Ritenuto in fatto
1. - Il tribunale di Roma, davanti al quale pende un procedimento
penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, ha promosso, con
ordinanza emessa il 18 gennaio 1999, trasmessa a questa Corte il 22
giugno 1999, conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera dei
deputati in relazione alla deliberazione di detta Camera, adottata il
16 settembre 1998, su conforme proposta della Giunta per le
autorizzazioni a procedere, con la quale si è dichiarato che i fatti
per i quali è in corso il predetto procedimento penale concernono
opinioni espresse dal deputato nell'esercizio delle sue funzioni, ai
sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il tribunale
premette che l'on. Sgarbi è imputato di diffamazione col mezzo della
stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, all'epoca
procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, per
averne offeso la reputazione, anche con l'attribuzione di fatto
determinato, affermando, in dichiarazioni rese alle agenzie
giornalistiche ANSA ed AGI rese pubbliche il 27 aprile 1994, in
relazione al procedimento penale nei confronti del sen. Giulio
Andreotti, indagato da quella procura, di aver dato mandato ai suoi
legali di denunciare il magistrato; che "il processo Andreotti è un
processo politico"; ed ancora che avrebbe denunciato il Caselli per
"truffa aggravata e abuso d'ufficio per aver utilizzato il proprio
ruolo per un'azione politica". Premette inoltre che la relazione
della Giunta, nel motivare la proposta poi accolta dalla Camera,
aveva rilevato anzitutto che "la questione oggetto delle
dichiarazioni dell'on. Sgarbi ha costituito anche l'argomento di
alcune interrogazioni parlamentari"; aveva richiamato la tesi,
sostenuta dal parlamentare in sede di audizione, secondo cui "le sue
affermazioni avevano un contenuto eminentemente politico e non erano
intese a diffamare la persona del procuratore della Repubblica di
Palermo", osservando che tale era stata anche l'opinione della giunta
stessa, la quale aveva rilevato "che i suddetti temi sono stati a
lungo - e permangono tali anche al momento attuale - al centro del
dibattito politico e parlamentare, dibattito in ordine al quale ogni
partito, ogni gruppo e anche, in definitiva, ogni singolo
parlamentare ha legittimamente maturato le proprie opinioni". Ciò
premesso, il tribunale osserva che "la dichiarazione con la quale si
attribuisce ad una persona la commissione di delitti - accompagnata
dal preannuncio dell'esercizio di un diritto-dovere (quello di
denuncia)
riconosciuto dall'ordinamento a tutti i soggetti" - sarebbe condotta
esulante dall'esercizio delle funzioni di parlamentare. Né,
secondo il tribunale, varrebbero in contrario le considerazioni
svolte dalla Giunta della Camera: perché il lancio di agenzia non
sarebbe avvenuto sulla base del recepimento di una interrogazione
parlamentare, bensì sulla scorta di una mera dichiarazione resa, non
in veste di parlamentare, dall'on. Sgarbi; e perché "su uno stesso
argomento - benché oggetto centrale di lungo, attuale e diffuso
dibattito parlamentare e politico - possono esser espresse, accanto o
in contrapposizione a legittime opinioni, dichiarazioni astrattamente
o potenzialmente lesive dell'altrui reputazione". Quanto
all'affermazione del deputato di non aver inteso diffamare la persona
del magistrato, il tribunale osserva che essa non riuscirebbe a
scalfire la convinzione, secondo cui una critica politica non
potrebbe impunemente "consistere nell'attribuzione, ad una persona
nominativamente indicata, della perpetrazione di delitti,
attribuzione avvenuta in assenza, secondo l'ipotesi accusatoria, dei
canoni della verità e della continenza, in grado di scriminare la
condotta diffamatoria".
2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile, in sede di
delibazione ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge
n. 87 del 1953, con ordinanza di questa Corte n. 238 del 1999; l'atto
introduttivo e l'ordinanza sono stati successivamente, nei termini
assegnati, notificati alla Camera dei deputati e depositati con la
prova dell'avvenuta notifica.
