 25, 101, 102, 104 Cost. e il principio
della divisione dei poteri; b) violava il principio della
irretroattività della legge (desumibile dagli artt. 24 e 25 Cost.), e
pretendeva mascherare come legge interpretativa una legge innovativa;
c) violava l'art. 42 Cost., realizzando delle espropriazioni in
contrasto coi principi enunciati in tale articolo; d) violava gli artt.
23, 3, 41 Cost., imponendo illegittimamente prestazioni ad alcuni
cittadini nei confronti di altri, ledendo in tal modo anche il
principio di uguaglianza.
II giudicante considerò, in motivazione, non manifestamente
infondate le seguenti questioni: a) se il nostro ordinamento
costituzionale ammetta la possibilità di leggi interpretative, e in
particolare se con una legge sia possibile dare la interpretazione
autentica di consuetudini e di norme corporative; b) se sia consentito
al legislatore - senza invadere la sfera del potere giudiziario -
formulare una interpretazione autoritativa in contrasto con la
interpretazione giurisprudenziale consolidata, e per di più sia
possibile - e compatibile con l'art. 3 Cost. - formulare una simile
interpretazione avendo di mira la posizione di una sola delle parti
interessate (e perciò favorendola); c) se, nonostante che non realizzi
sul piano giuridico una vera e propria espropriazione (in quanto non
attribuisce al mezzadro metà della proprietà del bestiame conferito
dal concedente, ma soltanto un diritto di credito a metà del valore di
quel bestiame) la legge Salari possa considerarsi lesiva dell'art. 42
Cost., sotto il profilo che, dal punto di vista economico, si risolve
in una vera e propria espropriazione, sia pur mascherata dal punto di
vista giuridico.
Pertanto con ordinanza 20 febbraio 1957 il Pretore deferì alla
Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della
legge Salari, e sospese il giudizio in corso.
Avvenuti gli adempimenti di rito, si costituivano, nei termini,
innanzi a questa Corte, le parti del giudizio civile, e interveniva,
sempre nei termini, il Presidente del Consiglio dei Ministri,
sostenendo quest'ultimo e l'attore del giudizio civile la piena
costituzionalità della legge; e i convenuti del giudizio civile la
incostituzionalità di essa.
6. - In data 22 febbraio 1957 lo stesso Pretore di Gubbio ebbe a
rimettere a questa Corte nei medesimi termini la questione di
legittimità costituzionale, sollevata dal convenuto nel giudizio
promosso da Rosini Mariano, mezzadro di Caseti Domenico fino
all'ottobre 1951, al fine di ottenere da quest'ultimo il pagamento
della metà del c.d. "plusvalore" (inerente alla svalutazione
monetaria) delle scorte vive a suo tempo conferite dal concedente
Caseti.
In quel giudizio l'attore aveva dedotto l'inammissibilità e
l'irrilevanza della questione di costituzionalità, essendosi il
convenuto, con una scrittura del 1953, impegnato, per quanto riguarda
il plusvalore, ad attenersi alle emanande disposizioni legislative. Ma
il giudicante osservò che tale impegno non importava rinuncia a far
valere la legittimità costituzionale delle disposizioni che sarebbero
intervenute. Richiamandosi alla motivazione dell'ordinanza emessa il
20 febbraio nel giudizio Martini - Fagioli, il Pretore ritenne pertanto
rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità
costituzionale inerenti alla legge Salari e relative: a) alla
compatibilità delle leggi interpretative col principio della
separazione dei poteri e con gli artt. 102 e 104 Cost.; b) alla
ammissibilità che una legge dia l'interpretazione autentica di norme
consuetudinarie e corporative; c) alla compatibilità con l'art. 3
Cost. di una legge che consideri il fenomeno delle fluttuazioni
monetarie a favore di una sola delle parti contrattualmente
contrapposte; d) alla compatibilità con l'art. 42 Cost. di una legge
che dal punto di vista economico (anche se non da quello giuridico)
realizzi una espropriazione senza osservare i precetti contenuti nel
citato articolo.
Sospeso il giudizio civile, e avvenuti, da parte della cancelleria
della Pretura, gli adempimenti di rito, si costituivano innanzi a
questa Corte le parti del giudizio civile. Interveniva in giudizio il
Presidente del Consiglio dei Ministri. Quest'ultimo e l'attore
sostengono la tesi della piena legittimità costituzionale della legge
Salari. Il convenuto sostiene la tesi contraria.
