Sentenza 145/2022 (ECLI:IT:COST:2022:145)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMATO - Redattore: SCIARRA
Udienza Pubblica del 10/05/2022;    Decisione  del 10/05/2022
Deposito del 13/06/2022;   Pubblicazione in G. U. 15/06/2022  n. 24
Norme impugnate: Art. 1 bis del decreto-legge 13/08/2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14/09/2011, n. 148.
Massime:  44839  44840 
Massime:  44839  44840 
Atti decisi: ord. 43/2021

Massima n. 44839 Massima successiva
Titolo
Giudizio costituzionale in via incidentale - Rilevanza della questione - Necessità che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo. (Classif. 112005).

Testo
L'applicabilità della disposizione censurata al giudizio principale è sufficiente a radicare la rilevanza delle questioni prospettate. (Precedenti: S. 259/2021 - mass. 44433; S. 152/2021 - mass. 44060; S. 174/2019 42430; S. 213/2018 - mass. 40852).
Massima n. 44840 Massima precedente
Titolo
Legge - Leggi retroattive - Limiti - Necessaria ragionevolezza, nonché rispetto del legittimo affidamento, della certezza e stabilità dei rapporti giuridici e del rispetto dell'autonomia giudiziaria, tutelati anche sul piano convenzionale - Estensione anche oltre la materia penale - Possibile intervento retroattivo del legislatore dettato da motivi finanziari - Esclusione (nel caso di specie: illegittimità costituzionale, per le fattispecie antecedenti all'entrata in vigore della disposizione censurata e autoqualificata erroneamente di interpretazione autentica, della previsione che esclude, per il personale dell'Amministrazione degli affari esteri in servizio all'estero, la corresponsione dell'indennità di amministrazione). (Classif. 141006).

Testo

I limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, al di fuori della materia penale, vanno individuati nei principi della ragionevolezza, della tutela del legittimo affidamento, della coerenza e certezza dell'ordinamento e del rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riservate alla funzione giudiziaria. (Precedenti: S. 210/2021 - mass. 44268; S. 78/2012 - mass. 36198; S. 209/2010 - mass. 34739).


Lo scrutinio di ragionevolezza si fa ancor più rigoroso quando si incentra sul principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, non solo nella materia penale (art. 25 Cost.), ma anche in altri settori dell'ordinamento. Pertanto, quando l'autoqualificazione della disposizione censurata quale norma di interpretazione autentica si rivela erronea, ciò costituisce sintomo di un uso improprio della funzione legislativa, e quindi di un intrinseco difetto di ragionevolezza quanto alla retroattività del novum da essa introdotto. (Precedenti: S. 133/2020 - mass. 42559; S. 174/2019 - mass. 42433; S. 73/2017 - mass. 39503; S. 260/2015 - mass. 38662; S. 170/2013 - mass. 42263).


In uno scrutinio stretto di costituzionalità, che si impone a fronte di norme che dispongono per il passato, occorre riscontrare non la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l'effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell'intervento legislativo, per verificare se le giustificazioni poste alla base dell'intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario. (Precedenti: S. 104/2022 - mass. 44724, S. 61/2022- mass. 44609; S. 133/2020 - mass. 42559; S. 108/2019 - mass. 42262; S. 173/2016 - mass. 38978).


L'efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell'esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni. (Precedenti: S. 156/2014 - mass. 37986; S. 78/2012 - mass. 36198).


I soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso. In tal caso l'efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l'interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all'autorità giudiziaria. (Precedente: S. 170/2013 - mass. 42264).


Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l'esito, comportano un'ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall'art. 6 CEDU.


Nel sindacato di costituzionalità sulle leggi retroattive sussiste una solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU, per cui i parametri interni si prestano a essere letti in stretto coordinamento con quelli convenzionali, al fine di massimizzarne l'espansione in un rapporto di integrazione reciproca. In particolare l'art. 24, primo comma, Cost., nel garantire il diritto inviolabile di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, deve essere letto congiuntamente non solo con l'art. 102 Cost., che tutela le attribuzioni dell'autorità giudiziaria, ma anche con l'art. 111 Cost., posto a presidio del giusto processo. L'insieme dei parametri indicati converge nella tutela garantita dall'art. 6 CEDU. (Precedenti: S. 46/2021 - mass. 43714; S. 12/2018 - mass. 39752; S. 191/2014 - mass. 38062).


(Nel caso di specie, è dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 24, primo comma, 102, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, l'art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come conv., nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore - ossia ai fatti antecedenti al 17 settembre 2011-, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione. La disposizione censurata dalla Corte di cassazione, sez. lavoro, non è qualificabile come norma di interpretazione autentica perché, lungi dall'enucleare una possibile variante di senso della disposizione originaria, introduce una disciplina innovativa con effetti retroattivi; pertanto il divieto di cumulo che introduce produce una disciplina non coerente con il dato testuale e con la ratio della disposizione originaria. Essa ha lo scopo dichiarato di porre fine al contenzioso "seriale", che aveva visto l'Amministrazione soccombente, senza che ricorrano le condizioni che, in taluni casi, hanno indotto la Corte EDU a ritenere legittimi interventi legislativi retroattivi. Resta ferma l'applicabilità della disposizione a fatti successivi a tale data).

Atti oggetto del giudizio
decreto-legge  13/08/2011  n. 138  art. 1  bis
legge  14/09/2011  n. 148

Parametri costituzionali
Costituzione  art. 3
Costituzione  art. 24  co. 1
Costituzione  art. 102
Costituzione  art. 111
Costituzione  art. 117  co. 1

Altri parametri e norme interposte
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali  art. 6


Pronuncia

SENTENZA N. 145

ANNO 2022


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra M. L.R. e altri e il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, con ordinanza del 27 novembre 2020, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di costituzione di M. L.R. e G. M., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 maggio 2022 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi l’avvocato Domenico Naso per M. L.R. e G. M. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 10 maggio 2022.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 27 novembre 2020, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2021, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, 39, primo comma, 101, 102, 104, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

L’art. 1-bis, aggiunto in sede di conversione, prevede che l’art. 170 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri) si interpreta nel senso che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento a «stipendio» e «assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno», non include né l’indennità di amministrazione né l’indennità integrativa speciale, e che, nel medesimo periodo, al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal citato d.P.R. n. 18 del 1967.

