SENTENZA N. 102
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, promosso dalla Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel procedimento vertente tra G. B. e altri e Ministero della giustizia, con ordinanza del 18 settembre 2024, iscritta al n. 218 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visti gli atti di costituzione di G. B. e altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 maggio 2025 il Giudice relatore Roberto Nicola Cassinelli;
uditi l’avvocato Michele Torre per G. B. e per le altre parti costituite, nonché l’avvocato dello Stato Davide Giovanni Pintus per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 21 maggio 2025.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 settembre 2024, iscritta al n. 218 del reg. ord. 2024, la Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001.
2.– Il rimettente riferisce di essere investito della decisione sui ricorsi promossi da alcuni ex dipendenti della società Vinyls Italia spa, dichiarata fallita dal Tribunale ordinario di Venezia con la sentenza 8 luglio 2013, n. 250, la cui procedura concorsuale è tutt’ora in corso.
I ricorrenti, ammessi allo stato passivo per crediti di natura retributiva con provvedimenti datati novembre 2013 e gennaio 2016, già destinatari di pagamenti parziali (nel 2016 dal fondo di garanzia istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale – INPS – e nel 2018 a seguito di riparto parziale dell’attivo), hanno agito per ottenere l’indennità prevista dalla legge n. 89 del 2001 per l’irragionevole durata della procedura concorsuale – superiore ormai di cinque anni al termine di sei anni, previsto dall’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge – nella misura di euro 2.000 per ogni anno di ritardo.
2.1.– Il giudice a quo illustra le vicende relative alla crisi della società Vinyls Italia spa, unico produttore nazionale di vinilcloruro, con stabilimenti in località Marghera, Porto Torres e Ravenna.
2.1.1.– I complessi aziendali dei siti petrolchimici necessitavano di bonifica e messa in sicurezza, sicché era stato disposto, e più volte prorogato, l’esercizio provvisorio dell’attività per consentire le necessarie operazioni, e il curatore, in mancanza delle risorse necessarie, aveva chiesto l’intervento della Protezione civile, secondo la procedura prevista dagli artt. 244 e seguenti del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).
Le operazioni di bonifica risultavano ancora in corso nell’impianto di Porto Torres e, nella relazione del 19 giugno 2024, il curatore aveva dato atto della impossibilità di prevedere i tempi necessari per la chiusura del fallimento.
2.1.2.– Il rimettente fornisce ulteriori elementi sintomatici della complessità della procedura in oggetto, precisando che il curatore aveva promosso novantanove cause di revocatoria fallimentare, recuperando oltre 28 milioni di euro (l’ultimo incasso era avvenuto il 3 maggio 2024, per la cifra di oltre 113 mila euro), mentre risultavano pendenti alcune procedure esecutive.
2.2.– Con riferimento alla situazione dei creditori ex dipendenti della società, il curatore aveva rappresentato che erano stati integralmente pagati coloro i quali avevano depositato le domande di ammissione al passivo utilizzando il facsimile messo a disposizione dalla curatela. I ricorrenti nel giudizio principale, invece, non avevano inteso utilizzare quel facsimile e, inoltre, avevano commesso errori nella redazione delle domande, con conseguente ritardo nell’accertamento dei rispettivi crediti e mancato integrale pagamento degli stessi.
3.– Tanto premesso, il giudice a quo procede all’esame della norma censurata.
Introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 134, il comma 2-bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 fissa in sei anni la ragionevole durata delle procedure concorsuali. In precedenza, il termine era stato individuato dalla giurisprudenza di legittimità, sulla base delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che indicava tale durata in un tempo variabile da cinque a sette anni, a seconda della complessità della procedura.
3.1.– Dopo l’intervento legislativo del 2012, che ha predeterminato la ragionevole durata in sei anni, il giudice dell’equa riparazione non può valutare la complessità della procedura ai fini dell’accertamento della ragionevole durata.
Il rimettente richiama numerose pronunce della Corte di cassazione (Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanze 11 dicembre 2023, n. 34460 e 19 ottobre 2022, n. 30794; sesta sezione civile, ordinanze 8 novembre 2021, n. 32409 e 5 novembre 2021, n. 32192), nelle quali è stato affermato che è irragionevole la durata delle procedure concorsuali eccedente il periodo di sei anni, essendo il termine ex art. 2-bis perentorio, e si sofferma quindi sulla sentenza n. 36 del 2016 di questa Corte.
La citata pronuncia avrebbe chiarito, infatti, che la perentorietà dei termini di durata predeterminati dal legislatore è desumibile dall’univocità di significato dell’espressione «[s]i considera rispettato il termine», utilizzata nel comma 2-bis, anche alla luce dell’intento del legislatore del 2012 di «sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale».
3.2.– Tuttavia, sottolinea il rimettente, nel giudizio incidentale definito con la sentenza n. 36 del 2016, questa Corte non era stata chiamata a valutare la ragionevolezza della previsione legale di durata di ciascuna tipologia di procedimento, né la compatibilità con l’art. 6 CEDU della scelta di sottrarre al giudice la valutazione della complessità del caso concreto. Su questi aspetti, a suo dire ancora impregiudicati, il giudice a quo appunta i dubbi di legittimità costituzionale, denunciando il comma 2-bis per irragionevolezza, contrasto con il diritto di difesa e violazione del parametro convenzionale che sancisce il diritto alla ragionevole durata del processo, nell’interpretazione della Corte EDU.
4.– La norma censurata sarebbe irragionevole nella parte in cui non permette di considerare i ritardi causati da impedimenti oggettivi, non ascrivibili agli organi della procedura, o comunque riconducibili a soggetti che non fanno parte dell’organizzazione della giustizia, come sarebbe avvenuto nel caso in esame.
L’irragionevolezza segnerebbe a monte la scelta legislativa di avere accomunato, quanto alla durata, procedure di complessità diversa.
Nelle procedure in cui si renda necessario il promovimento di giudizi “recuperatori”, che a loro volta possono protrarsi per più gradi di giudizio, il rispetto del termine di sei anni sarebbe impossibile «in fatto e in diritto»: anche ipotizzando che la definizione dei giudizi promossi dalla curatela avvenga entro il termine complessivo di ragionevole durata di sei anni, fissato dal comma 2-ter del medesimo art. 2, alla curatela non residuerebbe tempo per ultimare la liquidazione dell’attivo ed effettuare il riparto, senza dire delle eventuali azioni esecutive strumentali all’effettivo recupero di quanto ottenuto in sede di cognizione.
4.1.– Ulteriormente, sotto il profilo della irragionevolezza, il rimettente sottolinea l’incompatibilità tra la fissazione del termine perentorio di cui al comma 2-bis e la disposizione contenuta nel comma 2 dello stesso art. 2, secondo cui, ai fini dell’accertamento della violazione, il giudice dell’equa riparazione deve valutare la complessità del caso, l’oggetto del procedimento e il comportamento dei soggetti coinvolti.
Il superamento del termine di sei anni renderebbe la durata della procedura sempre e comunque irragionevole (è richiamata Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 24 gennaio 2019, n. 2056), come conseguenza automatica, così svuotando di significato il richiamato comma 2 dell’art. 2.
L’accertamento dell’an della pretesa indennitaria dei creditori che lamentino l’eccessiva durata si risolverebbe, dunque, nel mero calcolo del tempo trascorso tra la data della domanda di insinuazione allo stato passivo e la data del decreto di chiusura del fallimento, ovvero, come avvenuto nel caso in esame, la data del deposito del ricorso ex art. 3 della legge n. 89 del 2001, essendo la procedura ancora aperta.
4.2.– La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 24 Cost., tenuto conto che l’esigenza degli organi della procedura di rispettare il termine di durata per non incorrere in responsabilità amministrativa/contabile potrebbe indurre gli stessi a non promuovere giudizi recuperatori, con conseguente pregiudizio dei diritti dei creditori concorsuali. L’art. 5, comma 4, della legge n. 89 del 2001 prevede che il decreto che accoglie la domanda di indennizzo sia comunicato al Procuratore generale presso la Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.
4.3.– La previsione del termine risulterebbe comunque incompatibile con l’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la ragionevolezza della durata del processo deve essere valutata alla luce delle circostanze del caso concreto, avuto riguardo alla sua complessità, al comportamento delle parti e dell’autorità procedente. Il rimettente richiama alcune pronunce della Corte EDU in cui è affermato che la complessità del processo – che può essere di fatto e di diritto (sentenza 27 novembre 1991, Kemmache contro Francia) – deve essere valutata di volta in volta, sulla base delle circostanze concrete (sentenze 12 ottobre 2021, Bara e Kola contro Albania, 24 ottobre 2023, Altius Insurance Ltd contro Cipro e 25 ottobre 2022, Xenofontos e altri contro Cipro).
Il denunciato contrasto tra la norma interna e la CEDU integrerebbe la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., con l’interposizione del parametro convenzionale e, pertanto, deve essere risolto da questa Corte (sono richiamate le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007; più di recente, le sentenze n. 182 del 2021 e n. 131 del 2022).
5.– La situazione descritta, secondo il giudice a quo, non potrebbe trovare temperamento nella possibilità, prevista nell’art. 118 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83 (Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2015, n. 132, che consente la chiusura della procedura malgrado la pendenza di giudizi nei quali essa sia coinvolta.
In realtà, osserva ancora il rimettente, il legislatore avrebbe dovuto fissare termini di durata differenziati, a seconda della necessità o non di dare avvio a giudizi recuperatori, oppure prevedere la sottrazione, dalla complessiva durata della procedura, del tempo occorso per definire i giudizi in cui la curatela sia coinvolta, o, ancora, affidare al giudice dell’equa riparazione il compito di valutare in concreto la complessità della procedura concorsuale, ai fini dell’accertamento della violazione del termine di ragionevole durata.
6.– Con riferimento alla rilevanza delle questioni, il giudice a quo rappresenta che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 avrebbe sicura incidenza sul giudizio principale. Soltanto nell’ipotesi in cui la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non consente al giudice dell’equa riparazione di ritenere non irragionevole una durata superiore a sei anni, i ricorsi per equa riparazione oggetto del giudizio principale potrebbero essere rigettati ovvero parzialmente accolti, diversamente imponendosene l’accoglimento.
7.– Con atto depositato il 20 dicembre 2024 si sono costituiti in giudizio, con unica difesa, alcuni dei ricorrenti nel giudizio principale, per chiedere che le questioni siano dichiarate non fondate.
7.1.– Secondo la difesa delle parti, la durata eccessiva della procedura in oggetto sarebbe stata causata dalla posizione assunta dalla curatela nel giudizio amministrativo pendente dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, finalizzato all’accertamento del soggetto responsabile della messa in sicurezza e bonifica del sito industriale di Porto Torres (come documentato con allegazioni della difesa). In ogni caso, né il giudice delegato né il curatore avrebbero denunciato ritardi nelle operazioni di bonifica.
7.2.– Nel merito, le censure del rimettente non sarebbero condivisibili.
L’intervento del legislatore del 2012 avrebbe arginato meritoriamente la valutazione discrezionale del giudice dell’equa riparazione sulla ragionevole durata del processo presupposto, là dove una differenziazione del termine a seconda delle attività che la curatela sia tenuta a svolgere, e la sottrazione del tempo occorso per definire i giudizi in cui sia coinvolta la curatela dalla complessiva durata della procedura concorsuale, avrebbero come unico effetto la violazione del diritto sancito dall’art. 2 della legge n. 89 del 2001.
La valutazione, di volta in volta, di quale tra i processi “collaterali” alla procedura sia o non necessario produrrebbe disparità di trattamento e incertezze applicative, in contrasto con la ratio della legge n. 89 del 2001 e con l’art. 6 CEDU.
8.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio per chiedere che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.
8.1.– Prima di esaminare le questioni, la difesa statale segnala la sopravvenienza normativa costituita dalla riformulazione dell’art. 213, comma 9, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), ad opera dell’art. 35, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 13 settembre 2024, n. 136 (Disposizioni integrative e correttive al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo del 12 gennaio 2019, n. 14), entrato in vigore il 28 settembre 2024, quindi successivamente all’ordinanza di rimessione.
L’art. 213, comma 9, citato prevede che, «[q]uando il curatore ha rispettato i termini, originari o differiti, di cui al comma 5, secondo periodo, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».
Trattandosi di disposizione applicabile anche alle procedure pendenti, per espressa previsione dell’art. 56, comma 4, del medesimo d.lgs. n. 136 del 2024, l’Avvocatura dello Stato ritiene che dovrebbe farsi luogo alla restituzione degli atti al giudice a quo, al quale soltanto spetterebbe di valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni alla luce della sopravvenienza normativa (sono richiamate, tra le molte, le ordinanze di questa Corte n. 199 e n. 72 del 2023).
8.2.– In via preliminare, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità delle questioni perché sarebbe incerta la rilevanza delle stesse.
Il rimettente avrebbe omesso di esaminare le circostanze riferite nell’ordinanza di rimessione, secondo cui i ricorrenti nel giudizio per equa riparazione, diversamente da altri ex dipendenti della società fallita, non avevano voluto utilizzare il modello di facsimile messo a disposizione dalla curatela per la domanda di ammissione al passivo, ed avevano commesso errori nella redazione delle domande, così ritardando l’accertamento delle relative spettanze.
Trattandosi di circostanze potenzialmente significative ai fini della spettanza dell’indennizzo, sotto il profilo della mancanza di diligenza nel comportamento della parte che lamenti la durata irragionevole, il rimettente non avrebbe dimostrato di non poter prescindere dall’applicazione della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale per definire il giudizio (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 160 del 2023).
8.3.– Nel merito, secondo la difesa statale, le questioni sarebbero non fondate, muovendo da una erronea lettura della norma censurata.
Con la previsione del termine di durata di sei anni per le procedure concorsuali, il legislatore avrebbe inteso affermare soltanto che entro tale termine non può esservi diritto all’equa riparazione, ma non sarebbe vero il contrario, e cioè che una durata protratta oltre i sei anni debba risultare sempre irragionevole.
Così si sarebbero espresse sia questa Corte nell’ordinanza (recte: sentenza) n. 36 del 2016, sia la giurisprudenza di legittimità, la quale ammette che anche procedure concorsuali di durata superiore a sei anni, previa valutazione di tutti gli elementi del caso, possano essere considerate compatibili con le previsioni della CEDU.
La difesa statale richiama giurisprudenza della Corte di cassazione (in particolare, Cass., ord. n. 34460 del 2023), nella quale, dopo avere ribadito che il termine di sei anni di durata delle procedure concorsuali “di regola” deve essere rispettato, trattandosi di termine da qualificare perentorio e che, secondo «lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Edu, si può tenere conto della particolare complessità della procedura concorsuale solo ai fini di un temperamento di detta soglia, che giustifica uno slittamento della procedura concorsuale da sei a sette anni, secondo l’apprezzamento del giudice di merito» (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 29 settembre 2020, n. 20508; ordinanze 24 ottobre 2022, n. 31274, 24 maggio 2022, n. 16753 e 12 ottobre 2017, n. 23982).
8.4.– Il diritto vivente, osserva l’Avvocatura dello Stato, non risulta attestato sulla posizione fatta propria dal giudice rimettente, il quale afferma che l’interpretazione consolidata e uniforme della norma censurata esclude che il giudice possa derogare al termine di sei anni.
Sarebbe escluso il contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo sia dell’uguaglianza sia della ragionevolezza, giacché la norma censurata non accomuna procedimenti di complessità diversa e non impone che la durata della procedura debba essere contenuta in sei anni.
8.5.– Non sussisterebbe il prospettato contrasto con l’art. 24 Cost., dovendosi escludere che si sia in presenza di un automatismo che non permetterebbe alcuna valutazione del caso concreto.
Secondo il diritto vivente, «il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla legge n. 89 del 2001 si fonda non sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali e non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito» (Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 25 luglio 2023, n. 22378, con richiamo ai precedenti).
La difesa statale osserva poi che la questione adombrata con la censura in esame – il potenziale pregiudizio delle ragioni del ceto creditorio a fronte della necessità di definire la procedura entro sei anni – parrebbe risolta dalla norma sopravvenuta, già richiamata in funzione della restituzione degli atti al giudice a quo.
Il rispetto delle scadenze fissate nel programma di liquidazione escluderebbe qualsiasi responsabilità in capo al curatore.
8.6.– Non sarebbe ravvisabile, infine, il contrasto tra la norma censurata e l’art. 117, primo comma, Cost., e per il suo tramite, con l’art. 6 CEDU.
Con la previsione del termine il legislatore ha definito, per esigenze di uniformità di trattamento, un parametro di durata ragionevole al di sotto del quale il procedimento presupposto risulta conforme alla previsione dell’art. 6 CEDU, ma ciò non esclude, per i casi in cui sia stata superata la durata prevista dalla legge nazionale, che il giudice possa valutare tale durata, ai fini dell’an e del quantum della pretesa azionata, senza alcun automatismo vincolante.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge n. 89 del 2001, con l’ordinanza in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui non prevede che, valutata la complessità del processo presupposto, il giudice possa ritenere non irragionevole la durata di tale processo quand’anche abbia superato il termine indicato dalla norma».
1.1.– Il giudice a quo deve decidere sulle domande di equo indennizzo proposte da alcuni ex dipendenti della società Vinyls Italia spa, dichiarata fallita dal Tribunale di Venezia con sentenza 8 luglio 2013, n. 250, la cui procedura concorsuale è tutt’ora in corso.
I ricorrenti, creditori già destinatari di pagamenti parziali, hanno agito per ottenere l’indennità prevista dalla legge n. 89 del 2001 per l’irragionevole durata della procedura concorsuale, superiore ormai di cinque anni al termine di sei, previsto dall’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.
1.2.– In considerazione sia del numero di giudizi recuperatori che la curatela aveva promosso, sia della interferenza delle attività di bonifica ambientale e messa in sicurezza degli stabilimenti industriali contaminati, il rimettente ritiene che la procedura concorsuale presupposta non potesse essere definita entro il termine di sei anni fissato dal censurato comma 2-bis, considerato inderogabile dal diritto vivente (sentenza n. 36 del 2016; Cass., ordinanze n. 34460 del 2023 e n. 30794 del 2022).
1.3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che soltanto nell’ipotesi di un accoglimento delle questioni i ricorsi per equa riparazione potrebbero essere rigettati ovvero solo parzialmente accolti, diversamente imponendosene l’integrale accoglimento.
1.4.– È denunciata, innanzitutto, l’irragionevolezza del termine fissato dal comma 2-bis, che varrebbe sia per le procedure di semplice o media complessità, sia per quelle di notevole complessità, nelle quali si renda necessario il promovimento di azioni finalizzate a recuperare beni all’attivo fallimentare. In tali ipotesi, in cui la durata della procedura è condizionata da quella dei giudizi recuperatori, anche ove la durata di questi ultimi fosse rispettosa del termine complessivo di sei anni previsto dal comma 2-ter del medesimo art. 2 della legge n. 89 del 2001, la procedura non potrebbe essere definita in tempo ragionevole, attese le ulteriori attività che residuerebbero (liquidazione dei beni, riparto, eventuali azioni esecutive).
Il termine di sei anni risulterebbe comunque inadeguato nei casi in cui, tra i beni appresi alla procedura, vi siano siti contaminati da avviare a risanamento ambientale, anche tenuto conto che le relative attività fanno capo ad amministrazioni su cui gli organi della procedura non hanno poteri impositivi.
Il comma 2-bis avrebbe introdotto un automatismo in forza del quale, una volta superato il termine di sei anni, la durata della procedura risulterebbe sempre irragionevole, così svuotando di significato il disposto del comma 2 dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001.
1.4.1.– La norma censurata si porrebbe in contrasto altresì con l’art. 24 Cost., in quanto indurrebbe gli organi della procedura a non promuovere giudizi recuperatori, per rispettare il termine di ragionevole durata e non incorrere in responsabilità, con conseguente pregiudizio dei diritti dei creditori concorsuali.
1.4.2.– La previsione del termine fisso sarebbe comunque incompatibile, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., con l’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la ragionevolezza della durata del processo deve essere valutata alla luce delle circostanze del caso concreto.
2.– Occorre in primo luogo valutare la sopravvenienza normativa costituita dal nuovo testo dell’art. 213, comma 9, del d.lgs. n. 14 del 2019, che l’Avvocatura dello Stato ha segnalato ai fini della restituzione degli atti al giudice a quo.
2.1.– Il comma 9 dell’art. 213 del d.lgs. n. 14 del 2019 non era presente nel testo originario della disposizione ed è stato aggiunto dall’art. 29, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 17 giugno 2022, n. 83, recante «Modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in attuazione della direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza)», con disposizione che stabiliva: «[s]e il curatore ha rispettato i termini di cui al comma 5, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».
In seguito, con il d.lgs. n. 136 del 2024, successivo all’ordinanza di rimessione e segnalato dalla difesa statale, il legislatore ha sostituito il comma 9, che oggi prevede: «[q]uando il curatore ha rispettato i termini, originari o differiti, di cui al comma 5, secondo periodo, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».
La disposizione interviene a neutralizzare, ai fini della ragionevole durata, il «tempo necessario per il completamento della liquidazione», subordinatamente al rispetto da parte del curatore dei termini previsti nel medesimo art. 213, rubricato «Programma di liquidazione», il quale scandisce tutta l’attività degli organi della procedura a partire dalla redazione dell’inventario.
2.2.– Per quanto qui di rilievo, si deve precisare che la disposizione citata si inserisce nel corpus normativo costituito dal d.lgs. n. 14 del 2019, il cui regime di applicazione, ratione temporis, è disciplinato dall’art. 390, comma 2, dello stesso decreto, secondo cui «[l]e procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto […] sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3».
Se, dunque, per espressa previsione del legislatore, la disciplina dettata dal codice della crisi d’impresa non opera nelle procedure concorsuali antecedenti alla sua entrata in vigore, a fortiori tale conclusione si impone per le disposizioni che, modificandolo o integrandolo, si innestano su detto codice.
Risulta pertanto ininfluente l’art. 56, comma 4, del d.lgs. n. 136 del 2024, richiamato dall’Avvocatura dello Stato, che regola unicamente – e non potrebbe essere altrimenti – il regime di applicazione delle modifiche e/o integrazioni apportate ai procedimenti già regolati dal predetto codice.
2.3.– In definitiva, non vi è un’incidenza diretta della disposizione sopravvenuta sul quadro normativo rilevante per il giudizio principale, la cui procedura presupposta è antecedente all’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e come tale esclusa dall’applicazione della relativa disciplina, sicché non ricorrono i presupposti della restituzione degli atti al giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 40 e n. 27 del 2025 e n. 54 del 2024).
3.– Si deve ora valutare l’eccezione di inammissibilità delle questioni, formulata dall’Avvocatura dello Stato, quanto alla rilevanza delle stesse.
Il giudice a quo avrebbe omesso di esaminare le circostanze, pure riferite nell’ordinanza di rimessione, relative al comportamento dei ricorrenti nel giudizio presupposto nella fase di accertamento del passivo. Costoro, infatti, diversamente da altri ex dipendenti, non avevano utilizzato il modello di facsimile messo a disposizione dalla curatela per la domanda di ammissione al passivo e avevano commesso errori nella redazione delle domande, così ritardando l’accertamento delle relative spettanze. Si tratterebbe di circostanze in grado di incidere sulla durata della procedura, e, pertanto, potenzialmente idonee a fondare il diniego dell’indennizzo, sicché il rimettente, non prendendo posizione sul punto, non avrebbe dimostrato di non poter prescindere dall’applicazione della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale per definire il giudizio.
3.1.– L’eccezione non è fondata.
È vero che la mancanza di diligenza della parte che lamenti il pregiudizio da irragionevole durata è idonea a escludere, in tutto o in parte, il diritto all’equo indennizzo. L’art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001 impone, infatti, al giudice dell’equa riparazione di valutare, ai fini dell’accertamento della violazione, anche il comportamento delle parti, che rileva nella misura in cui abbia determinato un ingiustificato allungamento dei tempi del processo, potendosi perfino escludere il diritto all’equo indennizzo quando il ritardo imputabile a quel comportamento assorba l’intero periodo eccedente.
Tuttavia, la situazione rappresentata dal rimettente restituisce un quadro dell’andamento della procedura da cui emerge, in modo chiaro, che le ragioni del ritardo sono riconducibili alla particolare complessità della procedura stessa.
Seppure implicitamente, il giudice a quo ha escluso l’incidenza causale, sulla durata della procedura, del comportamento dei creditori oggi ricorrenti per l’equo indennizzo, e ciò è sufficiente per ritenere la norma censurata rilevante ai fini della definizione del giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 160 del 2023 e n. 254 del 2020).
Peraltro, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non è necessario – ai fini della rilevanza di una questione – che il suo accoglimento determini un esito diverso da quello cui si perverrebbe in applicazione della disposizione censurata, essendo sufficiente che esso necessariamente influisca sull’iter motivazionale che dovrà condurre alla decisione (ex plurimis, sentenze n. 52 del 2025, n. 135 e n. 122 del 2024).
4.– Nel merito le questioni non sono fondate con riferimento a tutti i parametri evocati.
4.1.– Il rimettente muove, innanzi tutto, da un erroneo presupposto interpretativo rispetto alle questioni dedotte con riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
La giurisprudenza di legittimità consolidata, che costituisce diritto vivente, ha infatti introdotto un temperamento alla previsione contenuta nel comma 2-bis, ritenendo “tollerabile”, nel caso di procedura concorsuale di notevole complessità, una durata di sette anni (ex plurimis, Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 25 luglio 2023, n. 22340, con ampi richiami ai precedenti, e ordinanza n. 31274 del 2022), secondo lo standard ricavato dalle pronunce della Corte EDU, che trovava applicazione già prima dell’intervento con cui il legislatore del 2012 ha fissato i termini di durata ragionevole.
Il temperamento introdotto in via interpretativa, peraltro, impone al giudice dell’equa riparazione di dare conto delle ragioni della “notevole complessità” della procedura, a loro volta desunte dalla giurisprudenza della Corte EDU, quali il numero dei creditori, la particolare natura o situazione dei beni da liquidare (ad esempio partecipazioni societarie, beni indivisi), la proliferazione di giudizi connessi, la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti.
Le richiamate pronunce di legittimità non mancano di precisare che il giudice dell’equa riparazione non ha discrezionalità nella determinazione della congruità del termine di ragionevole durata, come chiarito da questa Corte nella sentenza n. 36 del 2016, fermo restando che, in presenza delle anzidette caratteristiche, è tollerabile una durata della procedura concorsuale fino a sette anni.
Il giudice a quo censura, dunque, il comma 2-bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, come interpretato dal diritto vivente, senza coglierne l’effettiva portata, poiché imputa a quest’ultimo di avere inteso il termine ivi fissato in modo rigido, per effetto del quale, superati sei anni, la procedura concorsuale produrrebbe sempre e comunque la lesione del diritto alla ragionevole durata.
Si tratta di un errore di ricognizione che invalida il presupposto dal quale muovono le censure orientate a stigmatizzare l’inadeguatezza del termine e l’automatismo che governerebbe l’accertamento della ragionevole durata delle procedure concorsuali.
5.– La non fondatezza delle questioni trova conferma, peraltro, dall’esame dei precedenti di questa Corte sul tema.
La previsione contenuta nel comma 2-bis è stata, invero, già oggetto di scrutinio, in particolare nella sentenza n. 36 del 2016 – richiamata anche dal rimettente e dalla difesa dello Stato – e più di recente nella sentenza n. 205 del 2023.
5.1.– Dopo aver premesso che i termini di durata fissati nel comma 2-bis non si sottraggono al sindacato di costituzionalità sul profilo della loro congruità, la sentenza n. 36 del 2016 ha chiarito ch’essa va valutata avendo come punto di riferimento la giurisprudenza della Corte EDU.
In applicazione di tale principio, la stessa sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2-bis nella parte in cui prevedeva un termine di ragionevole durata dei giudizi originati dal ritardo nella definizione di precedenti giudizi di equa riparazione (cosiddetta Pinto su Pinto) che risultava “eccessivo” rispetto allo standard ricavabile dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Pur se intervenuta sulla indicata peculiare tipologia di processi, la sentenza n. 36 del 2016 ha chiarito, sul piano interpretativo, che i termini di durata fissati nel comma 2-bis non costituiscono meri parametri di riferimento, bensì termini inderogabili con i quali il legislatore ha sottratto alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della ragionevole durata, per affidarla invece a una previsione legale di carattere generale.
Più in particolare, è stato affermato che l’art. 6 CEDU – il cui significato si forma attraverso la costante giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) – «preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale». Il richiamo ai «più brevi termini», riferito a quello allora sottoposto allo scrutinio di questa Corte, non inficia la portata dell’affermazione che, per qualsiasi termine, rimanda al modello di durata strutturato dalla Corte EDU.
5.2.– Questa Corte è tornata a pronunciarsi sul comma 2-bis nella sentenza n. 205 del 2023, avente a oggetto la durata dei procedimenti di protezione internazionale, che era ed è equiparata a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione. I giudici rimettenti ritenevano eccessivo quel termine sul rilievo che l’individuazione della ragionevole durata non potrebbe prescindere dalle caratteristiche e dalla natura del procedimento, come ripetutamente affermato dalla Corte di Strasburgo in sede di interpretazione dell’art. 6 CEDU.
La sentenza n. 205 del 2023 ha dichiarato le questioni non fondate, stante l’assenza di elementi ricavabili dalla costante giurisprudenza della medesima Corte dai quali desumere che i giudizi in materia di protezione internazionale debbano avere uno statuto differenziato, quanto alla durata, rispetto agli altri giudizi di cognizione.
6.– Discende dalle richiamate pronunce il principio che, se il termine di ragionevole durata fissato dal legislatore nazionale è modellato sulla giurisprudenza della Corte EDU, non sono ravvisabili violazioni del parametro convenzionale. Questa conclusione ridonda sul giudizio di compatibilità costituzionale del termine di volta in volta sottoposto a scrutinio anche sotto il profilo della ragionevolezza.
Si è già detto dell’assenza di automatismo.
Inoltre, per effetto del temperamento introdotto dal diritto vivente per le procedure più complesse, perde di significato anche l’argomento della irrazionale coincidenza tra il termine di ragionevole durata fissato per le procedure concorsuali e quello previsto per la durata complessiva dei giudizi di cognizione, senza dire che l’argomento risulta comunque eccentrico rispetto alla richiesta formulata dal rimettente. L’inconveniente lamentato – durata eccessiva della procedura come conseguenza della durata dei giudizi in cui essa sia coinvolta – potrebbe prodursi anche in caso di promovimento di un unico giudizio da parte degli organi della procedura, che non diventerebbe per ciò stesso una procedura complessa, e dunque meritevole di beneficiare di un termine di durata maggiore.
7.– Del resto il termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali, indicato nel comma 2-bis, risulta in linea con lo standard della Corte EDU e non produce alcun automatismo, posto che il diritto all’equo indennizzo non sorge per il solo effetto del superamento dei termini di durata.
Un esame anche sommario delle disposizioni della legge n. 89 del 2001 conferma tale assunto.
7.1.– Accanto alla previsione dei termini di durata – con i quali il legislatore ha implicitamente confermato lo schema presuntivo elaborato prima del 2012 dalla giurisprudenza di legittimità per stabilire gli standard di durata in conformità alla giurisprudenza convenzionale – è rimasta ferma la disposizione di cui all’art. 2, comma 2, che affida l’accertamento della violazione del termine al giudice dell’equa riparazione, previa valutazione di una serie di elementi in esito alla quale può ritenere insussistente il diritto all’equo indennizzo, malgrado l’oggettiva durata del giudizio presupposto.
I commi 2-quinquies e 2-sexies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 contengono poi una tipizzazione di circostanze idonee a rovesciare la presunzione che, una volta superato il termine di ragionevole durata, si configura il diritto all’equa riparazione. In particolare, è valorizzato il principio di autoresponsabilità, che può portare a escludere il diritto all’equo indennizzo quando la parte abbia dato causa al ritardo con comportamenti dilatori, così da recidere il nesso di causalità tra l’amministrazione del processo e il ritardo maturato (ex plurimis, Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 15 dicembre 2020, n. 28498).
Ulteriormente, l’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 affida al giudice dell’equa riparazione la quantificazione dell’indennizzo, che viene in tal modo calibrata sul caso concreto una volta che sia accertata la violazione della ragionevole durata.
7.2.– Con riferimento specifico alla durata delle procedure concorsuali, a fronte della domanda di indennizzo da parte del creditore concorsuale, il giudice dell’equa riparazione deve procedere al computo della durata della procedura presupposta a partire dall’accertamento del diritto di credito (ex plurimis, Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 5 gennaio 2024, n. 324) e fino a quando il creditore sia stato integralmente soddisfatto o, in caso di mancato pagamento per incapienza, fino al decreto di chiusura del fallimento (ex plurimis, Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenza 26 gennaio 2017, n. 2013 e, seconda sezione civile, ordinanza 29 marzo 2018, n. 7864).
La durata eccedente il termine di sei anni, per le procedure di media complessità, o di sette anni, per quelle di notevole complessità, determina il sorgere del diritto all’equo indennizzo in capo al creditore, sempre che la parte che lamenti l’irragionevole durata non abbia dato causa al ritardo.
Non è previsto, invece, che il giudice dell’equa riparazione possa sottrarre dal computo il tempo occorso per attività, quali gli interventi di bonifica e risanamento ambientale, che si siano rese necessarie nel corso della procedura, così come non è prevista la sottrazione del tempo occorso per definire i giudizi collegati alla procedura.
Quanto al primo profilo, si deve osservare che la mancanza di strumenti normativi di coordinamento tra le esigenze riconducibili, da un lato, alla tutela dell’ambiente e, dall’altro lato, alla definizione della procedura concorsuale in tempi ragionevoli, integra il deficit di regolazione che rientra tipicamente nel novero delle “disfunzioni” organizzative in grado di produrre l’irragionevole durata, e di cui lo Stato è chiamato a rispondere ex post attraverso il riconoscimento dell’equo indennizzo a chi, come i creditori concorsuali, abbia patito l’irragionevole durata della procedura. È questo, del resto, il sillogismo alla base dell’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Con riferimento al rapporto tra la procedura concorsuale e i giudizi a essa collegati, il legislatore è intervenuto sulla legge fallimentare, con norme applicabili anche alle procedure pendenti, disponendo che le controversie di cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, e consentendo, a certe condizioni, la chiusura della procedura in pendenza di giudizi (artt. 43 e 118 della legge fallimentare, come modificati dal d.l. n. 83 del 2015, come convertito). In disparte l’efficacia risolutiva degli interventi, è significativo che il legislatore non abbia modificato la legge n. 89 del 2001, rivolgendo l’attenzione alla disciplina concorsuale. Scelta confermata dalla disciplina del codice della crisi d’impresa, introdotta con il d.lgs. n. 14 del 2019, orientato alla rapida definizione delle fasi della procedura che precedono la liquidazione dell’attivo.
7.3.– Quanto al denunciato vulnus all’art. 24 Cost., muove anch’esso da un presupposto erroneo.
La responsabilità degli organi della procedura per il ritardo con cui siano stati soddisfatti i creditori concorsuali ovvero, in caso di incapienza, sia stata chiusa la procedura, esula dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del termine di ragionevole durata del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU. Essa trova appropriata ed effettiva risposta nel ricorso ad altre azioni e in altre sedi, come chiarito da questa Corte nella sentenza n. 249 del 2020, ove si accertino condotte gravemente negligenti, e dunque non consegue per il solo oggettivo ritardo.
8.– In conclusione, vanno quindi dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2021 in riferimento a tutti i parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 117 primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2025.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Roberto Nicola CASSINELLI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l’8 luglio 2025
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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