7. - Con ordinanza 22 marzo 1957, infine, anche il Pretore di
Città della Pieve rimetteva a questa Corte la questione relativa alla
legittimità costituzionale della legge Salari.
Innanzi a quella Pretura Tassini Umberto, ex mezzadro, fino
all'ottobre 1955, di Cini Aristodemo, aveva convenuto quest'ultimo con
atto 8 settembre 1956. Premesso che alla definizione dei conti era
risultato debitore di L. 129.202, mentre in effetti doveva esser
considerato creditore della differenza tra la metà del "plusvalore"
delle scorte vive e detta somma - differenza pari a L. 164.282 - egli
chiedeva la condanna dell'ex concedente, Cini, al pagamento di
quest'ultima somma, oltre gli interessi. Il convenuto eccepì
l'illegittimità costituzionale della legge Salari, sulla quale
l'attore fondava la propria pretesa, assumendo che essa: 1) violerebbe
i principi fondamentali dello stato di diritto, in quanto qualifica
come interpretative delle norme a contenuto innovativo; 2) violerebbe
il principio della separazione dei poteri, e in particolare la
sovranità del potere giudiziario, in quanto avrebbe "posto nel nulla"
la giurisprudenza consolidatasi nel senso della spettanza dell'intero
"plusvalore" al concedente; 3) violerebbe gli artt. 3 e 42, terzo
comma, Cost., da un lato, trattando in modo difforme i proprietari e i
mezzadri, e, dall'altro operando nei confronti dei primi e a vantaggio
dei secondi (e perciò nell'interesse privato) una espropriazione senza
indennizzo.
Il Pretore, ritenuto che "da un rapido esame l'impugnativa in
questione appare fondata", ordinava la trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale e sospendeva il giudizio.
Avvenuti gli adempimenti di rito, si costituiva innanzi a questa
Corte, mediante atto d'intervento depositato nei termini, soltanto il
Presidente del Consiglio dei Ministri, deducendo la piena conformità
della legge Salari alla Costituzione.
8. - A tutte le riferite censure, le difese dei mezzadri, nonché
l'Avvocatura dello Stato, nell'interesse del Presidente del Consiglio
dei Ministri, oppongono in sintesi, questi argomenti:
Da nessun elemento si può desumere che le leggi interpretative
siano oggi vietate dalla nostra Costituzione. La legge Salari è una
legge interpretativa, giustificata dai gravi elementi di obiettiva
incertezza che presentava la precedente disciplina del rapporto di
mezzadria in ordine all'assegnazione, al termine del rapporto, delle
scorte conferite a stima. Essa ha interpretato le norme del Codice
civile, uniformandosi alla pratica consuetudinaria secondo cui la stima
iniziale delle scorte veniva assunta come base per la determinazione
degli utili e delle perdite, senza applicare alcun correttivo per tener
conto delle oscillazioni monetarie. I coefficienti di correzione,
previsti dall'ordinanza corporativa del 1931 e dall'art. 32 della Carta
di mezzadria, si erano dimostrati in pratica inapplicabili e non
avevano potuto perciò formare oggetto dei necessari accordi sindacali.
Né il fatto che la giurisprudenza prevalente (ma non unanime) avesse
riconosciuto la spettanza del plusvalore al concedente, poteva essere
di ostacolo all'emanazione della legge.
È proprio delle leggi interpretative, d'altra parte, applicarsi
anche ai rapporti già in atto: perciò nemmeno sotto questo profilo è
censurabile, per quanto superflua, la disposizione contenuta nell'art.
2 della legge.
Anche se le si volesse, poi, riconoscere carattere innovativo, la
legge non avrebbe violato nessun principio costituzionale, perché la
Costituzione non vieta che le leggi civili possano essere retroattive e
l'art. 11 delle disposizioni preliminari al Codice civile contiene solo
un canone d'interpretazione.
Quanto al suo contenuto sostanziale, la legge trova piena
giustificazione, tanto sul piano giuridico, che su quello economico.
Sul piano giuridico, perché col conferimento "a stima", nella
mezzadria, il valore del bestiame viene espresso in moneta; e il valore
espresso in moneta è sempre considerato dalla legge invariabile
(principio nominalistico), salvo espressa disposizione in contrario.