2.– Dinanzi alla Corte rimettente pende il procedimento introdotto da M. L.R. e altri appartenenti al personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (di seguito: MAECI), per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma che, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda di riconoscimento dell’indennità di amministrazione nei periodi di servizio all’estero.

2.1.– La sentenza impugnata, riferisce il giudice a quo, ha definito la controversia facendo applicazione del sopravvenuto art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, quale norma di interpretazione autentica dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 che già escludeva, durante i periodi di lavoro all’estero, la corresponsione di indennità diverse da quelle previste nel medesimo d.P.R. n. 18 del 1967.

2.2.– La Corte di cassazione espone in sintesi i motivi del ricorso proposto dai dipendenti del MAECI.

Con il primo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, e dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, sul rilievo della natura innovativa della disposizione del 2011, con conseguente inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie oggetto di controversia.

Con i motivi dal secondo al quinto i ricorrenti hanno eccepito, in subordine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, che ritengono norma di interpretazione autentica, per contrasto con gli artt. 6 CEDU e 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, in relazione agli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., nonché agli artt. 3, 36, 101, 102 e 104 Cost.

Con i motivi sesto e settimo i ricorrenti hanno denunciato la violazione delle norme del CCNL del comparto Ministeri (artt. 29 e 34 del CCNL 1994/1997; 28 e 33 del CCNL 1998/2001; CCNL Integrativo 1998/2001 – biennio economico 2000/2001), evidenziando la «natura retributiva» dell’indennità di amministrazione e la conseguente sua cumulabilità con l’indennità di servizio all’estero, che ha natura compensativa degli oneri economici sostenuti per il suo svolgimento.

2.3.– La Corte rimettente, quanto alla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, ritiene che la controversia non possa essere decisa senza tenere conto dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 201, come convertito, che, nell’autoqualificarsi di interpretazione autentica dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, si salda al testo originario e ne indica un preciso significato (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 174 del 2019 e n. 174 del 2016).

Il giudice a quo evidenzia inoltre che, ove le questioni fossero accolte, la norma censurata – che predetermina l’esito della lite – non sarebbe più applicabile e il giudizio principale dovrebbe essere definito con l’applicazione di una diversa regola di giudizio, ricavabile da una ricostruzione sistematica della disciplina di riferimento.

2.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente premette che analoga eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, formulata in altro giudizio e con riguardo al divieto di cumulo dell’indennità di servizio all’estero con l’indennità integrativa speciale, è stata ritenuta manifestamente infondata (è citata Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 17 dicembre 2019, n. 33395). Veniva in rilievo in quel caso un emolumento – l’indennità integrativa speciale – istituito dalla legge 27 maggio 1959, n. 324 (Miglioramenti economici al personale statale in attività ed in quiescenza), che già esisteva all’epoca dell’entrata in vigore dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967.

Diversamente, con riguardo all’indennità di amministrazione, l’esame congiunto della normativa contenuta nel d.P.R. n. 18 del 1967 e di quella di fonte collettiva, succedutasi a partire dal primo CCNL del comparto Ministeri 1994/1997, fino al «blocco» della contrattazione collettiva disposto dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materie di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazione, nella legge 30 luglio 2010, n. 122 e dal decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, condurrebbe ad esito opposto.

2.5.– La ricorrente richiama inoltre l’art. 45, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), secondo cui le funzioni e i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del MAECI sono disciplinati, per il periodo di servizio prestato all’estero, dalle disposizioni del d.P.R. n. 18 del 1967 e successive integrazioni e modificazioni, nonché dalle altre pertinenti norme di settore del medesimo Ministero.

Il d.P.R. n. 18 del 1967, istitutivo dell’indennità di servizio all’estero, all’art. 170, rubricato «Assegni e indennità», prevedeva, al primo comma, che il personale dell’Amministrazione degli affari esteri, durante i periodi di lavoro all’estero, percepisse «oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno, compresa l’eventuale indennità o retribuzione di posizione nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili, tranne che per tali assegni sia diversamente disposto», l’indennità di servizio all’estero, stabilita in relazione al posto di organico occupato, nonché le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni del medesimo d.P.R. n. 18 del 1967.

Al secondo comma, lo stesso art. 170 stabiliva che «[n]essun’altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all’estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto».

2.6.– La Corte rimettente precisa che l’interpretazione dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 aveva dato luogo a un contenzioso «seriale», di cui è parte anche il giudizio principale.

Con riferimento al tema, qui rilevante, della cumulabilità dell’indennità di amministrazione con l’indennità di servizio all’estero, era dubbia la riconducibilità della prima al novero degli «assegni di carattere fisso e continuativo» – che il primo comma del citato art. 170 espressamente considera cumulabili con l’indennità di servizio all’estero – oppure alle «altre indennità», la cui corresponsione nei periodi di lavoro all’estero è vietata dal secondo comma dello stesso art. 170.

Fino all’entrata in vigore della norma censurata la giurisprudenza di merito si era orientata prevalentemente a favore della tesi della cumulabilità, in coerenza con la natura retributiva e non compensativa dell’indennità di amministrazione, che la rendeva assimilabile agli «assegni a carattere fisso e continuativo».

2.7.– La Corte rimettente evidenzia che l’indennità di amministrazione non esisteva al tempo dell’emanazione del d.P.R. n. 18 del 1967, essendo stata istituita con il primo CCNL del comparto Ministeri firmato il 16 maggio 1995, in attuazione della delega contenuta nell’art. 72, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

Dopo aver previsto l’abrogazione, contestualmente alla sottoscrizione dei primi contratti collettivi, delle disposizioni che fissavano trattamenti economici accessori comunque denominati, l’art. 72, comma 3 aveva disposto che i contratti collettivi facessero «comunque salvi i trattamenti economici fondamentali ed accessori in godimento aventi natura retributiva ordinaria o corrisposti con carattere di generalità per ciascuna amministrazione o ente».