3. - Si è costituita la Camera dei deputati, chiedendo in via
principale che il conflitto sia dichiarato irricevibile per
inidoneità dell'atto - l'ordinanza emessa dal Tribunale - con cui è
stato promosso; in subordine, che sia dichiarato che spettava alla
Camera affermare l'insindacabilità delle opinioni espresse dall'on.
Sgarbi. La difesa della Camera dà atto della risalente
giurisprudenza di questa Corte che ha considerato ammissibile il
conflitto sollevato da autorità giudiziaria mediante ordinanza e non
già mediante ricorso, ma prospetta articolate argomentazioni intese
a dimostrare l'infondatezza di tale assunto, invitando la Corte a
rivedere il proprio indirizzo sul punto. Pur ammettendo che
l'ordinanza del tribunale di Roma presenta un duplice contenuto,
disponendo da una parte la sospensione del processo e la trasmissione
degli atti a questa Corte, chiedendo dall'altra di dichiarare che non
spetta alla Camera dei deputati ritenere coperte da insindacabilità
le opinioni espresse dall'on. Sgarbi, la difesa della parte sostiene
la infungibilità del ricorso e dell'ordinanza. Quest'ultima sarebbe
un provvedimento giurisdizionale, compiuto, ai sensi dell'art. 101,
primo comma, della Costituzione, "in nome del popolo italiano", e
soggetto all'obbligo di motivazione di cui all'art. 111, primo comma,
della Costituzione. Il ricorso invece è atto di parte, che non deve
essere motivato ma deve contenere l'esposizione sommaria delle
ragioni di conflitto e l'indicazione delle norme costituzionali che
regolano la materia, ai sensi dell'art. 26 delle norme integrative.
Inoltre la forma dell'ordinanza, che è provvedimento
giurisdizionale, renderebbe difficile applicare la normativa sulla
rinuncia al ricorso e la sua accettazione; e sarebbe inidonea a
formalizzare il rapporto fra l'organo collegiale e il suo presidente,
cui spetterebbe la legittimazione processuale. Il tribunale avrebbe
sovrapposto la logica del giudizio costituzionale incidentale a
quella del conflitto di attribuzioni, come sarebbe dimostrato anche
dalla trasmissione alla Corte degli atti del processo, che invece,
essendo documenti del ricorrente, dovrebbero essere depositati presso
la Corte, nel numero di copie prescritto dall'art. 6 delle norme
integrative. Tale norma verrebbe invece, secondo la prassi attuale,
aggirata dall'autorità giurisdizionale, con violazione del principio
di parità fra le parti del giudizio. D'altra parte, secondo la
difesa della Camera, se fosse possibile scindere le due parti
dell'ordinanza, allora dovrebbe distinguersi fra ordinanza, relativa
al giudizio pendente, e ricorso; e verrebbe meno l'argomento, addotto
a giustificazione dell'impiego dell'ordinanza, della tipicità dei
provvedimenti dei giudici; l'atto di promozione del conflitto sarebbe
esercizio del diritto di difesa in giudizio, e dunque sarebbe tipico,
ma non in quanto atto del giudice, bensì come atto di parte. Non
sarebbe costituzionalmente giustificata la diversità di trattamento
dei conflitti promossi dall'autorità giudiziaria rispetto a quelli
promossi da altri poteri. Né potrebbe farsi leva sul principio di
economia processuale, perché il ricorso non è un atto del processo,
ma atto di impulso del diverso giudizio davanti alla Corte; e quanto
a quest'ultimo, le esigenze di economia processuale non dovrebbero
far aggio sul doveroso rispetto delle norme di procedura, così come
è avvenuto quando la Corte ha dichiarato improcedibili ricorsi per
conflitto depositati tardivamente, nonostante la possibilità di
riproposizione dei conflitti medesimi.