Sul piano economico, in primo luogo, perché l'interdipendenza di
numerosi e complessi fattori sull'andamento del mercato del bestiame
non consente mai di distinguere le variazioni di prezzo dovute ad
oscillazioni del potere di acquisto della moneta o ad altre cause
contingenti, da quelle strettamente dovute ad aumento del valore
intrinseco del capitale; in secondo luogo, perché l'attribuzione di
metà del cosiddetto "plusvalore" al mezzadro si traduce pure in un
corrispettivo per i rischi relativi al bestiame ricevuto in consegna,
che gli si accollano per metà, secondo la consuetudine, anche dal
concedente che si è riservato per intero la proprietà degli animali.
Di qui l'infondatezza delle censure relative a pretese violazioni
degli artt. 23, 41 e 42 della Costituzione.
Né si può parlare, infine, di violazione del principio di
uguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, perché la legge
non fa alcuna delle discriminazioni vietate da tale articolo. Essa
disciplina astrattamente situazioni che interessano una generalità di
persone (nulla rilevando che questa sia più o meno estesa), ed è
ovvio, malgrado la sua unilaterale formulazione, che deve applicarsi
così a vantaggio come a danno di ciascuna parte nel rapporto
mezzadrile: cioè tanto in caso di svalutazione che di rivalutazione
monetaria.
9. - Le ragioni, hinc inde, sono state poi illustrate dalle parti
in ampie memorie e nella diffusa discussione orale.
Considerato in diritto:
I. - Si discute della legittimità costituzionale di un'unica
legge; e le questioni rimesse alla Corte dalle varie ordinanze dei
giudici di merito sono in buona parte comuni. La Corte ritiene perciò
opportuno riunire i sette giudizi indicati in epigrafe, decidendoli con
unica sentenza.
II. - L'art. 1 della legge denunciata dispone: "Quando nei
contratti di mezzadria le scorte vive sono state conferite dal
concedente e consegnate al mezzadro a stima in base ai prezzi di
mercato, in caso di scioglimento del contratto il mezzadro ha diritto a
percepire dal concedente la metà della differenza tra il valore delle
scorte al momento della consegna, calcolato in base ai prezzi allora
correnti, ed il valore delle stesse calcolato in base ai prezzi
correnti all'atto della riconsegna". E l'art. 2 fa retroagire tale
precetto, disponendo che esso operi "anche quando sia avvenuto lo
scioglimento del contratto anteriormente alla entrata in vigore della
presente legge e le parti non abbiano comunque definito i loro rapporti
in ordine alle scorte vive".
1. - Si tratta di legge interpretativa; e tale qualifica,
espressamente enunciata nel titolo di essa, è stata a torto, da alcune
delle ordinanze di rimessione, considerata usurpata.
Il problema se, alla fine del rapporto mezzadrile, nel caso di
conferimento a stima, da parte del solo concedente, delle scorte vive,
il mezzadro avesse diritto a partecipare anche degli incrementi di
valore dovuti allo svilimento della moneta - e, correlativamente,
quello se, in caso di rivalutazione della moneta, fosse tenuto a subire
lo svantaggio delle conseguenti diminuzioni di valore - diede sempre
luogo, in passato, a controversie tra gli interessati, a discussioni
dottrinali e a divergenze giurisprudenziali. Al fine di evitare utili
e perdite "apparenti" se ne occuparono anche alcune norme a carattere
direttivo (deliberazione Corporazione agricoltura 13 marzo 1931 e
deliberazione Consiglio nazionale delle corporazioni, sezione
agricoltura, 13 maggio 1933, nota col nome di Carta della mezzadria),
sollecitando che l'utile e le perdite da dividere venissero commisurati
a valori "resi confrontabili" mediante opportune variazioni, "da
concordare" nei patti collettivi. La direttiva però non venne seguita,
mancando nei patti disposizioni inequivoche nei sensi raccomandati.
Il problema tornò attuale in occasione dell'imponente svalutazione
monetaria conseguente al secondo conflitto mondiale. Come già in
passato, anche stavolta, dopo qualche esitazione, la giurisprudenza si
venne decisamente orientando - a partire dal 1952 - nel senso che il
concedente abbia diritto alla reintetegrazione del conferimento secondo
il valore attuale del bestiame, e non secondo quello del momento del
conferimento. Prima che la giurisprudenza potesse dirsi consolidata in
tali sensi già era stata presentata però al Parlamento una proposta
di legge destinata a far considerare il diritto del concedente limitato
alla medesima somma a suo tempo da lui erogata pel conferimento
(proposta del senatore Varriale, presentata al Senato il 15 settembre
1952, doc. n. 2607). Decaduta quella proposta per fine della
legislatura, analoga proposta venne presentata nell'attuale legislatura
dal senatore Salari il 30 aprile 1954 (doc. 509), e divenne la legge
di cui ora si discute.
