Ritenuto in fatto:
Con ordinanza 5 maggio 1976, emessa nel corso del procedimento
penale a carico di Sogno Rata del Vallino Edgardo, Cavallo Luigi ed
altri (n. 665 del 1975) il giudice istruttore presso il tribunale di
Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli
artt. 342 e 352 c.p.p., limitatamente alla parte relativa al segreto
politico- militare, in relazione agli artt. 101, 102 e 112 della
Costituzione.
Nell'ordinanza si espone che, in seguito a richiesta all'Autorità
nazionale per la sicurezza del carteggio sull'imputato Sogno, fu
trasmesso solo parte del carteggio, allegando per la rimanente il
segreto politico-militare, in quanto materiale attinente ad attività
di controspionaggio. Il segreto fu allegato anche dal Presidente del
Consiglio dei ministri, il quale precisava che il carteggio non esibito
rientrava "nella materia connessa a specifica attività di
controspionaggio, in relazione a dati formali soggettivi che debbono
essere mantenuti segreti a tutela d'interessi politici e militari",
riguardando nomi di "personaggi stranieri" e di agenti informatori,
sigle di operazioni di controspionaggio ed altri elementi analoghi.
Il segreto veniva anche opposto alla richiesta del carteggio
relativo agli eventuali rapporti fra l'imputato Sogno ed i servizi di
sicurezza italiani, nonché del carteggio relativo all'imputato
Cavallo. Il generale Miceli, infine, interrogato come teste, rifiutava
anch'egli di fornire notizie su talune circostanze (eventuali
finanziamenti ricevuti dall'ambiente USA quando egli era capo del SID e
loro finalità), allegando il segreto politico-militare.
Secondo il giudice istruttore di Torino, nei casi su detti il
segreto politico-militare sarebbe stato male invocato, in quanto il
carattere della segretezza non potrebbe dedursi automaticamente
dall'asserzione che i dati richiesti riguarderebbero attività di
controspionaggio.
In particolare, non potrebbero considerarsi coperti dal segreto i
nomi dei cittadini stranieri che avessero collaborato col Sogno in
attività che potrebbero assumere rilevanza penale. Né potrebbero
considerarsi coperte dal segreto politico- militare le notizie relative
ad eventuali finanziamenti forniti al generale Miceli - e da questi
eventualmente al Sogno o ad altri imputati - da servizi di sicurezza
stranieri.
Osserva l'ordinanza che, a norma degli artt. 342 e 352 c.p.p.,
l'autorità giudiziaria, ritenendo non fondata l'allegazione del
segreto politico-militare, dovrebbe fare rapporto al Procuratore
generale presso la Corte d'appello, il quale dovrebbe informare il
Ministro della giustizia; altro rapporto, a norma dell'art. 2 c.p.p.,
dovrebbe essere fatto al Procuratore della Repubblica, il quale però
non potrebbe procedere per i delitti di falso ideologico e falsa
testimonianza senza l'autorizzazione del Ministro stesso.
Tale normativa, secondo il giudice istruttore di Torino,
contrasterebbe con gli artt. 101,102 e 112 della Costituzione per i
seguenti motivi:
a) La procedura da essa fissata non consentirebbe alcuna
valutazione giurisdizionale del carattere di segretezza del documento o
della dichiarazione e demanda la valutazione di tale carattere ad un
accertamento compiuto in veste autoritativa da un organo non
giurisdizionale, con la conseguente compressione dell'esercizio dei
poteri giurisdizionali inerenti alla ricerca delle prove.
A sostegno di tale doglianza si citano le sentenze n. 40 del 1964 e
n. 82 del 1976 della Corte costituzionale, la prima delle quali ha
ritenuto costituzionalmente illegittima una legge che condizioni la
pronuncia del giudice ad accertamenti di organi non giurisdizionali; la
seconda che, accedendo alla tesi della costituzionalizzazione del
segreto politico-militare (art. 52 della Costituzione), ha previsto la
necessità di un bilanciamento fra l'interesse all'acquisizione della
prova e l'interesse alla segretezza di fatti attinenti alla sicurezza
dello Stato.