4. - Nel merito, la difesa della Camera muove dalla tesi, che
qualifica intermedia, secondo cui la insindacabilità coprirebbe non
tutta l'attività politica svolta dal parlamentare, ma, oltre agli
atti tipici, le opinioni collegate da nesso funzionale con il mandato
parlamentare; e sottolinea il carattere politico della rappresentanza
della nazione, nel senso che essa attiene alla generalità degli
interessi della polis, non predeterminabili a priori, e che devono
essere apprezzati in concreto sulla base di una valutazione
schiettamente politica: l'attività parlamentare, in quanto "libera
nel fine", non avrebbe contorni definibili in astratto. Pur non
dovendosi confondere fra la funzione parlamentare e l'attività del
singolo parlamentare, pur tuttavia la vastità dell'ambito funzionale
coperto dal mandato imporrebbe di negare la riconducibilità ad esso
delle sole attività del singolo membro delle Camere che siano
manifestamente estranee alla funzione. Questa Corte, il cui controllo
in questo caso confinerebbe con apprezzamenti di tipo essenzialmente
politico, non potrebbe che limitarsi ad un controllo "esterno",
attinente alla manifesta inattendibilità degli apprezzamenti
compiuti dall'organo autore dell'atto controllato. Nella specie, ad
avviso della Camera, sussisterebbe quella specifica connessione con
atti tipici della funzione che, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, sarebbe condizione necessaria e sufficiente perché l'opinione
espressa si debba considerare coperta dalla garanzia di cui all'art.
68, primo comma, della Costituzione. Infatti, in primo luogo, l'on.
Sgarbi avrebbe già manifestato il proprio dissenso nei confronti del
procedimento penale instaurato a carico del sen. Andreotti, prima
dei fatti oggi a lui contestati, in occasione del dibattito al Senato
sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dello
stesso sen. Andreotti, cui lo Sgarbi assisteva dalla tribuna
riservata ai deputati: nel corso di quel dibattito il suo dissenso
era stato manifestato così fermamente e vivacemente, che il
Presidente del Senato aveva disposto il suo allontanamento dall'aula,
informandone il Presidente della Camera, il quale, a sua volta,
espresse rammarico per l'impossibilità, allo stato dei regolamenti
parlamentari, di infliggere all'on. Sgarbi una sanzione disciplinare,
così implicitamente statuendo che la vicenda atteneva esclusivamente
alla vita interna delle Camere. In secondo luogo, sussisterebbe una
stretta connessione fra le dichiarazioni contestate e l'esercizio, da
parte dell'on. Sgarbi, del potere di sindacato ispettivo
parlamentare, esplicatosi anzitutto con la presentazione, un anno
prima dei fatti di cui è giudizio, e cioè il 28 aprile 1993, di
un'interrogazione in merito all'uso "politico" dei "pentiti"; e poi
con la presentazione, in data 29 aprile 1994, di due interrogazioni
al Ministro della giustizia (di cui la prima presentata in realtà il
giorno 28, ancorché registrata il 29), coincidenti nella sostanza
con le dichiarazioni contestate, risolvendosi nella imputazione al
dott. Caselli dell'accusa di avere esercitato l'azione penale nei
confronti del sen. Andreotti "per motivi inesistenti e infondati",
tali da imporre l'esercizio dell'azione disciplinare nei confronti
del magistrato. La difesa osserva che, trattandosi di interrogazione
rivolta al Ministro della giustizia, l'on. Sgarbi faceva riferimento
alla sola responsabilità disciplinare, che il Ministro può
attivare, e non parlava della responsabilità penale, evocata invece
nelle dichiarazioni contestate, ma che la sostanza delle critiche e
delle loro conseguenze era identica. Non varrebbe obiettare che le
predette interrogazioni sono successive rispetto alle dichiarazioni,
poiché in realtà esse sarebbero contemporanee, e nelle
dichiarazioni si afferma di avere già predisposto le interrogazioni,
mentre il ritardo nel deposito delle stesse sarebbe meramente
accidentale. La vicenda in discussione andrebbe inoltre inquadrata
nel contesto del dibattito politico-parlamentare sul "caso
Andreotti", concernente un processo di portata storica: dibattito nel
cui ambito si sono registrati interventi volti a censurare l'operato
dei magistrati e a sottolineare la natura politica del processo:
questo sarebbe anche l'addebito formulato dall'on. Sgarbi. La parte
rileva infine che la deliberazione della Camera è intervenuta nel
rispetto delle regole procedurali, dopo che la Giunta aveva proceduto
in contraddittorio con l'on. Sgarbi, e sulla base di una puntuale
illustrazione del deputato che faceva funzione di relatore: onde la
Camera avrebbe puntualmente e precisamente apprezzato la consistenza
politica delle dichiarazioni dell'on. Sgarbi, indicando con
precisione le ragioni del nesso funzionale che le legavano
all'esercizio del mandato parlamentare, e dunque riscontrando
esattamente l'esistenza dei presupposti dell'insindacabilità.