In presenza dei vivaci dibattiti tra le parti, tra gli studiosi, e
nella stessa giurisprudenza, che la questione ha sempre suscitato e
suscita, e in presenza dell'intento legislativo di rendere obbligatoria
una particolare interpretazione dei precetti della materia, non può
ritenersi esatta l'affermazione che l'attributo di legge interpretativa
sia usurpato dalla legge in esame.
Né è esatto che la vigente Costituzione escluda la possibilità
di leggi interpretative, e in quanto tali retroattive. Manca nella
Carta costituzionale qualsiasi limitazione di ordine generale al
riguardo. Si tratta, del resto, di un istituto comunemente ammesso da
altri ordinamenti statali, che posseggono i caratteri di Stato di
diritto e di Stato democratico.
Né è esatto che l'emanazione di leggi interpretative incida
necessariamente sul principio della divisione dei poteri, interferendo
necessariamente nella sfera del potere giudiziario. Non diversamente
dalle altre leggi, anche la legge interpretativa innova all'ordine
legislativo preesistente: il quid novi che essa introduce in tale
ordine consiste nell'attribuire a certe norme anteriori un significato
obbligatorio per tutti (con conseguente esclusione di ogni altra
possibile interpretazione). Altra è la funzione del potere
giudiziario: la quale consiste nella adozione di decisioni vincolate
all'ordinamento normativo.
Il fatto della emanazione di una legge interpretativa non
rappresenta dunque, di per sé sola, una interferenza nella sfera del
potere giudiziario. È certo comunque che non può esser considerata
lesiva di tale sfera una legge interpretativa che rispetti i giudicati
(la legge in esame fa salvi i rapporti "definiti") e non appaia mossa
dall'intento di interferire nei giudizi in corso.
Non è fondata dunque la censura che il carattere interpretativo
della legge in esame ferisca i precetti degli artt. 101, 102, 104
Costituzione. E neanche essa vulnera le garanzie predisposte dal primo
e dal secondo comma dell'art. 24 e dal primo comma dell'art. 25 Cost.,
attinenti rispettivamente alla facoltà di agire in giudizio a tutela
delle proprie posizioni soggettive considerate e protette dal
l'ordinamento, al diritto inviolabile di difendersi innanzi ai giudici,
nonché al diritto di non esser distolti dal giudice naturale.
2. - Come si è visto, la legge 29 maggio 1956, n. 500, ha
carattere interpretativo.
Pur ammesso però che essa non potesse esser classificata tra le
leggi interpretative, e dovesse esser considerata legge innovativa, non
per questo sarebbe incostituzionale a causa della sua efficacia
retroattiva.
Il principio generale della irretroattività delle leggi -
attualmente enunciato nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in
generale - rappresenta un'antica conquista della nostra civiltà
giuridica. Esso però non è mai assurto nel nostro ordinamento alla
dignità di norma costituzionale; né vi è stato elevato dalla vigente
Costituzione, se non per la materia penale (vano è appellarsi in
contrario - come fa taluna delle ordinanze di rimessione - a precetti,
quali gli artt. 136 e 75 Cost., che hanno tutt'altro oggetto, e perciò
non appaiono in alcun modo incompatibili con l'emanazione di leggi
retroattive). Per le materie diverse da quella penale, l'osservanza del
tradizionale principio è dunque rimessa - così come in passato - alla
prudente valutazione del legislatore, il quale peraltro - salvo estrema
necessità - dovrebbe a esso attenersi, essendo, sia nel diritto
pubblico che in quello privato, la certezza dei rapporti preferiti
(anche se non definiti in via di giudicato, transazione, ecc.) uno dei
cardini della tranquillità sociale e del vivere civile.