"Giudice di questo bilanciamento" - si osserva nell'ordinanza -
"nel nostro sistema costituzionale non potrebbe certo essere la P.A.".
b) L'acquisizione del documento o della testimonianza indebitamente
ricusati non sarebbero garantiti attraverso l'instaurazione di un
procedimento penale per l'indebita allegazione del segreto. Infatti
potrebbe accadere che manchi il dolo del pubblico ufficiale il quale
abbia rifiutato di consegnare il documento o rendere testimonianza -
essendo egli vincolato alla classificazione di segretezza degli atti
senza poterne discutere l'esattezza - cosicché non possa essere
instaurato il procedimento penale contro di lui. E potrebbe anche
accadere che, instaurato tale procedimento ed ottenutasi
l'autorizzazione a procedere, non si possa acquisire il documento in
questione per un contrasto fra il Ministro di grazia e giustizia ed il
Ministro competente a decidere sulla segretezza del documento; ovvero,
in caso di rifiuto a rendere testimonianza, tale rifiuto potrebbe
perdurare, ben rifiutando il testimone divenuto imputato di sottoporsi
all'interrogatorio.
Osserva il giudice a quo che la normativa prevista dagli artt. 342
e 352 c.p.p. "è in sostanza una normativa di sbarramento all'esercizio
della funzione giurisdizionale".
Tale normativa non corrisponderebbe all'assetto dei rapporti fra
potere esecutivo e giudiziario fissato dall'attuale Costituzione, in
quanto la "riconosciuta indipendenza della Magistratura dal Governo e
la esclusiva dipendenza dalla legge" comporterebbe "come corollario
l'incostituzionalità del potere del Governo di impedire accertamenti
istruttori" diretti all'acquisizione di elementi di prova.
Risponderebbe invero ai principi della Costituzione che il
conflitto fra l'interesse alla segretezza di taluni fatti di rilevanza
politico-militare e l'interesse alla ricerca delle prove su fatti
penalmente rilevanti fosse risolto dalla Corte costituzionale mediante
la procedura dei conflitti di attribuzione.
Il giudice istruttore di Torino, nel trasmettere gli atti alla
Corte costituzionale, sospendeva il giudizio a quo "limitatamente
all'attività istruttoria disciplinata dalla normativa degli articoli
impugnati".
Con ordinanza 24 maggio 1976 il giudice istruttore del tribunale di
Roma - al quale il giudice istruttore del tribunale di Torino aveva
trasmesso gli atti non inviati alla Corte costituzionale, essendosi
dichiarato incompetente per territorio con sentenza di pari data
all'ordinanza che ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale - ha sospeso l'intero giudizio a quo e trasmesso alla
Corte la restante documentazione.
L'imputato Sogno si è costituito tardivamente rispetto
all'ordinanza del giudice istruttore di Torino ed in termini rispetto
all'ordinanza del giudice istruttore di Roma.
Negli scritti depositati, il suo difensore sostiene che il giudice
istruttore di Torino avrebbe sollevato irritualmente la questione di
legittimità costituzionale, in quanto non poteva procedere contro il
Sogno e gli altri imputati, essendo stata già dichiarata la sua
incompetenza dalla Cassazione sin dal dicembre 1974, ed avendo comunque
esso stesso giudice istruttore ritenuto tale incompetenza per
territorio con sentenza di data uguale a quella dell'ordinanza con la
quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.
Si eccepisce inoltre l'irrilevanza della questione e si conclude
chiedendo una declaratoria d'inammissibilità ovvero di manifesta
infondatezza della medesima.
Considerato in diritto:
1. - Vanno affrontate, in via pregiudiziale, le eccezioni
riguardanti la rituale proposizione della questione di legittimità
costituzionale.