5. - In una successiva memoria depositata in vista dell'udienza, la
difesa della Camera ribadisce anzitutto, richiamando la più recente
giurisprudenza di questa Corte, la tesi per cui le opinioni espresse
dal parlamentare extra moenia sarebbero assistite dalla garanzia
costituzionale dell'insindacabilità ove ricorra il nesso funzionale
con il mandato parlamentare, e ricorda un orientamento espresso dalla
Corte di cassazione, secondo cui il controllo, in sede di conflitto,
sulle deliberazioni parlamentari sarebbe assimilabile a quello
sull'eccesso di potere, e le opinioni espresse da un parlamentare
sarebbero insindacabili anche solo quando siano "plausibilmente
ricollegabili" alla sua funzione. La stessa Camera, nella specie,
avrebbe motivato la propria deliberazione non in ragione di una
presunta "copertura" generale di qualunque attività politica, ma
proprio in ragione del nesso funzionale che impone il riconoscimento
della garanzia dell'insindacabilità. Non potrebbe dunque riscontrasi
alcun vizio di procedimento, né alcun sintomo di "eccesso di
potere". In particolare, la difesa ribadisce che non vi sarebbe
stato da parte della Camera un erroneo apprezzamento dei presupposti
dell'insindacabilità, posto che le dichiarazioni contestate non
erano altro che la prosecuzione extra moenia dell'attività di
parlamentare. Quanto alle due più recenti interrogazioni presentate
dall'on. Sgarbi, solo formalmente posteriori rispetto alle
dichiarazioni, sarebbe da escludere la possibilità che esse siano
state presentate per legittimare artificiosamente a posteriori
dichiarazioni altrimenti non coperte da insindacabilità. Le
dichiarazioni dell'on. Sgarbi sarebbero in realtà unite in
inscindibile nesso logico, e quindi funzionale, con i suoi atti di
sindacato ispettivo.
Considerato in diritto
1. - Il conflitto di attribuzioni promosso dal tribunale di Roma
nei confronti della Camera dei deputati - dichiarato ammissibile in
sede di delibazione con la ordinanza n. 238 del 1999 - investe la
deliberazione del 16 settembre 1998 con la quale l'assemblea, su
conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha
dichiarato che i fatti per i quali è in corso, davanti al tribunale
ricorrente, un procedimento penale a carico del deputato Vittorio
Sgarbi, per il reato di diffamazione col mezzo della stampa a danno
del magistrato Giancarlo Caselli, all'epoca procuratore della
Repubblica presso il tribunale di Palermo, concernono opinioni
espresse da quel parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni, ai
sensi del primo comma dell'articolo 68 della Costituzione.
Con dichiarazioni rese a due agenzie giornalistiche, che le
diffondevano il 27 aprile 1994, il deputato Sgarbi, secondo l'accusa,
avrebbe offeso, anche con l'attribuzione di un fatto determinato, la
reputazione del magistrato affermando, in relazione al procedimento
penale nei confronti del sen. Andreotti indagato dalla Procura della
Repubblica di Palermo, che "il processo Andreotti è un processo
politico"; e annunciando di aver dato mandato ai suoi legali di
denunciare il magistrato, capo di detta procura, per "truffa
aggravata e abuso di ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo per
una azione politica".
La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei
deputati, nella relazione che accompagnava la proposta accolta
dall'assemblea, rilevava che "la questione oggetto delle
dichiarazioni dell'onorevole Sgarbi ha costituito anche l'argomento
di alcune interrogazioni parlamentari"; esprimeva l'opinione che,
come fatto presente dal deputato, le sue affermazioni avevano un
contenuto eminentemente politico e non erano intese a diffamare la
persona del procuratore della Repubblica di Palermo; rilevava che "i
suddetti temi sono stati a lungo - e permangono tali anche al momento
attuale - al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito
in ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva,
ogni singolo parlamentare ha legittimamente maturato le proprie
opinioni".