Con ciò non si vuole escludere che in singole materie, anche fuori
di quella penale, l'emanazione di una legge retroattiva possa rivelarsi
in contrasto con qualche specifico precetto costituzionale. Si vuole
semplicemente affermare il concetto che nel nostro ordinamento il
principio della irretroattività della legge non assurge, nella sua
assolutezza, a precetto costituzionale. E si vuole in particolare
escludere - con specifico riguardo al campo della presente controversia
- che sia ricavabile dagli artt. 23, 24 e 25 Cost. (come si assume in
talune delle ordinanze di rimessione) un precetto costituzionale che
escluda la possibilità di leggi retroattive destinate comunque a
incidere nella sfera degli interessi privati, sacrificandoli, o nella
sfera dell'autonomia privata, comprimendola. Come pure si vuole
escludere che possa essere considerato lesivo della sfera del potere
giudiziario (e in particolare degli artt. 101, 102 e 104 Cost.) il
fatto che da una legge retroattiva derivi ai giudici l'obbligo di
applicarla in relazione a rapporti sorti nel passato, e magari conclusi
(ma non definiti), tanto più quando - come nel caso in esame - la
legge non appaia mossa dall'intento di influire sui giudizi in corso.
3. - Si può ora passare a considerare quelle censure che,
prescindendo dal carattere interpretativo e retroattivo della legge 29
maggio 1956, n. 500, denunciano il contrasto del contenuto precettivo
di essa con singoli articoli della Costituzione.
a) Viene prospettato dalla più parte delle ordinanze, che hanno
promosso il presente giudizio di costituzionalità, che l'art. 1 si
risolverebbe in una espropriazione in danno del concedente di una parte
del capitale d'esercizio da lui a suo tempo conferito. In sede di
assegnazione delle scorte al termine della mezzadria, l'identificare,
in tempi di svalutazione monetaria, la quota che egli ha il diritto di
prelevare prima che si proceda alla ripartizione degli utili, in quella
esattamente corrispondente alla quantità di moneta in cui venne a suo
tempo stimato il bestiame da lui conferito, si risolverebbe in una vera
e propria eversione patrimoniale. La quale non sarebbe consentita se
non alle condizioni richieste dall'art. 42 Costituzione.
La censura non ha fondamento, in quanto non ne è esatta la
premessa. Espropriare significa trasferire autoritativamente un bene da
un soggetto a un altro. Il disposto dell'articolo in esame (... "il
mezzadro ha diritto a percepire dal concedente...") non realizza nulla
di tutto ciò; ma si limita a disciplinare - non importa se innovando o
non rispetto al regime preesistente - un rapporto sinallagmatico,
definendo un certo profilo delle obbligazioni delle parti (ciò che il
mezzadro ha il diritto di ricevere alla fine del rapporto). L'art. 42
Cost. non viene dunque in questione. Non occorre perciò soffermarsi
sulle censure attinenti alla mancata osservanza da parte del
legislatore delle condizioni richieste da tale articolo per le
espropriazioni.
b) In talune delle ordinanze di rimessione si osserva che, una
volta escluso che l'art. 1 operi una espropriazione, occorrerebbe
quanto meno riconoscere che esso viene a imporre al concedente una
prestazione patrimoniale a favore del mezzadro. Nel qual caso la
disposizione sarebbe del pari illegittima, per inosservanza di
principi, che si assumono inerenti all'art. 23 Costituzione.
Anche questa censura non ha fondamento. La funzione dell'art. 1
non è quella di prevedere prestazioni coattive a carico del
concedente, bensì - come si è visto - quella di disciplinare un
rapporto sinallagmatico: in tale spirito esso contribuisce a definire
l'ambito dei diritti del mezzadro verso la controparte. L'art. 23
Cost. non è dunque interessato.
È peraltro da aggiungere - e l'osservazione vale anche in ordine
alle censure mosse alla legge specificamente per aver preteso di
operare sui rapporti in atto, e anzi persino su quelli esauriti (ma non
definiti) - che, pur ammesso che potesse esser considerata come volta a
introdurre prestazioni coattive, del genere di quelle cui si riferisce
l'art. 23 Cost., la legge sarebbe nondimeno costituzionalmente
legittima, null'altro vietando la citata disposizione della Carta
fondamentale, se non la imposizione di prestazioni fatta non sulla base
di una legge, sufficientemente dettagliata nei limiti, che
espressamente la preveda (vedansi le sentenze di questa Corte 16
gennaio 1957, n. 4, 23 gennaio 1957, n. 30, e 11 marzo 1957, n. 47):
legge che nel caso in questione vi fu, e fu appunto quella di cui si
discute, in ordine alla specificità del contenuto della quale non è
stato sollevato alcun dubbio.
Quanto all'osservazione della mancanza in essa del carattere della
generalità, senza affrontare qui il problema se tale carattere sia
effettivamente necessario per le leggi cui si riferisce l'art. 23 (che,
a differenza degli artt. 16 e 21, non ne afferma espressamente
l'esigenza), sarà sufficiente osservare che esso ben è presente nella
legge in esame: la quale - volta com'è a regolare indiscriminatamente
tutti i possibili rapporti da essa previsti - non può esser
considerata lex in privos lata, non soltanto per ciò che riguarda la
disciplina dei rapporti futuri, ma anche per ciò che riguarda la
disciplina dei rapporti in corso o esauriti. Per quanto attiene poi
alla mancanza, nella legge, del carattere dell'astrattezza - che
sarebbe da lamentare nei confronti dei rapporti già sorti, e in
particolare per quelli esauriti (i quali sarebbero tutti, appunto
perché già in atto, concretamente individuabili) - il discorso può
essere ancor più breve, dato che, diversamente che per quello della
generalità (al quale attribuisce una certa rilevanza), la Costituzione
in nessuna norma si riferisce a esso come a requisito della legge.
c) Difetta parimenti di base la censura di violazione dell'art. 41
Cost., sotto il profilo che la legge denunciata, configurando - e per
di più anche pel passato - come vendita di bestiame ciò che dalle
parti sarebbe stato voluto come semplice affidamento dello stesso,
sarebbe venuta a manomettere - oltre che l'art. 42 (del quale già si
è discusso) - il principio dell'autonomia privata.
È inesatto infatti l'assunto, secondo il quale la legge in
discussione si sarebbe proposta o avrebbe comunque realizzata la
trasformazione in vendita del rapporto istituito tra concedente e
mezzadro col conferimento del bestiame da parte del primo. Senza in
alcun modo modificare la natura del rapporto, la legge si è limitata a
regolare l'aspetto quantitativo delle obbligazioni delle parti.
d) Neanche sussistono le denunciate lesioni del principio di
uguaglianza, garantito dall'art. 3 della Costituzione.
Non è necessario indugiarsi a vedere se l'aver la legge
considerato soltanto il caso di posizione creditoria del mezzadro in
relazione alla differenza di valore nominale delle scorte tra il
momento di consegna e quello di riconsegna, e non anche l'ipotesi
inversa, importi o non che in quest'ultima ipotesi si applichi -
secondo quanto richiederebbe l'equità, e secondo quanto nelle
relazioni parlamentari si mostrò di ritenere - il medesimo criterio
del riferimento ai valori nominali. Pur ammesso che la necessità di
tale applicazione, per la seconda ipotesi, non risulti dalla legge e
(ciò che è più difficile ammettere) non risulti dal sistema, non per
questo il principio enunciato nell'art. 3 Cost. ne resterebbe
vulnerato. Che le leggi si uniformino all'equità è regola di buona e
sana legislazione, la cui osservanza è rimessa alla saggezza del
legislatore; ma non è precetto costituzionale. Il precetto del primo
comma dell'art. 3 della Carta fondamentale ha ben altro contenuto,
attinente alla esclusione di privilegia e di disposizioni
discriminatorie. Allorquando - come nel caso in esame - una legge sia
destinata ad essere applicata indistintamente nei confronti di tutti
gli appartenenti a una data categoria, essa certamente non viola tale
precetto. Il perché della applicazione dei criteri ispiratori della
legge a certe categorie e non ad altre attiene poi alla scelta politica
del legislatore; e - come questa Corte ha più volte ritenuto (sentenze
16 gennaio 1957, n. 3, e 22 gennaio 1957, n. 28) non può formare
oggetto di sindacato di costituzionalità.
Quanto precede vale ad escludere che la legge incriminata sia
incorsa in violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. anche sotto il
profilo dell'aver introdotto un regime differenziato sia pei mezzadri,
sia pei concedenti, a seconda che il conferimento delle scorte da parte
di questi ultimi abbia avuto luogo "a stima" o "per specie e qualità".
E ciò a prescindere dalla considerazione che, diversa essendo nei due
casi la situazione presupposta, sarebbero mancate le condizioni per la
necessità di un'identica disciplina legislativa.