2. - Preliminarmente deve osservarsi che - come riconosce la difesa
della stessa parte privata nella memoria depositata il 29 marzo 1977 -
la sentenza della Corte di cassazione (Sez. I Pen.) 30 dicembre 1974,
n. 200O, dichiarativa della competenza dell'A.G. di Roma, riguardava il
procedimento n. 902 del 1972, pendente presso l'ufficio d'istruzione
del tribunale di Torino, e non il procedimento n. 665 del 1975,
pendente presso lo stesso ufficio, nel corso del quale è stata
sollevata la questione di legittimità costituzionale. È quindi da
respingere la pretesa inammissibilità della questione, fondata
sull'affermazione che con detta sentenza il giudice istruttore di
Torino era già stato spogliato del procedimento a quo.
3. - Al contrario - anche se con consolidata giurisprudenza questa
Corte, pur ritenendo che il potere di sollevare questioni di
legittimità costituzionale spetta solo al giudice che deve applicare
la norma impugnata, ha ritenuto non sindacabile da parte sua, nei
giudizi in via incidentale, l'esistenza dei presupposti processuali
relativi al giudizio a quo, ed in particolare della competenza del
giudice - va presa attentamente in esame l'altra questione sollevata
dalla parte privata, con la quale si contesta la ritualità
dell'incidente di legittimità costituzionale, sotto il profilo che
sarebbe stato sollevato da un giudice dichiaratosi esso stesso
incompetente a ulteriormente conoscere del giudizio de quo.
Con tale eccezione, infatti, non si contesta l'insindacabilità da
parte della Corte costituzionale dell'esistenza dei su detti
presupposti processuali e in particolare della competenza del giudice,
ma si nega - citandosi in proposito la sentenza n. 109 del 1964 di
questa Corte - che quella insindacabilità possa essere invocata quando
il giudice a quo non abbia, esplicitamente o implicitamente, affermato
la propria competenza, bensì l'abbia egli stesso negata, con un
provvedimento contestuale alla proposizione dell'incidente di
legittimità costituzionale.
Nella fattispecie, però, non ci si trova dinanzi ad un caso
analogo a quello - risolto con la citata sentenza n. 109 del 1964 - di
un giudice a quo che, nel sollevare la questione, si sia
contemporaneamente dichiarato incompetente a decidere il merito della
causa e ad applicare la norma impugnata, ma di fronte ad una situazione
più complessa, per il sovrapporsi di fatti processuali anomali.
Il giudice istruttore di Torino, infatti, incompetente per
territorio, ha espletato una voluminosa istruttoria, nel corso della
quale sono venuti in applicazione gl'impugnati artt. 342 e 352 c.p.p.
Egli, inoltre, non si è limitato ad emettere una sentenza
d'incompetenza e contestualmente a sollevare la questione di
legittimità costituzionale, ma ha inviato a questa Corte - in copia -
solo una parte degli atti di causa, trasmettendoli integralmente, in
originale, al giudice istruttore di Roma e sospendendo in parte il
processo.
La situazione è divenuta più complessa perché successivamente il
giudice istruttore del tribunale di Roma, con ordinanza del 24 maggio
1976, ha sospeso l'intero giudizio a quo e trasmesso tutti gli atti a
questa Corte.
Si è verificata così una fattispecie nella quale la proposizione
della questione di legittimità costituzionale, la sospensione del
processo a quo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale,
non sono - come di regola avviene - il risultato di una sola ordinanza,
bensì di due ordinanze, emesse in date diverse, da due giudici
diversi, ancorché con riferimento ad un unico processo.
Nel contesto di tale fattispecie deve ritenersi infatti che il
giudice istruttore di Roma - avendo sospeso il giudizio a quo ex art.
23 della legge n. 87 del 1953, avendo disposto la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale, ed avendo disposto le notificazioni ex
art. 23, ultimo comma, della citata legge n. 87 - abbia inteso, con la
propria ordinanza, rimediare alla situazione di anomalia processuale
creatasi, aderendo nella sostanza alla proposta questione di
legittimità costituzionale.
Ne consegue che la medesima, sollevata dal giudice istruttore di
Torino dinanzi al quale le norme impugnate erano venute in applicazione
e fatta propria dal giudice istruttore di Roma competente ratione loci
a proseguire la istruttoria, può essere ritenuta ammissibile sotto
questo primo profilo.
4. - Neppure può essere accolta la eccezione di inammissibilità
per irrilevanza, sollevata dalla parte privata, essendo evidente che si
tratta di norme delle quali il giudice avrebbe dovuto senz'altro fare
applicazione nel processo a quo.
Sussistono, pertanto, i presupposti per potere passare all'esame
del merito.
5. - Osserva la Corte che il giudice a quo contesta non la
legittimità costituzionale del segreto politico-militare in sé e per
sé considerato o nella sua estensione, bensì la legittimità
costituzionale della disciplina che in concreto ad esso hanno dato gli
artt. 342 e 352 c.p.p., ponendo in essere una normativa di sbarramento
per effetto della quale il giudice non ha alcuna possibilità di
intervenire ed il potere esecutivo rimane pienamente arbitro di
decidere.
Pur essendo questi i limiti della denuncia proposta dal giudice a
quo, la Corte ritiene che la questione di legittimità costituzionale
delle citate norme nella parte in cui si riferiscono al "segreto
politico o militare" (art. 342) ovvero (art. 352) a "segreti politici o
militari dello Stato o altre notizie che possono nuocere alla sicurezza
dello Stato o all'interesse politico, interno o internazionale, dello
Stato", non possa essere convenientemente risolta senza delimitare con
la maggiore esattezza possibile, sotto il profilo obbiettivo, il
contenuto delle cennate espressioni in modo da dare ad esse una
interpretazione che sia conforme ai principi della Costituzione.
Quando si parla di segreto politico-militare o di segreto di Stato
si pone necessariamente un problema di raffronto o di interferenza con
altri principi costituzionali (come appunto quello del rapporto con i
principi che reggono la funzione giurisdizionale), sicché occorre dare
una interpretazione la quale deve essere armonizzata ed inquadrata nel
nostro assetto costituzionale. Un principio di segretezza che possa
resistere anche dinanzi ad altri valori costituzionali, quali quelli
tutelati dal potere giurisdizionale, deve, cioè, trovare, a sua volta,
fondamento e giustificazione in esigenze anch'esse fatte proprie e
garantite dalla Costituzione e che possano essere poste su un piano
superiore.
Questa Corte, con la sentenza n. 82 del 1976, premesso che il
segreto militare (art. 86 c.p.m.p.) assiste le notizie concernenti "la
forza, la preparazione e la difesa militare dello Stato", ha rilevato
che esso involge il supremo interesse della sicurezza dello Stato nella
sua personalità internazionale, cioè l'interesse dello
Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria
indipendenza e, al limite, alla stessa sua sopravvivenza. Tale
interesse - si è aggiunto - è presente e preminente su ogni altro in
tutti gli ordinamenti statali, quale ne sia il regime politico, e trova
espressione, nel nostro testo costituzionale, nella formula solenne
dell'art. 52, che afferma essere sacro dovere del cittadino la difesa
della Patria.
Richiamando e sviluppando tale concetto, che trova fondamento nella
individuazione di un interesse costituzionale superiore, rileva la
Corte che occorre fare riferimento proprio al concetto di difesa della
Patria ed a quello di sicurezza nazionale (del quale ultimo è cenno
nell'art. 126 della Costituzione ed in numerose altre disposizioni
degli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale).
Il primo concetto, quello di difesa della Patria, può avere una
accezione molto larga ed abbracciare anche aspetti che vanno al di là
di quel che in effetti merita di trovare una protezione che valga a
superare (come si vedrà in prosieguo) altri principi che pur sono
ritenuti essenziali nel nostro ordinamento costituzionale. Ma si può
osservare che in altre disposizioni il concetto di difesa assume un
significato più specifico, come nell'art. 87 Cost. che prevede un
organo ad hoc denominato Consiglio supremo di difesa e che certamente,
anche nel silenzio della norma, ha compiti attinenti in maniera
rigorosa ai problemi concernenti la difesa militare e, pertanto, la
sicurezza dello Stato.
E proprio a questo concetto occorre fare riferimento per dare
concreto contenuto alla nozione del segreto politico-militare, ponendo
il concetto stesso in relazione con altre norme della stessa
Costituzione che fissano elementi e momenti imprescindibili del nostro
Stato: in particolare vanno tenuti presenti la indipendenza nazionale,
i principi della unità e della indivisibilità dello Stato (art. 5) e
la norma che riassume i caratteri essenziali dello Stato stesso nella
formula di "Repubblica democratica" (art. 1).
Con riguardo a queste norme si può, allora, parlare della
sicurezza esterna ed interna dello Stato, della necessità di
protezione da ogni azione violenta o comunque non conforme allo spirito
democratico che ispira il nostro assetto costituzionale dei supremi
interessi che valgono per qualsiasi collettività organizzata a Stato e
che, come si è detto, possono coinvolgere la esistenza stessa dello
Stato.
In tal modo si caratterizza sicuramente la natura di questi
interessi istituzionali, i quali devono attenere allo Stato-comunità
e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo
e dei partiti che lo sorreggono.
È solo nei casi nei quali si tratta di agire per la salvaguardia
di questi supremi, imprescindibili interessi dello Stato che può
trovare legittimazione il segreto in quanto mezzo o strumento
necessario per raggiungere il fine della sicurezza. Mai il segreto
potrebbe essere allegato per impedire l'accertamento di fatti eversivi
dell'ordine costituzionale.
Perciò al criterio oggettivo della materia - che andrebbe meglio
qualificata e precisata in sede legislativa - si deve aggiungere, in
ogni singolo caso concreto, un ragionevole rapporto di mezzo a fine.
Questo rapporto può essere dichiarato all'inizio di una
determinata operazione o di una determinata serie di atti o di fatti
fra loro collegati; ma questa predeterminazione non può costituire
caratteristica costante o essenziale, non essendo da escludere casi nei
quali una predeterminazione non sia possibile.
Comunque anche in caso di predeterminazione del segreto permangono
i problemi che si vanno ad esaminare.
6. - La individuazione dei fatti, degli atti, delle notizie, ecc.
che possono compromettere la sicurezza dello Stato e devono, quindi,
rimanere segreti, costituisce indubbiamente il frutto di una
valutazione della autorità preposta appunto a salvaguardare questa
sicurezza e non può non consistere in una attività ampiamente
discrezionale e, più precisamente, di una discrezionalità che supera
l'ambito ed i limiti di una discrezionalità puramente amministrativa,
in quanto tocca la salus rei pubblicae ed è, quindi, intimamente
legata all'accertamento di questi interessi ed alla valutazione dei
mezzi che ne evitano la compromissione o ne assicurano la salvaguardia.
A giudizio della Corte questo è un compito che può essere
definito istituzionale per i supremi organi dello Stato, per quelli,
appunto, ai quali spetta il compito di salvaguardare - come si è detto
- la esistenza, la integrità, la essenza democratica dello Stato.
A questo punto si pongono, allora, due problemi fondamentali allo
scopo di operare quel bilanciamento di interessi e di poteri di cui è
cenno nella ordinanza di rimessione, come anche in dottrina: l'uno
riguarda la competenza a stabilire in via definitiva quando il segreto
sia necessario; l'altro attiene alle possibilità di controlli sulle
determinazioni di autorità competenti.
7. - Quanto al primo problema la soluzione non sembra dubbia:
quando si pongono problemi che attengono alla sicurezza nazionale come
sopra intesa si è al vertice delle attività di carattere pubblico e
perciò dinanzi ad attività che tutte le altre sovrastano e
condizionano.
Consegue da ciò che, anche se la iniziativa di operazioni
rientranti n quel concetto può partire da organi diversi e minori, nel
momento nel quale si tratta di adottare le decisioni definitive e
vincolanti non può non intervenire chi è posto al vertice della
organizzazione governativa, deputata a ciò in via istituzionale.
Torna qui applicabile senz'altro il disposto dell'art. 95, primo
comma, della Costituzione, in virtù del quale il Presidente del
Consiglio dei ministri "dirige la politica generale del Governo e ne è
responsabile". In questa sintetica espressione non può non essere
compresa la suprema attività politica, quella attinente alla difesa
esterna ed interna dello Stato.
Se si aggiunge che, come continua la norma citata, il Presidente
del Consiglio dei ministri deve anche coordinare l'attività dei
Ministri - e possono essere più i Ministri direttamente competenti in
argomento anche in singoli casi - la predetta affermazione rimane
corroborata, sicché è al Presidente di quel Consiglio che deve essere
riportata la direzione, nel più ampio senso del vocabolo, della
gestione di tutto quanto attiene ai supremi interessi dello Stato.
Ed allora si profila un primo motivo di illegittimità
costituzionale degli artt. 342 e 352 c.p.p. i quali, in definitiva,
riportano ogni decisione in ordine al segreto al Ministro di grazia e
giustizia, al quale si deve rivolgere il procuratore generale della
Corte di appello investito dell'affare dalla autorità procedente nel
singolo caso.
Pur non disconoscendo che possono esservi validi motivi, almeno in
talune fattispecie, perché il Ministro di grazia e giustizia esprima
il suo avviso (in quanto si tratta di rapporti fra la autorità
politica e quella giurisdizionale), è peraltro da osservare che,
mentre la posizione del Ministro stesso nell'ordinamento repubblicano
è notevolmente diversa da quella che aveva nell'ordinamento
precedente, egli ha competenza per un singolo settore e può non essere
a conoscenza di altri e forse anche più rilevanti aspetti della
sicurezza nazionale.
Ritiene, pertanto, la Corte che, alla stregua delle vigenti norme
costituzionali, gli artt. 342 e 352 siano da ritenere
costituzionalmente illegittimi nella parte in cui conferiscono il
potere di decidere definitivamente sulla conferma o meno del segreto di
Stato al Ministro di grazia e giustizia e non al Presidente del
Consiglio dei ministri.
8. - L'altro aspetto della questione, come sopra indicata, è
quello che tocca più da vicino il problema sollevato dalla ordinanza
di rimessione, poiché si tratta di stabilire se il c.d. sbarramento
all'esercizio del potere giurisdizionale si possa o meno considerare
conforme al nostro sistema costituzionale e quindi, in definitiva, di
stabilire come la Costituzione risolva il bilanciamento fra l'interesse
alla sicurezza e quello della giustizia nei casi nei quali vengano in
conflitto.
Considera al riguardo la Corte che la sicurezza dello Stato
costituisce interesse essenziale, insopprimibile della collettività,
con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto
tocca, come si è ripetuto, la esistenza stessa dello Stato, un aspetto
del quale è la giurisdizione.
E questa Corte ha già riconosciuto che non mancano, appunto,
alcuni interessi rilevanti che condizionano la stessa giurisdizione o
rendono legittime norme che limitano in qualche modo il diritto di
difesa, come l'art. 349, ultimo comma, c.p.p., sul segreto di polizia,
la cui legittimità costituzionale è stata affermata con sentenze n.
114 del 1968 e n. 175 del 1970.
D'altronde il giudizio sui mezzi idonei e necessari per garantire
la sicurezza dello Stato ha natura squisitamente politica e, quindi,
mentre è connaturale agli organi ed alle autorità politiche preposte
alla sua tutela, certamente non è consono alla attività del giudice.
Nel nostro ordinamento, del resto, è di regola inibito al potere
giurisdizionale di sostituirsi al potere esecutivo ed alla P.A. e,
quindi, di operare il sindacato di merito sui loro atti, e ciò vale
anche per il giudice amministrativo, al quale il controllo di merito è
consentito solo nei casi tassativamente determinati dalla legge.
Contraddire a questo principio significherebbe capovolgere taluni
criteri essenziali del nostro ordinamento e, in fatto, eliminare
praticamente il segreto ancor prima di una qualsiasi pronuncia del
giudice e - può ben dirsi - nel momento stesso nel quale la questione
della ammissibilità o meno del segreto fosse sottoposta ad un giudice.
Tutto ciò, peraltro, non significa che la autorità competente sia
da ritenere sciolta da qualsiasi vincolo, dotata di un potere
assolutamente incontrollato ed incontrollabile e, di conseguenza, del
tutto irresponsabile per gli eventuali abusi: a parte che l'autorità
competente deve fornire risposta entro un termine ragionevole e che il
giudice deve sempre accertare la competenza di chi ha opposto il
segreto, una esenzione da responsabilità del Governo (peraltro solo
temporanea, per quel che si dirà poco più innanzi) può aversi
soltanto nei riguardi del potere giurisdizionale per le considerazioni
già svolte.
Rimane sempre, invero, la responsabilità generale ed istituzionale
di ogni Governo, ribadita esplicitamente negli articoli 94 e 95 della
Costituzione, responsabilità che può essere fatta valere dal
Parlamento in tutti i modi consentiti dalla stessa Costituzione.
È quella la sede normale di controllo nel merito delle più alte e
più gravi decisioni dell'Esecutivo ed è, quindi, quella la sede
naturale nella quale l'Esecutivo deve dare conto del suo operato
rivestente carattere politico: è dinanzi alla rappresentanza del
popolo, cui appartiene quella sovranità che potrebbe essere intaccata
(art. 1, secondo comma, della Costituzione), che il Governo deve
giustificare il suo comportamento ed è la rappresentanza popolare che
può adottare le misure più idonee per garantire la sicurezza di cui
trattasi.
In quella sede il Governo, come è noto, può vedersi revocata la
fiducia o, se del caso, può anche essere incriminato qualche suo
componente (art. 96); può, comunque, essere costretto a rivelare
atti, fatti o notizie che il Parlamento valuti in maniera diversa.
Ed allora la potestà dell'Esecutivo non è illimitata. Essa è
circoscritta, innanzi tutto, per quel che si è detto al n. 5, sotto un
profilo oggettivo.
Ma a questo primo limite non può non aggiungersene un secondo,
imposto non soltanto dalla estrema delicatezza della materia e dalla
necessità di ridurre al minimo sia gli abusi sia la possibilità di
contrasti con il potere giurisdizionale, ma soprattutto dalla
necessità che siano note le ragioni fondamentali della eventuale
determinazione del segreto: ritiene la Corte che a tal fine sussiste la
necessità che l'Esecutivo indichi le ragioni essenziali che stanno a
fondamento del segreto.
A tali motivazioni di norma si atterrà il giudice. Esse, tuttavia,
possono, come di consueto, agevolare il sindacato politico del
Parlamento e contribuire, in tal modo ad assicurare, con i mezzi che
sono propri del Parlamento stesso, l'equilibrio fra i vari poteri,
evitando situazioni che potrebbero sfociare in un conflitto di
attribuzioni (vedi anche ord. n. 49 del 1977).
Conseguentemente la Corte ritiene che anche sotto questo ulteriore
profilo si debba constatare una illegittimità costituzionale dei
citati artt. 342 e 352 c.p.p., nella parte in cui non prevedono
l'obbligo di motivare il provvedimento che definitivamente decide sul
mantenimento del segreto di Stato, con che rimane caducato il
procedimento previsto dal 2 periodo del terzo comma dell'art. 352.