Il tribunale ricorrente ritiene che la Camera, con la dichiarazione
di insindacabilità, abbia illegittimamente esercitato il proprio
potere, perché avrebbe arbitrariamente valutato il presupposto del
collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare:
infatti, ad avviso del ricorrente, la dichiarazione con la quale si
attribuisce ad una persona la commissione di delitti, accompagnata
dal preannuncio dell'esercizio del diritto-dovere di denuncia,
riconosciuto dall'ordinamento a tutti i soggetti, sarebbe condotta
esulante dall'esercizio della funzione di parlamentare.
2. - L'eccezione di irricevibilità del conflitto per inidoneità
dell'atto introduttivo, sollevata dalla difesa della Camera dei
deputati, non può essere accolta.
È ben vero che nel conflitto di attribuzioni - a differenza che
nella questione di legittimità costituzionale sollevata in via
incidentale - il giudice, quale titolare della funzione
giurisdizionale, si fa promotore del giudizio come parte ricorrente,
in vista della tutela di un interesse potenzialmente fornito di
protezione costituzionale; e dunque l'atto introduttivo è un atto
del giudizio costituzionale, ne assume i contenuti e le forme e ne
segue le regole procedurali. Ma da ciò non si può trarre la
conclusione della irricevibilità del presente conflitto in quanto
promosso con ordinanza. Quella del tribunale di Roma, infatti, al di
là del nomen juris possiede i requisiti necessari di un valido
ricorso, come definiti dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953 e
dall'art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale: vi è l'identificazione del soggetto ricorrente
(l'organo giudiziario procedente) e dell'atto da cui si afferma
discendere la lamentata lesione di attribuzioni ad esso spettanti (la
deliberazione della Camera dei deputati); vi è l'espressione della
volontà di promuovere il conflitto e la richiesta di una pronuncia
della Corte che dichiari non spettare alla Camera la valutazione
contenuta nella deliberazione impugnata, e che annulli quest'ultima;
vi è l'indicazione delle "ragioni del conflitto" e delle "norme
costituzionali che regolano la materia", nonché la sottoscrizione
del soggetto ricorrente, nella persona del Presidente e dei membri
del collegio giudicante. L'atto è pervenuto alla cancelleria di
questa Corte in forma che può assimilarsi al "deposito" di cui al
citato art. 26 delle norme integrative, ed è stato, dopo l'ordinanza
di ammissibilità, regolarmente notificato a cura del ricorrente e
depositato con la prova dell'avvenuta notifica.
Tanto basta perché si debba procedere all'esame del merito.
3. - Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito
precisati.
Questa Corte, ai fini della risoluzione del conflitto, è chiamata
a decidere se le dichiarazioni dell'on. Sgarbi possano dirsi, ed
eventualmente in quali limiti, rese nell'esercizio delle funzioni
parlamentari. Esula quindi dal compito della Corte, la risposta al
quesito se le dichiarazioni in questione integrino gli estremi del
reato ascritto al deputato, o non concretino piuttosto la
manifestazione del diritto di critica politica, di cui egli, al pari
di qualsiasi altro soggetto, fruisce, e che certamente comprende il
diritto di critica anche nei confronti della magistratura e
dell'operato di suoi membri: diritto a sua volta tutelato dall'art.
21 della Costituzione. A questa domanda è chiamato a rispondere il
giudice del processo penale, al quale spetta pronunciarsi in concreto
sul rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero, in
particolare in campo politico, e diritto all'onore e alla reputazione
del soggetto che si ritenga leso dall'opinione espressa.
Il giudizio della Corte verte, invece, sulla tutela delle
rispettive sfere di attribuzioni, ed investe la controversia
sull'applicazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione,
originata dal contrasto tra la valutazione della Camera e quella
dell'autorità giurisdizionale procedente.
A tal fine, la Corte non può limitarsi a verificare la validità o
la congruità delle motivazioni - ove siano espresse - con le quali
la Camera di appartenenza del parlamentare abbia dichiarato
insindacabile una determinata opinione. Il giudizio in sede di
conflitto fra poteri non si atteggia a giudizio sindacatorio
(assimilabile a quello del giudice amministrativo chiamato a valutare
un atto cui si imputi il vizio di eccesso di potere) su di una
determinazione discrezionale dell'assemblea politica. In questo senso
va precisato e in parte corretto quanto affermato nella pregressa
giurisprudenza, circa i caratteri del controllo di questa Corte sulle
deliberazioni di insindacabilità adottate dalle Camere (cfr.
sentenza n. 265 del 1997): la Corte, chiamata a svolgere, in
posizione di terzietà, una funzione di garanzia, da un lato
dell'autonomia della Camera di appartenenza del parlamentare,
dall'altro della sfera di attribuzione dell'autorità
giurisdizionale, non può verificare la correttezza, sul piano
costituzionale, di una pronuncia di insindacabilità senza verificare
se, nella specie, l'insindacabilità sussista, cioè se l'opinione di
cui si discute sia stata espressa nell'esercizio delle funzioni
parlamentari, alla luce della nozione di tale esercizio che si desume
dalla Costituzione (cfr. sentenza in pari data, n. 11 del 2000).
4. - Questa Corte ha già più volte sottolineato che la
prerogativa di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione non
copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento
della sua attività politica, ma solo quelle legate da "nesso
funzionale" con le attività svolte "nella qualità" di membro delle
Camere (sentenze n. 375 del 1997, n. 289 del 1998, n. 329 e n. 417
del 1999). Si tratta ora di precisare, rispetto alla precedente
giurisprudenza della Corte ed anche in vista di esigenze di certezza,
quando ricorra tale nesso funzionale.
È pacifico che costituiscono opinioni espresse nell'esercizio
della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e
dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi
fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in
atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facoltà
proprie del parlamentare in quanto membro dell'assemblea.
Invece l'attività politica svolta dal parlamentare al di fuori di
questo ambito non può dirsi di per sé esplicazione della funzione
parlamentare nel senso preciso cui si riferisce l'art. 68, primo
comma, della Costituzione.
Nel normale svolgimento della vita democratica e del dibattito
politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai compiti e
dalle attività propri delle assemblee rappresentano piuttosto
esercizio della libertà di espressione comune a tutti i consociati:
ad esse dunque non può estendersi, senza snaturarla, una immunità
che la Costituzione ha voluto, in deroga al generale principio di
legalità e di giustiziabilità dei diritti, riservare alle opinioni
espresse nell'esercizio delle funzioni.
La linea di confine fra la tutela dell'autonomia e della libertà
delle Camere, e, a tal fine, della libertà di espressione dei loro
membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi,
costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi
dall'espressione di opinioni, dall'altro lato, è fissata dalla
Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della
prerogativa. Senza questa delimitazione, l'applicazione della
prerogativa la trasformerebbe in un privilegio personale (cfr.
sentenza n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una
sorta di statuto personale di favore quanto all'ambito e ai limiti
della loro libertà di manifestazione del pensiero: con possibili
distorsioni anche del principio di eguaglianza e di parità di
opportunità fra cittadini nella dialettica politica.
Né si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una
definizione della "funzione" del parlamentare così generica da
ricomprendervi l'attività politica che egli svolga in qualsiasi
sede, e nella quale la sua qualità di membro delle Camere sia
irrilevante. Nel linguaggio e nel sistema della Costituzione, le
"funzioni" riferite agli organi non indicano generiche finalità, ma
riguardano ambiti e modi giuridicamente definiti: e questo vale anche
per la funzione parlamentare, ancorché essa si connoti per il suo
carattere non "specializzato" (cfr. sentenze n. 148 del 1983; n. 375
del 1997).
5. - Discende da quanto osservato che la semplice comunanza di
argomento fra la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni
espresse dal deputato o dal senatore in sede parlamentare non può
bastare a fondare l'estensione alla prima della immunità che copre
le seconde. Tanto meno può bastare a tal fine la ricorrenza di un
contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca.
Siffatto tipo di collegamenti non può valere di per sé a conferire
carattere di attività parlamentare a manifestazioni di opinioni che
siano oggettivamente ad essa estranee. Sarebbe, oltre tutto,
contraddittorio da un lato negare - come è inevitabile negare - che
di per sé l'espressione di opinioni nelle più diverse sedi
pubbliche costituisca esercizio di funzione parlamentare, e
dall'altro lato ammettere che essa invece acquisti tale carattere e
valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attività
parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere.