La Corte rimettente ricostruisce i passaggi fondamentali della contrattazione collettiva sul tema, a partire dal CCNL del 16 maggio 1995, che ha configurato la struttura della retribuzione (art. 29) e la retribuzione accessoria, introducendo l’indennità di amministrazione (art. 34), con rinvio alle tabelle allegate per l’individuazione delle quote di retribuzione accessoria in atto presso le singole amministrazioni, negli importi corrisposti nell’anno 1993.

Il CCNL del 16 febbraio 1999 ha poi definito la struttura della retribuzione (art. 28) senza distinguere il trattamento fondamentale da quello accessorio, e previsto un aumento dell’indennità di amministrazione (art. 33), allo scopo di favorire il processo di perequazione delle retribuzioni complessivamente spettanti al personale del comparto.

Il CCNL integrativo firmato il 16 maggio 2001 ha modificato l’art. 33 del CCNL 16 febbraio 1999, con l’aggiunta del comma 3, nel quale si è previsto che l’indennità di amministrazione «è corrisposta per dodici mensilità, ha carattere di generalità ed ha natura fissa e ricorrente».

Il CCNL per il triennio 2002/2005 ha incrementato l’indennità di amministrazione (art. 22), ancora a scopo perequativo, precisando che gli incrementi valgono per dodici mensilità.

Il CCNL firmato il 14 settembre 2007 è nuovamente intervenuto sull’indennità in parola (art. 31), al fine di eliminare le differenze all’interno di ciascuna amministrazione.

2.8.– La ricognizione delle disposizioni di fonte collettiva, che si arresta al «blocco» della contrattazione disposto nel 2010, renderebbe evidente, secondo la Corte rimettente, che l’indennità di amministrazione ha costituito sin dall’origine una voce della retribuzione accessoria, riconosciuta da tutte le amministrazioni dell’ex comparto Ministeri, seppure con importi diversificati, non essendo stato concluso il processo di perequazione. Essa è fissa nell’ammontare in relazione a ciascuna posizione di inquadramento, è corrisposta continuativamente per dodici mensilità e ha carattere di generalità.

In questo senso, del resto, si è orientata la giurisprudenza di legittimità formatasi a partire dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 13 luglio 2005, n. 14698 (in senso conforme, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 24 luglio 2017, n. 18196).

Analogamente consolidato è l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura compensativa dell’indennità di servizio all’estero (ex plurimis, è citata Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 luglio 2016, n. 14112).

Come reso evidente dal disposto dell’art. 171 del d.P.R. n. 18 del 1967, si tratta di indennità finalizzata a compensare i maggiori oneri che gravano sul personale non diplomatico in ragione della permanenza all’estero, il cui ammontare varia a seconda del costo della vita nel luogo di permanenza, delle eventuali esigenze di rappresentanza connesse alle funzioni esercitate, del costo degli alloggi, del personale domestico e dei servizi, e del cambio della moneta.

3.– Secondo la Corte rimettente, la ricostruzione fin qui svolta deporrebbe per la fondatezza dei motivi sesto e settimo del ricorso per cassazione, che denunciano la violazione delle disposizioni dei contratti collettivi. Tuttavia, tali motivi non sarebbero dotati di autonoma decisività a fronte dell’introduzione della norma censurata, che ha vietato, con effetto retroattivo, la corresponsione dell’indennità di amministrazione durante i periodi di servizio all’estero.

Ed è proprio sul carattere retroattivo del divieto che si incentrano le censure della Corte rimettente, che sollecita la verifica della ragionevolezza dell’intervento legislativo e della sussistenza di «motivi di interesse generale» che possano giustificare il sacrificio di altri valori costituzionalmente tutelati (è richiamata, ex plurimis, la sentenza di questa Corte n. 170 del 2013).

3.1.– La prima censura è prospettata con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.

Osserva il giudice a quo che la norma censurata pretende di interpretare autenticamente l’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, riferendosi ad un emolumento – l’indennità di amministrazione – che non esisteva al momento dell’entrata in vigore della norma interpretata.

Tale dato deporrebbe nel senso della diversità tra la disposizione originaria e quella oggetto di censura, che risulterebbe in realtà innovativa. L’erroneità dell’autoqualificazione costituirebbe un indice, seppure non dirimente, di irragionevolezza (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 73 del 2017, n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011).

3.2.– È anche prospettata la violazione degli artt. 101, 102 e 104 Cost., per mancato rispetto delle funzioni costituzionalmente assegnate al potere giudiziario.

L’intervento legislativo, nel fornire l’esatta interpretazione dell’art. 170 d.P.R. n. 18 del 1967, avrebbe inteso porre termine a un contenzioso «seriale» instaurato nei confronti del MAECI, da cui sarebbero derivati ingenti oneri a carico della finanza pubblica.

3.3.– A parere della Corte rimettente, l’intervento legislativo, finalizzato ad incidere su controversie in atto, specificamente individuate al punto da stimarne il peso economico, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 24, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’effettività della tutela dei diritti dei soggetti beneficiari.

3.4.– Sarebbero violati, ancora, il principio della parità delle parti in giudizio e il diritto a un equo processo, di cui, rispettivamente, agli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

La Corte di cassazione richiama sia la giurisprudenza costante della Corte EDU, secondo cui è precluso al legislatore di interferire sulle controversie in atto, salvo che ricorrano impellenti motivi di interesse generale, sia la giurisprudenza costituzionale che, in armonia con la giurisprudenza convenzionale, attribuisce rilievo, tra gli elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, al metodo e alla tempistica dell’intervento del legislatore (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018).

3.4.1.– La Corte rimettente sottolinea che i «motivi finanziari», esplicitati nella relazione tecnica dei lavori preparatori della norma censurata, non sarebbero sufficienti a giustificare l’intervento del legislatore sul contenzioso in atto, né vi sarebbe stata l’esigenza di porre rimedio a imperfezioni del testo normativo originario.

Escluso, infine, che la disciplina originaria presentasse profili di illegittimità costituzionale (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 149 del 2017) o desse luogo a sperequazioni tali da rendere necessario l’intervento riparatore del legislatore (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 108 del 2019), il giudice a quo ritiene che non sussisterebbero ragioni idonee a giustificare l’efficacia retroattiva del divieto di corrispondere l’indennità di amministrazione durante i periodi di servizio all’estero.

3.5. – È prospettata anche la violazione dell’art. 39, primo comma, Cost.

La norma censurata avrebbe inciso retroattivamente sull’assetto del trattamento economico complessivo del personale del MAECI in servizio all’estero, intervenendo sulla disciplina fissata dalla contrattazione collettiva e non sull’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967.

Ne seguirebbe la lesione della libertà sindacale e dell’autonomia delle parti in sede di contrattazione collettiva (è citata la sentenza di questa Corte n. 178 del 2015).

4.– Con memoria depositata il 30 aprile 2021, M. L.R. ed G. M., parti ricorrenti nel giudizio principale, si sono costituiti nel giudizio incidentale e hanno chiesto l’accoglimento delle questioni.

Dopo avere ripercorso in sintesi la vicenda processuale, la difesa delle parti illustra le censure in termini largamente sovrapponibili a quanto esposto nell’ordinanza di rimessione.

4.1.– La norma censurata, di contenuto innovativo, violerebbe l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto pretenderebbe di interpretare autenticamente la norma del 1967 pur riferendosi a una indennità, quella di amministrazione, che non esisteva alla data di entrata in vigore della norma asseritamente interpretata.

Sono richiamati i principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di norme dotate di efficacia retroattiva, per il cui scrutinio risulta indifferente l’autoqualificazione (sono citate le sentenze n. 308 del 2013, n. 41 del 2011, n. 233 del 1988, n. 167 del 1986 e n. 36 del 1985), essendo decisivo, piuttosto, verificare se siano rispettati i limiti che il legislatore incontra nel modificare situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori (sono citate le sentenze n. 376 e n. 168 del 2004).

4.2.– Nella fattispecie oggetto del giudizio principale, risulterebbe evidente l’interferenza della norma censurata sul contenzioso in atto, relativo alla riconducibilità dell’indennità di amministrazione alla voce «assegni a carattere fisso e continuativo», prevista dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, o alle «altre indennità», ivi pure indicate.

4.3.– La difesa delle parti evidenzia anche il contrasto tra la norma censurata e le disposizioni sia di legge (art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001) sia dei contratti collettivi che riservano alle parti sociali la competenza a definire il trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici, in tutte le sue componenti (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 507 del 2000), assumendo anche la lesione del principio sancito dall’art. 36 Cost., parametro quest’ultimo non evocato dalla Corte rimettente.

4.4.– La stessa difesa argomenta la violazione degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, con il richiamo alla giurisprudenza costituzionale e a quella della Corte EDU.

Quest’ultima avrebbe enucleato il principio che vieta l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito di una controversia, salvo che sussistano imperative ragioni di interesse generale. Avrebbe anche affermato che il principio della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte.

4.5.– La difesa delle parti sottolinea inoltre che l’intervento legislativo è avvenuto molti anni dopo l’entrata in vigore della norma originaria e dopo che la sentenza di primo grado aveva accolto la domanda dei ricorrenti. I motivi finanziari, alla base dell’intervento legislativo, non sarebbero sufficienti a giustificarne l’incidenza sui giudizi in corso.

Del resto, il contenzioso in oggetto non trova origine nell’ambiguità dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, ma nella qualificazione della indennità di amministrazione, disciplinata dalla contrattazione collettiva a partire dal 1994, come assegno a carattere fisso e continuativo.

4.6.– La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 39, primo comma, Cost., in quanto avrebbe configurato ex post l’assetto del trattamento economico complessivo dei dipendenti MAECI in servizio all’estero, intervenendo sulla disciplina dell’indennità di amministrazione fissata dai contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato.

5.– Nel giudizio incidentale è intervenuto, con memoria depositata il 4 maggio 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.

5.1.– Ricostruito il quadro normativo e il contenuto delle censure, la difesa statale afferma che l’indennità di amministrazione, come ritenuto anche dalla Corte rimettente, è un trattamento accessorio che ha trovato regolazione nei CCNL. Tuttavia proprio la contrattazione collettiva ne avrebbe escluso espressamente la corresponsione al personale in servizio all’estero.

L’art. 34, comma 2, lettera a), del CCNL 1994/1997, con previsione replicata nei successivi CCNL dello stesso comparto, definiva l’indennità di amministrazione come elemento della retribuzione accessoria mensile e rinviava alla Tabella 2, Allegato B (recte: Tabella 1, Allegato B) per la definizione delle voci e quote di retribuzione accessoria riferite a ciascuna amministrazione.

La Tabella citata, dopo l’indicazione degli importi dell’«indennità mensile» riferiti al personale del MAECI in base alle qualifiche, disponeva che tali importi, dovuti con decorrenza dal 1° dicembre 1995, «si riferiscono esclusivamente al personale in servizio sul territorio nazionale».

5.2.– Secondo la difesa statale, la Corte rimettente non avrebbe esaminato compiutamente le fonti collettive, non avendo considerato la specifica indicazione contenuta nella richiamata Tabella, dalla quale discenderebbe de plano che l’indennità di amministrazione, quale ne sia la natura, non potrebbe in ogni caso essere corrisposta al personale in servizio all’estero, in conformità alla previsione contenuta nell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, che espressamente vietava il cumulo dell’indennità di servizio all’estero con qualsiasi altra indennità.

Pertanto, la motivazione in punto di rilevanza delle questioni sarebbe insufficiente, poiché gli argomenti esposti dal giudice rimettente a sostegno della natura retributiva dell’indennità di amministrazione sarebbero assorbiti dalla circostanza che la pretesa fatta valere dai ricorrenti nel giudizio a quo riguarda i periodi di servizio all’estero.

5.3.– Quanto al merito delle questioni, dopo avere premesso che la norma censurata è oggetto anche di un giudizio pendente dinanzi alla Corte EDU, introdotto da alcuni dipendenti del MAECI, per violazione dei principi di cui all’art. 6 CEDU e del giusto processo, la difesa statale espone le ragioni a sostegno della non fondatezza.

5.3.1.– È richiamata la sentenza di questa Corte n. 133 del 2020, in cui si ribadisce che una norma può essere qualificata di interpretazione autentica solo se esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata, secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge, e che il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni, anche in mancanza di contrasti giurisprudenziali, purché la scelta imposta dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario.

5.4.– Le questioni risulterebbero prive di fondamento anche nella prospettiva, logicamente subordinata, che la norma censurata non sia qualificabile come interpretativa dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, e che abbia offerto una lettura innovativa della disciplina ivi contenuta.

Come ribadito dalla già citata sentenza n. 133 del 2020, la circostanza che la norma, a dispetto dell’autoqualificazione, non abbia in realtà natura interpretativa, può essere sintomo dell’uso improprio della funzione legislativa ma non comporta che essa sia illegittima, incidendo soltanto sulla maggiore ampiezza del sindacato che questa Corte è chiamata a effettuare, in ragione proprio della sua retroattività.

La difesa statale richiama, inoltre, l’art. 34 del CCNL 1994/1997 che, a suo dire, avrebbe escluso espressamente la spettanza dell’indennità di amministrazione ai dipendenti del MAECI in servizio all’estero. Il chiaro dettato della fonte negoziale collettiva avrebbe impedito, a sua volta, il sorgere del legittimo affidamento.

Convergerebbe con la tesi della non spettanza dell’emolumento durante i periodi di servizio all’estero la giurisprudenza contabile che, a fini pensionistici, ha costantemente ritenuto l’indennità di amministrazione non assimilabile allo stipendio o, comunque, alla retribuzione (è citata, ex plurimis, Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, sentenza 20 gennaio 2006, n. 54), nonostante il carattere di fissità e di continuità dell’emolumento.

5.5.– La difesa statale segnala poi che, negli anni precedenti all’entrata in vigore della norma censurata, pur essendo prevalsa in giurisprudenza la tesi sostenuta dai dipendenti MAECI, erano comunque emersi dubbi interpretativi.

L’esistenza di contrasti giurisprudenziali avrebbe reso necessario l’intervento chiarificatore del legislatore, funzionale a evitare il protrarsi dei contrasti e, al tempo stesso, a conformare la normativa in materia ai principi di legittimità ed economicità della spesa pubblica, tenuto conto del rilevante onere finanziario che derivava dal cumulo delle indennità in oggetto.

5.6.– Quanto al denunciato contrasto con il parametro convenzionale, la difesa statale richiama la sentenza della Corte EDU Ogis-Institut Stanilas e altri contro Francia, del 27 maggio 2004, nella quale il contrasto di una norma dotata di efficacia retroattiva con l’art. 6 CEDU è stato escluso poiché l’intervento legislativo era finalizzato a ristabilire la parità e l’eguaglianza tra dipendenti pubblici, finalità che sarebbe presente anche nella vicenda in esame.

Risulterebbe irragionevole, infatti, consentire che il personale in servizio all’estero percepisca, oltre alla specifica indennità di servizio all’estero e all’assegno di sede, anche l’indennità di amministrazione, così da cumulare benefici preclusi al personale che svolge il medesimo servizio nel territorio nazionale.

6.– In data 19 aprile 2022 le parti hanno depositato memoria illustrativa in cui ribadiscono le argomentazioni a sostegno della illegittimità costituzionale della norma censurata, già svolte nell’atto di costituzione in giudizio.


Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 43 del 2021), la Corte di cassazione, sezione lavoro, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo comma, 39, primo comma, 101, 102, 104, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La disposizione censurata, aggiunta in sede di conversione, prevede che l’art. 170 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), «si interpreta nel senso che: a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento a “stipendio” e “assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno”, non include né l’indennità di amministrazione né l’indennità integrativa speciale; b) durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18».

1.1.– Dinanzi alla Corte rimettente pende il giudizio introdotto da alcuni dipendenti del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (di seguito: MAECI) per la cassazione della sentenza di merito che, facendo applicazione della norma censurata, ha rigettato la domanda di corresponsione dell’indennità di amministrazione durante i periodi di servizio prestato all’estero.

1.2.– Il giudice a quo assume il contrasto della norma censurata – che si autoqualifica di interpretazione autentica – con i parametri evocati in ragione dell’efficacia retroattiva di cui essa è dotata, in assenza di motivi di interesse generale che possano giustificarne l’applicazione per il passato, e quindi sollecita uno scrutinio volto a verificare il rispetto dei limiti generali entro i quali è consentita al legislatore l’adozione di norme retroattive, che per loro natura entrano in frizione con molteplici valori costituzionalmente tutelati (è richiamata, ex plurimis, la sentenza di questa Corte n. 170 del 2013).

1.3.– La Corte rimettente osserva, quanto al profilo della ragionevolezza, che il dichiarato intento di porre fine al contenzioso «seriale» in atto non costituirebbe ragione sufficiente per intervenire con efficacia retroattiva sulla materia de qua, offrendone una lettura non coerente con l’evoluzione normativa dell’indennità di amministrazione, nonché lesiva dell’affidamento nella certezza e coerenza dell’ordinamento.

La stessa autoqualificazione dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, quale norma di interpretazione autentica sarebbe erronea, tenuto conto del divario temporale rispetto alla risalente disposizione originaria e della circostanza che nel 1967 l’indennità di amministrazione non esisteva, essendo stata configurata come voce retributiva accessoria soltanto con il primo CCNL 1994/1998, firmato il 16 maggio 1995.

L’erroneità dell’autoqualificazione, a sua volta, costituirebbe un indice seppure non dirimente di irragionevolezza della norma (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 73 del 2017, n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011), mentre l’interferenza nelle controversie in atto, specificamente individuate nei lavori preparatori e corredate dalla stima del relativo onere finanziario per l’Amministrazione soccombente, sarebbe lesiva dei parametri che tutelano le attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, oltre che dell’art. 24, primo comma, Cost., sotto il profilo della compromissione dell’effettività della tutela giurisdizionale.

1.4.– Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 111 e 117, primo comma Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU. La norma censurata, nel predeterminare l’esito dei giudizi in favore dell’amministrazione statale, si porrebbe in contrasto con il principio della parità delle parti, con il diritto a un equo processo e con la tutela dell’affidamento.

Il giudice a quo richiama in proposito l’affermazione, costante nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui è precluso al legislatore interferire sulle controversie in atto, salvo che ricorrano impellenti motivi di interesse generale (sono citate, ex plurimis, sentenza 14 febbraio 2014, Arras ed altri contro Italia; sentenza 31 maggio 2011, Maggio ed altri contro Italia; sentenza 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia).

1.5.– Sarebbe violato, infine, l’art. 39, primo comma, Cost. in quanto l’intervento legislativo retroattivo operato sull’assetto del trattamento economico complessivo dei dipendenti del MAECI avrebbe leso l’autonomia delle parti sociali nella sede negoziale collettiva.

La Corte di cassazione si sofferma, a tale riguardo, sull’esito della negoziazione, a partire dal suo esordio, ovvero dal primo contratto collettivo del comparto ministeri (1994-1997), in attuazione dell’art. 72, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina del pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 42). Il riferimento ai cicli di contrattazione successivi al primo, fino al «blocco» della stessa, disposto con i decreti-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materie di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122 e 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, confermerebbe che l’indennità di amministrazione figurava tra le voci della retribuzione oggetto di negoziazione e che era elargita, con importi diversi, in tutte le amministrazioni del comparto ministeri.

2.– Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituiti, con unica difesa, due degli originari ricorrenti, chiedendo l’accoglimento delle questioni sulla base di argomenti, anche ribaditi nella memoria illustrativa, sostanzialmente coincidenti con quelli svolti dal giudice a quo.

3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.

3.1.– Secondo la difesa dello Stato, la corresponsione dell’indennità di amministrazione al personale MAECI in servizio all’estero sarebbe stata esclusa dalla contrattazione collettiva, in sede di configurazione dell’emolumento.

In ogni caso, a fronte del contrasto giurisprudenziale riguardante la cumulabilità dell’indennità di amministrazione con l’indennità di servizio all’estero, l’intervento del legislatore del 2011 avrebbe legittimamente chiarito la portata dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, per evitare ingiustificate disparità di trattamento in favore del personale in servizio all’estero.

4.– Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità delle questioni, formulata dalla difesa statale, per mancata ricostruzione del quadro normativo di riferimento, che si rifletterebbe sulla stessa adeguatezza della motivazione in punto di rilevanza.

4.1.– L’eccezione muove dall’esame dei contratti collettivi del comparto Ministeri da cui, secondo la difesa statale, si ricaverebbe che l’indennità di amministrazione, indipendentemente dalla sua natura, non avrebbe potuto, in ogni caso, essere corrisposta al personale in servizio all’estero.

L’art. 34 del CCNL del comparto Ministeri 1994/1998, nel configurare l’indennità di amministrazione come elemento della retribuzione accessoria mensile, rinviava alla Tabella 2, Allegato B (recte: Tabella 1, Allegato B) per la definizione delle voci e quote di retribuzione accessoria riferite a ciascuna amministrazione. Con riferimento al personale del Ministero degli affari esteri, la citata Tabella precisava che gli importi ivi indicati si riferivano «esclusivamente al personale in servizio sul territorio nazionale».

La difesa statale eccepisce che l’ordinanza di rimessione, senza farsi carico di esaminare compiutamente la normativa richiamata, non ha tenuto conto della circostanza che la domanda dei ricorrenti nel giudizio a quo riguardava i periodi di servizio all’estero, periodi in cui comunque l’indennità di amministrazione non avrebbe dovuto essere erogata, in base ai contratti collettivi.

5.– L’eccezione non è fondata.

Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’applicabilità della disposizione censurata al giudizio principale è sufficiente a radicare la rilevanza delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenze n. 259 e n. 152 del 2021, n. 174 del 2019 e n. 213 del 2018).

Nella specie, dopo avere diffusamente ricostruito la disciplina dell’indennità di amministrazione, la Corte di cassazione ha motivato non implausibilmente circa le ragioni per cui ritiene di dover fare applicazione dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, che espressamente vieta – con effetto ex tunc – la corresponsione della predetta indennità nei periodi di servizio all’estero, innovando rispetto ai contratti collettivi.

Quanto al dedotto travisamento del quadro normativo, l’eccezione si risolve nell’addebito di un’erronea valutazione delle fonti legislative e contrattuali rilevanti ai fini della disciplina dell’indennità di amministrazione, che attiene al merito.

6.– Le questioni che prospettano la violazione degli artt. 3, 24, primo comma, 102, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, sono fondate.

6.1.– L’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, impone anche per il passato il divieto di corrispondere l’indennità di amministrazione al personale non diplomatico del MAECI nei periodi di servizio all’estero, ed è sotto questo profilo che la norma è oggetto di censura.

Il tema del decidere devoluto a questa Corte è dunque da intendersi delimitato alla disposizione censurata in quanto applicabile ai fatti antecedenti al 17 settembre 2011, data dell’entrata in vigore della disposizione medesima.

La genesi della pretesa dei ricorrenti risiede, infatti, nella prestazione di lavoro da essi svolta all’estero, cui avrebbe dovuto corrispondere, fra le altre voci della retribuzione, anche l’indennità di amministrazione.

Rilevano, pertanto, ai fini del presente scrutinio, i limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi che, al di fuori della materia penale, questa Corte ha individuato nei principi della ragionevolezza, della tutela del legittimo affidamento, della coerenza e certezza dell’ordinamento e del rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riservate alla funzione giudiziaria (ex plurimis, sentenze n. 210 del 2021, n. 174 del 2019, n. 170 del 2013, n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).

7.– Prima di esaminare le censure, giova ricostruire in sintesi il quadro normativo di riferimento in cui si è inserita la norma oggetto di scrutinio, e dare conto del contenzioso che si era formato riguardo alla cumulabilità dell’indennità di amministrazione con il trattamento complessivo, specificamente previsto per il servizio all’estero, dal d.P.R. n. 170 del 1967.

7.1.– A seguito della cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego (operata dal d.lgs. n. 29 del 1993), si è assistito a una progressiva valorizzazione dei contratti collettivi, a fronte di disposizioni di legge preesistenti, salvo che non vi fossero espresse disposizioni in senso contrario (sentenza n. 507 del 2000). Questo peculiare sistema di delegificazione, che ha subìto nel tempo alcune modifiche rispetto all’impianto originario, ha sempre riservato alla contrattazione collettiva un ruolo centrale nella definizione dei trattamenti retributivi.

Istituita con il primo CCNL del comparto Ministeri 1994/1997, firmato il 16 maggio 1995, in attuazione dell’art. 72 del citato d.lgs. n. 29 del 1993, l’indennità di amministrazione è sorta come trattamento accessorio della retribuzione, collegata alla presenza in servizio e commisurata ai compensi mensili percepiti.

Il CCNL 1998/2001, firmato il 16 febbraio 1999, come integrato dal CCNL del 16 maggio 2001, ha definitivamente configurato l’indennità di amministrazione quale voce retributiva, corrisposta a tutti i dipendenti ministeriali in misura fissa e per dodici mensilità, utile ai fini del calcolo dell’indennità di buonuscita, del TFR e dell’indennità di preavviso (art. 33).

Il CCNL 1998/2001 ha inoltre disposto, all’art. 39, comma 1, lettera e), la disapplicazione delle disposizioni contenute negli articoli dal 29 al 37 del CCNL 1994/1997, facendo così venir meno la vigenza dell’art. 34 di quest’ultimo CCNL, e con esso del richiamato Allegato B, dove si precisava che gli importi mensili corrisposti ai dipendenti del MAECI si riferivano esclusivamente al personale che prestava servizio sul territorio nazionale.

Negli anni successivi, fino al «blocco» menzionato dalla Corte rimettente, disposto dal d.l. n. 78 del 2010 e dal d.l. n. 98 del 2011, la contrattazione collettiva del comparto di riferimento è intervenuta sull’indennità di amministrazione per aumentarne gli importi, anche a fini perequativi.

7.2.– Nel contesto normativo richiamato, in cui l’indennità di amministrazione costituiva una componente continuativa del trattamento economico erogato a tutti i dipendenti ministeriali (tra le tante, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 13 luglio 2005, n. 14698), era sorto il contenzioso fra l’Amministrazione degli affari esteri e il personale che aveva prestato servizio all’estero, per il riconoscimento dell’indennità di amministrazione anche durante tale servizio.

La disposizione che disciplinava il trattamento del personale del MAECI all’estero (art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967) prevedeva, al primo comma, che fossero dovuti, «oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno», l’indennità di servizio all’estero e le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni dello stesso d.P.R. Il medesimo art. 170, al secondo comma, stabiliva che «[n]essun’altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all’estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto».

7.3.– La giurisprudenza di merito largamente maggioritaria si era orientata per l’assimilabilità dell’indennità di amministrazione «agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno» (ex plurimis, Tribunale di Roma, sezione lavoro, sentenza 7 luglio 2011, n. 12736), come emerge anche dai lavori preparatori dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011.

Nella relazione tecnica all’emendamento 1.0.35 presentato al Senato della Repubblica in sede di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. n. 138 del 2011, si dava atto che il contenzioso riferito all’indennità di amministrazione constava di trentadue ricorsi, per un numero complessivo di 1131 dipendenti, dei quali 454 avevano ottenuto sentenza favorevole; che le sentenze di primo grado già emesse erano otto, ed altrettante erano le sentenze che avevano deciso in senso sfavorevole per l’Amministrazione. Si stimava inoltre il presumibile impatto economico di tale contenzioso nei successivi cinque anni.

La ratio della norma oggetto di emendamento era espressamente individuata nell’esigenza di chiarire la portata dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, per «porre termine al contenzioso «seriale», riferito sia all’indennità di amministrazione, sia all’indennità integrativa speciale, […] dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica».

8.– Lo scrutinio della disposizione censurata non può che muovere dalla verifica della sua ragionevolezza. Tale scrutinio si fa ancor più rigoroso, quando si incentra sul principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, non solo nella materia penale (art. 25 Cost.), ma anche in altri settori dell’ordinamento (sentenze n. 174 del 2019, n. 73 del 2017, n. 260 del 2015 e n. 170 del 2013).

A tal fine, va subito chiarito che il censurato art. 1-bis, nella parte in cui fa riferimento all’indennità di amministrazione, non è qualificabile come norma di interpretazione autentica dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967. Essa, lungi dall’enucleare una possibile variante di senso della disposizione originaria, introduce una disciplina innovativa con effetti retroattivi.

8.1.– Decisivo risulta l’esame dei primi due commi dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, da cui si ricava che l’intento del legislatore era stato di evitare, durante i periodi di servizio all’estero, il cumulo di trattamenti di carattere indennitario.

L’art. 170 distingue, infatti, gli emolumenti dovuti durante il servizio all’estero –stipendio e «assegni a carattere fisso e continuativo previsti per l’interno» – dalle «altr[e] indennità», non cumulabili con quelle previste dal medesimo d.P.R. n. 18 del 1967.

L’indennità di amministrazione – istituita molti anni dopo – in ragione della sua natura retributiva, con caratteristiche di fissità e continuatività, nonché di generalità nell’applicazione a tutti i dipendenti ministeriali, si sottraeva al divieto di cumulo in quanto riconducibile agli emolumenti «di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno».

La disposizione censurata, nella parte in cui dispone il divieto di cumulo dell’indennità di amministrazione con l’indennità di servizio all’estero, ha dettato una disciplina non coerente con il dato testuale e con la ratio della disposizione originaria contenuta nell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967. Si deve pertanto attribuire all’art. 1-bis una portata innovativa.

8.2.– Depone in questo senso anche la distanza temporale tra le due disposizioni, non ridotta dalle modifiche, apportate medio tempore al d.P.R. n. 18 del 1967, che non riguardano i primi due commi dell’art. 170. Né si può trascurare la circostanza che il divieto di corrispondere al personale in servizio all’estero «altre indennità» oltre quelle previste dallo stesso d.P.R. n. 18 del 1967 non poteva riguardare l’indennità di amministrazione, a quel tempo non esistente.

9.– Risulta inoltre condivisibile il rilievo della Corte rimettente, secondo cui il contenzioso formatosi sulla cumulabilità dell’indennità di amministrazione con quella di servizio all’estero non è sorto a causa dell’ambiguità della disposizione contenuta nell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, ma ha riguardato la qualificazione dell’indennità di amministrazione. Una tale operazione ermeneutica richiedeva, come chiarito da tempo dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento ad altri casi di divieto di cumulo (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 11 aprile 2007, n. 1598), l’individuazione della specifica natura dell’emolumento, indipendentemente dal nomen iuris dello stesso.

9.1.– In applicazione del criterio che vieta il cumulo, la giurisprudenza di legittimità ha risolto un altro contenzioso, sorto in riferimento all’indennità integrativa speciale, anch’essa oggetto del divieto sancito dal legislatore del 2011 con la norma censurata. Anche se tale indennità esula dai confini del presente giudizio, un riferimento alla stessa serve a chiarirne la diversa funzione, di natura solo compensativa.

Muovendo dal rilievo che l’indennità integrativa speciale e l’indennità di servizio all’estero hanno entrambe natura compensativa, diversamente dall’indennità di amministrazione, la Corte di cassazione ha ritenuto che l’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, nella parte in cui ne vieta il cumulo, è norma di genuina interpretazione autentica dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967. La corresponsione dell’indennità integrativa speciale durante i periodi di servizio all’estero avrebbe dato luogo ad una duplicazione di emolumenti aventi natura per l’appunto compensativa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 5 maggio 2021, n. 11759).

10.– Con riguardo all’indennità di amministrazione, l’autoqualificazione della disposizione censurata quale norma di interpretazione autentica si rivela erronea e ciò costituisce un sintomo inequivocabile di un uso improprio della funzione legislativa, da cui deriva un intrinseco difetto di ragionevolezza quanto alla retroattività del novum da essa introdotto (ex plurimis, sentenze n. 133 del 2020, n. 108 del 2019 e n. 73 del 2017).

In uno scrutinio stretto di costituzionalità, che si impone in questo caso, poiché serve riscontrare non «la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo» (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019 e n. 173 del 2016), occorre verificare se le giustificazioni, poste alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del 2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017).

10.1.– Secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 46 del 2021, n. 156 del 2014 e n. 78 del 2012), l’efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.

I soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, e n. 170 del 2013). L’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria (ex plurimis, sentenze n. 12 del 2018 e n. 209 del 2010).

11.– Quanto al sindacato di costituzionalità sulle leggi retroattive, questa Corte ha costruito nel tempo una solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU (ex plurimis, sentenze n. 12 del 2018 e n. 191 del 2014). Anche nel caso in esame, i parametri interni evocati si prestano a essere letti in stretto coordinamento con quelli convenzionali, al fine di massimizzarne l’espansione in un «rapporto di integrazione reciproca» (da ultimo, sentenza n. 46 del 2021).

In particolare l’art. 24, primo comma, Cost., nel garantire il diritto inviolabile di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, deve essere letto congiuntamente non solo con l’art. 102 Cost., che tutela le attribuzioni dell’autorità giudiziaria, ma anche con l’art. 111 Cost., posto a presidio del giusto processo.

L’insieme dei parametri indicati converge nella tutela garantita dall’art. 6 CEDU.

A tale proposito, la giurisprudenza della Corte EDU è costante nell’affermare che, seppure in linea di principio non è precluso al legislatore disciplinare, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, tuttavia, «il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia» (ex plurimis, sentenze 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi sas e altri contro Italia, paragrafo 76; 25 marzo 2014, Biasucci e altri contro Italia, paragrafo 47; 14 gennaio 2014, Montalto e altri contro Italia, paragrafo 47; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia, paragrafo 58).

Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 CEDU.

11.1.– La Corte EDU afferma, inoltre, che le considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie (ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39).

12.– Con riguardo alla norma censurata, lo scopo dichiarato di porre fine al contenzioso «seriale», che aveva visto l’Amministrazione soccombente, non consente di invocare motivi imperativi di interesse generale, non esplicitati nei lavori preparatori e neppure ricavabili dall’esame del quadro normativo.

12.1.– Non ricorrono le condizioni che, in taluni casi, hanno indotto la Corte EDU a ritenere legittimi interventi legislativi retroattivi.

Si è trattato di situazioni in cui i soggetti ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione (sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito, paragrafo 112), o avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna della legislazione medesima, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio (sentenza del 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X, Blanche de Castille e altri contro Francia, paragrafo 69).

Nessuna di queste evenienze è riscontrabile nella fattispecie in esame.

Il testo della legge su cui interviene la disposizione fittiziamente interpretativa, seppure risalente, non presentava imperfezioni tecniche macroscopiche, né dava luogo a significative sperequazioni, che avrebbero potuto giustificare un intervento retroattivo del legislatore, come questa Corte ha altrove rilevato (sentenza n. 46 del 2021).

12.2.– In conclusione, la disposizione censurata, nella parte in cui vieta la corresponsione dell’indennità di amministrazione durante il servizio all’estero, ha modificato la disciplina dettata dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, che si limitava a vietare il cumulo di emolumenti di natura compensativa, ulteriori rispetto alle indennità specificamente previste nel medesimo d.P.R. n. 18 del 1967. Le pretese delle parti coinvolte nel contenzioso risultano incardinate nelle fattispecie sorte prima dell’entrata in vigore della disposizione con efficacia retroattiva, proprio perché volte a preservare la corrispettività fra prestazioni svolte all’estero e trattamento retributivo complessivo. Soltanto su tali fattispecie si è concentrato l’odierno scrutinio di legittimità costituzionale.

13.– Si deve pertanto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno, non include l’indennità di amministrazione.

Resta ferma l’applicabilità della disposizione a fatti successivi a tale data.

Restano infine assorbite le ulteriori censure formulate dalla Corte rimettente.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all’estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l’interno, non include l’indennità di amministrazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2022.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE