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Le funzioni

Il controllo di costituzionalità delle leggi

Abbiamo sin qui descritto la "macchina" della Corte costituzionale; illustriamo ora più da vicino i suoi compiti che, come abbiamo visto, sono indicati in termini generali dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali. Il primo e storicamente più importante è il compito di decidere le controversie «relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni» (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a controllare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (cosiddetta costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (cosiddetta costituzionalità sostanziale).
Atti legislativi: dunque leggi dello Stato, ma anche decreti legislativi delegati (deliberati dal Governo su delega delle Camere) e decreti-legge (adottati in via d'urgenza dal Governo e sottoposti alla conversione in legge da parte delle Camere); ed anche leggi delle Regioni e delle Province autonome, le quali, nel nostro sistema costituzionale, dispongono di una propria potestà legislativa. Non sono invece soggetti al controllo della Corte, sotto questo profilo, gli atti normativi da considerare subordinati alla legge, come i regolamenti: tali atti sono soggetti al controllo di legittimità (cioè di conformità alla legge) svolto dai giudici comuni. Poiché la legge deve essere conforme alla Costituzione e i regolamenti devono essere conformi alla legge, anche questi ultimi risulteranno conformi alla Costituzione, senza bisogno che siano sottoposti al controllo della Corte costituzionale.

Chi può provocare il giudizio della Corte?

Uno dei problemi più discussi a proposito della funzione della Corte costituzionale quale giudice delle leggi, è stato quello della "via di accesso" al giudizio. Come in genere ogni giudice, la Corte non può decidere autonomamente di quali questioni occuparsi: occorre che qualcuno la investa proponendo un ricorso o sottoponendole un dubbio. Chi può chiedere alla Corte di pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge? Qualunque cittadino, il Capo dello Stato, il Governo, minoranze parlamentari, organi giudiziari?
L'Assemblea costituente, quando giunse ad esaminare il problema, non lo risolse ma rinviò la soluzione ad una successiva legge costituzionale, che fu approvata come già detto dalla stessa Assemblea nel febbraio 1948 (legge costituzionale n. 1 del 1948). In essa si stabilì (articolo 2) fermo il disposto dell'articolo 127 della Costituzione, che prevedeva l'impugnativa davanti alla Corte costituzionale, da parte del Governo, delle leggi regionali reputate contrastanti con la Costituzione che anche le Regioni potessero a loro volta impugnare, entro un breve termine dalla loro pubblicazione, le leggi dello Stato che reputassero lesive della propria autonomia garantita dalla Costituzione. Quel disegno è ora confluito nel nuovo testo dell'articolo 127 della Costituzione, con le modifiche del titolo V della parte II, introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.
In tali casi il giudizio costituzionale serve essenzialmente a risolvere le controversie fra Stato e Regioni sui limiti delle rispettive competenze, e quindi sia a difendere l'autonomia delle Regioni da "attentati" del legislatore statale, sia a presidiare il potere legislativo statale da eventuali abusi dei legislatori regionali. Tutto questo si svolge nella logica dello Stato "regionale", in cui è la Costituzione a ripartire le competenze fra Stato e Regioni, con la Corte costituzionale che funge da "arbitro" nelle relative controversie.
Ma, soprattutto, l'Assemblea costituente ha fatto una scelta fondamentale per quanto riguarda il sistema generale di controllo della costituzionalità delle leggi, escludendo che queste possano essere direttamente impugnate davanti alla Corte a opera di qualunque soggetto, e prevedendo invece che i dubbi di costituzionalità delle leggi possano essere sollevati solo in occasione della loro applicazione da parte dei giudici comuni. Quando cioè un giudice qualsiasi autorità giudiziaria, dal giudice di pace di una piccola città o dalla commissione tributaria di una provincia fino alla Corte di cassazione, e perfino gli arbitri rituali si trovi a dover risolvere una controversia, per decidere la quale dovrebbe fare applicazione di una norma di legge, e dubiti della conformità di questa norma alla Costituzione, egli ha il potere e il dovere di investire la Corte costituzionale della relativa questione.
Il giudice non può decidere la causa come se la legge non ci fosse, ignorandola, anche se è convinto della sua incostituzionalità (in questo rimane l'antico divieto per il giudice di negare applicazione ad una legge in vigore); ma nemmeno è tenuto ad applicarla meccanicamente: dopo aver sperimentato il tentativo di una interpretazione "conforme" a Costituzione, deve invece proporre il dubbio di costituzionalità davanti all'unico organo che ha l'autorità per risolverlo, appunto la Corte costituzionale. Le vie di accesso alla Corte sono dunque tante quanti sono i giudici comuni, di qualunque grado. Si può dire, in sintesi, che nessun giudice è obbligato ad applicare una legge della cui costituzionalità egli dubiti, ma che solo la Corte costituzionale può liberarlo definitivamente dal vincolo, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge e così consentendogli di decidere la causa senza tener conto di essa.
È questo il sistema di controllo di costituzionalità che viene detto "incidentale", perché la questione di costituzionalità di una legge sorge come "incidente" nell'àmbito di un processo comune, avente ad oggetto una qualsiasi materia controversa, ed è proposta alla Corte dal giudice di tale processo.

Il giudice comune come "portiere" del giudizio di costituzionalità

Nel giudizio comune, il dubbio sulla costituzionalità di una norma di legge che dovrebbe essere applicata può essere prospettato da una delle parti (l'imputato o il pubblico ministero in un giudizio penale, l'attore o il convenuto in un giudizio civile, il ricorrente o l'amministrazione resistente in un giudizio amministrativo, ecc.), oppure può essere rilevato dallo stesso giudice d'ufficio, cioè anche senza sollecitazione di parte. Se è una parte che chiede di investire la Corte costituzionale, il giudice non è tenuto senz'altro a trasmettere la questione alla Corte costituzionale, ma nemmeno può ignorarla. Deve decidere, motivando, anzitutto se la questione proposta ha rilevanza nella causa (cioè se la norma di legge della cui costituzionalità si dubita è necessaria per decidere la causa: altrimenti la questione è priva di "rilevanza"); in secondo luogo, se il dubbio ha, a suo avviso, una qualche ragion d'essere. Se gli appare chiaramente privo di fondamento, il giudice deve respingere l'istanza della parte per "manifesta infondatezza" (altrimenti si aprirebbe la strada a qualsiasi questione di costituzionalità, anche cervellotica, sollevata da una parte magari solo per ritardare la decisione della causa); in caso contrario, deve rivolgersi alla Corte costituzionale, non potendo risolvere da sé il dubbio, né in senso positivo né in senso negativo.
Ai giudici comuni è affidato dunque, secondo un'immagine usata da Piero Calamandrei, il ruolo di "portieri" del giudizio di costituzionalità: ad essi spetta cioè il potere di aprire o chiudere la porta che dà ingresso alla Corte.
All'inizio, si temeva che tale potere dei giudici si risolvesse in un impedimento all'intervento della Corte, che cioè la "porta" risultasse troppo "stretta". L'esperienza ha fugato questo timore, dimostrando che i giudici comuni non solo non tengono chiusa la "porta", ma la aprono con grande frequenza.

Corte costituzionale e giudici: un dialogo permanente

Dunque il sistema che affida ai giudici comuni la funzione di filtro delle questioni di costituzionalità, lungi dal lasciare disoccupata la Corte, ha prodotto un grande contenzioso costituzionale. Difatti, in occasione delle controversie giudiziarie, le norme delle leggi non vengono in considerazione solo nel loro significato generale ed astratto, ma nelle loro possibili applicazioni e conseguenze nei casi concreti. Non è l'astrattezza della regola di diritto, ma la concretezza dei casi della vita, ciò di cui si discute davanti ai giudici. I problemi di costituzionalità si moltiplicano, allora, sotto il segno dell'indefinita varietà di situazioni cui le leggi si devono applicare.
La Costituzione non è, del resto, un mero insieme di norme specifiche: è il testo che contiene ed esprime i princìpi di fondo che debbono ispirare l'intero sistema giuridico. Quindi i problemi di costituzionalità delle leggi non si riducono mai ad un semplice confronto fra norme della legge e norme della Costituzione, ma investono il modo in cui i princìpi costituzionali si concretizzano nelle singole discipline legali e nella loro applicazione.
Per esempio, moltissime questioni (la maggior parte di esse, si può dire) vengono sollevate invocando il principio costituzionale di eguaglianza («tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge...; è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...»: articolo 3 della Costituzione). Per dire se questo principio è rispettato o meno, occorre chiedersi se una concreta disciplina legale, così come si applica o per le conseguenze che comporta rispetto alle varie situazioni di fatto, risponda o meno al criterio generico ma penetrante dell'uguale valore di ogni persona e della ragionevolezza dei diversi "trattamenti" legali. E non è certo netto il confine tra legittime diversificazioni operate dal legislatore, nell'esercizio del suo compito di adattamento della legge ai mutevoli obiettivi politici, e discriminazioni costituzionalmente vietate.
Inoltre, il significato delle disposizioni legislative e il modo in cui esse si combinano l'una con l'altra nel sistema non sono sempre chiari ed univoci. I modi di affrontare e risolvere i problemi giuridici sono naturalmente molteplici, ed è compito dei giudici trovarli, interpretando e applicando le leggi. In quest'opera il richiamo ai princìpi costituzionali dovrebbe essere costante. Non è raro che i giudici, nell'incertezza sulla interpretazione delle leggi, si rivolgano alla Corte sollevando dei dubbi di costituzionalità che sono risolvibili dando alle leggi una corretta interpretazione, adeguata ai princìpi costituzionali. E la Corte il cui compito non è quello della interpretazione delle leggi, ma quello del controllo della loro compatibilità con la Costituzione non di rado risponde indicando un'interpretazione più corretta, o invitando il giudice a trovarla.
Questo "dialogo" fra la Corte costituzionale e le migliaia di giudici comuni, che rappresenta la sostanza di molta parte della giurisprudenza costituzionale, è reso possibile proprio dal sistema di controllo incidentale sulle leggi scelto dalla Assemblea costituente.

La Corte e la libertà del legislatore

Quando, dunque, una scelta legislativa del Parlamento appaia discutibile e controversa, e su di essa venga provocato da qualche giudice, chiamato ad applicarla, il controllo di costituzionalità della Corte, è allora che si dovrà trovare il delicato equilibrio fra il ruolo della Corte (che deve garantire l'osservanza dei princìpi costituzionali, anche contro la maggioranza parlamentare) e il rispetto del diritto del legislatore di fare le scelte politiche che ritiene più utili al paese, e che la Corte non ha il potere di ostacolare anche se, in ipotesi, possa considerarle inopportune.
La Corte non è una terza istanza legislativa, a cui si possa fare ricorso per contestare o modificare, con una valutazione politica di opportunità, le scelte fatte dai rappresentanti eletti in Parlamento. Essa sta a guardia dei "confini". Se il legislatore resta entro i confini della Costituzione (e i princìpi costituzionali lasciano grande spazio per le scelte del legislatore), la Corte non ha alcun potere di censurarne le valutazioni, anche se magari le appaiano inadeguate o difettose. Se però il legislatore supera tali confini, spetta alla Corte censurare la legge o ricondurla entro di essi, per impedire che la Costituzione venga violata.

Il Palazzo della Consulta in una celebre incisione di Giovanni Battista Piranesi

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Il fattore tempo

Il sistema incidentale di controllo di costituzionalità fa sì che le leggi non possano essere portate immediatamente e direttamente all'esame della Corte a opera di chi le ritenga incostituzionali. Occorre passare per un giudizio e che ci sia un giudice chiamato ad applicarle, il quale sollevi la relativa questione. Può trascorrere del tempo, e ciò talvolta consente che nell'applicazione ai casi della vita, il significato della legge si chiarisca e si precisi. Può dunque darsi che di una disposizione legislativa di dubbia costituzionalità per lungo tempo non si discuta davanti alla Corte, perché nessuno ha sollevato la questione, e che ciò avvenga solo a distanza di molti anni. Ecco allora che norme antiche ma, talora, di rara applicazione vengono dichiarate incostituzionali magari a distanza di decenni non solo dalla loro emanazione, ma anche dall'entrata in vigore della Costituzione e dall'inizio dell'attività della Corte costituzionale (per esempio, l'articolo 569 del codice penale del 1930, che imponeva l'applicazione automatica della pena accessoria della perdita della potestà - ora responsabilità - genitoriale al genitore condannato per alcuno dei delitti contro lo stato di famiglia, è stato dichiarato incostituzionale solo con la sentenza n. 31 del 2012 e poi, ancora, con la sentenza n. 7 del 2013, reputandosi irragionevole che il previsto automatismo impedisse al giudice di valutare in concreto l'interesse del figlio minore a vivere e a crescere mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori).

Le decisioni della Corte

Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una pronuncia di accoglimento, che dichiara l'illegittimità costituzionale della norma, oppure con una pronuncia di rigetto, che dichiara la questione non fondata.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (per esempio, perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui, o l'ha proposta in modo contraddittorio, o perché non riguarda una norma di legge; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere, o anche perché mancano le indicazioni essenziali per individuare l'oggetto del ricorso). Questo tipo di pronunce non è raro, specie nei giudizi incidentali, stante il grande numero di questioni sollevate dai giudici e la tendenza di questi, talora, a far ricorso alla Corte costituzionale per prospettare problemi che non sono propriamente di costituzionalità, ma di semplice interpretazione della legge.
Altre volte non si perviene alla decisione, perché nel frattempo è intervenuta qualche novità legislativa, che potrebbe rendere inutile la pronuncia della Corte. In tal caso, vengono restituiti gli atti al giudice che aveva sollevato la questione, affinché questi valuti, nel nuovo contesto, se riproporre la questione stessa.

La dichiarazione di incostituzionalità e i suoi effetti

Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia vale a dire, non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale: così stabilisce l'articolo 136 della Costituzione. La pronuncia della Corte ha dunque un effetto generale (non limitato al singolo giudizio in cui la questione è stata sollevata) e definitivo. La legge "scompare" dall'ordinamento. Il Parlamento può deliberarne un'altra in sostituzione (ma naturalmente non potrà emanare una disposizione identica a quella già dichiarata incostituzionale). Il Parlamento può anche, in ipotesi, superare la dichiarazione di incostituzionalità ma, allora, dovrà modificare la Costituzione, rendendo così costituzionale ciò che, prima, era incostituzionale; ma perché questo avvenga occorre che sia seguito il particolare procedimento prescritto per la revisione costituzionale (articolo 138 Costituzione). In ogni caso, però, nessuna modifica può investire i princìpi supremi su cui si fonda la Costituzione, come è sancito per la forma repubblicana dello Stato dall'articolo 139 e, per i diritti della persona, dall'articolo 2.
Più spesso la dichiarazione di incostituzionalità colpisce una sola parte della disposizione legislativa impugnata, quella appunto non compatibile con la Costituzione, lasciando sopravvivere il resto. Anzi la Corte, proprio per ridurre al massimo gli effetti di "vuoto" legislativo prodotti dalle sue pronunce di accoglimento, definisce attentamente la parte della legge destinata a cadere, e talvolta individua la norma che la sostituirà, traendola dalla stessa Costituzione o dal sistema legislativo. Questa tecnica di decisione ha fatto parlare di sentenze "manipolative", in quanto esse, in qualche modo, riscrivono la legge per renderla compatibile con la Costituzione, ovvero di sentenze "additive", in quanto esse comportano l'inserimento nella legge di elementi nuovi, necessari per adeguarla ai princìpi costituzionali.
Si noti che la dichiarazione di incostituzionalità, avendo effetto generale, non si limita a imporre a tutti una diversa regola per il futuro, ma impedisce di applicare la norma incostituzionale anche quando si tratta di fatti passati. Poiché non sarebbe pensabile di rimettere in questione rapporti e situazioni ormai chiusi, magari in un lontano passato, rimangono però fermi gli effetti prodotti dalla norma che si sono definitivamente consolidati, che cioè non possono essere contestati davanti a un giudice (perché è stata già pronunciata una sentenza ormai definitiva, perché si tratta di diritti ormai prescritti, ecc.). Se la norma dichiarata incostituzionale sanziona penalmente una condotta, invece, non solo essa cade, ma anche le eventuali condanne già divenute definitive e tuttora in esecuzione perdono ogni effetto.

Le pronunce di rigetto

Se la pronuncia della Corte è di rigetto, cioè dichiara non fondato il dubbio di costituzionalità, la legge rimane in vigore. La decisione non ha però effetto generale e definitivo, in quanto lo stesso dubbio può essere nuovamente sollevato anche con motivi o argomenti nuovi, e la Corte potrebbe accoglierlo, sulla base dei nuovi elementi addotti, o modificando la propria precedente posizione.
Naturalmente non è frequente che la Corte contraddica le proprie pronunce; ma talvolta accade (cambia nel tempo la composizione della Corte, e può cambiare anche, entro certi limiti, l'interpretazione e l'applicazione delle norme costituzionali su punti dubbi o controversi). Ad esempio, la norma del codice penale che puniva l'adulterio della moglie (non anche del marito), ritenuta non incostituzionale nel 1961 (sentenza n. 64), fu poi dichiarata illegittima nel 1968, per violazione del principio di parità fra i coniugi stabilito dagli articoli 3 e 29 della Costituzione (sentenza n. 126).
Per lo più, però, la giurisprudenza della Corte costituzionale come quella di ogni autorità giudicante, la cui composizione varia solo gradualmente e lentamente presenta una continuità di linee di fondo, arricchendosi via via di precisazioni, specificazioni e integrazioni. I mutamenti della giurisprudenza si collegano anche ai cambiamenti della società e della cultura giuridica, che fanno emergere sensibilità ed esigenze nuove o diverse: anche la Corte costituzionale, che opera in un contesto storico concreto, non può non risentirne.
Ciò non significa, però, che essa sia al seguito degli umori del momento, diffusi nell'opinione pubblica, perché ciò contraddirebbe il suo ruolo di garante della Costituzione.

Le pronunce interpretative

È molto frequente che la Corte respinga un dubbio di costituzionalità non perché esso, così come formulato dal giudice comune, sia privo di fondamento, ma perché è da respingere l'interpretazione che il giudice ha dato della disposizione impugnata, una disposizione che, se interpretata in altro modo, non presenta il vizio denunciato.
Ciò avviene con le cosiddette sentenze "interpretative", fondate sulla circostanza che spesso una disposizione legislativa si presta ad essere intesa in modi diversi, e sul criterio che la Corte afferma da tempo secondo cui la legge deve essere interpretata, tutte le volte che è possibile, in senso conforme alla Costituzione.
Queste decisioni, che affermano un'interpretazione "costituzionale" della legge, formalmente non vincolano i giudici diversi da quello che ha sollevato la questione: ad essi spetta applicare le leggi in piena autonomia. Normalmente, però, essi si adeguano alle interpretazioni offerte dalla Corte, se sono necessarie per evitare che la legge assuma un significato incostituzionale. Secondo il più recente orientamento della Cassazione, dopo che la Corte ha espresso un giudizio sfavorevole sulla compatibilità costituzionale di una determinata soluzione interpretativa, non è formalmente precluso ai giudici (diversi da quello rimettente) di applicare la norma in quel significato. Viene riconosciuto, però, che la pronuncia interpretativa riveste il valore di un autorevole precedente, anche in punto di non infondatezza del dubbio di legittimità della norma. Accade dunque di regola che i giudici, qualora ritengano di non poter adottare l'interpretazione alternativa suggerita dalla Corte, sollevino nuovamente la questione; e la Corte potrà pervenire a una successiva pronuncia di accoglimento, prendendo atto che la giurisprudenza dei giudici comuni non accetta la soluzione interpretativa che permetteva di fare salva la legge. Anche questo fa parte del permanente dialogo che la Corte intrattiene con gli altri giudici, oltre che con il legislatore. A quest'ultimo, infatti, talvolta la Corte si indirizza nelle sue decisioni dando suggerimenti e indicazioni per una disciplina delle materie considerata più adeguata rispetto alla Costituzione: in tali casi si parla di "sentenze di monito".

Le controversie fra Stato e Regioni e fra Regioni

Già sappiamo che c'è un'altra strada, oltre a quella del giudizio incidentale, per portare una legge all'esame della Corte: le controversie costituzionali fra Regioni e Stato quanto alle rispettive competenze legislative. Il Governo può ricorrere direttamente contro una legge regionale, e una Regione può ricorrere direttamente contro una legge statale o una legge di altra Regione. Il giudizio, anche in questi casi, segue le stesse regole, ha gli stessi esiti e produce effetti analoghi a quelli di cui abbiamo parlato.
Un diverso meccanismo di ricorsi trova applicazione quando la controversia fra Stato e Regione o fra Regioni ha per oggetto non una legge, ma un atto di altra natura (un regolamento, un atto amministrativo, un atto giudiziario, ecc.). La Regione che lamenti la lesione della propria autonomia costituzionale può sollevare "conflitto di attribuzione" nei confronti dello Stato (che sarà rappresentato dal Presidente del Consiglio dei ministri) o di altra Regione; a sua volta, lo Stato, che ritenga un atto di una Regione (diverso da una legge) eccedente i limiti della competenza regionale o lesivo di una competenza statale, può sollevare conflitto di attribuzione contro la Regione (che sarà rappresentata dal suo Presidente).
In questi casi la sentenza della Corte dichiara a chi spetta l'attribuzione in contestazione, ovvero come essa deve essere esercitata per non ledere le attribuzioni altrui, ed eventualmente annulla l'atto illegittimo.

I conflitti tra poteri

C'è un'altra categoria di "conflitti di attribuzione" che la Corte è chiamata a risolvere: sono i conflitti che sorgono fra "poteri dello Stato", quando essi ritengono che le attribuzioni che la Costituzione assegna loro siano state violate da un altro potere dello Stato. Poiché la Costituzione ha inteso comunque assicurare una garanzia di applicazione imparziale delle norme sulle competenze a opera di un organo "arbitrale", anche queste controversie, che hanno riguardo alla separazione dei poteri, sono state demandate alla giustizia costituzionale.
Può accadere, ed è accaduto, che sorga conflitto, ad esempio, tra un organo giudiziario e una Camera parlamentare, a proposito dell'applicazione di una immunità garantita ai parlamentari dalla Costituzione; tra il ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura a proposito dei rispettivi poteri riguardanti i magistrati; fra il Governo e un pubblico ministero a proposito dell'applicazione del segreto di Stato; fra un ministro e la Camera parlamentare che abbia votato una mozione di sfiducia nei suoi confronti; fra i promotori di un referendum abrogativo e l'Ufficio della Corte di cassazione che controlla la regolarità delle procedure referendarie.
Persino la Corte costituzionale può entrare in conflitto con un altro organo, quando sono contestate le sue stesse attribuzioni: in questo caso, mancando un "arbitro" terzo, la stessa Corte costituzionale assume contemporaneamente il ruolo di parte e di giudice del conflitto.

I giudizi di ammissibilità dei referendum

La legge costituzionale n. 1 del 1953 ha aggiunto una nuova competenza a quelle ora esaminate: giudicare sull'ammissibilità dei referendum richiesti, secondo l'articolo 75 della Costituzione, da almeno cinquecentomila elettori o da almeno cinque consigli regionali, per l'abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato (decreto legislativo, decreto-legge).
Inizialmente, si riteneva che questo giudizio di ammissibilità si limitasse a verificare che la legge sottoposta a referendum non appartenesse a una delle quattro categorie di leggi escluse dall'articolo 75 della Costituzione: leggi tributarie, leggi di bilancio, leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, leggi di amnistia e di indulto. Ma già nella sentenza n. 16 del 1978 la Corte costituzionale, chiamata a deliberare sull'ammissibilità di un gruppo di otto referendum, stabilì che, oltre a queste cause esplicite di inammissibilità, ve ne sono altre, ricavabili implicitamente dai princìpi costituzionali e dalla natura e dai caratteri dell'istituto referendario. Così, ad esempio, si è ritenuto che siano inammissibili le richieste di referendum formulate in modo da ricomprendere in un unico quesito più domande di abrogazione oggettivamente diverse, coartando così la libertà dell'elettore; le richieste di abrogazione di leggi il cui contenuto non è libero, ma è vincolato dalla Costituzione, o che non si possono modificare senza incidere sulla Costituzione (la quale, infatti, non si può intaccare con un referendum abrogativo, ma solo con l'intervento di maggioranze parlamentari speciali, ed eventualmente con un referendum successivo di conferma); le richieste di abrogazione che tendono a introdurre, ritagliando un testo legislativo, disposizioni nuove e non a eliminare disposizioni esistenti (il referendum ammesso è infatti solo abrogativo, non introduttivo di nuove leggi); le richieste di abrogazione di leggi vincolate da obblighi internazionali o comunitari (per non dar luogo a una responsabilità internazionale dello Stato senza una delibera del Parlamento).
La Corte è investita del giudizio di ammissibilità dopo che la richiesta di referendum è stata ritenuta regolare dall'Ufficio centrale presso la Corte di cassazione; e il referendum viene indetto solo se la Corte lo giudica ammissibile.
La legge stabilisce che le richieste di referendum, presentate entro il 30 settembre di ogni anno, siano esaminate tutte dall'Ufficio centrale entro il 15 dicembre, e dalla Corte costituzionale entro il 20 gennaio successivo, per arrivare alla consultazione sui referendum ammessi, in una data compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. Ecco perché, quando vengono presentate richieste di referendum abrogativo, la Corte è impegnata in una speciale sessione in gennaio, con una procedura particolarmente sollecita.
Le sue decisioni in materia sono state spesso al centro dell'attenzione e della politica, non solo per l'oggetto dei referendum proposti ma anche per gli effetti che essi potevano produrre sulla vita politica e parlamentare.

I giudizi penali

Tradizionalmente i giudizi penali a carico del Capo dello Stato e dei componenti del Governo per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni sono assoggettati a una speciale giurisdizione o almeno ad una speciale disciplina, per la loro particolare connotazione politica. Anche la nostra Assemblea costituente ha fatto questa scelta, stabilendo che a giudicare di tali reati fosse la Corte costituzionale, ma non nella sua ordinaria composizione di quindici giudici, bensì in quella integrata da sedici cittadini (giudici popolari, in un certo senso, perché non scelti necessariamente fra giuristi), sorteggiati, in occasione del processo, in un elenco di quarantacinque cittadini ultraquarantenni scelti, ogni nove anni, dal Parlamento in seduta comune.
Solo una volta nella sua storia la Corte è stata chiamata (nella composizione integrata di 31 membri) a rendere un giudizio di questo tipo, in un processo per corruzione il caso Lockheed, conclusosi nel 1979 nel quale erano imputati due ex ministri (uno fu prosciolto, l'altro condannato). A seguito di tale esperienza, che bloccò per lungo tempo le altre attività della Corte, ci si persuase che fosse meglio limitare questa speciale competenza penale della Corte al solo caso dei reati del Presidente della Repubblica; mentre, per i ministri, si è trasferita la competenza alla giurisdizione penale comune, sia pure con procedure particolari (legge costituzionale n. 1 del 1989).