In questo senso va precisato il significato del "nesso funzionale"
che deve riscontrarsi, per poter ritenere l'insindacabilità, tra la
dichiarazione e l'attività parlamentare. Non cioè come semplice
collegamento di argomento o di contesto fra attività parlamentare e
dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa
quale espressione di attività parlamentare (cfr. sentenza, in pari
data, n. 11 del 2000).
6. - Nella specie qui in esame si tratta di dichiarazioni rese dal
deputato a due agenzie giornalistiche, evidentemente al di fuori
dell'esercizio di funzioni parlamentari. La considerazione
dell'intento politico e non diffamatorio delle dichiarazioni, e della
collocazione del tema trattato al centro del dibattito politico e
parlamentare - cioè di due degli argomenti addotti dalla Giunta
della Camera a fondamento della dichiarazione di insindacabilità -
resta estranea all'oggetto del presente giudizio, attenendo piuttosto
alla verifica della compatibilità della opinione espressa con i
limiti del diritto di critica politica.
Vero è invece, come pure ricordato dalla Giunta, che "la questione
oggetto delle dichiarazioni dell'onorevole Sgarbi ha costituito anche
l'argomento di alcune interrogazioni parlamentari". Ma, per quanto si
è detto sopra, non basta il mero collegamento di argomento con atti
di sindacato ispettivo; tanto meno basta il richiamo, effettuato
dalla difesa della Camera, alla manifestazione di dissenso del
deputato, espressa in Senato dove egli assisteva alla seduta, circa
il processo intentato a carico del sen. Andreotti e la relativa
richiesta di autorizzazione a procedere della procura di Palermo,
sottoposta in quella circostanza al Senato.
Le dichiarazioni potrebbero dunque essere coperte dalla immunità
solo in quanto risultassero sostanzialmente riproduttive di
un'opinione espressa in sede parlamentare. Infatti l'opinione
espressa nell'esercizio della funzione non è protetta da immunità
solo nell'occasione specifica in cui viene manifestata nell'ambito
parlamentare, ricadendo al di fuori della sfera della prerogativa se
venga riprodotta in sede diversa. L'immunità riguarda non già solo
l'occasione specifica in cui le opinioni sono manifestate nell'ambito
parlamentare, ma il contenuto storico di esse, anche quando ne sia
realizzata la diffusione pubblica, in ogni sede e con ogni mezzo. La
pubblicità, infatti, e anzi la naturale destinazione, per così
dire, alla collettività dei rappresentati, che caratterizza
normalmente le attività e gli atti del Parlamento, proprio per
assicurarne la funzione di sede massima della libera dialettica
politica, comporta che l'immunità si estenda a tutte le altre sedi
ed occasioni in cui l'opinione venga riprodotta al di fuori
dell'ambito parlamentare.
Ma l'immunità è limitata a quel contenuto storico: e dunque, nel
caso di riproduzione all'esterno della sede parlamentare, è
necessario, per ritenere che sussista l'insindacabilità, che si
riscontri la identità sostanziale di contenuto fra l'opinione
espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede
"esterna".
Ciò che si richiede, ovviamente, non è una puntuale coincidenza
testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti.
7. - Nella specie, non può aver rilievo il richiamo - pure fatto
dalla difesa della Camera - alla interrogazione n. 3/00937 presentata
dall'on. Sgarbi il 28 aprile 1993, cioè un anno prima delle
dichiarazioni contestate, in quanto tale interrogazione verteva solo
sul cosiddetto "uso politico dei pentiti" e sul "pericolo di
inchieste giudiziarie pilotate attraverso i pentiti", essendo volta a
conoscere le iniziative del Governo per far sì che il fenomeno del
"pentitismo" "non si presti ad essere gestito e politicamente
utilizzato in modo disinvolto per interessi di parte". L'oggetto e il
contenuto di tale atto ispettivo (ove non compare alcun riferimento
all'attuale querelante dott. Caselli) non hanno dunque più che un
generico collegamento tematico con il contenuto delle dichiarazioni
in questione.
Restano le due interrogazioni n. 3/00009 e n. 3/00010, presentate
dall'on. Sgarbi rispettivamente il 28 e il 29 aprile 1994 (ancorché
registrate entrambe in data 29 aprile), cioè nei giorni
immediatamente successivi alle dichiarazioni, nelle quali ci si
riferiva appunto ad una interrogazione. Può convenirsi con la difesa
della Camera che, in questo caso, vi è sostanziale contestualità
fra le une e le altre.
Egualmente però le dichiarazioni non possono considerarsi come
divulgazione del contenuto delle interrogazioni, in quanto la
sostanziale corrispondenza di contenuto fra le une e le altre è solo
parziale.
La prima delle due interrogazioni si riferisce alle presunte
dichiarazioni di un testimone, che avrebbe smentito un assunto della
procura di Palermo, e chiede al Ministro della giustizia "se non
ritenga di disporre accertamenti ispettivi circa la correttezza delle
procedure giudiziarie in questione ed eventualmente promuovere
l'azione disciplinare davanti al CSM nei confronti del dottor
Caselli, che, se quanto esposto in premessa risultasse vero, avrebbe
chiesto l'autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti per
motivi inesistenti e infondati". Nella seconda interrogazione si
riferisce il contenuto di un articolo pubblicato dal settimanale
Epoca da cui sarebbe risultato fra l'altro che nell'indagine di
Palermo non erano emerse prove concrete a carico del sen. Andreotti,
si chiede se risulti al Governo che quanto riportato dal settimanale
risponda al vero, e si chiede al Ministro "se non ritenga, in caso
affermativo, di disporre accertamenti ispettivi ai fini di
un'eventuale promozione di un procedimento disciplinare davanti al
CSM".
Anche nelle dichiarazioni alle agenzie il deputato faceva
riferimento all'articolo pubblicato da Epoca e alla mancanza di prove
nel processo Andreotti; nelle interrogazioni non si trova invece né
la testuale affermazione, contenuta nelle dichiarazioni, secondo cui
"il processo Andreotti è un processo politico", né alcun accenno
alla preannunciata denuncia nei confronti del dott. Caselli per
truffa e abuso d'ufficio, per avere utilizzato il proprio ruolo per
una azione politica: cioè non si trovano le due affermazioni sulle
quali si basa l'ipotesi accusatoria relativa al reato di diffamazione
contestato al deputato. E se la prima di esse, relativa al carattere
"politico" del processo di Palermo, potrebbe trovare una certa
sostanziale corrispondenza nell'addebito, peraltro solo ipotizzato,
nella prima interrogazione, di aver chiesto l'autorizzazione a
procedere contro il senatore Andreotti "per motivi inesistenti e
infondati", la seconda, cioè l'annuncio di una denuncia per reati
determinati, in relazione all'addebito di strumentalizzazione
politica del ruolo del procuratore, non trova alcuna corrispondenza
sostanziale negli atti ispettivi.
Né può equivalere ad essa il riferimento ad eventuali azioni
disciplinari, una volta (nella prima interrogazione) in relazione
alla "correttezza delle procedure giudiziarie in questione", e
un'altra volta (nella seconda interrogazione) in via del tutto
generica. Non vale osservare che al Ministro, per la sua competenza,
non si poteva che prospettare la sola ipotesi di responsabilità
disciplinare, e non quella di una responsabilità penale. Proprio
questo rilievo sulla competenza ministeriale, evocabile ed evocata
nell'interrogazione, non fa che sottolineare la differenza di
contenuto fra gli atti ispettivi, esercizio della funzione
parlamentare, e le dichiarazioni alle agenzie, ove si muove un
addebito determinato di (affermata) rilevanza penale: elemento,
quest'ultimo, specificamente posto a base dell'imputazione mossa al
deputato.
8. - Si deve dunque concludere che le dichiarazioni dell'on.
Sgarbi, per la parte priva di sostanziale corrispondenza con il
contenuto degli atti ispettivi citati, non possono ritenersi rese
nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e dunque coperte
dall'immunità ai sensi dell'art. 68, primo comma, della
Costituzione; in relazione a tale parte, dunque, va annullata la
deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati.